1.
Il tema dei diritti umani, che ha i suoi precedenti storici nella Dichiarazione Statunitense del 1776-1789 e nelle Dichiarazione francese del 1789, si è imposto con forza nel mondo contemporaneo dal 10 dicembre 1948, allorché, per cambiare pagina rispetto alle tragiche vicende delle due prime guerre mondiali, l'ONU promulga la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che consta di un preambolo e di trenta articoli. Essa è stata completata nel 1966 da due Patti che elevano il diritto all'autodeterminazione dei popoli al rango di premessa e presupposto fondamentale dei diritti umani. Si tratta di un codice internazionale, non impositivo data l'assenza d'istituzioni di controllo sulla sua applicazione, inteso sostanzialmente ad evitare l'arbitrio del potere statale e a vincolare il suo esercizio al rispetto dei diritti dei popoli e dell'individuo, in pratica misconosciuti sino alla fine del '700.
La Dichiarazione riposa su quattro pilastri fondamentali: 1) "diritti della persona (diritto di uguaglianza; diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza, ecc.)"; 2) "diritti che spettano all'individuo nei suoi rapporti con i gruppi sociali ai quali partecipa (diritto alla riservatezza della vita familiare e diritto di sposarsi; libertà di movimento all'interno dello Stato nazionale, o all'esterno; diritto ad avere una nazionalità; diritto di proprietà; libertà religiosa); 3) "diritti politici che si esercitano per contribuire a formare gli organi statali o per partecipare alla loro attività (libertà di pensiero e di riunione; diritto di elettorato attivo e passivo; diritto di accesso al governo e all'amministrazione pubblica); 4) "diritti che si esercitano nel campo economico e sociale, ossia nella sfera dei rapporti di lavoro e di produzione e in quella dell'educazione (diritto al lavoro e ad un'equa retribuzione; diritto al riposo, diritto all'assistenza sanitaria, ecc" (p. 38).
Il semplice elenco dei diritti lascia capire quanta storia, filosofia e utopia (in senso positivo) c'è nella loro definizione, e quale massa di problemi, finora non risolti da nessuna società, incombe sulla loro realizzazione. Di fatto, la Dichiarazione non è un decalogo, bensì un codice formulato con non poca fatica in un determinato periodo storico, che condensa tre diverse radici ideologiche e, nonostante un ammirevole sforzo di mediazione, riflette i contrasti tra i diversi schieramenti che hanno concorso a produrla.
Le radici ideologiche sono essenzialmente tre: 1) il giusnaturalismo proprio della tradizione occidentale che attribuisce (sulla scorta del pensiero di Rousseau) alla persona una dignità innata e diritti naturali che preesistono allo Stato, in primis la libertà; 2) lo statalismo socialista, che non riconosce l'individuo se non come membro di una società storica e tende a privilegiare i diritti economici e sociali: 3) il nazionalismo, che vincola l'esercizio dei diritti individuali al rispetto della sovranità nazionale e impegna gli Stati a farsene carico in senso etico-politico e a tentare di realizzarli nei limiti compatibili con la loro storia, le loro risorse, ecc.
Queste radici permettono di comprendere la genesi faticosa della Dichiarazione, avvenuta tra il 1946 e il 1948, che l'autore ricostruisce nei dettagli e che, date le circostanze, fu "in tutto e per tutto un pezzo di "guerra fredda"" (p. 33). Lo scontro essenziale nei due anni di discussione avvenne tra Occidente ed Europa socialista. Esso verteva sul fatto che gli occidentali "proposero di proclamare a livello mondiale solo i diritti civili e politici e solo nella connotazione individualistica che essi avevano rivestito nel Settecento e nell'Ottocento" (p. 34), mentre i socialisti ritenevano altrettanto importanti (se non di più) i diritti economici e sociali.In pratica, i primi eleggevano a principio fondamentale della Dichiarazione il giusnaturalismo a partire dal quale si era sviluppato il sistema liberal-democratico. I secondi, viceversa, critici nei confronti della società occidentale, intendevano inserire nella Dichiarazione il riferimento ai diritti economici e sociali, secondo loro violati nei paesi occidentali, il diritto di ribellarsi alle autorità oppressive e il diritto all'autodeterminazione dei popoli. Dato il carattere provocatorio, chiaramente antioccidentale, di queste proposte, esse, tranne la prima, vennero quasi tutte respinte. Questo però bastò a raggiungere un compromesso sulla stesura definitiva.
Questa risente della dialettica intervenuta tra più ideologie e appare, per alcuni aspetti, "il punto d'incontro e di raccordo di concezioni diverse dell'uomo e della società" (p. 47). Nonostante questi limiti, la Dichiarazione "ha avuto il merito enorme di costituire uno dei fattori di unificazione dell'umanità" (p. 47), ponendosi come una sorta di Magna Charta cui possono appellarsi tutti i popoli e tutti gli individui.
2.
Dopo oltre mezzo secolo dall'approvazione della Dichiarazione, sarebbe ingenuo, però, secondo l'autore, non riconoscere che l'universalità dei diritti cui essa fa riferimento è ancora un mito. Ciò non solo perché, in misura diversa, i diritti umani sono violati pressoché in tutti gli Stati e la loro realizzazione è ancora di là da venire anche nei Paesi più avanzati. Il problema è che, nonostante la morte del comunismo e la crisi del socialismo, continuano ad esistere "profonde divergenze nella concezione filosofica dei diritti umani" (p. 55). L'Occidente rimane sostanzialmente legato ad una visione giusnaturalistica, che assegna alla persona umana, vale a dire all'individuo un valore in sé e per sé, connaturato, che preesiste e trascende il potere dello Stato. Per i paesi socialisti, l'individuo esiste solo in quanto membro di una società e di uno stato storicamente determinati. Ciò significa che i suoi diritti possono realizzarsi solo in virtù del riconoscimento dello Stato e compatibilmente con gli interessi collettivi della società. Nei Paesi asiatici e in quelli islamici, infine, la prevalenza di tradizioni e di valori religiosi fa sì che i diritti dell'individuo siano riconosciuti solo in quanto subordinati alla comunità, che può coincidere o no con lo Stato.
Se si tiene conto di queste divergenze, non ci si sorprende del fatto che l'applicazione dei diritti umani riconosciuti dalla Dichiarazione a livello planetario ponga di fronte ad una situazione a pelle di leopardo. Di fatto, non si danno meccanismi internazionali di controllo sulla loro applicazione, non c'è accordo sui metri di misura, astratti o storici, che vanno adottati per valutare le violazioni dei diritti umani, non c'è consenso sulla liceità o meno d'intervenire anche con la forza per assicurarne il rispetto. Il maggior contrasto rimane però vincolato, come avvenne all'epoca del dibattito che portò alla promulgazione della Dichiarazione, sulla gerarchi d'importanza tra i vari diritti, e in particolare "tra due gruppi di diritti umani: i diritti civili e politici da un alto, e quelli economici, sociali e culturali dall'altro" (p. 65). Di fatto, "secondo i Paesi in via di sviluppo e quelli socialisti è il secondo gruppo che dovrebbe essere privilegiato nell'azione internazionale " (p. 65). Ciò perché, secondo essi, non ha senso privilegiare la libertà di pensiero e di parola quando i bisogni primari non sono ancora soddisfatti, e, in secondo luogo, perché la realizzazione dei diritti civili e politici postula l'esistenza di infrastrutture (scuole, ospedali, strade, ecc.) che li rendano concretamente agibili. Per contro, "gli Stati occidentali tendono a porre l'enfasi sui diritti civili e politici" (p. 65). Ciò in parte discende dalla loro storia, che riconosce nell'avvento di quei diritti la matrice dello sviluppo economico e civile della società occidentale, in parte dalla persistente convinzione che essi vadano difesi dalla tendenza di ogni organizzazione statale, se non a violarli, a limitarli e a penetrare in tutte le zone della vita privata.
Date queste divergenze, c'è da chiedersi se si diano "delle circostanze che in qualche modo temperano e addolciscono le spaccature ideologico-politiche" (p. 70).Secondo l'autore, "si possono individuare due tendenze solo in apparenza contraddittorie: da una parte, la tendenza a cercare una qualche sorta di "unificazione" almeno su alcuni problemi cruciali.Dall'altra, il ripiego, di fronte alle difficoltà poste dall'"universalità", sulla "regionalizzazione" dei diritti umani e contemporaneamente sulla loro "settorializzazione", ossia la loro specificazione in ordine a singoli problemi o a singole categorie di persone" (p. 70).Riguardo alla prima tendenza, c'è da riconoscere che, nonostante tutti i contrasti, "si è gradualmente creato un nucleo ristretto di valori e criteri universalmente accettati da tutti gli Stati" (p. 71): "Praticamente quasi tutti gli Stati del mondo mostrano di condividere l'idea che tra le più gravi violazioni dei diritti umani sono da annoverare il genocidio, la discriminazione razziale, la pratica della tortura, il rifiuto di riconoscere il diritto dei popoli all'autodeterminazione.Ciò significa che tutti gli Stati concordano nel ritenere fondamentali almeno alcuni grandi valori: il principio di uguaglianza, il diritto di non essere sottoposti a trattamenti disumani o degradanti, l'autodeterminazione dei popoli" (p. 72).
Per quanto riguarda la seconda tendenza, la "settorializzazione" consiste nel fatto che "la comunità internazionale ha cominciato ad occuparsi di singoli problemi (il lavoro forzato, la discriminazione razziale, l'eguaglianza tra i sessi, la libertà sindacale, quella religiosa, ecc.) o di singole categorie d'individui (le donne, i fanciulli, gli anziani, i detenuti, gli handicappati, i rifugiati, gli apolidi, ecc.) E' stata in tal modo creata un'ampia rete normativa che copre problemi sui quali gli Stati possono più facilmente raggiungere intese, al di là delle loro rispettive posizioni ideologiche o politiche" (p. 74).
3.
Nella seconda parte del libro, l'autore cerca di valutare le ombre e le luci della Dichiarazione, in stretto riferimento all'attualità.
Lo scarto tra i principi enunciati nel documento dell'ONU e la realtà del mondo contemporaneo è evidente e drammatica. Non si può negare, però, che, nonostante questo, essi rappresentano una sorta di bussola etica e direttiva a livello planetario. Gli Stati che non si conformano ad essi non sono esclusi dalla comunità internazionale, ma vengono delegittimati sul piano politico.
Occorre poi considerare che, benché non ancora pienamente realizzati, essi hanno prodotto degli effetti rilevanti a livello internazionale. Nonostante la persistenza della sovranità nazionale, ogni Stato sa di essere sotto giudizio circa il modo in cui tratta i propri cittadini e gli stranieri. Ciò significa che i popoli e gli individui, che in passato non avevano alcuna voce in capitolo sul piano della politica, sono divenuti nuovi soggetti della storia. Non esistono ancora organismi di controllo internazionale che possano imporre ad uno Stato di applicare la Dichiarazione. E' pur vero però che si è giunti a definire alcune infrazioni (il genocidio, l'uso della forza per impedire la realizzazione del diritto di un popolo all'autodeterminazione, la guerra di aggressione, ecc.) come "crimini internazionali di Stati". Tali crimini possono essere perseguiti da qualunque Stato.
E' prevedibile dunque che l'incidenza storica e concreta della Dichiarazione sia destinata a crescere nel corso del tempo, e che questa crescita dipenderà dalla partecipazione dei popoli e degli individui: "La particolare natura della "lotta" per i diritti umani e la molteplicità degli ostacoli disseminati sulla strada rendono chiaro un punto: quella "lotta" non può essere intrapresa che da tanti individui e gruppi. E' necessario un grande esercito, in cui non vi siano però generali, strateghi o condottieri. Un esercito composto da un popolo minuto, da persone che intervengono in mille modi, a più livelli, in una paziente e oscura azione quotidiana" (p.119).
4.
Il libro di Cassese è documentato, abbastanza ben articolato e equilibrato nei giudizi. Ciononostante, nel complesso, esso lascia l'impressione di essere poco incisivo e profondo in rapporto al problema che affronta. Dirò di più: lascia l'impressione di essere scritto sulla base di un'ideologia latente che incide sull'articolazione del discorso. Non occorre molta fatica a identificare quest'ideologia latente. Secondo l'autore, la Dichiarazione, pur legata a circostanze storiche particolari, non sarebbe concepibile senza la tradizione filosofica occidentale illuministica. Non per caso, egli scrive che "i diritti umani costituiscono il moderno tentativo di introdurre la ragione nella storia del mondo" (p. 80). Quella tradizione, a suo avviso, non è nata dal nulla: essa affonda le sue radici nella "concezione cristiana dell'uomo come microcosmo unico e irripetibile, cui va riconosciuta l'esigenza di espandersi e di realizzarsi in tutta la sua pienezza" (p. VIII). Tra Cristianesimo, Illuminismo e la concezione liberale dell'uomo come individuo dotato di diritti inalienabili, il principale tra i quali è la libertà, si darebbe dunque un nesso profondo. Se questo fosse vero, occorrerebbe riconoscere che l'Occidente, nella sua lunga storia, utilizzando apporti diversi, avrebbe prodotto una concezione dell'uomo a tal punto elevata che le altre civiltà e società non potranno fare altro che acquisire, innestandola sulle proprie tradizioni.
Nel sincretismo ideologico dell'autore c'è però un errore di fondo: quello di vedere continuità laddove si dà discontinuità e contraddizione. E' vero: sia il Cristianesimo sia il Liberalesimo esaltano l'unicità e l'irripetibilità dell'individuo come persona dotata di un'inalienabile dignità, che è la matrice dei suoi diritti. Ma l'individuo cui fa riferimento il Cristianesimo è un soggetto che, in quanto figlio di Dio, riconosce la sua appartenenza alla comunità e pratica la legge dell'amore altruistico, mentre l'individuo cui fa riferimento il Liberalesimo è un soggetto la cui sete di autorealizzazione comporta la pratica dell'egoismo, sia pure nei confini della legge.
Ho rilevato più volte la sostanziale incompatibilità tra il sistema di valori cristiano, sostanzialmente comunitaristico, e quello liberale, sostanzialmente individualistico. La loro convivenza nel seno di una stessa civiltà è un mistero di non poco conto, una cui possibile spiegazione fa capo all'accettazione da parte del Cristianesimo del fatto che la vita civile fosse governata dall'individualismo, purché fosse concessa ai cristiani di continuare a coltivare la loro fede in privato.
Le prese di posizione del Papa contro le ingiustizie sociali, il capitalismo selvaggio e la difesa dei valori occidentali attraverso la guerra rappresentano gli indizi di un conflitto ideologico e culturale che non si è mai risolto perché è, di fatto insolubile.
Se si tiene conto di quest'aspetto, non ci si sorprende del fatto che l'affermazione dei diritti umani, che nella Dichiarazione riflette in larga misura la matrice delle democrazie liberali dell'Occidente, sia venuta ad urtare contro la resistenza opposta dal comunismo prima, dai Paesi del Terzo Mondo poi e, oggi, da questi e dall'Islam. L'elemento in comune della resistenza è, per l'appunto il comunitarismo (anche nella forma dello statalismo), vale a dire il rifiuto di riconoscere che la società è solo una somma di individui.
A questo occorre aggiungere la difficoltà di riconoscere, da parte di molti Paesi non ancora sviluppati, il primato dei diritti civili e politici su quelli economici, sociali e culturali. Non è affatto assurdo che, per molti popoli, il diritto alla vita, che per essi si pone nei termini brutali della sopravvivenza, sia un valore infinitamente superiore alla libertà di pensiero e di parola.
La dialettica culturale e politica che ha presieduto la stesura della Dichiarazione e che, nonostante i compromessi, traspare ancora dal testo, implica un conflitto tra due diverse concezioni dell'uomo che sono ancora rappresentate a livello storico. A questo aspetto, di fondamentale importanza per comprendere quello che sta accadendo oggi nel mondo, dedicherò un ulteriore articolo.
Maggio 2003