1.
Come in ogni epoca di crisi profonda - la nostra lo è e la crisi è ancora più profonda di quanto si pensi perché investe la totalità della struttura sociale (economia, politica, società civile, mentalità) - spuntano come funghi i taumaturghi, che hanno la palla di vetro e la ricetta pronta per scongiurare la catastrofe.
Giulio Tremonti è tra questi. In un agile libricino di poco più di cento pagine, scritto per il grande pubblico, e che quindi rinuncia ad un apparato documentario e alla bibliografia, egli traccia una rapida analisi della crisi in atto, legata alla globalizzazione, e avanza le sue proposte di fronteggiarla e sormontarla sulla base del presupposto per cui, tramontata irreversibilmente la sinistra, il destino del mondo dipende unicamente dalla capacità dei liberali di coniugare conservazione e innovazione.
Se è vero, come sostiene Tremonti, che la crisi politica della sinistra è irreversibile, occorre riconoscere che, sotto il profilo culturale, c’è ancora uno scarto incolmabile tra il patrimonio della sinistra e quello della destra.
Per prendere atto di questo, basta mettere a confronto l’ultima fatica di Tremonti con La breve storia del futuro di J. Attali, che ho recensito di recente. La tematica è praticamente sovrapponibile: l’analisi della crisi del mondo contemporaneo e le sue possibili soluzioni. Il saggio di Attali ha una densità e uno spessore adeguati alla drammaticità della crisi. Le soluzioni proposte - un salto di qualità globale sulla via di una autentica democrazia mondiale ugualitaria, benché rispettosa delle differenze culturali e locali - sono, forse utopistiche, ma non prive di fascino. A confronto, quello di Tremonti è un libro contraddittorio (per alcuni aspetti tendenzioso e per altri francamente sciocco): l’analisi della crisi globale, infatti, esita nell’ossessione di salvare l’Europa, restituendo ad essa un primato economico, sociale e culturale sulla base della restaurazione di valori conservatori.
La recensione del saggio in questione non è dunque giustificata dal suo valore, sostanzialmente mediocre, bensì dall’ambizione che lo sottende e lo pervade di dimostrare che la cultura liberale e conservatrice ha le chiavi per aprire all’umanità le porte di un futuro meno drammatico di quello che sembra profilarsi nell’immaginario collettivo: un futuro aperto, come allude il titolo, alla speranza. Al fine di valutare tale ambizione, sintetizzo l’analisi che Tremonti fornisce della crisi attuale per poi soffermarmi su due aspetti che ritengo importanti: il singolare insieme di proposte che vengono avanzate nella parte finale e il giudizio inappellabile sul destino della sinistra
La prima parte del saggio denuncia vigorosamente la crisi in atto:
“È finita in Europa l'«età dell'oro». È finita la fiaba del progresso continuo e gratuito. La fiaba della globalizzazione, la «cornucopia» del XXI secolo. Una fiaba che pure ci era stata così ben raccontata. Il tempo che sta arrivando è un tempo di ferro.” (p. 5)
Due sono gli indizi della crisi. Il primo è la crescita dei prezzi:
“I prezzi - il prezzo delle merci e del petrolio, il prezzo del denaro e degli alimentari - invece di scendere, salgono.” (p. 5)
Cosa è successo?
“E successo che in un soffio di tempo, in poco più di dieci anni, sono cambiate la struttura e la velocità del mondo.
Meccanismi che normalmente avrebbero occupato una storia di lunga durata, fatta da decenni e decenni, sono stati prima concentrati e poi fatti esplodere di colpo.
Come si è già visto in tante altre rivoluzioni, quella della globalizzazione è stata preparata da illuminati, messa in atto da fanatici, da predicatori partiti con fede teologica alla ricerca del paradiso terrestre.
Il corso della storia non poteva certo essere fermato, ma qualcuno e qualcosa - vedremo chi e che cosa - ne ha follemente voluto e causato l'accelerazione aprendo come nel mito il «vaso di Pandora», liberando e scatenando forze che ora sono difficili da controllare.” (p. 5)
“Procedendo per inevitabili linee di rottura, la globalizzazione ci ha dunque già presentato il suo primo conto con lo shock sui prezzi e con il carovita. Ma questo è solo l'inizio. Perché la globalizzazione sta cominciando a presentare anche altri conti: il conto della crisi finanziaria; il conto del disastro ambientale; il conto delle tensioni geopolitiche che, pronte a scatenarsi, si stanno accumulando nel mondo.
E infatti già cominciata la lotta per la conservazione o per il dominio delle risorse naturali e delle aree di influenza. Nuove tensioni si sviluppano lungo linee di forza che vanno oltre i vecchi luoghi della storia, oltre i vecchi passaggi strategici. Dalla superficie terrestre fino all'atmosfera, dal fondo del mare fino alle calotte polari, le «nuove» esplorazioni strategiche, fatte sul fondo marino o ai poli, le conseguenti pretese di riserva di proprietà «nazionale», non sono già segni sufficienti per capirlo?
Quando la storia compie una delle sue grandi svolte, quasi sempre ci troviamo davanti l'imprevedibile, l'irrazionale, l'oscuro, il violento e non sempre il bene. Già altre volte il mondo è stato governato anche dai demoni.” (p. 7)
In breve:
“Il mito del XXI secolo, il mito dell'economia che è tutto, che sa tutto, che fa tutto; il mito dell'economia dominatrice assoluta della nostra esistenza, matrice esclusiva di tutti i saperi e di tutti i valori; il mito a cui soprattutto in Europa tantissimi hanno creduto in questi ultimi anni, ci ha in realtà prima rubato un pezzo di vita e di storia - come eravamo prima, con il nostro vecchio ordine e con le nostre vecchie leggi, con le nostre tradizioni e con valori che pensavamo immutabili, immersi nella nostra «cultura» - e poi ha fallito nel suo piano innovativo e progressivo di ingegneria sociale globale mosso dal motore primo della finanza.” (p. 11)
L’altro indizio della crisi è la turbolenza finanziaria:
“Il secondo conto che ci presenta la globalizzazione, dopo lo shock sui prezzi e sul carovita, è appunto quello della «crisi finanziaria». Un conto che, per la verità, la globalizzazione ha presentato per prima a se stessa.” (p. 11)
“Sotto la pressione della crisi che arriva stanno infatti e per primi dichiarando fallimento proprio gli alchimisti che, appena ieri (solo alla fine del Novecento), hanno inventato il mercatismo, l'utopia-madre della globalizzazione, il suo strapotente motore ideologico: i liberali drogati dal successo appena ottenuto nella lotta contro il comunismo; i post-comunisti divenuti liberisti per salvarsi; i banchieri travestiti da statisti; gli speculatori-benefattori; e i più capaci pensatori di questo tempo, gli economisti, sacerdoti e falsi profeti del nuovo credo.” (p. 11-12)
“Spinta insieme dall'ideologia mercatista e dalla nuova tecno-finanza, che ne ha finanziato il miracolo quasi istantaneo, la magia della globalizzazione si sta in specie risolvendo nel suo contrario. Lubrificata all'inizio dal magico fluido del denaro, la nuova macchina miracolosa si sta inceppando e, non per caso, si sta inceppando proprio a partire dalla finanza. Dove è stato il principio, lì ora è la fine del processo.” (p. 12)
L’ideologia mercatista ha un suo epicentro istituzionale, il sistema bancario:
“Da circa dieci anni a questa parte, con un'accelerazione marcata negli ultimi cinque anni, dentro l'industria bancaria, e dunque nel cuore del nuovo capitalismo mercatista, si è in specie manifestata una fortissima doppia mutazione, tanto dimensionale quanto funzionale. Mutazione dimensionale: le grandi banche internazionali, passando attraverso un intensissimo processo di concentrazione globale, hanno alla fine preso la forma dominatrice della «megabanca». Mutazione funzionale: le «megabanche» hanno applicato in forma radicale e su scala globale la forma nuova della tecno-finanza: l'OTD (Originate-to-Distribute Model).
L'OTD non è solo una nuova tecnica operativa che permette la «distribuzione» del rischio sul credito, con il trasferimento del rischio stesso dalla banca originaria creditrice a terzi. È qualcosa di più, un qualcosa capace di originare a sua volta un tipo nuovo di banca: la banca che è insieme «universale'> e «irresponsabile». E così che universalità e irresponsabilità sono diventati i caratteri terminali propri della «megabanca», un tipo di industria assolutamente nuovo.
Per secoli le banche hanno infatti preso denaro sulla fiducia e prestato denaro a rischio, l'arte del banchiere essendo in specie nella capacità di valutare il merito del «rischio proprio», così assunto e poi gestito.
In un crescendo che parte più o meno dal principio di questo secolo, il secolo della globalizzazione, la struttura aperta dei mercati finanziari, la caduta dei controlli e le nuove tecniche della finanza hanno invece tutte insieme consentito l'uscita da questo schema fisso; la rottura del vecchio equilibrio tra rischio e responsabilità; l'apertura di una fortissima asimmetria, tra «origine del rischio» e «responsabilità per il rischio».
E così che le nuove «megabanche» globali si sono liberate dal proprio originario rischio sui loro prestiti, trasferendolo a terzi. Lo hanno fatto impacchettando i propri crediti in «prodotti finanziari» a volte denominati bond a volte denominati in altro modo, tutti comunque destinati a essere collocati sul mercato presso acquirenti attratti dagli alti rendimenti, confusi dalla complessità degli strumenti, quasi sempre inconsapevoli del rischio «spazzatura» che potevano così assumere.
Tutto si è sviluppato dentro la meccanica perversa del «meno rischi più guadagni», perché, con le nuove tecnologie finanziarie gli operatori, più trasferivano a terzi i loro rischi, più facevano profitti. I cosiddetti sub prime, i prestiti a rischio concessi negli USA e poi impacchettati e fatti circolare per il mondo con i rischi connessi, sono stati in realtà solo il primo anello di una lunghissima catena di fuga dal rischio e di corsa ai profitti. Una fuga e una corsa fatte con tanti altri strumenti: vehicle, conduit, asset-backed commercial papers, collateralized debt obligations, derivatives, monolines, hedge funds, ecc. Strumenti diversi tra loro, ma sempre con un «comune denominatore»: l'essere operati e operabili fuori da ogni controllo.” (pp. 14-15)
L’effetto dell’attività delle megabanche è stato di inondare il mercato con un enorme massa di liquidità, in gran parte fittizia:
“La combinazione di tutte le forme nuove della tecno-finanza ha in particolare immesso sul mercato enormi quantità di liquidità e questa, a sua volta, è stata moltiplicata con la leva del debito. E così che i valori delle operazioni sono cresciuti artificialmente. Valori in sostanza inventati, finanziati a debito, con rischio non proprio ma di terzi...
E così che le «megabanche», divenute insieme universali e irresponsabili, replicando e moltiplicando artificialmente i valori, potenzialmente fino all'ennesimo grado, beneficiando di più o meno solide coperture assicurative e certificazioni contabili, del voto positivo delle agenzie di rating, hanno finito per avere nei propri bilanci attivi per centinaia di miliardi di dollari o di euro, su cui hanno emesso derivati per migliaia di miliardi di dollari o di euro. Qualcosa di assolutamente nuovo e tuttavia di tremendamente simile ai vecchi assegni scoperti. Qualcosa di cui non soffrono solo i conti economici, ma anche e soprattutto i conti patrimoniali, così da porre in forse non solo quanto guadagna una «megabanca» in un anno, ma la consistenza patrimoniale stessa della «megabanca». Qualcosa di potenzialmente simile a una Global Parmalat.
E così che il contromodello è diventato il modello, l'eccezione la regola, la negatività lo standard.” (pp. 15-16)
La globalizzazione finanziaria ha profondamente modificato la carta geoeconomica e politica del Pianeta:
“Non tutta la nuova cartografia annuncia tempesta. Alcuni quadranti, per esempio quelli dell'India o dell'America latina, presi a sé, come se fossero i soli quadranti nuovi della carta, permetterebbero di formulare scenari tutto sommato conservativi e specificamente favorevoli all'Europa. Ma questi quadranti non sono isolabili dagli altri e soprattutto non sono quelli strategicamente più rilevanti.
In teoria, la nuova cartografia dovrebbe portare la pace mercantile perpetua, garantita dal dominio razionale assoluto del mercato su tutte quelle umane irrazionalità che finora hanno fatto la storia: le passioni e le pulsioni, gli ideali, le fedi e le razze. Ma può anche essere l'opposto. Può essere che la nuova cartografia sia essa stessa causa e terreno di nuovi conflitti. La catena di crisi va già dal Corno d'Africa al Golfo persico, dall'Asia meridionale al Caucaso, ed è proprio qui che può iniziare il «grande gioco». La «tempesta perfetta» può essere scatenata dalla combinazione tra una di queste crisi «locali», le forme nuove dell'imperialismo energetico che ispira i Paesi produttori ed esportatori di petrolio e di gas, la crisi finanziaria in atto.
Ma anche senza tutto questo, se anche tutto questo non fosse, se anche si andasse avanti per decenni, a globalizzazione invariata, per questo e proprio per questo nel lungo andare il nostro futuro non sarebbe comunque un futuro pacificamente positivo.
Se la globalizzazione andrà avanti, spinta a velocità forsennata dal motore ideologico del mercatismo, verranno infatti a incombere su di noi due rischi fatali. Un rischio globale. Un rischio locale. Il rischio globale della catastrofe ambientale. Il rischio locale di un colonialismo asiatico di ritorno sull'Europa.” (pp. 20-21)
Il primo, secondo Tremonti, è figlio della conjunctio tra globalizzazione e mercatismo:
“Non solo per un principio di ragione e di precauzione, nel conto della globalizzazione spinta dal mercatismo va infatti messa la fondata e generale previsione di un disastro ambientale, un disastro capace di erodere alla base le ragioni stesse della nostra sopravvivenza sulla terra.
«Mercatismo» e «ambientalismo» sono infatti termini tra loro incompatibili. Non ci può essere ambientalismo con mercatismo invariato. Non ci può essere ambientalismo, con sviluppo forsennato.
Stiamo consumando le risorse del nostro pianeta, il bilancio ambientale sta diventando negativo, la febbre sta salendo.” (pp. 21-22)
Esso dunque va preso molto sul serio, ma, per quanto riguarda le possibili soluzioni, affiora una singolare riserva:
“La soluzione efficiente totale non è neppure nella cosiddetta green economy, e cioè nel grandioso piano mondiale di investimenti in energia pulita, a bassa intensità di emissione di anidride carbonica. Un piano che non dovrebbe essere limitato solo a USA ed Europa, ma esteso anche all'Asia. E che dovrebbe (potrebbe) essere finanziato soprattutto dai Paesi sviluppati. E certo necessario, questo piano, ma non è sufficiente da solo. Perché, si ripete, è in parallelo necessario agire sulle cause e non solo sugli effetti. E necessario in parallelo fermare il mercatismo, l'ideologia forsennata dello sviluppo forzato spinto dalla sola e assoluta forza del mercato.
A questo punto è logica e legittima la domanda: perché penalizzare ora i Paesi in via di sviluppo? Perché le ragioni dell'ambientalismo dovrebbero valere solo ora, con l'ingresso dell'Asia nel mercato mondiale?
Per una ragione molto semplice e non solo per astuzia politica o per egoismo occidentale in generale ed europeo in particolare. Perché non si può rifare la storia, non si può guardare indietro, si può solo guardare avanti. L'ipotesi che, per esempio, 200 o 300 milioni di cinesi abbiano nei prossimi anni la loro automobile (inquinante) terrorizza per prime le stesse autorità cinesi.” (pp. 25-26)
Probabilmente è vero. Ma chi convincerà i paesi in via di sviluppo che essi devono consumare meno energie perché l’occidente le ha sfruttate al massimo grado?
La maggiore preoccupazione di Tremonti, comunque, non è la catastrofe ambientale, ma la colonizzazione dell’Europa:
“Il rischio locale che deriva dalla globalizzazione, il rischio specifico per l'Europa, prende poi la forma tipica di un «colonialismo di ritorno», dall'esterno verso l'Europa. La storia si può infatti ripetere all'incontrario. La storia insegna che le leadership cambiano.
Già nel 1913 gli USA, forti di un'economia e di una popolazione in crescita impetuosa, avevano superato nelle statistiche l'Inghilterra, potenza-madre e ancora potenza dominatrice per inerzia, perché allora il mondo era fermo. Dopo mezzo secolo, dopo che il mondo si era messo in moto con la seconda grande guerra mondiale, gli USA sono infine arrivati a esercitare il loro primato su mezzo mondo.
Ora, finita la divisione artificiale del mondo causata dalla guerra fredda, con la nuova geografia piana fatta dalla globalizzazione, la leadership può cambiare nuovamente. Ma questa volta non spostandosi da una sponda all'altra del lago Atlantico, Occidente su Occidente, piuttosto spostandosi da Occidente verso Oriente. E così che può iniziare una nuova età della storia: l'«età del Pacifico».” (p. 26)
A questo punto affiora l’ossessione eurocentrica di Tremonti, che scrive:
“Perché non è più l'Europa a cambiare il mondo, ma il mondo a cambiare l'Europa? Per una ragione molto semplice. Perché non è stata l'Europa a entrare nella globalizzazione, ma è stata la globalizzazione a entrare in Europa, trovandola insieme incantata e impreparata. Trovandola sì pronta, ma pronta solo per una crisi continentale. Una doppia crisi.
Una crisi interna, perché ci siamo fermati nella produzione di idee politiche, coltivando e conservando all'opposto e con assurda tenacia un'idea che si è rivelata sbagliata: l'idea mercatista.
E poi una crisi esterna perché, senza reagire, subiamo da fuori una pressione crescente, prima economica e poi politica. Tutto è, infatti, questa Europa, tranne che una “fortezza”. La fortezza che sarebbe invece necessaria per difenderci e per sopravvivere senza soccombere in quel campo di forza che sta diventando il nuovo mondo. Paradossalmente, ora, l'Europa è sempre più necessaria, ma anche sempre più debole.” (p. 30)
Il motivo dell’indebolimento è il mercatismo, ma a chi ricondurre il fanatismo materialitico che esso implica e supporta? La risposta è quasi incredibile:
“«Il 1989, con il crollo del muro di Berlino, segna la crisi sia del comunismo sia del liberalismo. Sostituiti entrambi da un'ideologia nuova: il mercatismo, l'ultima follia ideologica del Novecento.
Il liberalismo si basava su di un principio di libertà applicato al mercato. Il comunismo su di una legge di sviluppo applicata alla società.
Il mercatismo è la loro sintesi. Perché applica al mercato una legge di sviluppo lineare e globale.
In questi termini il mercatismo può essere concepito come l'immissione del mercato in un campo di forza. Il mercatismo fa infatti convergere a forza e sulla stessa scala offerta e domanda, produzione e consumo, e per farlo normalizza tutto, standardizza e spazza via tutti i vecchi differenziali. Postula e fabbrica prima un nuovo tipo di pensiero, il "pensiero unico", e poi un nuovo tipo ideale di uomo-consumatore: l"uomo a taglia unica". Fonde insieme consumismo e comunismo. E così sintetizza un nuovo tipo di materialismo storico: "mercato unico", "pensiero unico", "uomo a taglia unica"» (Tremonti, Rischi fatali, citato).” (p. 33)
“II comunismo ha perso perché ha perso.
Il liberalismo ha perso anche lui perché, subito dopo aver vinto, ha perso la sua specifica identità storica: così insieme ha celebrato la sua vittoria e ha consumato la sua sconfitta.
Diversamente dal comunismo, il liberalismo non poggiava infatti su una legge assoluta, ma da un lato sul principio della libertà applicato al mercato, dall'altro lato su un apparato dialettico, empirico e graduale fatto da regole, tempi, metodi, coessenziali alla libertà stessa. Spinte e controspinte, pesi e contrappesi in equilibrio. Niente ricorda la complessa dinamica propria del vecchio liberalismo quanto la struttura di un vecchio orologio meccanico.
Dopo il 1989, nell'illusione della vittoria, ha ceduto anche il liberalismo e lo ha fatto sotto la fortissima pressione ideologica che veniva proprio dalla parte opposta, da quella del comunismo. A fine esercizio, il comunismo è riuscito a trasferire e trapiantare proprio nel campo opposto, nel dominio del mercato, il proprio DNA, con l'idea che la vita degli uomini sia mossa e possa essere mossa da una «legge»” (p. 35)
“L"uomo a taglia unica" non è solo la forma ideale del consumismo di massa diffuso su scala globale. È l"uomo normale" idealizzato per primo dal comunismo. E così che consumismo e comunismo si sono infine trionfalmente fusi in un nuovo materialismo. La modernità è nel mercato e dunque il difensore dei consumatori è il nuovo tribuno della plebe, il supermarket è la nuova agorà, le banche sono il sinedrio della democrazia, le élite identificano e sostituiscono "rappresentandola" la volontà dei popoli. Il territorio è dominato dai nuovi simboli, dalle nuove icone, dai nuovi totem del mercato» (Tremonti, Rischi fatali, citato).
La realtà risiede sempre più nell'economia e l'economia è sempre più dominata da un pensiero unico che tende a travolgere e demonizzare, fino a cancellarle, le vecchie diversità, perché il consumismo funziona solo su scala di massa, e la sua efficienza cresce solo se è lanciato su scala globale. Il comunismo non è quindi finito, si è solo trasformato, ha stretto alleanza con il capitalismo, si è spostato in modo strumentale dal controllo dei mezzi di produzione al controllo prima dei prodotti e poi dei consumatori. In particolare, è il comunismo a fornire al consumismo il codice di forza necessario per la sua diffusione lineare su scala globale.” (p. 36)
Insomma, secondo Tremonti la colpa ultima della degenerazione del liberismo va ricondotta né più né meno al comunismo! Non si riesce a capire, francamente, se egli si renda conto di ciò che afferma. La legge dello sviluppo economico illimitato è intrinseca al capitalismo. Se Marx ha una responsabilità è di aver pensato che, con l’avvento del comunismo, le potenzialità produttive del capitalismo si sarebbero potute investire nella soddisfazione dei bisogni sociali e non di interessi particolari e privati.
Le sciocchezze che scrive Tremonti hanno un senso: servono a supportare il colpo di scena finale. La critica del materialismo economicistico, attribuito all’influenza del comunismo, serve a spostare il discorso sul piano dei valori spirituali.
2.
La crisi dell’Europa, infatti, sarebbe dovuta infatti al distacco dalle sue radici e all’essere caduta preda, in conseguenza di questo, della follia mercatista:
“Nata con il mercato e dal mercato - il mitico MEC, il «mercato comune europeo» -, l'Europa rischia di morire proprio di mercato, trovando così nel mercato tanto il principio della sua vita quanto il principio della sua morte. Artefice e vittima del suo destino, l'Europa è in realtà l'unica area del mondo in cui si crede che il mercato possa sostituire la politica; confondendo e scambiando un'opportunità con una fatalità, l'Europa ha infatti pensato che il mercato potesse essere la sua sola politica. Abbiamo fatto il mercato unico europeo, ma poi non abbiamo capito che nel mondo il nostro non è l'unico mercato e che nel mondo non c'è solo il mercato.” (p. 46)
“L'Europa è stata infatti, ed è ancora - ed è questo il fulcro del suo attuale essere politico -, il principale e più tipico punto di incrocio tra due forze tra di loro opposte: la forza «crescente» del mercato globale; la forza «decrescente» dello Stato nazionale. E un fenomeno, quello della crisi dello Stato-nazione, evidente da un po' di anni. Ma non da molti. Nel 1989, per esempio, il tema non era davvero frequente (si veda, comunque, Giulio Tremonti, Una rivoluzione che svuota i Parlamenti, in «Corriere della Sera», 19 luglio 1989. Si noti: «luglio 1989», cioè prima della caduta del muro di Berlino).
Sotto la pressione dell'economia globale si è in particolare spezzata, in Europa, la catena politica fondamentale: la catena Stato-territorio-ricchezza (Giulio Tremonti con Giuseppe Vitaletti, La fiera delle tasse, 1991).
Un tempo, allo Stato bastava controllare il suo territorio per controllare la ricchezza e dunque per esprimere la sua forza politica: per riscuotere le tasse, per battere la moneta, per esercitare la giustizia. Il territorio era infatti il container della ricchezza, agraria e mineraria, o la base della nuova ricchezza industriale. La ciminiera, la grande macchina a vapore. Ora non è più così. La ricchezza, sempre più dematerializzata e finanziarizzata, sfugge ai suoi antichi vincoli territoriali, ci vola sopra.
Lo Stato resta a controllare il suo territorio, ma non controlla più la parte più affluente e strategicamente rilevante della ricchezza, e per questo perde quote crescenti del suo originario potere politico: un potere pensato, in una logica di «monopolio della forza», dentro un sistema a dominio territoriale chiuso. Un tipo di dominio che dava appunto allo Stato-nazione il potere esclusivo di battere moneta, di riscuotere le tasse, di esercitare la giustizia.
Non solo. In Europa questo processo storico ha preso e prende infatti una forma politica particolare e addizionale, perché una quota notevole della forza politica residua dello Stato-nazione non è stata conservata, ma a sua volta devoluta verso l'alto, all'Unione europea. Una Unione che per suo conto, allargandosi di continuo fino a comprendere 27 Paesi, ha prodotto un ulteriore effetto di dispersione di forza.
L'Europa che c'è ora non è né carne né pesce, siamo tra la fine del giorno e il principio della notte. Non abbiamo più la vecchia macchina politica nazionale, ma non abbiamo ancora una macchina politica europea. La vecchia politica nazionale è stata infatti erosa dalla globalizzazione e, al contempo, devoluta verso l'alto in nuovi contenitori europei, a loro volta sempre più allargati. Contenitori che, non avendo un'identità politica propria, non hanno neppure una forza propria.” (p. 52)
Si configura, insomma , all’orizzonte il declino irreversibile per l’Europa, che però, secondo Tremonti, può essere scongiurato in virtù di una rivoluzione culturale:
“E venuto per l'Europa il tempo di mettere in campo una visione diversa del suo destino, una visione diversa della società, una visione strutturata e non destrutturata, attiva e non passiva.
La finis Europae è l'antica profezia di caduta dell'Europa, come replica della caduta della civiltà romana, una caduta annunciata tra Ottocento e Novecento, ritardata e insieme amplificata prima dalle due guerre mondiali (in realtà una guerra sola, con in mezzo un lungo armistizio) e poi dalla guerra fredda.
La profezia, però, non è irreversibile. La finis Europae non è il nostro unico destino possibile.
Ma dobbiamo insieme saperlo e volerlo. Sapere della crisi e volere reagire. Perché, se anche superandola usciamo dalla crisi dell'«agosto 2007», non possiamo comunque continuare come prima, come se niente fosse successo e come se niente potesse più succedere.
Sarà in specie proprio la spinta del malessere materiale e soprattutto spirituale che c'è già alla base della nostra piramide sociale, un malessere che via via si sposterà dal basso verso l'alto, a portarci verso il rifiuto delle forme attuali della politica, miope e abulica, fatalista e stupida.
Sarà all'opposto proprio questa spinta dal basso verso l'alto a decretare il successo delle forme e delle forze politiche che sapranno intercettare il nuovo spirito del tempo.
In Europa dobbiamo e possiamo dunque trasformare proprio la crisi che è in atto, e che cresce, in un'opportunità positiva di pensiero e di azione. Fallito il piano mercatista di neocolonialismo, rischiamo infatti, soprattutto noi in Europa, di essere colonizzati dall'Asia. E venuto il tempo per provare a evitarlo.” (p. 58)
3.
Quali sono i presupposti di una rinascita dell’Europa?
“Ciò che ora e per prima cosa stupisce è che tutti notano quello che c'è: il «consumismo». Mentre pochi riflettono su quello che non c'è più: il «romanticismo». E invece proprio a partire dalle conseguenze di questo vuoto che va avviata la riflessione, perché la fine del romanticismo è stata in parte un bene, in parte un male.
E stato un bene che il flusso globale e banale dei consumi, diffusi su scala di massa e standardizzati, abbia dissolto quell'infernale cocktail di idee e di ideologie, di pulsioni e di leggende, di miti e di inni, di luoghi sacri e di stati maggiori che, combinandosi al principio del Novecento con la meccanica moderna, ha finito per insanguinare l'Europa. Anche per questo è impensabile un'altra guerra tra le nazioni europee, finalmente accomunate nei principi della pace, anche perché polarizzate sui consumi e da questi rese omogenee.
La fine del romanticismo è stata tuttavia anche un male, perché la forza impetuosa del nuovo flusso ha cercato di sbriciolare e di spazzare via, trascinandola con sé, anche una buona parte dell'humus che c'era sul fondo della nostra storia: l'idea che l'uomo non ha creato la società ma, all'opposto, è parte di un meccanismo storico più complesso dell'uomo stesso; l'idea non divisionista e non atomica della sua appartenenza a una comunità storica, a una civiltà organica; l'idea che le sue radici affondino nella stessa terra in cui riposano i suoi padri; il rispetto per il particolare, l'opposto dell'universale globale; il valore proprio delle riserve della memoria, che sono qualcosa di più intenso di una parodia bigotta della tradizione; le consuetudini familiari e municipali, le esperienze di vita, i retroterra arcaici e umorali, le diversità, i vecchi valori e le «piccole patrie», i monumenti e i patrimoni d'arte, che sono i nostri geni civili.
In una parola le nostre «radici». Inaridirle, strapparle, equivarrebbe a staccarci dalla nostra anima e dalla nostra coscienza. Perché certo le radici da sole non bastano. Ma senza radici non si sta in piedi.” (pp. 74 - 75)
“Il codice che dobbiamo e possiamo fabbricare per sopravvivere può essere creato solo con la combinazione tra due parole essenziali, che sono insieme vecchissime e nuovissime: «identità», «valori».
Identità e valori sono le due facce di una stessa medaglia. L'identità è fatta dai valori, i valori fanno l'identità. Nella storia tutte le comunità si basano e trovano infatti la loro identità nella prevalenza di tradizioni, idee, nozioni «proprie». In una parola, nella prevalenza dei loro valori.
Una comunità può e deve definire la sua identità solo per mezzo dei suoi valori storicamente consolidati; rispetto a questi, le altre comunità sono «altre». Perché è proprio e solo nella «differenza», nella comparazione differenziale, che si forma il carattere unitario di una comunità. Identità non è infatti solo ciò che siamo, ma anche differenza da ciò che non siamo. Tutto è chiuso nella coppia dialettica «noi-altri». Se il «noi» non viene marcato, ma all'opposto viene obliterato e censurato, finisce che tutto è «altro» e niente è «noi»; all'inverso, perché esista un «altro» deve esistere un «noi». Non vale qui la logica «sia l'uno che l'altro».
La memoria è una cosa, l'oblio un'altra, la soggezione preconcetta alla diversità un'altra ancora.
Il dramma che rischia l'Europa è proprio questo. È nella difficoltà a portare fino in fondo il suo esercizio identitario, avendo finora prevalso un tipo di cultura universalistica, basata sull'idea assoluta, aprioristica e non selettiva di «eguaglianza» indifferenziata e di «importazione» libera, categorie queste progressivamente estese dalle persone alle merci. Diventa così automatica la tendenza ad accettare a scatola chiusa tutto ciò che viene da fuori, solo perché viene da fuori.
La confusione tra «noi» e gli «altri» può anche essere banale e normale, in tempi normali, ma nel pieno della globalizzazione persistere nella confusione è tutto tranne che banale e normale: è suicida.
Tanto più ci universalizziamo nella globalizzazione, tanto più la dialettica tra (<noi» e gli «altri» diventa infatti al tempo stesso strategica e drammatica. Non possiamo andare avanti a senso unico, unilateralmente, non possiamo continuare a pensare che «noi» non siamo «noi», gli <altri» sono «altri», mentre invece continuiamo a essere <altri» per gli «altri».
E un dramma che l'Europa si è fabbricata in un tempo in cui l'universale era banale, ma ora non è più così: più ci universalizziamo e più rischiamo.
Deve essere in specie chiaro che il discorso sull'«identità» ci impone un'intensa revisione, una forte e chiara riforma delle nostre regole politiche.
L'inclusione degli «altri» in Europa può proseguire, però solo se gli «altri» cessano di essere «altri» e diventano <noi». Quindi: o sono gli «altri» che rinunciano alla loro identità, venendo in Europa, o è l'Europa stessa che perde la sua identità e va così a porte aperte incontro alla sua disintegrazione.” (pp. 77-78)
“L'Europa che vogliamo è certo un'Europa con le porte, ma non con le porte sempre aperte e per di più sempre aperte solo verso l'interno, un'Europa dominata dal buonismo e dall'«entrismo”“ (p. 79)
“Per identificare i valori serve un'anima, per difendere i valori serve un potere politico, per esercitare il potere politico serve un programma, per scrivere un programma serve una visione d'insieme.
Per cominciare serve una visione della vita che non sia materiale ma spirituale. Non più solo laicista. Non più solo privatista. Una visione che non escluda Dio e che non demonizzi lo Stato e la dimensione pubblica.
Per prima, una visione che non escluda Dio. L'eclissi del sacro è finita, e con essa la furia «secolare» suggestionata da Darwin e da Maithus, da Marx e da Freud. Nel novembre 2007 l'«Economist» ha prodotto uno special report che si intitola In God's name. Vi è scritto: «Trascurare il ruolo della religione nella vita pubblica significa anche perdere molte potenziali soluzioni ... visto che la religione è parte della politica, deve anche essere parte della soluzione».
Dire questo non è come dire che anche in Europa - come in tante altre parti del mondo - Dio è finalmente tornato a incedere nella storia. Ma è molto più di quel laicismo negazionista che, appena ieri, se pure con minor forza del prevalente mercatismo, ha portato a escludere la verità storica delle radici giudaico-cristiane.
E coincide perfettamente con la dottrina razionale e secolare che insegna: «Non si può governare la storia con mere strutture materiali, prescindendo da Dio» (Joseph Ratzinger Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, 2007).
Parlare di religione vuole dire ora richiamarsi alle fondamenta morali del nostro essere, ai valori spirituali, cattolici o laici che siano. Vuoi dire pensare che la tradizione religiosa può compensare il vuoto di valori che, cadute le ideologie, è divenuto proprio delle nostre democrazie; può introdurre nel sistema politico la spiritualità che ha progressivamente perso; nell'insieme può offrire la possibilità di vivere anche nelle istituzioni politiche con la «speranza».” (p. 81)
“Serve una visione che, a differenza di quella mercatista, non demonizzi lo Stato e la dimensione pubblica: «Market f possible government f necessary».
E questa in realtà la formula nuovissima, anzi antichissima, che sta alla base del vero liberalismo. Una formula che si iscrive nel quadrante delimitato da quattro concetti fondamentali: libertà, proprietà, autorità e responsabilità. Libertà e proprietà sono valori che si autodefiniscono permanentemente. Autorità e responsabilità sono invece valori che vanno attualizzati perché si intrecciano con il problema politico che è oggi centrale ed essenziale in Europa: il problema del «potere».
Nel tempo che stiamo vivendo, all'interno dell'Europa continentale la questione politica fondamentale è infatti la questione del potere. I popoli domandano, i governi non hanno potere sufficiente per rispondere. Ed è proprio questa asimmetria tra domanda e offerta che erode progressivamente le basi della politica, aprendo lo spazio all'antipolitica e per questa via all'antidemocrazia.
Per mezzo secolo, dalla caduta dei regimi totalitari dopo la seconda guerra mondiale fino a oggi, nell'Europa continentale la questione del potere è stata trattata in senso essenzialmente «negativo». Come contenere il potere dei governi? Come eliminare il rischio di eccessi di potere da parte dei governi? La Costituzione della Repubblica italiana ne è l'emblema.
Nel tempo presente, la questione del potere si ripropone, ma in termini opposti. Il problema non è infatti più quello di tutelare la democrazia, limitando e controllando il potere dei governi. All'opposto, il problema della democrazia è quello di consolidare e incrementare il potere dei governi, alla ricerca di un nuovo equilibrio politico, tra intensità della domanda che viene dai popoli e capacità di soddisfarla da parte dei governi.” (p. 82)
Qual è l’origine della perdita di potere dei governi, evidente soprattutto in Italia?
“All'origine della crisi ci sono state la «cultura del '68» e di riflesso la «democrazia del '68», con la moltiplicazione e con la sublimazione dei diritti rispetto ai doveri: la democrazia dal basso, la democrazia permanente, la democrazia dei sindacati universali e dei comitati territoriali ne sono state l'effetto. E così che sono state azzerate le leve dell'autorità, ed è così che sono state destrutturate e depotenziate la società e le sue istituzioni. E così che si è chiuso, compiendo un anello perfetto, un intero ciclo storico. Un ciclo che inizia con il tragico, secolare «particolarismo» italiano. Un ciclo che a partire dalla metà dell'Ottocento compie un tornante, passando attraverso il processo di unificazione istituzionale nazionale dell'Italia. Un ciclo che deraglia poi nel fascismo, che conosce quindi un'ultima fase vitale, nei primi due decenni d'oro del dopoguerra, per entrare infine in una fase di involuzione dal '68 a oggi.
L'effetto di questo processo è stato la distruzione del «capitale istituzionale» del Paese. L'acido del '68 non ha infatti eroso solo il «capitale culturale», ma anche quello istituzionale, un tipo di capitale che è sempre stato importante, ma che è divenuto strategico nell'età della competizione globale (Giulio Tremonti, La guerra «civile», in «il Mulino», settembre-ottobre 1996).
“E propriamente per questo, per ricostituire tanto il capitale culturale quanto il capitale istituzionale, sempre più necessari per competere, che la nuova politica deve essere basata su di un insieme articolato di valori.” (pp. 85-86)
Si arriva così alla formula magica:
“Sette parole d'ordine, per salvarsi dalla crisi globale
Le parole chiave che nell'insieme definiscono una politica di questo tipo e perciò una politica opposta alla dittatura «sfascista» del relativismo, sono sette.
Tre parole formano un gruppo unico, le altre stanno separate, in modo da figurare tutte insieme come quattro blocchi concettuali essenziali: valori, famiglia e identità; autorità; ordine; responsabilità; federalismo.” (p. 86)
Queste magiche parole d’ordine potrebbero estendersi anche all’Europa intera se questa decidesse di darsi una struttura politica adeguata, con un Parlamento dotato di poteri legislativi, e soprattutto se recuperasse le proprie radici giudaico cristiane, perché “un continente che parla con una sola voce di economia, ma non di valori spirituali, è un’entità solo nominale” (p. 105)
I valori vanno inculcati anzitutto alle giovani generazioni in maniera, secondo Tremonti, semplice ed efficace.
“I valori definiti possono essere simbolizzati con l'«alzabandiera» nelle scuole. Anche con le tre bandiere: europea, nazionale, regionale. Chi pensa che questo sia ingenuo, o è sciocco o è troppo furbo. Comunque non ha capito che sono proprio le cose semplici e piccole che contano, perché sono le uniche che i popoli capiscono davvero.” (p. 106)
5.
Con questo saggio, nel quale vengono di continuo citati quelli precedenti scritti dall’autore, Tremonti intende evidentemente elevarsi al ruolo di maitre-à-penser. Al di là dell'insopportabile narcisismo che trasuda da ogni pagina (al di sotto del quale è implicita la convinzione che essere intelligenti significa tout court essere in grado di pensare la storia e di capire la realtà del mondo), l’ambizione sembra mal riposta. Se quella che tremonti espone è la cultura della destra che dovrebbe salvare l’Europa e il mondo, posto che gli “altri” accetteranno di rimanere tali o di farsi assimilare (radici cristiane comprese?), c’è da rabbrividire.
E’ evidente che il problema delle radici cristiane è semplicemente un tributo mellifluo alla Chiesa cattolica. Un tributo furbo ma sostanzialmente fondato sull’ignoranza. Attecchendo, infatti, in Occidente la Chiesa cattolica ha obliato le sue radici originarie, che non erano solo comunitaristiche, ma comunistiche, ugualitaristiche e solidaristiche.
La Chiesa è depositaria di un patrimonio di valori invalidato dalla sua storia, che, nei suoi aspetti umanitaristici, il socialismo ha vanamente tentato di riabilitare in un’ottica laica, vale a dire nell’ottica dei doveri/diritti della Società verso l’individuo e dell’individuo verso la Società.
Della fine del “sogno” socialista Tremonti fornisce la seguente analisi:
“La modernità assoluta della globalizzazione avrebbe dovuto portare con sé e decretare il trionfo della «sinistra» che, a partire dall'Ottocento, si è sempre messa proprio sulla linea della modernità, trovando nella modernità e facendo della modernità la sua «cifra» politica essenziale. Non è stato e non è così. E invece proprio con la modernità e nella modernità che la «sinistra» sta perdendo colpi e perdendo quota. E questo perché, esaurita negli anni Novanta la geniale e generosa spinta «socialista» e trovandosi distratta e confusa dalle attività di governo la sinistra «antagonista», la sinistra ha esaurito la sua spinta vitale, tanto sul piano dell'economia, con l'accettazione neofita ed enfatica del mercatismo che è stata ed è tipica della parte finora preponderante della sinistra (la parte «governista»), quanto e soprattutto e decisivamente sul piano del modello sociale.
Perché i vettori della modernità si sono rovesciati?
Perché, dopo quasi due secoli, la sinistra non è più il progresso e il progresso non è più a sinistra?
Perché, per la prima volta nella sua storia, la sinistra non è più proiettata verso il futuro, ma impigliata nel passato?
Perché la sinistra ci si presenta come un albero con le radici rovesciate, come un albero che cresce a rovescio, dall'alto verso il basso?
La risposta a queste domande si trova a sua volta rispondendo a una domanda di fondo: cosa è successo alla sinistra?
Per capirlo è prima necessario identificare le categorie base storicamente e culturalmente proprie della sinistra e poi verificare come queste siano contemporaneamente entrate in crisi proprio con la «modernità», prima evocata e poi spinta dalla globalizzazione, con l'apporto decisivo e paradossalmente suicida proprio della sinistra stessa.
E un'analisi critica che si può fare in alcuni passaggi, sintetici ma molto significativi.
Cominciamo dal linguaggio, perché le fondamenta sono sempre intellettuali e le parole sono segni che hanno sempre una loro propria e tremenda forza espressiva.
Il linguaggio della sinistra è ancora fatto da alcune parole chiave: forza, massa, spinta, equilibrio, reazione.
Per derivazione diretta dalla sua ideologia totalitaria madre, il sistema politico della sinistra, il suo sistematico riferimento mentale, anche dopo il passaggio dal comunismo al socialismo, è ancora concettualizzato dentro una visione meccanicistica e quantitativa della società. La realtà è cambiata, ma la mental imagery e il «meccano» mentale tipici della sinistra sono rimasti fermi; la sinistra cataloga infatti ancora la realtà per classi: classi di interessi, classi di opinioni, classi che sono per definizione quantitative.
Il meccanicismo quantitativo come concettualizzazione della politica, lo scientismo classificatorio e categoriale, funzionavano ancora nel Novecento. Non funzionano più ora. Non hanno più senso e non colgono più il senso della società contemporanea.
Se si pensa alla massa come quantità scalare e dunque come quantità mutabile solo per aggregazione o per sottrazione, non si riesce infatti più a cogliere l'essenza della modernità, la non omogeneità della massa e la velocità che agisce sulla massa creando in continuo nuove masse.
Non è fantascienza politica, è già realtà. Un esempio per tutti: fermo il numero assoluto della massa, internet crea in continuo comunità diverse, senza che per formarle ci sia bisogno di rivoluzioni o di riforme pianificate o determinate dall'alto o da fuori su iniziativa di uffici politici, con la vecchia pretesa di guidare gli eventi del mondo. La «rivoluzione del silicio» conta ormai più di tutte le altre rivoluzioni fatte dalla sinistra nella storia.
Per verificano basta guardare alle mutazioni intervenute nei processi produttivi, basta guardare un personal computer, per capire che la vita non è più massa, non è più collettivo, non è più grandi numeri. Le masse ci sono ancora, ma non sono più il soggetto collettivo attivo che per un secolo ha storicamente incarnato la mistica e l'azione politica: la «ribellione delle masse», la «dittatura delle masse». La moltiplicazione delle comunicazioni e delle decisioni, sempre più individuali e indipendenti, la disuniformità, ha posto in crisi le gerarchie, tanto le gerarchie violente delle «rivoluzioni», quanto le gerarchie benevole delle «riforme».
Il mito politico dell'Arbeiter (la figura insieme mitica ed eroica del «lavoratore») è progressivamente sostituito dal medium del personal computer che, agendo in termini «periferici», destruttura le vecchie organizzazioni economiche, sociali, politiche.
I computer, rompendo l'ordine chiuso degli spazi territoriali, modificano la bilancia dei poteri, a favore delle libertà individuali. Quello che si sta formando, attraverso processi di distruzione e ricostruzione creativa, è in specie un mondo «libertario», basato su ampi spazi fisici e virtuali di libertà. La vecchia struttura sociale era simile a un vecchio main frame computer, disegnato e organizzato, a somiglianza della società e della mentalità da cui veniva e per cui lavorava, dentro uno schema rigido e verticale, geometrico, disegnato dall'alto verso il basso: top down. La nuova struttura sociale è invece simile a internet, anche perché è in parte fatta proprio dalle nuove strutture della comunicazione: è orizzontale e flessibile, anarchica e federale. Questo nuovo habitat non è favorevole per la «sinistra»; lo è invece molto più probabilmente per la «destra».
Il Dna della sinistra è poi costituito da due elementi essenziali e tra di loro legati: il «progresso» e il «collettivo». E un Dna che si sta dissolvendo: il progresso non è più di sinistra, perché non è più collettivo. A partire dall'Ottocento, progresso e collettivo si sono in specie combinati e sublimati in due strutture essenziali, la «fabbrica» e lo «Stato», ma ora non è più così. Se le sorti politiche della fabbrica sono a termine, lo stesso vale per lo Stato storicamente, sistematicamente organizzato dalla sinistra nella forma del big government. La sinistra ha creato lo «Stato provvidenziale», l'Etat providence, e lo Stato provvidenziale ha alimentato la sinistra diventandone l'habitat naturale. È per questo che in Europa la sinistra tende ancora automaticamente a identificare ciò che è «pubblico» con ciò che è «statale»; è per questo che la sinistra ha difficoltà a concepire il pubblico come comunitario, fatto da persone che si uniscono per il bene comune, ma fuori dal patronaggio e dal controllo statale. Lo Stato è ora destinato a fare la fine del dinosauro, macchina politica leviatanica incapace di sopravvivere in un ambiente radicalmente mutato. La nuova «geopolitica» del mondo, infatti, erodendone le basi di potere, erodendone quel dominio territoriale chiuso su cui esercitava il monopolio della forza, mette in crisi le «creature» di questo tipo, troppo grandi per gli affari piccoli, troppo piccole per gli affari grossi; perché i grandi flussi migratori dei consumi, dei capitali e delle persone si sviluppano ormai su scala mondiale.
Non solo: lo Stato nazionale, il container e insieme l'hardware dell'ideologia di sinistra applicata alla società, è in crisi di potere perché è finita l'età del debito e dei deficit pubblici, usati come leva sociale di transfert dall'alto verso il basso. E così che la sinistra ha perso una delle sue ultime basi di forza, l'essenza della sua politica sociale: la spesa pubblica fatta a debito. Una magia che non può essere replicata, se non in forma politicamente suicida, con l'aumento della spesa pubblica finanziato con la crescita delle tasse.
E poi in crisi un'altra idea base della sinistra, l'idea della «ragione» e della «scienza» come vettori esclusivi di una modernità positiva. La ragione non fornisce più spiegazioni totalizzanti, spiegazioni che il corso della storia ci ha finora presentato in sequenza nella forma di progressive e indiscutibili illuminazioni scientifiche. Lo sviluppo scientifico non è più tutto positivo e non è più tutto lineare. Per la prima volta nella storia ciò che è possibile tecnicamente non è automaticamente lecito dal punto di vista morale, a partire dalla «bioetica», che oggi è la metafora più forte della modernità. Una modernità che non è più solo automaticamente positiva, che può essere alternativamente positiva o negativa. E l'uomo che, sfidando paure ancestrali, avanza nei domini insondabili della sua stessa esistenza, che si cala nell'antro della vita e della morte e ne risale, angelo o lucifero, uomo sapiens o homunculus, mito o incubo.
Nel tempo presente la «cifra» delle mutazioni in atto è drammaticamente intensa. Siamo in una fase della storia in cui si stanno manifestando vertiginose accelerazioni; nell'ultimo mezzo secolo il progresso è stato infatti «orizzontale» e lineare sulle cose, ma «verticale» sull'uomo. Le cose sono sempre le stesse: auto, treni, aerei, televisori, lavatrici. Sono migliorate in senso qualitativo e sono sempre più diffuse in senso quantitativo, ma sono rimaste le stesse cose. Sull'uomo, invece, il progresso si è sviluppato in modo verticale: il salto scientifico sta passando dalla pura analisi «ontologica» - cosa è un corpo umano, cosa c'è «dentro» un corpo umano - all'azione «sui» corpi umani. Non ci limitiamo più alla fase gnoseologica, a conoscere la vita, ma agiamo sulla vita, tentando di crearla o di ricrearla. Certo, anche la bomba atomica agiva sulla vita, ma in negativo: la distruggeva; poneva dilemmi morali drammatici, ma diversi da quelli che si presentano ora. Un conto è infatti distruggere la vita, un conto è crearla. Distruggere la vita è «drammatico», ma crearla è «diverso». E ancora più drammatico. Si sta in specie avverando la profezia di Malthus, la profezia dell'uomo che non dipende da un'origine, ma che è origine esso stesso: la bestiaccia della favola era già la profezia del postumano, la fabbrica di nuovi corpi o di nuovi ectoplasmi. Sono dilemmi che non si pongono solo a «destra», si pongono anche a «sinistra». Ma è con questo e proprio per questo che la sinistra ha perso un'altra delle sue basi storiche di sicurezza: la «assoluta» sicurezza nella scienza come matrice infallibile di progresso.
E in crisi ed è ragione di crisi, ancora, l'insufficienza dell'analisi che la sinistra fa sul lavoro e sulla società. Il cambiamento nella struttura del lavoro non è stato interno, ma esterno, non è venuto da dentro, ma da fuori: è venuto dalla globalizzazione.
Politici cinici o incapaci - ma il cumulo delle cariche non è vietato - girano invece ancora per tutta l'Europa pronti a negano. Politici secondo cui la sinistra avrebbe la bacchetta magica, perché basterebbe agire dall'interno, basterebbe cambiare un governo di destra o cambiare una legge di destra, per abolire il «precariato», per riportare il lavoro, per riportare la speranza. Questa non è la bacchetta magica, è la bacchetta sbagliata. Nella migliore delle ipotesi è come vedere nel termometro la causa della febbre. Le cause del male non sono infatti interne ma esterne, sono nella globalizzazione e nel mercatismo. Però questo non lo si vuole vedere, di questo non si osa parlare, contro questo non si osa lottare, se non troppo confusamente e solo da parte della sinistra antagonista.
Cambiare o abrogare una legge nazionale in materia di lavoro può far guadagnare qualche voto preso con l'inganno, ma è solo propaganda e non porta lontano; anzi, probabilmente porta indietro. Perché in questo modo non si agisce sulle cause, ma solo sugli effetti; si agisce sulla forma e non sulla sostanza. Il lavoro non può essere decretato o creato per legge. Non è necessario leggere Marx (anche se a volte farlo aiuta) per sapere che legge e realtà, sovrastruttura e struttura, si allineano e non si separano. Non è la legge che fa la realtà, è la realtà che fa la legge. Non si può pretendere o sperare di curare un male grave con l'aspirina: farlo, serve solo a chi produce e a chi vende aspirina politica. Non è tanto o solo questione di «ammortizzatori sociali». Come passare in modo flessibile e indolore - per dirlo in due parole, come passare «all'americana» - da un lavoro precario a un altro lavoro precario.
Tutto questo è necessario, ma non è sufficiente. Il precariato fisso, al posto del lavoro fisso, può infatti andare bene in società molto mobili, con grandi e continue migrazioni interne, da un luogo all'altro, da un lavoro all'altro. Non va invece bene in società - come sono le società europee - che per storia e per tradizione si sono formate e fermate su luoghi geografici e sociali fissi.
Mobilità geografica ed evoluzionismo sociale spinto dalla "competizione" possono infatti andare bene (e vanno bene: anche in Europa, ma solo per la parte più forte e dinamica della popolazione, non per le masse che stanno alla base delle nostre società.
Non solo. La questione del lavoro è a sua volta centrale all'interno di una più generale questione sociale. Che tipo di società vogliamo? Una società destrutturata e destabilizzata che smorza la voglia e la speranza di avere una famiglia e dei bambini, e poi una casa e infine una pensione o una società strutturata e stabilizzata sul lavoro e sulla famiglia e - per questa via - su valori che non siano dominati dal continuo ricatto dell'economia competitiva del precariato? Sul mercatismo, la parte maggiore della sinistra - la parte governista - tace e dunque acconsente.
Tutto questo ci porta al punto di crisi centrale e definitivo, che è precisamente il punto di partenza, indicato all'inizio. Il punto del rapporto con la globalizzazione. Come organizzare e guidare le nostre società in questa nuova fase storica? La base fondamentale della sinistra è culturalmente, storicamente, sistematicamente e inevitabilmente, pluralista ed eterogenea, multiculturale, cosmopolita, in definitiva «ermafrodita». E così che, nella forma di un nuovo futurismo, quasi ignorando le identità e la storia, quasi confondendo il passato e il presente con il futuro, la sinistra va incontro alla società globale come anticipandone il movimento.
Come soffrendo di una specie di bulimia culturale e sociale, la sinistra considera infatti il «nuovo» bello solo perché nuovo, l'esterno «buono» solo perché esterno, l'immigrazione come la soluzione e non come un problema, le radici non come una base, ma come un freno. nell'insieme così che la sinistra cerca di internalizzare la globalizzazione, sforzandosi di mettere il vino nuovo nelle botti vecchie, cercando di fare botti nuove per il vino vecchio. E così che guardando al futuro senza guardare al passato, costruendo una società più disintegrata che integrata, la sinistra non produce sicurezza, ma insicurezza. Ed è così che in definitiva non prende, ma all'opposto perde, consenso popolare, uscendo dal cuore dei popoli, non interpretandone più l'anima profonda. E così che la sinistra resta in sintonia con la «cultura» dei vertici, ma non più con l'«anima» della base, un'anima che non può neppure essere catturata con un'esca di tipo nuovo: il mito inedito, militante e nevrotico del «consumatore politicizzato», solo un altro totem, alzato nel vecchio cerchio magico del «divino mercato».
E dunque così, mancando del consenso popolare di base, che la sinistra non può più pretendere di guidare il presente e il futuro. E non basta neppure, per operarne il salvataggio, la tesi secondo cui il liberismo è di sinistra (Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, 2007). Un esercizio finale di salvataggio, questo, un piccolo capolavoro, basato però su di una falsa equiparazione: il liberismo è bene - la sinistra è bene - il liberismo è di sinistra.
La sequenza non funziona, perché ne è falso un termine. La sinistra, come il bene, il sogno, il contenitore pensato nell'Ottocento e nel Novecento, a sua volta non funziona più: come la realtà non si riduce nel mercatismo, così la vita e il futuro non proseguono a sinistra.
Tutto questo vuoto politico, culturale, spirituale della sinistra non può neppure essere colmato dal «pensiero debole», dal «populismo leggero», dal «relativismo», dal «sincretismo».
In questo modo la «sinistra post-moderna» si limita infatti a frullare, a confondere e infine a sublimare materiali eterogenei, nell'illusione di prendere tutto, usare tutto, diventare tutto. Come in una versione politica del Truman Show, lo show in cui tutto è falso.
In realtà, ciò che diventa vero per la sinistra post-moderna è solo una foresta di contraddizioni. Va di poco più avanti, rispetto al Truman Show, solo perché alla tecnica scenica aggiunge una tecnica retorica, identificando e combinando relativamente verità e utilità.
Non è vero ciò che è vero. Non è falso ciò che è falso. E vero solo ciò che è utile per la propaganda.
E così che ora la sinistra attacca la democrazia che non decide. La democrazia che non decide, per esempio, sui trafori o sulla spazzatura. Bene. Ma questo equivale solo a vedere gli effetti e non le cause dei fenomeni sociali che si denunciano.
Le cause del blocco e dello stallo politico sono infatti proprio nella democrazia dal basso, nella democrazia permanente, nella democrazia dei sindacati universali e dei comitati territoriali, in sintesi nella «democrazia del '68». La sinistra tratta tutto, ma non questo. Per una ragione molto semplice: perché non può. Perché la matrice, la madre di questo tipo di democrazia, della democrazia in cui gli aggettivi e i predicati cancellano il sostantivo (democrazia) è proprio la «sinistra».
Nella sinistra post-moderna c'è in specie una sola variante, rispetto alla sinistra storica, ed è una variante leggermente degenerativa.
La vecchia sinistra parlava di bisogni. La nuova supera questa frontiera, passando dai bisogni ai desideri; in questa nuova prospettiva politica, non è necessario garantire qualcosa, è sufficiente promettere tutto. La sinistra postmoderna prende in questi termini la forma del riformismo gratuito: il mio impegno è il vostro desiderio. L'ope legis al posto del merito.
E infatti proprio con il '68 che la sinistra ha «spogliato gli altari». E, come si dice, se non credi più a niente, finisci per credere a qualsiasi cosa. E così che la mediocrità diventa maestà: la maestà della mediocrità.
E il '68 aggiornato. Ed è proprio dal '68 in poi che sono invece scomparse dal vocabolario della sinistra, come se fossero state sbianchettate, le parole autorità e responsabilità, morale e dovere. Perché l'essenza del '68 è precisamente nell'assenza di valori, nella decivilizzazione prodotta dal relativismo.
Per tutte queste ragioni, per interpretare e governare il futuro non si può guardare «a sinistra» e non si può candidare «la sinistra». Dobbiamo guardare dall'altra parte, che tuttavia non è più e nemmeno la vecchia «destra», ma qualcosa di nuovo.” (pp. 64 - 73)
Purtroppo per Tremonti, il nuovo che egli illustra ha il sapore (stantio) di una minestra riscaldata più volte. Si tratterebbe di infondere valori spirituali, non economicistici in un sistema che Marx ha anticipato come eversore di ogni valore. Le citazioni sono d’obbligo:
"La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i vincoli feudali che legavano l'uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo “pagamento in contanti”. Ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio privo di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, diretto e avido al posto dello sfruttamento mascherato di illusioni religiose e politiche” (Manifesto del Partito Comunista, pp. 57-58).
“La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali... Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento esterno contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti. Il bisogno di un smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi... All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, un’interdipendenza universale tra le nazioni. I prodotti intellettuali delle nazioni divengono bene comune...
Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con la quale essa spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe a introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza” (op. ci,., pp. 59 - 61).
Forse per capire qualcosa della globalizzazione, occorre semplicemente tornare a leggere un testo scritto nel 1848.