Piero Coppo

Le ragioni del dolore. Etnopsichiatria della depressione

Bollati Boringhieri, Torino 2005

1.

La neopsichiatria, come noto, ha elevato la depressione in tutte le sue forme al rango di una malattia in senso proprio, di origine genetica, relegando i fattori non biologici (psicologici, interattivi, sociologici, culturali) nell’ambito delle concause, vale a dire delle cause che possono influire sulla sintomatologia e sul decorso del disturbo depressivo. In sé e per sé, però, tale disturbo è una malattia del cervello cronica: chi ce l’ha, perché la natura così ha deciso, ce l’ha da sempre e per sempre, anche se essa si manifesta episodicamente, deve accettare di convivere con essa e di contenerne le conseguenze con gli psicofarmaci.

Nei saggi di psicopatologia e in numerosi articoli ho fatto presente che questa presunta verità scientifica, propagandata ad ampio raggio nel corso degli ultimi quindici anni attraverso i mass media, è null’altro che una mediocre ideologia.

Come ogni sindrome psichiatrica, la depressione, anche se interviene lacerando l’esperienza di un soggetto vissuto sino al suo esordio nella “normalità” e precipitandolo in un abisso di angoscia, dolore, svuotamento di senso dell’esistenza, ha una sua precisa funzionalità psicodinamica, che può essere facilmente riconosciuta sotto il profilo analitico. Si tratta infatti di un black out che, alla pari di quanto avviene in un qualunque circuito elettrico, scatta o per una richiesta di energia superiore a quella di cui il soggetto dispone o per il pericolo di un cortocircuito conflittuale che potrebbe indurre una perdita di controllo. Il fatto che il depresso denunci la sua condizione come invivibile o la più orribile che si possa sperimentare (sentirsi morti essendo ancora coscienti) non dipende dalla natura della malattia, bensì dalla totale inconsapevolezza che egli ha del suo reale significato psicodinamico.

E’ un vizio della neopsichiatria quello di speculare sulla sofferenza umana. Nel caso specifico, la testimonianza dei soggetti depressi, che rilevano una discontinuità totale della loro esperienza della quale non sanno dare alcuna ragione, viene assunta come prova che di una malattia si tratta. Ciò vale sia nei casi in cui essi affermano che, prima della depressione, tutto andava bene, sia quando lo stato depressivo insorge in conseguenza di eventi negativi di vita. La prima circostanza viene infatti utilizzata dai neopsichiatri per negare che la depressione abbia una qualunque comprensibilità; le seconda per rilevare che la reazione drammatica agli eventi negativi di vita, posta a confronto con l’adattamento che subentra in altri soggetti a seguito di analoghe circostanze attesta una malattia preesistente che si attualizza e rende evidente in rapporto a queste.

Ho scritto più volte che la confutazione dell’ideologia neopsichiatrica come malattia genetica è comprovata dalla sua diffusione epidemica nel corso degli ultimi venti anni. Il numero dei soggetti depressi attualmente nei paesi occidentali è tre-quattro volte superiore rispetto agli anni ’70, e tale da configurare un fenomeno sociologico. Spiegare tale diffusione con il ricorso più frequente rispetto al passato dei depressi ai medici e alle cure è semplicemente ridicolo.

Il saggio di Piero Coppo confuta quell’ideologia da una diversa angolazione: quella etnopsichiatrica.

La concezione della depressione come malattia genetica implica infatti che essa  debba riguardare l’umanità intera nello spazio e nel tempo. La neopsichiatria non avrebbe fatto altro che identificarla, affrancandola dalle brume delle superstizioni e delle false credenze in cui essa è rimasta a lungo irretita, descriverla nelle sue varie forme cliniche, riconducendola nell’ambito del sapere medico, e scoprire, con gli psicofarmaci, strumenti adeguati a curarla. Si tratterebbe dunque di una malattia universale, le cui manifestazioni varierebbero all’interno dei diversi contesti culturali, ma senza incidere sul suo nucleo sintomatologico di base sempre riconoscibile.

Da etnopsichiatra che, ispirandosi a Devereux, ritiene che l’etnopsichiatria non sia una branca della psichiatria bensì “un punto di osservazione metaculturale” vale a dire “un metodo di lavoro non prigioniero di specificità assunte come verità universali, capace di far interagire tra loro le diversità “ (p. 11), Coppo ripercorre puntigliosamente la storia in virtù della quale i disturbi depressivi sono stati isolati dal contesto della sofferenza umana e irretiti in una griglia nosografica. Di questa storia, due punti sembrano di particolare interesse.

Il primo è la necessità, propria della psichiatria moderna, di classificare i fenomeni che essa ritiene di pertinenza medica in maniera tale da simulare, con il ricorso ad etichette, un’organizzazione scientifica degli stessi, riducendo la varietà e l’arbitrarietà dei punti di vista dei diversi psichiatri. Di tale istanza si è fatta carico l’APA, l’onnipotente Associazione psichiatrica statunitense, attraverso il DSM, che è divenuta la Bibbia diagnostica della psichiatria.

Il DSM ha riconosciuto sinora quattro edizioni, l’ultima delle quali è del 1994. Rivisitandole, è chiaro che l’oggetto in questione - i disturbi depressivi – è andato incontro nel giro di pochi anni ad un processo di profonda ristrutturazione, il cui esito più evidente è stata l’eliminazione della distinzione, presente nelle prime tre edizioni, tra depressioni nevrotiche, prevalentemente psicogene e depressioni psicotiche, di natura organica. Tale eliminazione ha consentito alla psichiatria di ricondurre tutte le manifestazioni depressive nell’ambito dei disturbi dell’umore, ritenuti univocamente di natura genetica e biologica. In conseguenza di questo, le diverse manifestazioni sintomatologiche della malattia depressiva vengono attribuite ad uno spettro espressivo dei geni morbosi dipendente dalle carriere di vita e dai contesti ambientali.

Coppo rileva che l’adozione in psichiatria della griglia nosografica è altamente discutibile. Infatti, “mentre in medicina le classificazioni poggiano in genere su teorie eziologiche indiscutibili... e quindi su di una base “naturalistica”, in psichiatria, a parte la percentuale davvero limitata di casi ove una causa principale è stata identificata, si ha a che fare con disturbi multiformi e mutevoli dei quali non sono state a oggi dimostrate le cause determinanti e che quindi è difficile disporre per categorie discrete ed escludenti.” (p. 58)

Il DSM-IV ha tentato di aggirare il problema adottando un criterio classificativo ateoretico, descrittivo, che pone tra parentesi la causa dei disturbi depressivi e punta ad organizzare semplicemente sul piano nosografico la loro fenomenologia clinica. Ma anche questo tentativo, analizzato criticamente, risulta poco consistente, poiché esso viene ad urtare contro una difficoltà intrinseca all’oggetto - “il polimorfismo clinico e l’abbondanza e varietà di forme intermedie” (p. 62) – tale che “molti specialisti considerano ormai le classificazioni dei fenomeni depressivi non corrispondenti a reali entità distinte, ma a discontinuità arbitrarie operate dai classificatori su uno “spettro” di fenomeni dal quale emergono condensazioni statistiche attorno a configurazioni particolari e transitorie che si creano per ragioni in gran parte sconosciute o non esplorate.” (id.)

E’ insomma il problema del continuum psicopatologico, che ho discusso in un articolo precedente (La neopsichiatria tra Platone, Galilei e il Gattopardo), e che vale non solo per i disturbi depressivi ma per tutti i sintomi ingabbiati dalla psichiatria nella sua griglia nosografica.

E’ evidente che una scienza la quale non appare in grado di fornire neppure una classificazione convincente dell’oggetto di sua pertinenza ha scarsa attendibilità sul piano scientifico.

Tanto è vero questo che alla debolezza dell’impianto classificatorio corrisponde ormai una pratica clinica che prescinde dall’intento della diagnosi clinica e si riconduce al principio della diagnosi ex juvantibus in ordine al quale “sono depressi coloro che reagiscono agli antidepressivi.” (p. 63). E’ insomma la risposta dei sintomi alla somministrazione di sostanze chimiche la prova che la causa del disturbo depressivo è di natura biologica.

Si tratta di una prova che, ovviamente, non ha alcuna validità scientifica perché, prescindendo da un punto di vista spiritualista, per cui la mente è altro rispetto al cervello, nessuno contesta la possibilità di influenzare i processi mentali con sostanze chimiche. Ma questo lascia del tutto aperta la questione della natura dei disturbi depressivi, poiché essi potrebbero rispondere in qualche misura ai farmaci anche se la loro genesi è psicosomatica.

Si dà peraltro un dato che Coppo non cita e che a me sembra di particolare importanza (tanto da aver dedicato ad esso più articoli). Una quota consistente di disturbi depressivi, che un tempo si valutava intorno al 25% e che oggi appare essere superiore al 50%, appare resistente alla farmacoterapia. Se esiste la depressione come malattia del cervello, essa dunque riconosce forme che non rientrano nel criterio ex juvantibus.

Né la classificazione né quest’ultimo criterio appaiono dunque in grado di organizzare la fenomenologia depressiva in maniera epistemologicamente corretta e scientificamente convalidabile.

Questo significa che allorché – e capita spesso – i neopsichiatri affermano pubblicamente che la depressione è una malattia medica, la cui natura biologica è stata accertata in maniera inequivocabile, essi – in buona o cattiva fede – affermano il falso.

Anche volendo ricondursi al criterio ex juvantibus, si tratta peraltro di riconoscere che esso è utilizzato in maniera piuttosto disinvolta. Coppo dedica alcune pagine di grande interesse al problema di “come si inventa uno psicotropo e, quindi, anche un antidepressivo” (p. 67) Da questa analisi egli trae due conclusioni, entrambe di rilevante interesse.

La prima riguarda il ruolo delle industrie farmaceutiche nel sostenere la natura di malattia della depressione: “Se si pensa all’investimento, in termini di risorse umane ed economiche, necessario per portare una nuova molecola allo stadio della sperimentazione clinica, si possono immaginare gli sforzi dei ricercatori per dimostrare effetti positivi che consentano l’approvazione del farmaco e la sua commercializzazione. Il sospetto di alcuni... che in questa situazione i laboratori e le industrie farmaceutiche non cerchino solo la chiave giusta per la serratura, ma dettino anche la forma della serratura in cui deve entrare la chiave, sembra del tutto fondato.” (p. 73)

Detto in altri termini: posto che le industrie farmaceutiche impegnano fior di capitali nel mettere a punto un farmaco, è poi necessario che qualcuno – e chi se non gli psichiatri – identifichi il gruppo di pazienti e la malattia che ne deve trarre inesorabilmente beneficio. Questo significa, né più né meno, che gran parte delle sperimentazioni cliniche attestanti l’efficacia terapeutica dei farmaci corrispondono non a criteri di scientificità, ma agli interessi congiunti delle industrie farmaceutiche e degli psichiatri da esse lautamente sponsorizzati.

Si tratta di verità inconfutabili, che però non trovano ancora alcuna ricezione presso il pubblico, il quale non dubita che le industrie perseguano fini di lucro (talora sul filo della legalità, e accettando il rischio iatrogenetico), ma non riesce a capacitarsi che gli psichiatri perseguano interessi personali anche sulla loro pelle.

La seconda conclusione concerne il ricorso sempre più frequente agli antidepressivi per rispondere alla domanda di un numero progressivamentecrescente di soggetti che sperimentano il mal di vivere. Posto che “il modello a cui viene proposto di aderire, e che viene presentato come “malattia” un fatto cioè di natura, [è] invece un artificio, il risultato di un processo tecnico e culturale” (p. 75), vale a dire un’ideologia, “la constatazione di questa forzatura impone alcune domande e riflessioni. E’ conveniente, si adatta ad una popolazione culturalmente matura l’offerta di una risposta al bisogno che però lo falsifica, mascherandone le ragioni? Le sostanze proposte sono antidepressive o non sono piuttosto, aumentando la resistenza a situazioni di intrappolamento, a shock inevitabili, ritardando l’avvento della disperazione e della resa, una specie di “energizzanti psichici”? Detto altrimenti: gestire la sofferenza (che sia essa inevitabile perché iscritta nella condizione umana o prodotta da determinate condizioni) attraverso la fabbricazione di depressi da curare con antidepressivi è la soluzione migliore, più rispettosa e complessivamente più conveniente sia per la società nel suo insieme sia per le singole individualità sofferenti?” (p. 75)

2.

E’ evidente che le conclusioni cui giunge Coppo sono simili a quelle cui sono pervenuto io stesso e che esprimo da anni nei miei scritti. Essendo le due esperienze procedute del tutto autonomamente, questo significa che chiunque rifletta con spirito critico sulla neopsichiatria, sul suo presunto assetto scientifico e sulla pratica che da esso discende, giunge a smascherarne per un verso la natura meramente ideologica e per un altro la potenziale nocività.

Ma c’è – viene da chiedersi – un altro modo per affrontare un problema che ha pur sempre una sua oggettività? Si può e si deve contestare il fatto che la sofferenza di tante persone finisca “in Occidente nel contenitore nosografico “disturbi depressivi”” (p. 81), come pure che essa sia affrontata come una malattia da curare con gli psicofarmaci. Non si può negare che quella sofferenza esiste e che ad essa occorre dare delle risposte. Ma, per uscire dal vicolo cieco dell’ideologia neopsichiatrica, occorre tenere che l’umanità, nella sua lunga storia, non ha atteso la psichiatria per affrontare il mal di vivere che in Occidente è stato etichettato come malattia.

Posto che presso molte culture non occidentali non esiste un termine equivalente a depressione, è fuor di dubbio che “anche altrove... gli umani sperimentano la “sofferenza”, anche quale che alcuni chiamano “dolore morale”. Anche altrove, purtroppo, incontrano la disperazione, la resa davanti all’impotenza, la constatazione dell’esaurimento delle proprie forze, lo sprofondamento negli incubi, la percezione di influenze malefiche che inibiscono la vita e la sua generazione, il dolore acuto della perdita, la crudeltà della morte, la pena per ciò che si vorrebbe e non avviene. Queste esperienze sono però fissate e trattate in repertori non di esclusiva pertinenza medica e appaiono con nomi (disgrazia, afflizione, pena, miseria, sfortuna, sfinimento) che non sono quelli di malattie.” (p. 143)

Il terzo capitolo del libro è un interessante resoconto di tali repertori dal quale si possono ricavare due conclusioni.

La prima è che ovunque la lotta contro la sofferenza è affidata a ”specialisti” capaci di lavorare di volta in volta sul destino, il maleficio, la sfortuna, le relazioni perturbate con l’invisibile, ecc.” (p. 144). Evidentemente il bisogno, nell’affrontare il male, di affidarsi e di credere in qualcuno che dispone di un potere particolare, superiore alla media delle persone è universale. Tale bisogno permette di comprendere l’efficacia terapeutica di tecniche che, alla luce della scienza, non dovrebbero funzionare. Esso persiste nella nostra società e dà luogo all’effetto placebo, la cui singolarità è da ricondurre al fatto che potenzialità terapeutiche intrinseche all’organismo psicofisico individuale si realizzano solo in virtù di una relazione interpersonale di affidamento e sulla base di pratiche manipolatorie o di somministrazione di sostanze inerti.

La seconda conclusione è che quella lotta, sia pure affidata allo specialista, coinvolge di solito sia il gruppo di appartenenza che la comunità. L’aggregarsi del gruppo intorno a colui che soffre e nella cui sofferenza ciascuno legge una circostanza che potrebbe toccare a lui stesso è, forse, la causa essenziale per cui pratiche “terapeutiche” che ai nostri occhi, appaiono prive di fondamento scientifico, conseguono effetti che non si possono certo ritenere minori rispetto a quelli conseguiti dalla psichiatria con il suo armamentario farmacologico.

Nel capitolo finale, Coppo si chiede se sia possibile andare oltre la teoria e la pratica psichiatrica corrente, ingabbiata nel concetto di malattia biologica, utilizzando anche il punto di vista e il sapere etnopsichiatrico. La sua risposta è che occorre anzitutto fuoriuscire da quella gabbia. Contrapporre la psichiatria come disciplina scientifica in contrapposizione a tutti i repertori e i saper-fare competenti nel trattare la sofferenza nella storia dell’umanità è del tutto infondato e abusivo: per quanto concerne la depressione (ma analogo discorso può essere fatto per tutti i fenomeni psicopatologici), “l’insieme delle teorie e pratiche messe in campo ha più a che fare con l’ideologia scientistica e con l’artigianale, empirico fare dei medici (chiamati a cercare di curare, anche quando ignorino le cause del male, affidandosi all’azione di rimedi magari scoperti per caso), che con il rigore del metodo sperimentale. In questo campo i vari saperi perfezionati da generazioni e generazioni di specialisti, siano essi guaritori o medici, si equivalgono dunque per dignità epistemologica. L’unico criterio per giudicarli è la loro assenza di nocività e la loro efficacia.” (p. 144)

Uscire dalla gabbia del biologismo neopsichiatrico, che vede nel difetto genetico la causa della depressione e della difficoltà del soggetto di adattarsi alle “normali” richieste della vita e agli eventi negativi, significa riconoscere che l’epidemia depressiva che si va diffondendo nel nostro mondo non può non avere rapporto con il fatto che quelle richieste stanno superando una soglia al di là della quale il rischio collettivo è il crollo dell’equilibrio psicofisico personale. Tecnici ed esperti dovrebbero, dunque, essere impegnati ad “aprirsi anche alla dimensione collettiva del fenomeno, e quindi a riflettere su come, a partire dalle informazioni che vanno accumulandosi... sia possibile collaborare alla costruzione di forme di esistenza più salutari. Come in tutte le altre tradizioni, il terapeuta dovrebbe qui non solo farsi carico della salute del singolo, ma con l’intero gruppo curare le relazioni degli esseri umani tra loro e con i loro ambienti materiali e immateriali.” (p. 141)

In questa ottica, l’uso dei farmaci, nella misura in cui si può attribuire ad essi il potere sintomatico di alleviare la sofferenza e non di guarire una presunta malattia, non va bandito. Esso però dovrebbe associarsi ad una corretta informazione da parte degli psichiatri (vale a dire il contrario di ciò che avviene). Non è escluso che i pazienti, informati dell’efficacia meramente sintomatica degli antidepressivi, possano preferire di tentare comunque di risolvere i problemi con essi, anziché “affrontare il lavoro necessario a pensare e a realizzare altre esistenze” (p. 142). Questa soluzione però non può essere proposta collettivamente perché non funziona. La farmacoterapia non ha arginato l’epidemia depressiva, e, come accennato, si dà un numero consistente di casi in cui essa non funziona. In tali casi, anziché ricondursi al fatto che la malattia resiste alle cure, occorrerebbe far presente al soggetto che quel lavoro è necessario.

Nell’ottica del superamento dell’ideologia neopsichiatrica, poi, “la sofferenza del singolo dovrebbe interpellare [sempre] l’intera collettività: qualcosa non va nello sforzo cui è sottoposta l’intera catena, se un suo anello, uno qualsiasi, cede.” (p. 149) L’assunto ovviamente è ancora più vero se sono numerosi gli anelli della catena che cedono.

In conclusione, “sottratto alla esclusiva competenza dei tecnici e restituito al lavoro dei gruppi umani nel loro insieme, il vissuto depressivo potrebbe allora svolgere il suo discorso in maniera comprensibile e utile, producendo riflessioni sull’esistente e sul possibile, motivando lo sforzo per le necessarie trasformazioni.” (p.150)

3.

E’ superfluo aggiungere, per chi conosce i miei scritti, che sono d’accordo con tutte le considerazioni e le analisi svolte da Piero Coppo. Sottrarre la sofferenza psichica ai neopsichiatri che, definendola una malattia biologica, se ne appropriano, escludendo dalla sua gestione e dalla ricerca di senso che essa implica sia i diretti interessati che la collettività; demolire dunque lo sterile edificio nosografico eretto  sul fittizio fondamento della neurobiologia è un passaggio obbligato per pervenire ad una nuova scienza della salute mentale e del disagio psichico. In conseguenza di questa demolizione, i depressi e la collettività dovranno accettare di impegnarsi nello sforzo di capire che la depressione è sempre e comunque una forma di protesta contro l’ordine di cose esistente così come esso è sperimentato dal singolo soggetto: una protesta che definisce quell’ordine invivibile e si traduce inconsciamente in un ritiro doloroso dal mondo, che è l’essenza della depressione. Ciò non significa ovviamente che tale protesta sia sempre realistica, ragionevole, giusta. I singoli esseri umani possono soffrire anche perché il mondo, la vita non corrisponde alle loro aspettative e non è come dovrebbe essere, o, particolarmente a livello giovanile, perché sono frustrati dal non poter diventare ciò che desidererebbero essere.

Si danno – ed è fuor di dubbio – depressioni egocentriche, narcisistiche, velleitarie, immaginarie, anche se la sofferenza che ad esse segue ha la dignità di qualunque dolore sperimentato dagli esseri umani.

Questo discorso, utile ad evitare di ricadere nello stereotipo dell’antipsichiatria degli anni ’70, che vedeva in ogni disagiato psichico una sorta di implicito “rivoluzionario”, può però applicarsi alle singole esperienze, e nel complesso direi ad un numero minoritario di depressioni.

La depressione come malattia sociale non può essere ricondotta né ad una somma di disadattamenti costituzionali né di proteste velleitarie e irragionevoli. Essa attesta che, nel nostro sistema sociale, qualcosa veramente non funziona, e per cambiare implica una presa di coscienza collettiva sullo stato di cose esistente.

Il problema che mi pongo è come l’esigenza di questa presa di coscienza possa avvenire. Piero Coppo si riferisce agli specialisti e ai tecnici. Sono loro, in quanto deputati istituzionalmente a curare la sofferenza, che dovrebbero avvertirla per primi e coinvolgere i pazienti e la collettività. Ma, alla luce di come vanno le cose e, purtroppo, della buona fede di numerosi specialisti e tecnici ingabbiati nell’ideologia neopsichiatrica e che non hanno alcuno strumento per criticarla, questa prospettiva sembra utopistica.

Ricondursi all’opinione pubblica, alla collettività sembra non meno utopistico, avendo essa sviluppato una connivenza ideologica con la psichiatria biologica, il cui riferimento alla malattia genetica è stato accolto in quanto deresponsabilizza sia i pazienti che le famiglie e la società.

E dunque?

Non ho alcuna soluzione per questo problema. So solo che la premessa per cui esso possa essere avviato alla soluzione passa attraverso la riproposizione di una tematica propria della cultura degli anni ’70, che è stata abbandonata e rimossa: quella dello stato normalmente mistificato della coscienza umana, del suo tendere a costruire ideologie e false convinzioni piuttosto che sforzarsi di vedere (per quanto possibile) come stanno le cose. Tale inclinazione, che è essa sì costituzionale, riguarda le singole coscienze, i gruppi umani, la società nel suo complesso e, al suo interno, gli specialisti che confondono i loro punti di vista con la scienza.

Bisogna partire da questa verità, e riconoscere che il nostro mondo, apparentemente informato, razionalista, scientista, è immerso forse più di qualunque altro nella mistificazione, il cui sintomo primario è la convinzione di rappresentare la civiltà umana più avanzata, mentre, sotto il profilo antropologico, esso è forse uno dei peggiori che siano mai esistiti.