WILL HUTTON

EUROPA VS USA
Fazi Editore, Roma 2003

1.

Per quanto voluminoso (360 fitte pagine) e inesorabilmente prolisso, sarebbe difficile sottovalutare l'importanza politica del libro di Hutton. Il sottotitolo chiarisce sinteticamente l'intento dell'autore; dimostrare, contro l'opinione corrente e il senso comune, che la società europea, giudicata in crisi e bisognosa di riforme strutturali, è nel complesso più vicina a realizzare l'auspicato equilibrio tra efficienza economica e equità sociale rispetto a quella statunitense, che è letteralmente alla deriva.

Nell'introduzione l'autore specifica opportunamente che la sua critica al sistema sociopolitico e economico statunitense non muove da un pregiudizio antiamericano, ma tende solo a sottolineare le conseguenze di un neoconservatorismo selvaggiamente liberista che ha avuto malauguratamente la meglio, negli ultimi anni, sulla componente liberal della società statunitense.

Il confronto tra Europa e USA riguarda due sistemi che hanno in comune alcuni valori di riferimento, ma la cui storia implica nette differenze nell'interpretazione e nella realizzazione di tali valori: "Ci troviamo di fronte a due giganteschi blocchi di potere che incarnano due diverse visioni di come l'economia di mercato e la società debbano essere governate, e a due differenti concezioni che riguardano il modo in cui i grandi valori globali - la pace, il commercio, gli aiuti, la sanità, l'ambiente e la sicurezza -possano essere conquistati e preservati." (p.23)

Tali differenze, che risalgono alla storia dei due sistemi, si sono incrementate nel corso degli ultimi venti anni in conseguenza del viraggio degli Stati Uniti verso una forma di conservatorismo che, sotto la presidenza Bush, ha raggiunto l'acme, ponendosi come un modello vincente al quale l'Europa avrebbe dovuto accodarsi. In conseguenza di questo, i valori comuni a tutto l'Occidente - "la certezza del diritto, la fedeltà alla democrazia, la tolleranza religiosa, l'idea che il mercato e il profitto siano le migliori precondizioni per un'economia forte" (p. 37) - rimangono saldi, ma non riescono ormai a mascherare "sensibili differenze fra la maggioranza delle posizioni europee e quelle dell'America conservatrice in merito a tre gruppi fondamentali di valori: gli obblighi della proprietà nei confronti della società; la necessità di un contratto sociale; la centralità dell'idea di collettività e di governo ai fini della creazione di una comunità armoniosa." (p. 37)

Tra il modello europeo e quello statunitense è chiaramente in atto un conflitto, che l'autore ritiene debba concludersi a favore del primo, ma che, nel corso degli ultimi anni, è sembrato volgere a favore del secondo, che si è posto come egemone facendo breccia anche in molti politici europei. Hutton ritiene che questa sia la conseguenza di una propaganda estremamente aggressiva portata avanti dalla destra conservatrice statunitense, che però mistifica i dati reali.

La demistificazione dell'ideologia neoconservatrice statunitense è, forse, l'aspetto più interessante del libro. Tale ideologia trionfalistica punta sui risultati conseguiti negli ultimi anni: un tasso di crescita elevato, un basso tasso di disoccupazione, un'inflazione contenuta e sotto controllo. Questi eccellenti risultati vengono univocamente attribuiti a una politica economica che riconosce pienamente i diritti della proprietà, alleggerisce il carico fiscale, riduce le forme di assistenzialismo sociale, flessibilizza il lavoro e contiene il potere dei sindacati. Secondo Hutton, "questi risultati hanno molto meno a che fare con lo zelo imprenditoriale, con la spregiudicatezza capitalistica, con la flessibilità del mercato del lavoro e con il ricorso ad una tecnologia per il resto del mondo inafferrabile di quanto la propaganda dei cortigiani americani e degli euroscettici d'oltremanica vorrebbero farci credere. Si è trattato piuttosto di un boom dei consumi costruito su di uno spropositato accumulo di credito e su una gigantesca iniezione di capitali esteri, che sono andati a finanziare il conseguente deficit commerciale. Il tutto giustificato da un incremento vertiginoso del valore corrente delle azioni, che ha fatto crescere la fiducia dei consumatori e ha attirato gli investitori esteri che sono corsi ad accaparrarsi una fetta della torta." (p. 41)

In realtà l'America è ricca, ma non è solida: "l'economia americana si regge sulla fiducia. Se uno dei suoi due sostenitori - gli investitori stranieri o i consumatori interni - dovesse far mancare il suo supporto, l'economia ne risentirebbe per diversi anni in attesa che la situazione torni in equilibrio." (p. 48) Essa non è neppure efficiente come si crede: solo "poiché l'industria, sempre meno competitiva, non è in grado di rispondere alla domanda dei consumatori, gli Stati Uniti importano quantità gigantesche di beni e servizi dall'estero" (p. 47), con un conseguente disavanzo commerciale enorme. Essa, infine, non è minimamente equa: nel periodo d'oro degli anni '90, le disuguaglianze sociali si sono incrementate a dismisura, il 20% della popolazione vive in povertà, i lavoratori sono sempre più precari. In breve, l'America "per quanto ricca e intraprendente, si rivela economicamente instabile, profondamente iniqua e molto meno produttiva di quanto le sue immense risorse consentirebbero" (p. 52); "è un paese ordinato nel quale i cittadini si sparano regolarmente addosso e in cui il fanatismo religioso fa il paio con quello consumistico. E' una terra d'individualisti che si preoccupano esclusivamente della propria felicità personale perché la collettività è corrotta e svuotata di ogni significato. E' un paese arriuvato al limite, con un'economia in bilico." (p. 53)

A questi dati, già inquietanti di per sé, ne aggiungerei volentieri un altro che Hutton omette. La ricerca ossessiva della felicità personale dei cittadini statunitensi sembra compromessa dalla diffusione di disturbi psichici, che ormai investono non meno del 35% della popolazione.

2.

Delineata nel primo capitolo, la critica al liberismo selvaggio della destra neoconservatrice americana viene approfondito nei capitoli centrali. Pur non essendo antiamericana, tale critica è radicale e corrosiva. Non si tratta però di una critica ideologica. Non è in gioco il capitalismo in sé e per sé, bensì una delle sue possibili configurazioni: quella per l'appunto sostenuta e radicalizzata dal neoconservatorismo americano. Tale configurazione affonda le sue radici nella storia degli Stati Uniti che, essendosi originata sulla base di una ribellione dei coloni americani nei confronti della madre-patria, l'Inghilterra, che intendeva subordinare la proprietà privata ai diritti della Corona, è giunta quasi inesorabilmente a identificare il diritto di proprietà individuale come assoluto delegando allo Stato la funzione di tutelarlo. A questo livello si pone la differenza radicale tra la concezione della proprietà statunitense e quella europea, maturata, a partire dal Medioevo cristiano, sulla base dell'idea "che la proprietà privata sia affidata alle cure della collettività e delegata agli individui solo a condizione che questi accettino una serie di obblighi sociali reciproci." (p. 76)

Tale differenza si fonda anche sulla Costituzione americana, il cui Quinto emendamento, introdotto tre anni dopo la sua promulgazione "estese la tutela costituzionale ai diritti di proprietà, diffidando il governo dal privare ogni individuo "della vita, della libertà e della proprietà senza un regolare processo; né la proprietà sarà alienata per uso pubblico senza un giusto compenso". Non vi era alcun accenno alla norma che la proprietà imponesse dei doveri reciproci." (p. 73) L'estensione di questa tutela dalle colonie agricole originarie alle aziende rappresenta il fondamento del neoconservatorismo americano: "Il buon gioco dei conservatori nel promuovere il concetto del profitto degli azionisti, l'approccio minimalista alla corporate governance, l'opposizione alla tassa di successione e a quella sui capital gains, l'indifferenza verso la disuguaglianza crescente, l'insofferenza per le organizzazioni dei lavoratori, le rsistenze alla pianificazione edilizia e persino alla riforma del finanziamento ai partiti si basano non solo sul presupposto che il diritto di proprietà è intoccabile, ma anche sull'avallo costituzionale di questo sistema di valori." (p. 76)

Analizzato sotto il profilo storico, dunque, il neoconservatorismo statunitense, anche nell'espressione radicale che ha assunto sotto la Presidenza Bush, non è un'anomalia. Esso esprime più della corrente liberal, influenzata dalla tradizione europea, la cultura individualista americana. Il declino dei liberal, avviatosi verso la fine degli anni sessanta sulla base di una crisi economica, sociale e militare, è stato accentuato dalla rinascita del pensiero conservatore, che è finito con l'avallare prima, filosoficamente, l'individualismo radicale in opposizione allo Stato, e poi, in gran parte per merito della scuola di Chicago raccolta intorno a Milton Friedman, un modello di ultraliberismo. Alla crescita del pensiero conservatore non è corrisposta un'adeguata reazione da parte dei liberal: "Visto l'imponente sforzo dei conservatori di rendere le loro teorie coerenti dal punto di vista intellettuale, l'economia liberista, una volta radicatasi, poteva essere messa in discussione soltanto attraverso un attacco sistematico alle sue fondamenta filosofiche e politiche. E' qui che i liberal hanno fallito." (p. 110) Questo fallimento ha prodotto l'affermazione egemone delle posizioni che hanno preso "il nome di "consenso di Washington" (pareggio di bilancio, tagli fiscali, contenimento della spesa, deregulation, legislazione antisindacati" (p. 117)

Questa ricetta, imposta al mondo attraverso la Banca Mondiale e l'FMI, come unica capace di produrre la crescita economica, e vallata come matrice del miracolo americano, in realtà ha prodotto disastri sociali ovunque essa è stata adottata. Si può pensare che essa funzioni solo all'interno del sistema statunitense in nome di una lunga tradizione culturale incentrata sull'enfatizzazione dei diritti della proprietà privata e dell'azienda, che, mirando unicamente a massimizzare i guadagni finanziari di chi la possiede, rappresenta l'espressione concreta di quei diritti.

In realtà, quella ricetta non funziona neppure negli Stati Uniti. Il motivo è che, inseguendo ciecamente la logica della massimizzazione dei guadagni, "l'impresa americana non cerca più di innovare o di costruire e coltivare nel tempo le proprie risorse per generare profitti: l'obiettivo è creare valore attraverso l'ingegneria finanziaria" (p. 141), vale a dire attraverso giochi e manovre speculative al limite dell'azzardo. Questo è a tal punto vero che "le economia in ricerca, investimenti o in forza lavoro vengono immediatamente premiate sotto forma di maggiori profitti a breve termine e di un più alto prezzo del titolo." (p. 144)

Le conseguenza dell'applicazione radicale della ricetta liberista sono molteplici.

La più evidente è la polarizzazione della società statunitense: "La diseguaglianza sta producendo una stratificazione sociale ancora più pronunciata. Al vertice c'è un 20% di privilegiati: una classe istruita e facoltosa, il cui livello di ricchezza e di reddito cresce stabilmente in virtù di un controllo capillare delle istituzioni che garantiscono la mobilità verso l'alto, vale a dire le università di élite e le scuole di specializzazione in legge e in business. Poi troviamo il ceto medio, quel 60% di americani che ha goduto di una fetta sorprendentemente piccola del boom di Borsa, ha visto ristagnare il proprio reddito familiare e rischia sempre di più di perdere il lavoro con scarse garanzie per il futuro. Infine c'è un 20% di poveri, cresciuti in un sistema scolastico indifferente, intrappolati in lavori poco qualificati e male retribuiti, virtualmente interdetti da ogni possibilità di accesso all'assicurazione sanitaria e condannati dalle circostanze a restare in povertà più che in qualunque altro paese industrializzato del mondo." (p. 159)

Non si è ancora giunti, secondo Hutton, ad un sistema plutocratico, ma molti indizi sembrano suggerire che esso sia alle porte. All'interno del 20% dei privilegiati si va definendo infatti una superélite, che frequenta ambienti esclusivi (a partire dalle università private, inaccessibili ai più), si abbandona in misura crescente a spese in beni di lusso e vive in comunità residenziali recintate.

La flessibilità lavorativa ha creato un boom del lavoro interinale e del lavoro part-time, entrambi precari, senza garanzie e senza coperture previdenziali, per cui "Se per la maggioranza degli americani la vita lavorativa è dura, per circa un quinto di loro, il cui reddito medio equivale quasi alla metà del reddito mediano (ovvero la soglia di povertà per l'Europa), la situazione si rivela sempre più disperata." (p. 169)

In più, "il tasso di disoccupazione fra i lavoratori scarsamente qualificati in America è 4.5 volte maggiore di quello dei lavoratori con istruzione universitaria, il rapporto più alto tra tutti i paesi industrializzati. Il mercato del lavoro americano, con la sua tanto ostentata flessibilità, si dimostra il meno efficiente nel dare lavoro alla manodopera meno qualificata, e questo malgrado una politica sociale punitiva nei confronti dei disoccupati." (p. 175)

Anche per le classi medie, la situazione lavorativa non è immune da problemi: "Persino tra coloro che hanno goduto dei benefici della "guerra dei talenti" di fine anni Novanta, quando la domanda superava l'offerta, stanno scoprendo che nei tempi difficile le insicurezze aumentano. Chi lavora per le imprese teme il downsizing e un nuovo giro di ridimensionamenti da cui nessuno e a nessun livello è al riparo. Tutti sono sotto pressione, a rischio e isolati in un'economia dove i contratti precari la fanno da padrone, Gli orari lavorativi continuano ad allungarsi." (p. 175)

Il crollo della spesa pubblica, conseguenza immediata dei tagli fiscali, ha prodotto l'arretramento dei servizi sociali, vale a dire scuola, sanità, previdenza, trasporti.

La valutazione complessiva del sistema statunitense di Hutton è netta e severa: "La società americana è diventata più iniqua, la sua infrastruttura pubblica, nel senso più ampio del termine, si sta sgretolando; ora che l'economia è ritornata con i piedi per terra, tra l'altro, la sua crescita economica appare molto più modesta. I grandi risultati economici dell'America negli anni Novanta sono stati costruiti sul montare di enormi e insostenibili disavanzi e su un boom azionario il cui sgonfiarsi sta già producendo effetti depressivi sull'economia statunitense." (p. 183) Questo giudizio diventa ancora più aspro nelle ultime pagine del libro: l'America "si proclama la terra delle opportunità mentre l linfa della sua mobilità sociale si prosciuga, consolidando sempre più un'aristocrazia della ricchezza che si autoperpetua e costringendo i poveri a condizioni di miseria impensabili in Europa. Dice di essere l'economia più dinamica della terra, ma gli altri paesi la superno in produttività. E' convinta che la sua visione del capitalismo, ottusamente concentrata sulla flessibilità e sugli interessi degli azionisti, sia la panacea che ha permesso agli americani di diventare ricchi, ma la realtà è ben più complessa e sottile. Si vanta della sua vocazione democratica dall'interno di un sistema politico le cui cariche elettive e le cariche politiche sono ogni giorno di più oggetto di compravendita. Agisce in un modo sempre più unilaterale in un pianeta nel quale l'interdipendenza fra paesi non è mai stata così evidente e preziosa. L'America conservatrice è una minaccia." (p. 342)

3.

Cionondimeno gli assiomi conservatori che integrano il modello del liberismo statunitense (libertà, flessibilità, interesse e impresa) sono divenuti "il nuovo senso comune internazionale. Essi fanno da sostegno individuale alla globalizzazione, in particolare alla modalità in cui viene portata avanti e giustificata: essenzialmente come un'estensione al mondo dei principi che governano gli Stati Uniti." (p. 184) La globalizzazione, in realtà, "è stata politicamente modellata dagli Stati Uniti su tre semplici principi guida secondo una strategia da hoc prestabilita. In primo luogo, gli Stati Uniti vogliono esercitare il loro potere in maniera unilaterale, senza vedere la propria autonomia costretta dai vincoli delle alleanze e dei trattati internazionali. In secondo luogo intendono promuovere in modo aggressivo e unilaterale gli interessi di quei settori e di quelle aziende che, per la loro posizione dominante sul mercato o per vantaggio tecnologico, traggono maggior vantaggio dalla globalizzazione, in particolare i servizi finanziari, l'ICT e, ultimamente, le industrie che sfruttano la proprietà intellettuale. Infine, gli Stati Uniti guardano istintivamente a soluzioni e ricette economiche di stampo liberista, sia per una convinzione intellettuale e ideologica, sia perché sul lungo periodo è probabile che queste misure favoriscano gli interessi americani." (p. 188)

La globalizzazione si sta configurando essenzialmente come un'americanizzazione del mondo. Se il liberismo selvaggio produce problemi anche all'interno della società statunitense, esso ne produce di maggiori a livello internazionale, non da ultimo il rafforzarsi di un fronte antioccidentale che trova nel terrorismo islamico la sua espressione più drammatica.

Tenendo conto del significato potenzialmente distruttivo dell'ideologia neoconservatrice americana sui valori essenziali della civiltà occidentale, Hutton è severissimo nei confronti delle forze politiche europee che, a partire dalla Gran Bretagna, si sono accodate al modello statunitense accedendo alla critica conservatrice per cui la società europea ha bisogno di profonde riforme strutturali per stare al passo con la globalizzazione. L'Europa funziona è il titolo dell'ottavo capitolo, e ciò perché, nonostante il modello economico e sociale europeo sia "messo sotto costante pressione sia da parte dei mercati dei capitali che dalla propaganda conservatrice, senza contare la crescente attenzione di alcune élite imprenditoriali e finanziarie europee per lo scintillante mondo del capitalismo americano" (p. 239), "il concetto di contratto sociale resta al cuore dell'atteggiamento europeo verso le politiche dell'occupazione e la natura del welfare state. Se è innegabile che oggi l'Europa è più attenta a non danneggiare gli interessi degli azionisti all'interno di un mercato dei capitali globalizzato, è pure vero che le imprese europee crescano ancora di conservare l'idea che gli interessi e la capacità dell'azienda nel suo complesso vengano prima di tutto, e che gli azionisti non debbano diventare un gruppo iperprivilegiato." (p. 239)

Nella lunga marcia verso un Europa politicamente e socialmente unita, un particolare rilievo assume la carta dei diritti fondamentali redatta nel corso del summit di Nizza nel 2000, che definisce l'ossatura dei valori comuni e dei diritti minimi europei: "la carta identifica nel contratto sociale una componente essenziale del sistema di valori dell'Europa e elenca un gruppo di diritti (all'istruzione, alla salute, alla rappresentanza sindacale, a condizioni di lavoro accettabili, all'assistenza e ai diritti sociali) che tutti gli europei hanno in comune. La carta, inoltre, esprime il distinto approccio europeo alla proprietà, riconoscendo il diritto alla proprietà privata ma specificando che essa va regolamentato nella misura in cui ciò si rende necessario per ragioni di interesse pubblico." (p. 301)

Posto che tra Europa e Stati Uniti si dà un'indubbia affinità legata ad un quadro di riferimento comune, il diverso modo di concepire la proprietà privata, il rapporto tra individuo e società e il ruolo dello stato, esasperato dalla deriva conservatrice liberista, configura due modelli nettamente differenziati. L'egemonia conseguita negli ultimi anni dal modello statunitense non si fonda su dati di realtà, bensì sulla propaganda ideologica della destra conservatrice e sull'uso spregiudicato di una potenza economica, politica e militare senza pari. A questa arroganza, che rischia di trascinare il mondo verso la catastrofe, l'Europa deve contrapporre la consapevolezza che il suo modello, fondato sul contratto sociale, è migliore, più efficiente, più equo e più umano. Per quanto bisognoso di riforme, il capitalismo europeo è l'unico che può proporsi come modello al resto del mondo e insegnare qualcosa anche agli Stati Uniti.

4.

La sintesi di un libro di 360 pagine non può pretendere di restituire la ricchezza dei dati e delle analisi storiche, economiche, politiche e sociologiche che in esso sono profuse. L'essenziale che ho riportato consente però alcune considerazioni critiche.

La denuncia del liberismo selvaggio promosso dalla destra conservatrice statunitense non ha mai raggiunto (che io sappia) la profondità e la severità del libro di Hutton. L'illustrazione delle matrici storiche dell'ideologia conservatrice, che affondano le loro radici nella religione e nella cultura individualistica dei pionieri, nell'essersi essi cimentati con un territorio vergine da appropriare (per quanto espropriando i legittimi occupanti, gli Indiani), nella Costituzione statunitense e in una concezione dello stato che misconosce come suo fondamento un contratto sociale è senz'altro originale e suggestiva. Essa serve a capire che il neoconservatorismo americano non è già un'anomalia storica, bensì l'espressione di una delle due anime della civiltà statunitense: quella meno influenzata dai valori illuministici, e più protervamente incentrata sul conflitto tra diritti di proprietà e stato.

Non meno efficace e suggestiva è la ricostruzione storica del modello capitalistico europeo, vincolato alle originarie matrici comunitaristiche cristiane della civiltà europea e influenzato, oltre che dalla minaccia del comunismo, dalla pressione dei partiti socialisti e da un liberalesimo illuminato. Hutton, forse, enfatizza il ruolo della dottrina sociale del cristianesimo e non valorizza adeguatamente la pressione operata dalle masse popolari, organizzate politicamente e sindacalmente, sull'evoluzione degli stati europei. E' questa pressione di fatto ad avere prodotto lo stato sociale e non il cristianesimo che, tra l'altro, in Europa ha una forte componente protestante, che, giusta la lezione di Weber, ha un orientamento spiccatamente individualistico.

L'analisi che Hutton fa dei motivi ideologici, economici, culturali e politici che, a partire dagli anni '70, hanno contrassegnato l'ascesa del liberismo selvaggio e della destra conservatrice fino al conseguimento di un'egemonia che sembra incontrastabile è, nel complesso fondata ma difetta di un elemento essenziale. Nel suo intento di definire l'incidenza dei fattori culturali e ideologici che hanno promosso quell'ascesa, Hutton tende a minimizzare i fattori economici inerenti lo sviluppo del capitalismo. La crisi del welfare state, originatasi prima negli Stati Uniti che in Europa (successione che sembra far pensare ad un contagio), riconosce numerosi fattori. Non ultimo tra questi è la necessità, intrinseca, del capitale di svincolarsi dal controllo assicurato dagli stati nazionali, laddove la concorrenza per un verso. il fisco per un altro e le richieste salariali per un altro ancora riducono i margini di profitto, per cimentarsi sul piano della globalizzazione. Se si valorizza, come fanno i suoi fautori, l'aspetto concorrenziale della globalizzazione che, sulla carta, dovrebbe produrre la regolazione dei prezzi a livello mondiale, si va fuori strada. La globalizzazione, infatti, serve anzitutto ai capitali (in larga misura occidentali e, in particolare, statunitensi) a ricreare altrove, in virtù del basso costo della manodopera e dell'inefficienza dei sindacati, le condizioni produttive che hanno caratterizzato la produzione occidentale dagli esordi alla metà del secolo scorso. Nella misura in cui s'investono sul piano della produzione, i capitali non rinunciano, insomma, ad un margine di profitto sempre più difficile da raggiungere in Occidente (Stati Uniti compresi).

Il problema è che i capitali, negli ultimi venti anni, in virtù del venire meno dei controlli nazionali che li ha liberalizzati, si sono rivolti sempre più insistentemente verso un gioco speculativo che comporta la loro valorizzazione finanziaria senza passare per il ciclo della produzione. Per comprendere questo aspetto, il riferimento all'etica statunitense del duro lavoro che assegna all'individuo la piena proprietà sul suo prodotto, e rifiuta di riconoscere il diritto della comunità attraverso lo stato, è evidentemente insignificante. Anche il riferimento all'avidità di guadagno, che ha caratterizzato tutti gli anni Novanta, non spiega il fenomeno. Essa, infatti, in tanto si è realizzata in quanto ha potuto far leva su fattori reali, vale dire la tendenza intrinseca al capitale allo sviluppo illimitato. Non potendosi più esprimere pienamente questa tendenza sul piano produttivo, essa non poteva imboccare che la via della valorizzazione del denaro, preconizzata da Marx.

Quest'aspetto è importante non solo perché ha investito anche l'Europa, ma soprattutto perché induce qualche dubbio sulla possibilità, che Hutton dà come scontata, che l'Europa possa riassumere, con gli Stati Uniti finalmente affrancati dalla destra neoconservatrice, il controllo sul flusso dei capitali.

In almeno due passi del libro questa preoccupazione traspare: "Il punto non è unicamente che i mercati finanziari hanno raggiunto un peso spropositato, quanto il fatto che abbiano dato vita a una loro ideologia che non è soggetta a scrutinio, dibattito o ad alcuna altra forma di responsabilità. Tutto ciò dovrebbe far parte della sfera pubblica, ma in realtà non è così" (p. 304); "Ciascun paese europeo ha dovuto affrontare il dilemma di come gestire la propria politica economica in un contesto in cui colossali flussi di capitali sono liberi di spostarsi dentro e fuori dei propri confini, influenzando non solo i cambi e i tassi d'interesse, ma le stesse politiche di bilancio. La gestione mirata della domanda è uno degli strumenti fondamentali di politica economica di cui un paese dispone, ed è stato un fattore chiave della prosperità economica americana nell'ultimo decennio. L'amara realtà, tuttavia, è che in un'epoca di cambi flessibili nessun singolo paese europeo ha la capacità di gestire autonomamente la domanda." (p. 320)

Hutton ritiene che l'Europa unita possa farcela. Si tratta però di una flebile speranza, che ha qualcosa di utopistico, visto che anche i capitali europei hanno imboccato progressivamente la via della valorizzazione finanziaria.

Il primato dei capitali svincolati dai controlli e fluttuanti su scala planetaria sui poteri politici nazionali e internazionali è l'aspetto più specifico della globalizzazione così com'essa si è realizzata sinora. Ciò è avvenuto senz'altro sull'onda del liberismo selvaggio propagandato dalla destra conservatrice americana. C'è da chiedersi però se si dia, come ritiene Hutton e i riformisti europei, una globalizzazione dal volto umano e, se essa si dà, in nome di quali principi possa realizzarsi. Da questo punto di vista, contrapporre al liberismo selvaggio il liberalismo progressista sembra un riferimento poco pertinente, se si tiene conto del fatto che il capitalismo è riuscito ad imporre le sue leggi anche a leaders come Clinton e Blair.

Il conflitto, ma Hutton, come tutti i riformisti, non riesce ad ammetterlo, si dà tra liberismo e socialismo. L'esito di questo conflitto dipende però da una rivoluzione culturale che ponga i cittadini occidentali in grado di confrontarsi, di capire e di prendere posizione nei confronti di un sistema, quale quello capitalistico, che ha raggiunto in questa fase la massima complessità attraverso la globalizzazione e rivela la sua natura intrinseca iniqua e disgregatrice. Le ombre che si addensano sul mondo sono da ricondurre, in gran parte, al fatto che di quella rivoluzione non esistono che labili indizi.

Maggio 2004