Nel periodo più fiorente dell'impero germanico, quando la Realpolitik di Bismark, ispirata da un rozzo darwinismo sociale, impone all'Europa lequilibrio del terrore, vincolando la pace internazionale e sociale al potere dell'esercito e delle forze di polizia, e spostando pertanto il corso della storia dal piano degli ideali illuministici a quello della forza bruta, un giudice tedesco delira: "egli ritiene di essere chiamato a redimere il mondo e a restituire ad esso la perduta beatitudine a condizione però di trasformarsi da uomo in donna". Tale trasformazione, che egli accetta come un dovere, è necessaria al fine di partorire, per diretta fecondazione da parte di Dio, una nuova stirpe di uomini.
Il presupposto implicito del delirio è che il mondo giaccia nel disordine e nell'infelicità, e che esso abbia dunque bisogno di una radicale rigenerazione. Nonostante la complessa tessitura del sistema delirante, affidata ad un minuzioso libro di memorie, nulla ci è dato di intuire della visione del mondo, evidentemente critica, da cui esso muove, nulla dell'utopia del mondo a venire, se non che esso sarà il regno della beatitudine. Il passaggio dal disordine all'ordine postula, però, un'evirazione.
In un contesto storico e culturale che affida le sue pretese egemoniche alla potenza maschile, esaltata dal mito militarista, e che insisterà, sino alla catastrofe nazista, nel progettare una ripulitura del mondo dai germi di anarchia e di debolezza che lo minacciano in termini di sopraffazione, il delirio del giudice Schreber stride con un suono sovversivo. Come è giunto a tanto un degno rappresentante alta borghesia tedesca, candidato al Reichstag e presidente della Corte di Appello di Dresda? Si tratta di una bizzarra conseguenza di una malattia mentale, di un'elaborazione comprensibile psicologicamente di un disordine meramente intrapsichico, o di un documento, significativo e inquietante, dei nessi che legano oscuramente l'esperienza soggettiva al mondo?
Quest'ultima è l'ipotesi che cercheremo di provare. Sinora, nonostante l'abbondante letteratura a riguardo - Schreber è il paziente più citato in psichiatria - il caso è stato utilizzato o per condannare Schreber, imputando il delirio alle vicissitudini di un attacco omosessuale al padre, o per condannare questi, e i valori che la sua educazione impronta nel figlio, giudicandoli paranoidogenetici.
Per quanto il secondo punto di vista sia, a mio avviso, più vicino alla verità, esso, per come è stato articolato, fa torto ad essa.
Tenterò, pertanto, una revisione del caso proponendomi due obiettivi: il primo, di fornire un'interpretazione più globale della genesi e del significato del delirio; il secondo, di avviare una riflessione metodologica sui rapporti tra esperienza soggettiva psicopatologica e contesto sociostorico.
L'uso di un materiale ricco e organizzato come quello fornito da Schreber stesso, collocabile in un contesto reso, in una certa misura, trasparente dalla distanza storica, comporta, in rapporto al fine che ci si prefigge, un vantaggio enorme. Ulteriormente si porrà il problema di comprendere se e come sia possibile adottare la stessa metodologia sul piano della contemporaneità.
Nella conclusione del saggio su Schreber, Freud scrive: "Posso dimostrare, grazie alla testimonianza di un amico competente in materia, che ho elaborato la mia teoria della paranoia prima che mi fosse noto il contenuto del libro di Schreber". Da un punto di vista epistemologico, la preoccupazione di Freud è sorprendente ma significativa: essa attesta infatti che la coerenza interna della teoria, e la capacità di questa di spiegare i fatti sono assunti da Freud come criteri di assoluta scientificità. Il valore della psicanalisi, che riposa in massima parte sulle formidabili doti intuitive di Freud, confina, in virtù di questo orgoglio epistemologico con il suo limite: che quelle doti autenticamente scientifiche si esercitano a partire da un retroterra ideologico di cui Freud non ha alcuna consapevolezza, benché sia esso, in ultima analisi, ad assicurare la coerenza della teoria, lintegrazione dei fatti in un modello che, nonché esserne confermato, li piega alle sue esigenze intrinseche.
Distinguere, all'interno di un sistema di pensiero complesso e irrequieto come quello freudiano, quanto è scientifico e quanto è ideologico, non è agevole. Almeno tre nuclei teorici, comunque, appaiono debitori dell'epoca e della mentalità cui Freud partecipa: la concezione della natura umana originariamente anarchica e ricca di pulsioni soggette solo al principio della scarica; l'individualismo, che nega, per alcuni aspetti, limportanza dell'essere sociale dell'uomo e fa di ogni universo intrapsichico un sistema relativamente chiuso; il determinismo causale che, applicato allo sviluppo umano, assegna al passato, sia filogenetico che ontogenetico, un'importanza assolutamente preminente.
Tutti questi presupposti sono criticabili, ma - riservandoci di approfondire ulteriormente questa critica - se li sottraiamo al sistema freudiano, quale è il residuo scientifico che rimane? La concezione della storicità dell'esperienza soggettiva, il cui presente riassume e riarticola il passato; la definizione dell'inconscio come serbatoio di memorie personali e di tradizioni; e, infine, la dinamica della personalità impegnata costantemente ad assicurare un livello minimale di equilibrio psichico, tale che la malattia viene ad assumere il significato di un tentativo di guarigione rispetto a problemi conflittuali che minacciano la disintegrazione.
Posto ciò, risulta evidente, che, sottoponendo ad analisi il caso Schreber, Freud mira alla soluzione di due problemi: primo, individuare, nelle memorie inconsce, il fondamento conflittuale da cui muove il disagio psichico; secondo, chiarire il significato del delirio come tentativo di guarigione rispetto ad una minaccia di destrutturazione.
L'impresa scientifica di enorme portata rivela nella sua impostazione la grandezza di Freud. Quanto agli esiti è difficile pensare che i presupposti ideologici cui si è fatto cenno, non li abbiano influenzati. Vediamo come.
Giusta la teoria secondo la quale la donna è, almeno simbolicamente, un uomo evirato, il dovere di trasformarsi in donna imposto a Schreber al fine di redimere il mondo, costringendolo a rinunziare al suo degno status maschile non può esprimere che una punizione. Ma una punizione postula una colpa: se l'esser donna è una condizione di inferiorità biologica il desiderare di esserlo, per provare il piacere di soggiacere all'uomo, configura un'esplosione di libido omosessuale meritevole della perdita dello status di maschio. Accettando l'evirazione e dunque espiando la colpa, Schreber può raggiungere la beatitudine di un'unione mistica col padre trasfigurato in Dio e, sentendosi redento, pensare che tutto il mondo possa esserlo in virtù della sua espiazione. I presupposti impliciti dell'interpretazione freudiana, mascherati da una consumata abilità retorica, sono i seguenti: la dignità dello status maschile e lindegnità di quello femminile, la nobiltà spirituale del padre e la bassezza pulsionale del figlio, la natura infamante e peccaminosa dell'attacco filiale e la necessità di una punizione esemplare, riparatoria e purificatoria.
Il processo morale cui Freud sottopone Schreber si conclude dunque con un verdetto inappellabile di colpevolezza: "il fondamento sul quale si è sviluppata la malattia di Schreber è stato l'esplosione di un impulso omosessuale".
Non contraddice questa condanna quanto troviamo scritto altrove: "noi non abbiamo proprio nulla da rimproverare a Schreber, né di aver avuto impulsi omosessuali, né di essersi sforzato di rimuoverli".
La colpa infatti è della natura umana, tremendamente restia a svincolarsi da modalità arcaiche di soddisfazione libidica necessarie allo sviluppo umano, in sé e per sé, pericolose.
Alla fissazione di Schreber concorrono peraltro circostanze affatto eccezionali: già viscose per conto loro, le istanze amorose rivolte al padre divengono insormontabili poiché questi, secondo quanto Freud sa, è stato un uomo eccezionale, amabile e scrupoloso, precocemente sottratto alla famiglia dalla morte. Vedremo che questa opinione è contestabile. Ciò che ci interessa rilevare è che Freud trascura del tutto l'obiettivo del delirio: la rigenerazione del mondo in virtù della produzione di nuovi uomini. Se il fondamento del delirio, la colpa da cui esso muove, fosse l'attacco omosessuale al padre, questa nuova umanità non dovrebbe essere affrancata dalla libido? Ma la beatitudine che Schreber sperimenta, e che alla fine del processo di trasformazione in donna sarà provata da tutti, è una voluttà ininterrotta e totale.
Dal punto di vista freudiano la difficoltà è relativa: il delirio infatti, come ogni modalità psicopatologica, serve tanto a mascherare quanto a soddisfare le pulsioni. Pagato il prezzo della castrazione, Schreber può pensare dunque che il suo rapporto con il padre e con Dio sia infinitamente soddisfacente.
Ma allora - vien da chiedersi - la colpa da cui muove il delirio è sessuale o di altra natura? E la trasformazione in donna in cui si esprime si deve intendere su un piano immediatamente ideologico o simbolico?
L'ipotesi alternativa a quella freudiana è che Schreber identifichi nella condizione virile un potenziale distruttivo e in quella femminile un potenziale riparativo e rigenerativo; e che, in secondo luogo, essendosi trovato ad avvertire dentro di sé una totale distruttività sia riuscito ad estinguerla solo mortificandola. Ma, posto quell'identificazione, cos'altro avrebbe potuto fare se non accettare di trasformarsi in donna? Resta da provare la credibilità di un'ipotesi di tal genere.
La revisione radicale del caso Schreber operata da Schatzman ha il merito di mettere in luce ciò che Freud dà per scontato, e non lo è: che l'immagine sociale che una famiglia o i suoi membri producono corrisponda a ciò che essi sperimentano a livello privato.
Documenti storici alla mano - alcuni dei quali erano accessibili a Freud, ma furono ignorati - Schatzman dimostra che il padre di Schreber aveva elaborato un sistema pedagogico sostanzialmente persecutorio nei confronti di una natura umana ritenuta, alle origini, un miscuglio di germi nobili ed ignobili: alla luce di questa concezione, la crescita armoniosa di un bambino postula che le erbacce vengano "individuate e distrutte per tempo", "spietatamente e crudelmente". Il fine, in ultima analisi, giustifica ogni mezzo: e il fine, che va
perseguito a partire da una materia prima impura -la natura umana - è di produrre degli uomini che si inseriscano in un ordine reale caratterizzato da una gerarchia di valori immutabili, che riconosca un'autorità e dei valori supremi - Dio, lo Stato, la Patria, il Padre, eccetera - cui i soggetti si subordinano, nel nome dell'obbedienza e della disciplina, in una scala decrescente di classi sociali, di classi di età e di status biologici. Sperimentato sui figli, questo sistema ha prodotto esiti catastrofici: non tenendo conto che dei maschi, l'uno si è suicidato, l'altro è impazzito.
A partire da questi dati inconfutabili, Schatzman elabora un'interpretazione psicopatogenetica suggestiva. Egli definisce infatti il sistema pedagogico schreberiano paranoidogenetico, e interpreta, vissuto per vissuto, le esperienze deliranti di Schreber figlio come trasformati dai trattamenti sadici e repressivi cui il padre l'ha sottoposto durante l'infanzia. Sensibile alla necessità, auspicata da Laing, di metacontestualizzare il sistema famigliare, egli analizza infine la pedagogia di Schreber inserendola in uno sviluppo culturale, sociale e politico che dallo stato etico di Fichte conduce, attraverso il mito del pangermanesimo e della razza pura, al nazismo. Le ipotesi di Schatzman sono suggestive e di largo respiro, e hanno il merito, rispetto a quelle freudiane, di non ignorare che le esperienze soggettive non si svolgono in una dimensione intrapsichica avulsa dal contesto sociostorico, ma, cionondimeno, esse non convincono. Assumendo un punto di vista meccanicistico e traumatico, il delirio di Schreber di fatto viene interpretato: ma ciò che non si spiega è che esso sia insorto in età matura, e che, fino alla sua insorgenza, Schreber abbia condotto una vita invidiabile e coronata da successo sociale. E' la normalità di Schreber, insomma, che viene a risultare incomprensibile e non solo essa.
Schatzman stesso riconosce che la pedagogia schreberiana ha avuto una vasta e duratura diffusione nel mondo tedesco, e ciò, in fondo, perché essa recepisce e sistematizza alcuni aspetti fondamentali della civiltà e del mito della grande Germania. C'è dunque da chiedersi perché, sottoposti ad una perpetua persecuzione, gran parte dei tedeschi non siano giunti a delirare. Sono divenuti - è vero - nazisti: ma questo non rende lecita l'applicazione di categorie psicopatologiche a fenomeni storici collettivi.
La verità è che il sistema pedagogico schreberiano, e, soprattutto, i valori cui esso si ispira ha prodotto infiniti uomini normali e, presumibilmente, una quota minoritaria di paranoici. Ch'esso, insomma, come ogni sistema normativo, abbia funzionato come una medaglia a due facce, una delle quali ha prodotto normalità, laltra disagio psichico.
Nonché risolto, il problema Schreber si ripropone: perché egli, anziché rimanere indegno rappresentante della borghesia intellettuale tedesca, dedita al culto della sua immagine ufficiale efficiente, pura e moralmente integra, giunge, in età matura, a sviluppare un delirio? Nonostante il valore dei dati su cui si fonda, linterpretazione di Schatzman finisce in un vicolo cieco che contraddice i presupposti psicosociogenetici ch'essa intende avvalorare. Se, infatti, poste le stesse condizioni educative, con variabili insignificanti, un individuo ammala mentre molti altri raggiungono la normalità, quegli è evidentemente predisposto. L'assoluzione di Schreber come vittima innocente postula dunque una predisposizione all'infermità mentale!
L'escamotage antipsichiatrico è noto: in rapporto a un contesto malato, la follia di Schreber risulterebbe una saggia ribellione, e la normalità degli altri l'indice di una supina subordinazione adattiva ad un modello antropologico mostruoso, di una pseudo-normalità. L'ipotesi non è irragionevole, ma per renderla credibile e verificabile sul piano scientifico occorre una maggiore raffinatezza nell'approccio alla genesi e alla struttura dell'esperienza delirante, nonché una comprensione più profonda dei nessi che intercorrono tra individuo e società.
Tesi unicamente a definire le cause ultime della malattia di Schreber, Freud e Schatzman hanno buon gioco nel confermare i postulati teorici da cui muovono: secondo Freud, tale causa non può essere che intrapsichica, riconducibile al mancato superamento di una fissazione libidica infantile che lascia incombere, nella struttura di personalità schreberiana, la minaccia di una natura non imbriglia ta dal principio di realtà; secondo Schatzman, la minaccia è relazionale, viene dallesterno, ed è individuabile nella persecuzione pedagogica cui Schreber è sottoposto dal padre.
E' inutile dire che si tratta di due atteggiamenti riduzionistici, che non spiegano ciò che appare essenziale nella malattia di Schreber: il lungo periodo di latenza, l'affiorare sotto forma di delirio ipocondriaco, il suo articolarsi in una visione del mondo che coglie in esso un infinito disordine cui solo il sacrificio di un uomo, che accetta di trasformarsi in donna, può porre rimedio, e, infine, il tempo lungo - Schreber parla di anni o di decenni - necessario affinché tale trasformazione si realizzi e, con essa, la redenzione del mondo.
Questa previsione temporale di Schreber merita, a mio avviso, attenzione: essa, infatti, implica una percezione storica del disordine, la quale a sua volta giustifica il fatto che la redenzione, piuttosto che dall'evirazione, atto repentino e traumatico, possa avvenire solo in virtù di un lento processo che rende Dio sensibile ai bisogni umani, e l'umanità recettiva, come solo può esserlo la donna, ai suoi influssi fecondanti e rigenerativi.
Indirettamente, Schreber lascia intendere, dunque, quali sono le cause del disordine. Per un verso, esse risalgono a Dio stesso: provveduto alla creazione, egli si sarebbe ritirato a distanza immane dal mondo, abbandonandolo alle sue leggi. Egli ha paura del contatto con uomini vivi, sia perché sente la sua esistenza minacciata, sia perché, abituato solo al rapporto con i defunti, egli non comprende gli uomini viventi, essendo assolutamente ignorante riguardo alla natura umana. L'autorità suprema è dunque insensibile ai bisogni umani, essa ha rapporto solo con ciò che è morto - il passato, le tradizioni, - ed è incapace di comprendere la vita, il presente, l'umanità concreta.
Per un altro verso il disordine ha radice nell'incapacità di Schreber, rappresentante dell'umanità, di rinunciare alla sua virilità, e alla volontà di potenza che essa esprime, vivendo gli attacchi ad essa persecutoriamente, piuttosto che come sollecitazione a cambiare status, trasformandosi in donna, e, dunque, volgendo in fecondità ciò che nell'uomo è solo distruttività.
Né Freud né Schatzman, per motivi diversi, rilevano il ruolo salvifico e redentore che il delirio di Schreber assegna alla donna. E' ovvio che questo ruolo, nonché un dettaglio, rappresenta la chiave dell'esperienza delirante. Ma che valore occorre assegnare ad esso?
Fino all'età di quarantadue anni, all'epoca del primo episodio di malattia, Schreber ha realizzato le aspettative paterne con una condotta di vita irreprensibile e rigorosa, specchiata in una brillante carriera nella magistratura. Ancora nel 1900, quando il delirio è sistematizzato, il dottor Weber, incaricato di una perizia, lo elogia per una concezione del mondo - dalla politica all'etica - che egli non può "fare a meno di sottoscrivere": il che dice tutto sulla sovrastruttura della coscienza di Schreber, pienamente fedele allordine di cose esistenti.
Cosa è accaduto dunque, nella vita di Schreber, per indurre uno sconvolgimento così radicale? Schatzman ignora del tutto questo problema. Freud, impegnato a decifrare il delirio a partire da unambivalenza nei confronti del dottor Flechsig, sostituito dal padre, sembra sorvolare sulla circostanza dellincontro: Schreber conosce Flechsig in conseguenza del primo episodio di malattia, un grave attacco di ipocondria : i conti, evidentemente, non tornano. Per quanto riguarda Freud, il lapsus si può considerare poco comprensibile: non è sua, infatti, l'intuizione che alcune condizioni di disagio sono paradossalmente scatenate dal conseguimento di un successo? Orbene, Schreber ammala una prima volta in occasione di una candidatura al Reichstag (non ha molto peso, ovviamente, per motivi cronologici il fatto che tale candidatura non abbia ricevuto il consenso degli elettori) e una seconda volta in occasione della nomina a presidente di Corte di Appello a Dresda.
Che senso hanno queste due circostanze scatenanti la malattia? Schreber, evidentemente, teme di non essere all'altezza delle responsabilità che derivano dalle due nuove cariche. Ma l'insicurezza e la paura di sbagliare non bastano a comprendere un grave attacco di ipocondria e un'ideazione delirante. C'e dell'altro.
Uno psicanalista, Nederland, ha trovato, rovistando negli archivi di una clinica, un appunto prezioso: la testimonianza di un parente che riferisce che il padre di Schreber avrebbe sofferto per tutta la vita di "pulsioni coatte di tipo omicida". La struttura premorbosa di Schreber figlio, per quanto è dato di capire dall'autobiografia, per il rigore morale, la severità e la nobiltà dei principi etici e una certa tendenza ascetica, è di tipo francamente ossessivo.
Il problema di una personalità di questo genere è che essa è tutta rivolta alla difesa dell'immagine sociale da un pericolo interno: gli ossessivi senza alcuna eccezione - nella struttura di carattere, negli sviluppi nevrotici e in quelli psicotici - mascherano, a se stessi e agli altri, l'intuizione mostruosa di albergare dentro di sé un pazzo criminale.
Da questa intuizione discende la consapevolezza che il loro vero Io sia questo, che i loro sforzi, destinati ad occulturarlo, prima o poi saranno vanificati e che, infine, la temuta verità diventerà di dominio pubblico, dando luogo alle inevitabili conseguenze: il sequestro carcerario o manicomiale.
Questo dramma rende conto degli effetti paradossali del successo: più l'individuo sale in alto, più si assume responsabilità sociali, più egli è preda del senso di colpa di avere ingannato tutti, di essere stato gratificato mentre egli sente di meritare solo di essere punito, e più teme che la verità temuta ma indubitabile, possa affiorare in virtù di una perdita di controllo, dando luogo ad una caduta rovinosa.
Non è azzardato pensare che Schreber abbia vissuto, prima di ammalare, un dramma di questo genere, reso ancor più increscioso dal suo ruolo sociale di giudice. E che, candidato al Reichstag prima, e poi nominato presidente di Corte di Appello, egli, che si è difeso per anni dalla paura della follia e della criminalità, sia stato colto da un sentimento di totale indegnità. Il delirio ipocondriaco che affiora restituirebbe dunque l'immagine interna che Schreber ha di se stesso come di un essere morto, putrefatto e appestato. Trattandosi di un'immagine morale, è coerente che egli invochi la morte e tenti il suicidio. Per comprendere l'ulteriore, e sorprendente, sviluppo delirante occorre riflettere sulla genesi di quest'immagine.
La ricerca di Schatzman sul sistema pedagogico di Schreber padre diviene, a questo punto, pregnante. Totalmente ispirato dal principio di soffocare e estirpare le erbacce che allignano nella natura umana, nonché paranoidogenetico, quel sistema appare ossessivogenetico: atto, cioè, a dar luogo ad una struttura di personalità che cela ed occulta con un'immagine sociale civile e, per alcuni aspetti, nobile e non comune la persistenza di quelle erbacce che, evidentemente, risultano inestirpabili.
Ma come è possibile che accada questo proprio in virtù di un'educazione consapevolmente rivolta a risolvere quel problema e di uno sforzo autocosciente che si è protratto per lunghi anni ?
Non ci sono che due possibili risposte: o Schreber figlio è nato con una natura particolarmente ricca di germi ignobili o le erbacce sono persistite in virtù di una reazione rabbiosa mirante a conservare parti di sé buone, funzionali e necessarie al processo di sviluppo, contro una violenza devastante vissuta come ingiustificata.
La prima ipotesi è resa poco credibile dal tenore intemerato della vita adulta e della carriera sociale di Schreber. Ma, a questo riguardo, è ancora più sorprendente il fatto che Freud disponendo di un materiale così evidente per confermare la sua teoria dellEs e per fondare su basi più solide linterpretazione del delirio schreberiano, attribuendo lassalto omosessuale, piuttosto che a una fissazione amorosa, allinvidia e alla gelosia per un padre potente, si sia lasciato sfuggire l'occasione.
Fatto sì è che Freud avrebbe avuto - per un'onestà che difetta a molti epigoni - non poche difficoltà a interpretare un delirio di redenzione ricco e articolato come quello di Schreber, che postula l'evirazione e il sacrificio di sé a partire da un mondo pulsionale feroce e passionale, soggetto al solo principio della scarica.
Avrebbe potuto, di certo, ricavarlo dal livello superegoico: ma la totale identificazione di Schreber con il Super-Io non lo avrebbe ricondotto al nodo gordiano dellassociazione tra sfrenatezza pulsionale e una sensibilità morale tanto spiccata da votarsi al sacrificio.
Per forza di cose, delle due ipotesi enunciate, occorre accettare la seconda: nonché sdradicare le erbacce, il trattamento pedagogico cui è stato sottoposto Schreber ha sortito l'effetto di negativizzare la sua immagine interna.
Ma - è facile dedurlo dall'ideologia del sistema pedagogico - questa immagine condensa i bisogni di autonomia di libertà e di sviluppo critico, la rabbia tremenda attivata dalla repressione, e, infine, il contenimento di questa rabbia ottenuto in virtù della criminalizzazione.
Questa immagine interna precipita nelle falde profonde della personalità di Schreber come attestante la sua follia criminale, ma, al tempo stesso contenendo essa bisogni di sviluppo irrinunciabili, nonostante l'ipercontrollo, si muove come fantasma pauroso ogni qualvolta si offrano nuovi ruoli sociali, con maggiore libertà e responsabilità.
Schreber non è in grado, ovviamente, di decifrare in termini biografici e storici la sua rabbia: egli la sente rivolta contro tutti i valori veicolati dal codice morale paterno. Contro l'autorità, dunque, la gerarchia, la religione, il diritto, la morale. La sente oscuramente anziché come funzione di giustizia, fonte di un infinito e totale disordine. Questo fa della sua protesta - di uomo mortificato, umiliato, costretto a vivere nella paura e nell'attesa di una punizione - una rivoluzione privata il cui sbocco è fatale: la conferma della sua pericolosità di pazzo criminale.
L'affiorare in Schreber di una rabbia incontrollata e incontrollabile, tremendamente minacciosa per il suo equilibrio psichico e per lordine del mondo, permette di comprendere il delirio di colpa che precede il delirio mistico. La condanna che egli tenta di infliggersi, precipitandosi nella vasca da bagno e invocando il cianuro, attesta questo dramma morale. Se egli vuole sopravvivere, deve redimersi.
Ma come? Reintegrandosi nell'orribile normalità perduta? Rimescolando i frammenti di un'esperienza interiore di cui ha una confusa consapevolezza, Schreber trova una soluzione geniale, che, sul piano interpretativo, ci obbligherà a trascendere il livello intrapsichico e relazionale. Per redimerlo, e per redimersi, Schreber deve riorganizzare il suo mondo interiore: ma, per giungere a tanto, non può non mettere in questione il Mondo.
Una rabbia, che esprime una ribellione al Padre e a tutti i valori che egli rappresenta, merita, dunque, una punizione, ma, al tempo stesso, essendo essa funzione di giustizia, una qualche soddisfazione. Schreber, metaforicamente, ricorre in appello contro la condanna a morte. La sentenza che riesce ad ottenere dal tribunale della mente, e che il delirio esplicita, è veramente ingegnosa.
Nonostante leducazione paterna e l'autodisciplina, la natura di Schreber è rimasta ribelle e pericolosa, non perché essa fosse originariamente malvagia, bensì perché è stata letteralmente snaturata, assoggettata al principio dell'obbedienza cieca, coartata e passivizzata.
L'intento originario era quello di ricavarne un vero uomo in rapporto ad un modello potentemente militarista. Ciò che si è ottenuto è una mostruosità antropologica (da questo punto di vista Schatzman ha ragione: l'anormalità di Schreber è un indizio di una normalità mostruosa): una personalità rigida e fragile, obbediente e ribelle, ordinata e anarchica, ascetica e immorale, onesta fino allo scrupolo e criminale.
Il trattamento pedagogico ha fornito, dunque, risultati parziali e per alcuni aspetti paradossali, rendendo terribile il pericolo che esso intendeva scongiurare. L'opera va portata a compimento: lobbedienza, la subordinazione, la passività devono diventare assolute. Ciò comporta però uno slittamento simbolico.
Un vero uomo (e da questo punto di vista la logica di Schreber è più coerente di quella del padre) non può essere totalmente assoggettato ad un altro uomo. Nella struttura sociale in cui vive Schreber c'è, oltre al bambino, un solo essere schiavo dell'uomo: la donna. Portare a compimento lopera significa, dunque, né più né meno, trasformarsi in donna.
A differenza di Freud, che non può vedere in questo slittamento che lespressione di una castrazione, Schatzman coglie nell'abiezione dell'essere donna un valore: la fecondità,che ne riscatta la passività e la subordinazione, e si contrappone simbolicamente alla distruttività del maschio. Trasformarsi in donna, accettare la femminilità come valore ristabilisce l'ordine del mondo perché fonda la possibilità che la potenza del Maschio, dell'Autorità, di Dio, quali che siano le loro insensatezze, le incomprensioni della natura umana, l'incapacità di apprendere dall'esperienza riproduca, in virtù della fecondità della donna, una natura vergine e intrinsecamente ricca di tutte le possibilità evolutive frustrate, invano, dalla cultura.
La redenzione del mondo può dunque avvenire solo in virtù della rigenerazione della natura umana, ma questo postula che luomo - Padre, Autorità o Dio - che si arroga funzioni educative sia mortificato nel ruolo di riproduttore. L'uomo nuovo non può nascere che dalla donna: la previsione di Schreber che la rigenerazione avverrà nell'arco di decenni lascia intendere che non è in questione la riproduzione fisica; l'uomo nuovo non nascerà dal ventre della donna, bensì da una rivoluzione culturale che valorizzi tutto ciò che il modello patriarcale, maschilista e militarista mortifica: la sensibilità, la tenerezza, la gioia, la voluttà.
La rivelazione concessa a Schreber verte dunque sulla necessità di castrare la distruttività del maschio per liberare ed esaltare la potenzialità della natura umana.
Conservatore, nel senso che esso realizza in maniera radicale gli obiettivi di subordinazione e di passività perseguiti dal sistema pedagogico, il delirio schreberiano è anche sovversivo: l'ordine del mondo che esso intende restaurare postula infatti la punizione dell'uomo, di Schreber, ma, al tempo stesso, del Padre, dell'Autorità, di Dio.
Soluzione geniale, la redenzione di Schreber riconosce come limite la sua forma delirante. Rimane da capire perché Schreber non sia potuto andare al di là, e, in secondo luogo, di cercare di ricostruire i nessi tra l'esperienza privata di Schreber e lo spazio storico all'interno del quale essa è stata elaborata.
L'interpretazione fornita del caso Schreber, rispetto a quella freudiana e schatzmaniana, comporta una dinamica più complessa. Essa in fatti riconduce la genesi del delirio all'affiorare di una rabbia che scompagina fantasticamente la struttura di controllo ossessivo, facendo incombere nell'universo soggettivo e, di conseguenza, sul mondo la minaccia di un disordine totale. Il senso di colpa che ne consegue dà luogo dapprima ad una condanna soggettiva a morte, e successivamente, ad una ingegnosa soluzione del conflitto tra istanze conservatrici e istanze rivoluzionarie: accettando la trasformazione in donna, Schreber paga il prezzo della ribellione decadendo dal suo degno status maschile al ruolo passivo e subordinato riconosciuto dalla cultura in cui vive alla donna; contemporaneamente però, denuncia anche la disumanità di Dio, del Padre dunque e dell'autorità, la cui totale incomprensione della natura umana fa del potere che essi hanno una minaccia perpetua per l'umanità cui soccorre solo la speranza che, in virtù della fecondità della donna, quella natura possa rigenerarsi vergine da ogni persecuzione.
Il delirio di Schreber cristallizza perché, in rapporto all'attrezzatura mentale di cui dispone, esso rappresenta lunica soluzione di un dramma interiore che, muovendo dai presupposti del disordine della natura e dell'ordine della cultura, giunge a configurare un ordine naturale perpetuamente minacciato da una normalizzazione crudele e spietata, ma in grado di rigenerarsi, e dunque di riproporre sempre la sua sfida.
Rispetto alla sovrastruttura cosciente di Schreber, totalmente fedele ai valori del mondo in cui vive, il delirio sembra esprimere una serie di intuizioni critiche che, svelando la funzione disumanante di quelli, non possono comportare che l'esigenza di un cambiamento radicale, mirante a restaurare un ordine fedele ai bisogni umani. Ma questa esigenza non può sfuggire alla cattura ideologica del codice superegoico; profondamente iscritto nella personalità di Schreber: la criminalizzazione che ne segue gli pone il problema di soddisfare 1esigenza di un cambiamento evitando la disintegrazione della sua identità personale e sociale.
Da questo punto di vista, non mi sembra illecito definire il delirio di Schreber una rivoluzione privata, nel senso che esso muove dalla percezione critica di un ordine reale disumano che postula un cambiamento, ma, per il difetto di adeguati strumenti di elaborazione di questa intuizione, esso deve esaurirsi in un ambito privato, configurandosi, a livello intrapsichico, come mediazione tra istanze apparentemente inconciliabili.
Ma se ciò è vero, spostando lattenzione sul mondo in cui vive Schreber, dovremmo ritrovare in esso le matrici dell'esperienza schreberiana. Il limite di questa ricerca è segnato solo dal livello di competenza di chi la effettua: la coscienza di questo limite ci affranca però dalla tentazione di colmare le lacune del sapere con protesi ideologiche.
Il sistema pedagogico del padre si fonda su un'ideologia della natura umana che postula un processo di normalizzazione il cui fine è di istaurare un ipercontrollo ossessivo. Il delirio di Schreber figlio è attivato dal brusco riaffiorare di una rabbia rivolta contro l'ordine delle cose esistenti, veicolante bisogni individuali criminalizzati, che, scompaginando l'ipercontrollo, si traduce in una minaccia che va scongiurata in virtù di una soluzione più articolata del rapporto tra natura e cultura. La soluzione cui perviene S. consiste nell'esasperare la repressione culturale, incentrata sul mito militarista, portandola alle estreme conseguenze: anziché un uomo degno della razza e della civiltà tedesca, totalmente obbediente e disciplinato, essa non può produrre che una femminilizzazione, e dunque, paradossalmente, la persistenza di tutti i germi di debolezza che essa intendeva estirpare. Questi germi, fecondati da Dio, hanno però il potere di rigenerare la natura, riproponendola vergine alla sfida di una cultura che intende devastarla. Il circuito chiuso in cui si costringe S. è una rivoluzione privata, una rivoluzione non dialettica che, adottando la forma delirante, esprime, in virtù di una totale subordinazione all'ordine di cose esistenti, istanze di cambiamento radicale.
Ma le tematiche su cui essa si articola - Dio/uomo, padre/figlio, uomo/donna, cultura/natura, ordine/disordine - hanno una densità tale da imporre un quesito: quanto di storico, di non esauribile nei confini della psicologia individuale e relazionale, circola in essa e la struttura?
Schreber vive nel contesto di uno Stato modellato dalla Realpolitik di Bismarck, che, ispirata dagli interessi supremi dello Stato, tenta di arrestare il corso della storia, opponendo a tutti i fermenti politici, sociali e culturali - miranti ad un cambiamento, l'arma del terrore: terrore di uno sconvolgimento internazionale o interno, che giustifica il mantenimento dell'ordine con la minaccia della repressione militare o poliziesca.
Una strategia vincente nell'immediato, ma pagata al prezzo del crollo di un mito. Con la vittoria di Sedan, gli eccessi militaristici e il ferreo dominio di Bismark, il mito della civiltà tedesca, culla dello spirito occidentale e dei valori che ad esso si richiamano, svanisce ed affiora una pretesa egemonica che si fonda, non sui valori della civiltà, bensì sulla potenza militare. E' un brusco risveglio per tutti coloro che, non solo in Germania, hanno coltivato il mito del tedesco tutto purezza, idealità e rigidità morale: l'uomo nuovo che appare nel periodo bismarckiano è il prussiano in uniforme militaresca, la cui ideologia è impregnata della formula per cui il fine giustifica ogni mezzo. Ed essendo il fine l'affermazione della volontà di potenza della Germania, il mezzo non può essere che la guerra o il terrore e, di conseguenza, la lecitizzazione dell'intimidazione, della sopraffazione e della crudeltà.
Questo fine lascia trasparire senza veli la concezione del rapporto tra i popoli e tra le classi sociali, come lotta senza quartiere per l'esistenza: un'amplificazione ideologica più che del pensiero di Darwin, dell'homo homini lupus hobbesiano, che perviene, in ultima analisi, ad affermare i diritti della natura sulla cultura.
Grillparzer, uno scrittore austriaco, definisce questa transizione dagli ideali illuministici al cinismo della Real Politik con un motto sinteticamente significativo: dall'umanità, attraverso la nazionalità, alla bestialità. E' il trionfo, insomma, di un rozzo darwinismo sociale, che fa della Germania, nonché la culla della civiltà occidentale, la caserma d'Europa. Nonostante il conservatorismo ottuso di Bismark, che chiude una nazione nella corazza della repressione poliziesca, i fermenti sia liberali che socialisti continuano a lievitare nel corpo sociale.
Benché contrastata dalle leggi antisocialiste, spietatamente applicate, ladesione delle masse popolari al partito socialista, e, con essa, il sogno di un cambiamento radicale, avanza. Al di là dell'apparato di controllo, durissimo ma scarsamente efficace, il contenimento dei fermenti sociali è assicurato dalla capacità ideologica di connotarli come attestanti il pericolo dell'anarchia, del disordine e della fine della civiltà.
L'equilibrio del periodo bismarckiano, la cui eredità si prolunga ben al di là dell'uscita di scena del protagonista, è rigido e precario al tempo stesso. Bismark è il rappresentante degli Junker, di una nobiltà agraria tenacemente conservatrice, distaccata dalle masse e sorda ai bisogni del popolo che, nonostante l'ascesa della borghesia industriale e la presa di coscienza delle masse popolari, identifica i suoi interessi con quelli dello Stato.
Mai, come in questo periodo, si è realizzata una frattura più radicale tra dirigenza statale e corpo sociale. Bismark, che vede nell'impero germanico una sua creazione, asseconda e promuove le aspirazioni di potenza della Germania, ma opprime sistematicamente tutte le rivendicazioni miranti ad associare alla potenza il progresso politico e sociale del paese. Ciò è ottenuto non solo in virtù di un uso brutale della repressione, ma soprattutto grazie alla capacità di squalificare ideologicamente le istanze rivoluzionarie facendole vivere, a livello di immaginario sociale, come minacce fatali per la civiltà, la cui realizzazione inaugurerebbe una nuova barbarie.
La politica di potenza della Germania imperialista, incentrata sull esaltazione delle virtù militari della razza tedesca, maturerà nel corso del '900, nei due assalti al potere mondiale caratterizzati dalle due guerre. Per imporre il suo ordine, la Germania trascinerà il mondo nel disordine e nelle barbarie, affidando alle armi il compito di redimerlo; di estirpare da esso tutti i germi di debolezza. Solo due sconfitte rovinose, il disarmo e, infine, la lacerazione del territorio la indurranno a cedere e a subordinarsi alle leggi del diritto internazionale e del rispetto dei popoli. Occorrerà, insomma, debellarla ed evirarla per porre fine ad un sogno che dalla Prussia settecentesca dura e si alimenta sino al nazismo.
Il delirio di Schreber, come Freud intuisce, contiene più verità di quanto altri sia disposto ad ammettere: di certo, più verità di quanto egli stesso pensi.