1.
La scienza (con l’unica eccezione, forse, della matematica) si sta progressivamente trasformando in una disciplina accademica. Non c’è da sorprendersi di questo se si tiene conto che la ricerca implica un investimento di risorse spesso enorme, di cui il singolo scienziato non può disporre.
Il termine accademico non va assunto in un’accezione ristretta. La scienza viene praticata spessissimo presso le Università, statali o private, ma viene coltivata anche presso centri di ricerca del tutto autonomi rispetto alle Università, che sono finanziati da capitali privati. Per accademico intendo un orientamento governato da paradigmi riconosciuti dalla comunità degli scienziati entro i quali si realizzano le ricerche.
Un paradigma assicura ai ricercatori di seguire tragitti intensivi, che tendono a sondare la sua corrispondenza all’oggetto in questione. Senza un riferimento paradigmatico, la ricerca rischierebbe la dispersione e la frammentazione.
Il pericolo, che è stato posto in luce da Kuhn (La struttura delle rivoluzioni scientifiche; Einaudi, Torino 1979), è che, in conseguenza del paradigma dominante, la scienza si normalizzi, vale a dire tenda inconsapevolmente a reprimere o squalificare tutti i tragitti di ricerca che non rientrano in esso. Kuhn stesso ha poi posto in luce che la normalizzazione di un paradigma esita, in un periodo di tempo variabile, in una rivoluzione scientifica che ne causa il cambiamento più o meno radicale. Che cosa genera una rivoluzione scientifica? Paradossalmente, proprio il mantenersi di linee di ricerca estranee al paradigma stesso che, alla fine, confluiscono in un nuovo paradigma.
Senza enfasi, il libro di Trevarthen, che rende conto di un’attività di ricerca durata quarant’anni, può essere sussunto in questa linea di discorso per più motivi.
L’autore è un ricercatore irrequieto e curioso. Laureatosi prima in botanica e poi in zoologia, egli si è poi dedicato alla neuropsicologia e alle neuroscienze, mantenendo peraltro un vivo interesse per campi apparentemente diversi (ecologia, semiologia, scienze dell’informazione, psicoanalisi, ecc.).
Questo ampio orizzonte lo ha portato inesorabilmente in conflitto con il paradigma cognitivista, che è divenuto egemone nell’ambito della Psicologia, a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso. La sua opposizione è stata soprattutto netta per quanto concerne l’irriducibilità della sfera emotiva nella cornice del cognitivismo, e la valorizzazione del carattere innato delle emozioni. Ciò che rende affascinante e singolare, anche nel panorama delle Neuroscienze, il pensiero di Trevarthen è che l’innatismo egli lo riconduce soprattutto all’emozionalità sociale, che considera attiva sin dalla nascita (anzi addirittura nel grembo materno).
Il libro è antologico: raccoglie, a cura di Stefano Castelli, una serie di articoli scritti dal 1978 al 1995. Nella prefazione, Castelli stesso chiarisce che Travarthen, dati i suoi impegni e le sue molteplici attività, non ha trovato il tempo per produrre un libro che riunisce in sé alcuni degli elementi più significativi del suo lavoro. Un ottimo indizio se si tiene conto che la pubblicistica psicologica contemporanea è densa di compilazioni di non grande spessore.
Nonostante la struttura antologica del libro, alcune linee di pensiero si impongono su altre. Su di esse fermerò l’attenzione.
2.
Il capitolo primo risale al 1980, ma esso contiene in nuce tutte le tematiche che Traverthen svilupperà successivamente. Egli parte dalla neotenia, nella quale vede la matrice della socialità cooperativa:
“Il cervello del feto umano si è evoluto dal cervello fetale dei primati fino a dare luogo a una nuova forma di intelligenza, in cui la giovinezza presenta un significato di gran lunga maggiore, e maggiori potenzialità adattive, di quanto si riscontri in alcuna altra specie.
La perdita della forma adulta, o il rallentamento dell’evoluzione adulta, con l’elaborazione di più ampie possibilità per i giovani, più plastici, è stata una tattica evolutiva che ha consentito di dare origine a molti e importanti nuovi gruppi di animali. Si tratta di un fenomeno noto come neotenia (De Beer, 1940). Alcuni pensano che gli esseri umani si siano evoluti neotenicamente a partire da esemplari giovani dei nostri scimmieschi antenati, estendendo la curiosità giovanile e la giocosa adattabilità in modo da far loro occupare gran parte dell’arco della vita. E possibile che l’intelligenza cooperativa, la più importante ricchezza degli uomini, si sia evoluta dalla tendenza delle giovani scimmie di condividere le proprie abilità con il gruppo dei pari e con gli anziani.” (pp. 20-21) Su questa base, i comportamenti comunicativi dei neonati assumono un significato sociale, di cui la Psicologia ha stentato a capire l’importanza: “Per un lungo periodo, le comunicazioni sociali dei neonati sono state trattate come risposte simili a riflessi, generate in risposta a insiemi di segnali provenienti dagli altri. Si pensava che all’inizio della vita questi segnali fossero pochi e fossero successivamente incrementati da nuove combinazioni apprese. Questa credenza ha dato luogo a tentativi per scoprire gli stimoli più efficaci o più semplici per elicitare determinate risposte, come piangere, sorridere, ridere, o “vocalizzare”. Allo stesso tempo, sono emersi molti indizi secondo i quali gli stimoli sociali rappresentano l’aspetto più importante del mondo reale del bambino...
In alcuni studi, ad esempio in quelli di Piaget, sono state utilizzate ricompense di tipo sociale da parte dell’osservatore (con la voce, il toccamento o il sorriso) e risposte sociali del neonato (sorrisi, risate, gorgoglii di piacere, pianto) per ottenere notizie su qualche altra funzione percettiva o cognitiva ma, di regola, la funzione comunicativa stessa non è stata presa in ulteriore considerazione.
Ciò nonostante, è chiaro da almeno cent’anni che i neonati producono molti segnali sociali diversi che assomigliano alle espressioni con cui gli adulti comunicano l’un l’altro. Gradualmente, si è incominciato a prendere nella dovuta considerazione il complesso significato psicologico di atti quali guardare negli occhi un’altra persona, evitare lo sguardo o sorridere da parte di neonati di poche settimane. E al tempo stesso si è sorvolato su molti altri atti di comunicazione, ugualmente comuni.” (pp. 39-40) Il carattere eminentemente sociale dei comportamenti comunicativi neonatali è stato documentato in maniera indubitabile: “Nei film realizzati nel mio laboratorio con bambini a partire dalle quattro settimane, e per tutto il primo anno di vita, abbiamo ottenuto prove dell’esistenza di molte forme di espressione che includono, oltre alle emozioni solitamente accettate della gioia, della tristezza, della rabbia, della paura, della sorpresa e così via, anche gesti di riconoscimento e di indicazione (per esempio, saluti agitando le mani, indicazioni puntando il dito), e movimenti di labbra e di lingua che assomigliano a elementi linguistici (Trevarthen, 1979a). Associata a quest’ultima attività, che noi chiamiamo “protodiscorsiva” (prespeech), ma che non la accompagna necessariamente, vi è una vocalizzazione tubante del tutto diversa dal pianto di sofferenza o dalle grida di giubilo. Verso i sei mesi essa si sviluppa nella lallazione.
Di importanza capitale è il fatto che questa complessa sequenza di espressioni, che rappresentano quasi l’intera estensione della comunicazione umana, non viene prodotta in maniera destrutturata e senza collegamenti con gli atti delle altre persone che vi assistono e vi rispondono. Le azioni comunicative dei bambini piccoli sono spesso frammentarie, scollegate e indistinte, e possono risultare, come tutti gli atti dei bambini, del tutto disgiunte dagli stimoli esterni, con spavalda indifferenza. Ma di nuovo, come tutti gli atti spontanei dei bambini (quali l’osservare e il cercare di afferrare), le azioni comunicative sono in grado, sin dall’inizio, di accomodarsi rispetto alle circostanze cui sono intrinsecamente adattate. I neonati sorridono, gesticolano, fanno smorfie, borbottano e vocalizzano indirizzandosi ad altre persone, e sovente accordano e graduano le proprie espressioni per adattarsi quanto più possibile alle espressioni dei loro partner. Abbiamo ormai compreso che le interruzioni degli atti del partner, causate da disattenzione, da ritiro emozionale, o da interferenze esterne sono in grado di dare luogo a forti indici di disagio e di ritiro in se stesso in un bimbo di due mesi che sino a poco prima era stato in piena comunicazione. Ciò prova sia che i bimbi sono in grado di coinvolgersi profondamente nella complessità e nella varietà di un normale baby-talk, sia che dipendono emotivamente dai suoi sviluppi.
Le emozioni umane non causano l’espressione, e quindi la comunicazione, ma, al contrario, riflettono il successo o il fallimento della comunicazione e vengono espresse per mantenere la comunicazione medesima.” (pp. 41-42)
Il “tropismo” verso l’umano è l’essenza dei comportamenti comunicativi neonatali:
“Tra tutte le attività di esplorazione, ricche di aspettative, condotte dal cervello infantile, di gran lunga le più potenti sono quelle dirette a una vita sociale carica di emozioni. Prima di iniziare a esplorare gli oggetti con le mani e a camminare nel mondo, un bambino comunica: è attento, ricerca e modula la comunicazione con altri esseri umani. Un bimbo di due mesi è una personalità complessa, capace di distinguere le persone da altri oggetti “fisici”, trattandole come una categoria di importanza primaria per il proprio sviluppo (Trevarthen, 1974b). Dopo aver stabilito nel corso dei primi tre mesi una chiara preferenza per le attenzioni e i significati umani, e dopo aver consolidato un abbozzo di interazione conversazionale, vi è un periodo di parecchi mesi in cui la curiosità rispetto a ciò che può essere visto e udito, e poi manipolato per essere visto, percepito e udito meglio, entra in competizione con l’interesse per la vita sociale.” (p. 43)
“A circa quaranta settimane dalla nascita, quando il bambino ha sviluppato e appreso una relazione speciale con la madre e un gruppo di “amici intimi”, ed è diventato dipendente dai loro interessi e dai loro modi di presentargli il mondo, il comportamento interpersonale si trasforma in modo alquanto improvviso. Invece di subordinare la comunicazione alla guida immediata degli organi per raccogliere esperienze e regolare i movimenti corporei, egli cerca di condividere, di cooperare con gli altri, di accettare apertamente le loro idee. Per la prima volta vengono realizzati, in maniera del tutto autonoma, atti di significazione, di istruzione, di dichiarazione, di saluto, di riconoscimento (Trevarthen, Hubley, 1978). Ii bambino inizia a collaborare con i suoi compagni in un mondo di interessi condivisi. Un piccolo di un anno non è capace di parlare ma è in grado di mettere esplicitamente in comune con i compagni le proprie idee sui mondo. Ogni azione è una dimostrazione o un’esposizione potenziale e per questo motivo quello che il partner fa, o mostra, o offre, diventa immediatamente interessante.” (p. 45)
Le conclusioni cui giunge Trevarthen sono le seguenti: “Umano nella sua essenza, il cervello può iniziare il processo della comunicazione umana prima di avere appreso qualsivoglia concetto relativo agli oggetti o ai modi per spostarsi nel mondo, ed è in grado di avviare il proprio coinvolgimento nell’assimilazione e nell’estensione dell’uso culturale dell’esperienza prima di potere parlare di essa. Il cervello umano rappresenta dunque un organo culturale che stimola in maniera intuitiva l’ottenimento di educazione da parte di altri esseri umani che meglio conoscono i dettagli del mondo. Il trasferimento di conoscenze avviene in risposta a una richiesta del bambino “ (p. 46) “Il duplice valore della natura infantile è dunque quello di ricordare agli psicologi che noi siamo innatamente umani nel senso più ampio possibile del termine e, cosa ancor più importante, invitare i genitori, gli insegnanti e tutti i compagni dei bambini a unirsi al compito di trasmettere loro tutte le conquiste dell’intelligenza umana. Capace di trattenere in maniera meravigliosa i dettagli dell’esperienza, il cervello umano è al tempo stesso intrinsecamente regolato per svilupparsi come membro di una comunità di cervelli che governano le azioni cooperative dei loro corpi.” (p. 46)
3.
Queste tematiche trovano un ampio e approfondito sviluppo nel Cap. 4 (La funzione delle emozioni nello sviluppo e nella prima comunicazione infantile), che si può ritenere il cuore del libro.
I problemi che Traverthen intende affrontare sono di notevole peso: “i bambini molto piccoli, prima dei tre mesi di vita, provano emozioni? Quali sono gli strumenti di osservazione migliori per scoprirlo? E se i neonati provano emozioni, a cosa gli servono? Che cosa governa la loro comparsa e le loro modificazioni? Qual è la probabile funzione delle emozioni nello sviluppo durante il primo anno di vita?” (p. 111) Una premessa importante per affrontarli è, però, “fare chiarezza su cosa si intende per “emozioni”” (p. 111).
La teoria di Traverthen a riguardo è la seguente: “Le emozioni sono stati centrali di regolazione del cervello, generate internamente, che unificano la coscienza e coordinano l’attività di un soggetto coerente e mentalmente attivo. Le emozioni si comunicano fra i soggetti e operano a tre livelli e in tre diversi ambiti:
1) per proteggere l’integrità vitale e il milieu interne del corpo del soggetto;
2) per guidare la percezione, l’azione e l’apprendimento attraverso la valutazione delle opportunità (vale a dire, delle possibilità che si percepiscono per un uso attivo del corpo) offerte da oggetti e situazioni nel mondo esterno fisico (non mentale);
3) per promuovere e sviluppare l’interazione con i comportamenti e i motivi di altri soggetti nell’”ambiente sociale”.
Le emozioni dirigono la cognizione (cioè l’attenzione, il comportamento e l’apprendimento) e le forniscono una valutazione soggettiva e comunicabile. Esse fanno parte integrante dei motivi del soggetto e presentano una forte organizzazione adattativa innata (Emde et al., 1991; Trevarthen, 1993b).
Nell’uomo, esse regolano un rapporto intersoggettivo unico nel suo genere che crea cooperazione consapevole e che favorisce l’acquisizione di uno specifico bagaglio culturale (Trevarthen, 1992). Queste conoscenze vengono apprese attraverso l’insegnamento e l’imitazione all’interno di processi di “partecipazione guidata” (Rogoff, 1990). Il ruolo delle emozioni nella coscienza umana e nel suo sviluppo può venire chiarito dall’analisi delle emozioni infantili rispetto ai tre ambiti di cui si è detto sopra, ove hanno luogo le funzioni di regolazione: il corpo, gli oggetti fisici e le altre persone.” (pp. 111-112) A questa definizione di ordine generale, peraltro molto chiara, seguono quattro specificazioni: “Principi delle emozioni che devono essere studiati nei bambini
1. Coerenza all’interno di uno stesso soggetto. Le emozioni, in quanto stati motivazionali di un soggetto che agisce in maniera integrata, pongono limiti e direzioni per una consapevolezza coerente e un’intenzionalità unificata. Parti diverse di uno stesso soggetto non possono avere emozioni differenti.
2. Regolazione autonoma dei corpo. Le emozioni preservano le funzioni vitali e l’organizzazione del corpo, contribuendo al controllo degli stati e dei processi interni, ed equilibrando le esigenze interne contrapposte alle richieste di comportamenti diretti all’esterno per cogliere vantaggi dall’ambiente o per proteggersi dai danni. Le emozioni di autoregolazione si accompagnano spesso a effetti di tipo autonomo, ma i loro “obiettivi” sono stati di attività fisiologica o di equilibrio dell’organismo totale, nella sua integrità e “benessere”. Esse mutano con i motivi che guidano l’intero soggetto psicologico. Le risposte riflesse, non coordinate, a determinati stimoli (ad esempio negli organi circolatori o respiratori, o negli ormoni) non sono emozioni.
3. Regolazione cognitiva del sé cosciente. Le emozioni sono implicate nella valutazione cognitiva di oggetti o di eventi del mondo esterno. Regolano l’esame e la selezione delle informazioni per la percezione, indirizzando i movimenti di ricerca o di allontanamento che dirigono o focalizzano i recettori. Esercitano i loro effetti sui giudizi e sui ricordi delle esperienze, e colorano di sé gli atti di riconoscimento e di rievocazione, influenzando i comportamenti di attrazione o di evitamento, di attacco o di difesa. Oggetti di queste emozioni sono “cose” che non possiedono a loro volta emozioni o caratteristiche personali.
4. Regolazione comunicativa delle relazioni fra sé e gli altri. Le emozioni che servono alle funzioni sociali vengono comunicate direttamente fra i soggetti e coordinano i loro motivi.
Espresse da movimenti strutturati, possono essere immediatamente “empatizzate”. I loro “oggetti” sono anche “soggetti” o “persone”; partner comunicativi che possiedono motivi, coscienza, intenzioni, emozioni e sensibilità emotiva proprie.
5. Valenza essenzialmente intersoggettiva. Le emozioni umane sono tutte in grado di modificare i sentimenti e le motivazioni di altre persone. Qualunque possano essere le sue altre funzioni per la difesa dei processi vitali, o per regolare l’azione sul mondo o le operazioni cognitive all’interno di un soggetto (compresa la consapevolezza di sé), ogni emozione espressa può influire direttamente e immediatamente sulle emozioni di un’altra persona. Le emozioni risuonano fra i soggetti, accoppiando i loro motivi e le loro coscienze e animandoli reciprocamente. Le emozioni umane vengono elaborate attraverso l’apprendimento, soprattutto quello di carattere socioculturale e intersoggettivo, ma la loro origine non è in esso.” (pp. 112-113)
“Da dove vengono le emozioni
Un osservatore sofisticato, che faccia finta di essere “assente”, può individuare gli stati della mente altrui dalle espressioni emotive, senza interagire visibilmente con la persona in questione e i suoi sentimenti. Questo “studio” a senso unico delle emozioni può dare la falsa impressione che le emozioni possano semplicemente essere nei soggetti, causate in loro da eventi da loro sperimentali. Interpretazioni del genere, che rappresentano assiomi tipici delle filosofie razionalistiche, trascurano gli adattamenti essenziali delle emozioni a un contributo empatico, ricettivo, da parte della mente dell’osservatore. Le emozioni non esistono al di fuori della possibilità di questa consapevolezza. Si sono evolute funzionando “tra” soggetti, nella loro immediata consapevolezza l’uno dell’altro: è questo il modo in cui bisogna intenderle, anche quando un partecipante (il ricevente) stia negando, persino a se stesso, il fatto di essere presente con i propri sentimenti, relegando l’altro al ruolo di inconsapevole “osservato”. Le funzioni essenzialmente comunicative delle emozioni diventano chiare quando i soggetti ammettono l’uno la presenza dell’altro e interagiscono. In queste circostanze le emozioni regolano il loro contatto e la relazione fra loro, rivelando che ogni mente ha la necessità di una “persona-oggetto” emotiva (Trevarthen, 1984b).” (pp. 113-114)
“A che cosa servono le emozioni
Le emozioni sono regolatori delle attività psicologiche, non i loro prodotti. Sono cause, non effetti, della percezione e dell’azione. Non vengono trasmesse ai soggetti dai loro “oggetti” e non vengono fatte nascere come categorie cognitive o dalle loro associazioni percettive o cognitive. Anche quando appaiono in maniera reattiva, fatte scattare da stimoli presenti “qui e ora”, le emozioni mirano a influenzare comportamenti e atti di consapevolezza futuri; fanno parte della genesi dinamica di azioni consce e intelligenti che precedono, favoriscono e modificano l’esperienza.
I sentimenti (affetti) delle emozioni vengono trasmessi fra i soggetti in modo da agire su di loro (Buck, 1984) e l’effetto trasmesso possiede un’azione più forte e meglio definita di qualsiasi affetto soggettivo, o “autopercepito”, in colui il quale per primo ha esperito l’emozione. La riflessione sulle proprie emozioni rappresenta un’attività complessa, appresa, razionale, come lo è qualsiasi “teoria” (=”storia”) a proposito della mente, propria o altrui. Le emozioni degli altri ci influenzano attraverso processi forti, diretti, non mediati, intrinseci all’intersoggettività, cioè alle interazioni fra soggetti che comunicano all’interno di diadi e nei sistemi sociali (Trevarthen, 1992, 1993b).” (pp. 114-115)
“L’utilizzo appreso delle emozioni per una comunicazione efficace nella sfera delle convenzioni sociali
Le complesse interazioni tra le regolazioni intersoggettive, cognitive e corporee, delle emozioni contribuiscono all’apprendimento di adattamenti sociali o culturali, abitudini e pensieri, attraverso i quali le funzioni delle emozioni e l’autocoscienza dei soggetti si modificano, si sottomettono a credenze e leggi, e vengono simbolizzate. Le emozioni quindi, con l’esercizio ripetuto della comunicazione, giungono a “significare”, o a “essere usate per” diversi scopi in culture diverse. La loro espressione o modalità di manifestazione, il loro stile, viene ampiamente codificato e vincolato da regole e sanzioni. I comportamenti emotivi vengono educati. Le emozioni, tuttavia, non possono avere origine nelle convenzioni sociali che governano il loro uso, e neppure la loro organizzazione di base, i modi in cui interagiscono e si modificano, possono venire appresi.
Per comprendere lo sviluppo delle emozioni, o quello delle funzioni regolate dalle emozioni e il loro uso nella società, dobbiamo dunque tracciare la nascita della coerenza soggettiva dei motivi che giacciono al di sotto della coscienza e delle intenzioni, e dobbiamo distinguere i tre livelli di regolazione emotiva: quello del “sé in quanto corpo”, o livello autonomo, quello del “sé con gli oggetti”, livello cognitivo, e quello del “sé con l’altro”, livello comunicativo. Lo studio dell’ordine di sviluppo di questi tre livelli ci aiuterà a individuare i ruoli essenziali delle emozioni nella crescita psicologica. Soprattutto, osservando le emozioni infantili, dovremo notare in che modo esse risuonano fra i bambini e i loro partner nella comunicazione “dal vivo”. A questo stadio della vita, le emozioni sono ben poco coscienti di sé e non sono ancora state modificate dalle convenzioni sociali.” (pp.115-116) Si tratta, nel complesso, di una teoria di particolare interesse, che coglie l’intero spettro delle emozioni, ma sottolinea soprattutto gli aspetti intersoggettivi che attestano il “tropismo” del cervello umano per l’umano e predispongono il bambino a ricevere i valori culturali propri del gruppo di appartenenza.
4.
Traverthen è molto esplicito nel rivendicare l’innatismo delle emozioni e la loro indipendenza rispetto alla sfera della cognizione.
Ambedue questi aspetti sono comprovati dai dati tratti dalle ricerche su neonati nei primi due mesi di vita. I dati sono i seguenti (il corsivo è mio):
“Le coordinazioni coscienti e volontarie del sé nei neonati e nei feti Per più di un secolo, gli studi sui neonati condotti dalla medicina e dalla scienza sono andati alla ricerca di “riflessi” istintivi di pianto, di prensione (grasping), di orientamento del capo finalizzato alla suzione (rooting) e così via, definendoli come elementi adattativi separati che, adeguati ciascuno a uno stimolo appropriato proveniente da chi si prende cura del bambino, regolano il sostegno del corpo, il benessere e il sonno, o consentono di realizzare con successo l’allattamento al seno.
Negli anni Sessanta, le nuove conoscenze della fisiologia intrinseca del cervello hanno condotto a valutare meglio il coordinamento e il controllo esercitato dal sistema nervoso centrale. Si comprese che lo stato di “attivazione” mentale del bambino è generato dalla sostanza reticolare. Allo stesso tempo, venne dimostrato che i neonati possono avere preferenze percettive o cognitive, e questo contribuì alla messa a punto di tecniche di valutazione che prevedono l’osservazione di risposte integrate agli stimoli, fra cui possono esservi le risposte emotive quando i bimbi vengono tenuti in braccio, accarezzati, o percepiscono il viso o la voce umana (Brazelton et al., 1975). Oggi si accetta il fatto che i neonati abbiano risposte emotive e sentimenti di dolore (Anand, Hickey, 1991). Le riprese a ultrasuoni di feti ancora nell’utero rivelano un coordinamento embriogenico dei movimenti dell’intero corpo, la cui armonia ed eleganza, valutate dal punto di vista estetico, indicano in maniera affidabile gli stati di benessere o di sofferenza neurologica (Cioni, Castellaci, 1990). Molti movimenti coordinati dei feti che appaiono dopo il primo trimestre di gestazione, presentano continuità con coordinamenti motori post-natali (ad esempio, afferrare gli oggetti o camminare, mentre si realizzano espressioni facciali), movimenti che possono giungere a funzionare completamente soltanto mesi, o persino anni, più tardi (Prechtl, 1984; Thelen, 1985).
I neonati possono indirizzare l’intero corpo in relazione a eventi visti o uditi nell’ambiente esterno. Compiono movimenti difensivi ben diretti per proteggersi dal soffocamento o da altre minacce e si muovono per schivare oggetti in moto che potrebbero colpirli. Sono in grado di integrare esperienze colte con diverse modalità sensoriali per percepire e discriminare gli oggetti che li interessano.
Tecniche basate sui paradigmi del condizionamento strumentale sono state utilizzate per misurare le capacità di apprendimento, che aumentano sin dalla nascita l’efficienza dei comportamenti di sopravvivenza innati. Anche i neonati possono scegliere volontariamente che cosa vedere o udire all’esterno dei loro corpi (De Casper, Carstens, 1981; Mehler, 1985).” (pp. 116-117)
“Segnali affettivi e primi abbozzi di “conversazione”
I neonati segnalano stati di disagio o di bisogno muovendo la faccia, le mani o il corpo intero, e i loro diversi tipi di pianto indicano con precisione molti “stati di eccitamento centrale”
(Lester, 1984; Malatesta, 1985). Le madri utilizzano queste manifestazioni per decidere quali siano i sentimenti o le necessità del piccolo, e i medici se ne servono per individuare patologie. Nelle prime settimane dopo la nascita, un bambino giunge a realizzare cicli regolari di sonno e di veglia, coordinando i periodi di vigilanza con i mutamenti ciclici del mondo esterno, fra cui vanno incluse le attività quotidiane di accudimento. L’adattamento dei bambini risponde alla scansione giornaliera del comportamento di chi si prende cura di loro, discriminando sottili segnali di tenerezza e di affetto, o la loro assenza.
Ma, oltre alla iniziale efficacia di tali comportamenti, che immediatamente sollecitano atti di protezione essenziali per la sopravvivenza e la crescita fisiologica del corpo e del cervello infantili, alla nascita sono presenti le basi di una comunicazione davvero intersoggettiva, che possiede la potenzialità di emettere e assorbire pensieri, esperienze e scopi. Questi comportamenti risultano sensibili all’identità di chi solitamente accudisce il bambino.
I neonati si orientano verso l’odore speciale della madre, verso il particolare tono acuto e dolcemente affannoso della sua voce, che trasmette la grande carica emozionale che il piccolo le ispira. Essi rispondono in maniera discriminativa al tocco e al movimento del suo corpo e alle carezze affettuose delle mani. Per contro, un essere umano tanto immaturo si ritrarrà e cercherà di difendersi nei confronti di manipolazioni brusche, indifferenti o insensibili. Le balie esperte sono perfettamente consapevoli di queste capacità, e le madri partecipano alle interazioni in maniera intuitiva, sebbene con diversi gradi di successo. Questi orientamenti o allontanamenti del neonato, che risultano sia comportamentali sia autonomi, testimoniano a favore di una predisposizione innata a ricevere regolazioni e sostegno dalle emozioni espresse nelle cure materne (Emde et al., 1991).
Si accetta in misura sempre maggiore che i neonati possiedano complessi adattamenti psicologici per la comunicazione, fra cui organizzazioni cognitive e motorie della mente che generano emozioni e vi rispondono. Gli sviluppi dei primi mesi, tuttavia, vengono solitamente attribuiti all’assunzione del controllo, da parte della coscienza, di effetti riflessi (ad esempio, Emde et al., 1991; Malatesta et al., 1986). Non si riconosce che le emozioni neonatali vengono generate da sentimenti, e che esse sono in grado di organizzare la consapevolezza e l’azione volontaria, oltre che di dirigere lo sviluppo mentale.
Le espressioni di un neonato indicano stati cerebrali globali di piacevole rilassamento, di curiosità, di eccitazione, di perplessità o di frustrazione, e una madre affettuosa le percepisce come comunicazioni interpersonali a cui difficilmente riesce a sottrarsi. Inoltre, sebbene il neonato soddisfatto, riposato, caldo e ben nutrito possa dormire silenzioso e immobile per la maggior parte della giornata, con gli occhi socchiusi che ruotano senza orientarsi ad alcuno stimolo, il neonato vigile è in grado di cercare contatti vocali e/o visivi con un partner teneramente responsivo, per creare una comunicazione intima che dura parecchi minuti. Già pochi minuti dopo la nascita, i nuovi nati si orientano verso la voce umana (Alegria, Noirot, 1978) ed esprimono espressioni differenziate del viso, indici di emozione (Oster, 1978). Una nascita non traumatica, senza farmaci, viene tipicamente seguita da un periodo di vigilanza e attività (birth arousal), che offre le migliori opportunità per osservare le capacità innate di rispondere nel contesto di un “dialogo” affettuoso con un’altra persona.
Un neonato, anche prematuro di due mesi, può impegnarsi con le carezze, le vocalizzazioni e gli spostamenti del corpo di una persona che gli offre sostegno in modo gentile e affettuoso, e può compiere movimenti che l’adulto percepisce come sforzi per parlare e gesticolare. Questo coinvolgimento empatico e inconsapevole, fondamento dello sviluppo futuro di ogni forma umana di segnalazione, linguaggio compreso, influisce sullo stato neuro-ormonale del piccolo, che contribuisce alla regolazione dell’accrescimento eccezionalmente intenso del cervello verso la fine della gestazione (Schanberg, Field, 1987). L’affetto della madre, la sua “preoccupazione materna” (Winnicott, 1960) o il “legame” (bonding) (Klaus, Kennel, 1976), diventa così un fattore chiave dell’autoregolazione del cervello neonato in rapido sviluppo, e parte dello schema adattativo della crescita mentale del bambino.” (pp. 117-119)
“Imitazioni
La dimostrazione del fatto che alcuni neonati sono in grado di imitare espressioni emotive, di aprire la bocca e di sporgere la lingua, come hanno appena visto fare da un adulto (Field, 1985; Field et al., 1982; Kugiumutzakis, 1985; Maratos, 1982; Meltzoff, 1985; Meltzoff, Moore, 1983), ha dato luogo a una vera e propria rivoluzione nel modo in cui si considera il funzionamento psicologico del cervello immaturo. Sono in grado anche di imitare vocalizzazioni e semplici movimenti delle mani.” (p. 119)
“L’ascolto di voci e l’apprendimento di preferenze per la madre prima della nascita La voce umana è uno strumento ricco ed espressivo, altrettanto versatile del viso, ma i suoni sono molto più facili da misurare e analizzare fisicamente delle fotografie di facce in movimento. I bambini vengono al mondo con un apparato vocale molto immaturo che muta radicalmente di forma nel corso del primo anno, ma persino un neonato possiede una grande varietà di espressioni vocali, comprese vocalizzazioni tubanti accoppiate a sorrisi e a gesti delle mani che vengono utilizzati come “frasi” integrate nelle protoconversazioni per indicare affetti interpersonali dinamici. Inoltre, i neonati possono imitare numerosi suoni di voce.
Ma la comunicazione attraverso i suoni può iniziare ancora prima, quando la corteccia cerebrale sta appena iniziando a costruire i propri campi dendritici e le organizzazioni sinaptiche (Trevarthen, 1989a). Un feto all’interno della madre è in grado di individuare, reagire e apprendere caratteristiche della sua espressione vocale. Ne consegue che, nel giro di poche ore dalla nascita, un bambino può mostrare una preferenza per la voce della madre rispetto a quella di un’altra donna (De Casper, Fifer, 1980). I tratti distintivi della sua voce erano stati appresi in utero. Evidentemente, l’attaccamento emotivo fra madre e figlio può incominciare a formarsi prima della nascita. Nello scambio comunicativo, il neonato è in grado di scegliere chi si prende cura di lui, riconoscendolo e preferendolo ad altri per ricoprire il ruolo di “compagno di comunicazione” e fornire sostegno emotivo.
L’apprendimento intrauterino delle caratteristiche della vocalizzazione e di altri movimenti che segnalano emozioni affettuose possono anche dare luogo a preferenze per forme dinamiche di comunicazione, quali particolari canzoni o forme di recitazione (De Casper, Carstens, 1981). Questa sottile abilità di ricezione dell’espressività umana deve affondare le proprie radici in strutture cerebrali dedicate alle emozioni e ai loro mutamenti dinamici. Esse non possono venire totalmente apprese, dato che mostrano la propria forma e le proprie preferenze anche nei casi in cui non vi è alcun modello e non è stato possibile alcun modellamento da parte delle circostanze. Ad esempio, anche un feto al settimo mese di gestazione, fatto nascere artificialmente, è in grado di esibire un magnifico sorriso e sussurrare dei vocalizzi prima di aver potuto apprendere queste espressioni e, quando è tranquillo e soddisfatto, le realizzerà in risposta alle attenzioni sensibili e affettuose ricevute da un genitore o da un’infermiera (Van Rees, de Leeuw, 1987).
Quando vi sono somiglianze tanto marcate fra i comportamenti dei bambini e quelli dei partner più anziani nello stesso “ambiente umano” è difficile distinguere i prodotti autonomi ed endogeni del cervello in sviluppo da quelli selezionati dall’esperienza. Ciò nonostante, come ha dimostrato Charles Darwin (1872), il paragone fra le espressioni di persone appartenenti a diverse culture, piccoli e adulti, mostra sorprendenti uniformità. Le caratteristiche di base nella temporizzazione, nella forma anatomica, nelle modulazioni della forza dell’espressione e nelle transizioni che avvengono quando vi è uno scambio emotivo stretto, sono del tutto coerenti (Trevarthen, 1986a).; questo conferma che lo sviluppo cerebrale, ereditato e auto-organizzato, è in grado di creare capacità di incontro per scambi intersoggettivi fra il bambino e chi si prende cura di lui.” (119-121)
“Protoconversazioni a due mesi: le prove di uno sviluppo rapido dell’intersoggettività innata e della dinamica emotiva
A partire da quarantasei settimane di età gestazionale, sei settimane dopo una normale nascita a termine, è probabile che un bambino sano, contento e sveglio si orienti e risponda alla comunicazione faccia a faccia con la madre per periodi più prolungati di quanto si potesse osservare in precedenza. Il piccolo ha fatto progressi nella prontezza visiva e nella stabilità posturale ed è in grado di tenere gli occhi fissi in quelli della mamma quando lei si china in avanti, parlando dolcemente, con il viso parallelo a quello del bambino.
L’attenzione del bambino si è acuita, e questo affinamento ha un effetto immediato sulla madre che si rivolge al figlio in modo più vivace e invitante, attenta alle manifestazioni di sentimenti, sorride e si esprime in toni di richiesta giocosa e di sollecitudine, aspettando con maggiore fiducia di prima una risposta. Il passaggio di espressioni emotive in entrambe le direzioni instaura e regola uno stretto contatto mentale (Brazelton et al., 1974; Stern, 1974, 1985; Stern, Gibbon, 1980; Trevarthen, 1979a) e il gioco reciproco viene a organizzarsi in una coerente esecuzione a due, opportunamente chiamata “protoconversazione” (Bateson, 1979), dato che genera periodicamente espressioni o messaggi simili a espressioni che tendono ad alternarsi, dalla mamma al bambino e poi dal bambino alla mamma.
La delicatezza e la rapidità dello scambio tra le espressioni del bambino e quelle dell’adulto sono misurabili in qualsiasi registrazione in cui si possano vedere e ascoltare entrambi. I dettagli dell’espressione risultano particolarmente chiari nelle riprese effettuate con un sistema di Double Television Intercom (doppio video) che trasmette immagini televisive ai protagonisti della comunicazione (Murray, Trevarthen, 1985). Attraverso queste registrazioni, un osservatore può occupare la posizione della madre o del bambino per “sentire” così il contatto visivo e l’emozione nelle manifestazioni che si possono vedere e ascoltare e che raccontano il piacere del contatto, gli stati di malessere e bisogno in forme di regolazione autonoma, o l’evitamento di comportamenti percepiti come inopportuni o minacciosi.
Questa tecnica, che accresce in modo significativo la precisione e l’accuratezza dell’osservazione, rivela con esattezza il modo in cui i segnali emotivi legati all’apparato visivo e uditivo (dal momento che i canali della percezione tattile, cinestetica e olfattiva vengono esclusi) sono coordinati, sia entro ciascun soggetto che nella loro interazione. Gli organi espressivi (soprattutto il viso, l’apparato vocale, le mani e le braccia) agiscono in perfetto accordo, con le variazioni della “cinematica” (modelli temporali), della “fisiognomica” (modelli di spazio o di forma) e dell”energetica” (intensità o sforzo) dell’attività muscolare (Trevarthen, 1986a), esprimendo in modo sincronizzato i cambiamenti di azioni integrate. Attraverso le caratteristiche di queste manifestazioni, i sistemi cerebrali centrali di coordinazione e gli “orologi mentali” interni a un individuo si sintonizzano con precisione sul flusso di espressioni e di stati emotivi centrali dell’altro. Sia la madre che il bambino regolano la scansione temporale, la forma e l’energia delle loro espressioni per raggiungere un livello di armoniosa sincronia reciproca degli scambi comunicativi e di complementarità delle sensazioni, che scorrono nell’ambito di una relazione emotiva o “confluenza che si stabilisce tra i due. In effetti, ciò che viene espresso da uno di loro rimane evidentemente incompleto o aperto, dal momento che anticipa una particolare gamma di possibili reazioni del partner.
Il contesto naturale per le emozioni è una relazione dinamica fra individui che cercano di negoziare uno scambio di scopi e di intese attraverso i sentimenti. Il bambino di due mesi possiede le competenze necessarie per gestire questa forma dinamica di contatto umano, emette vocalizzi somiglianti a sillabe (i mormorii e le prime lallazioni), realizza movimenti delle labbra e della lingua, preparatori per l’articolazione di sillabe in sequenza (prespeech) (Trevarthen, 1977a, 1979a) e gesticola con le mani in modo sincrono con le altre manifestazioni (Trevarthen, 1986b). Le “frasi” del bambino sono associate a rotazioni del capo, a movimenti delle sopracciglia e a brevi allontanamenti dello sguardo dalla madre; la protoconversazione è dunque caratterizzata da analogie specifiche con la dimensione paralinguistica di una conversazione adulta (Beebe et al., 1985; Duncan, Fiske,1977; Jaffe, Feldstein, 1970; McNeil, 1992).
Il bambino e la madre sono uniti da un unico ritmo, alternandosi su un lento adagio (un battito ogni 0,9 secondi, cioè circa settanta al minuto), in cui l’uno ascolta i suoni emessi dall’altro rispondendo a turno a seconda delle caratteristiche prosodiche (figura 4.2). La madre si riferisce alle improvvise manifestazioni espressive del bambino come se “parlasse” o le “raccontasse una storia” e replica con esclamazioni del tipo: “Oh, davvero!”, oppure
“Proprio così!”. Le espressioni più lunghe emesse dai bambini durano circa due o tre secondi, più o meno il tempo impiegato da un adulto per pronunciare una breve frase (figura 4.2).
Il piccolo tiene sotto controllo le manifestazioni materne attraverso il contatto visivo, creato e interrotto a seconda dei casi (Jaffe et al., 1973; Stern, 1974). Questa attenzione selettiva nei confronti della voce e del volto materni, dimostrata in numerosi esperimenti, è funzionalmente adattata per influire sull’attenzione della madre e sulle sue risposte. Dopo avere ottenuto da lei un sorriso di riconoscimento o una frase in motherese, il bambino guarda spesso altrove mentre articola a sua volta un’espressione. Le microanalisi della scansione temporale dei cambiamenti che avvengono durante il contatto adulto-bambino, mostrano in maniera definitiva che entrambi governano lo scambio comunicativo (Beebe et al., 1985) secondo dinamiche corrispondenti e transizioni simili tra gli stati d’animo e le espressioni. Analisi di questo tipo offrono informazioni preziose sui processi emotivi intrasoggettivi e intersoggettivi. Dimostrano che le protoconversazioni riescono a innescare sistemi coordinati nei due individui che, avendo trovato sfogo espressivo attraverso il movimento simultaneo di diversi organi, generano un contatto, una regolazione reciproca, nonché un’intensificazione dei loro stati motivazionali centrali.” (p. 121-126)
“Le asimmetrie intrinseche dei motivi per comunicare
Le espressioni infantili presentano un’asimmetria corporea fra sinistra e destra (Trevarthen, 1990a): quando il bambino si esprime, lo sguardo si orienta preferibilmente a destra, di solito gesticola sollevando la mano destra più in alto della sinistra e le vocalizzazioni si sviluppano di norma prima, o in modo più evidente, sul lato destro della bocca. L’asimmetria delle emozioni e delle loro manifestazioni nei bambini piccoli (Davidson, Fox, 1982; MacKain et al., 1983) dimostra che l’anatomia cerebrale è organizzata in modo tale da regolare e stimolare una relazione umana intima e diretta anche quando la neocorteccia è ancora molto immatura (Trevarthen, 1989a).
Il discorrere degli adulti, la mimica delle conversazioni e il linguaggio gestuale di un adulto sordo tendono tutti a essere asimmetrici e, nella maggior parte delle persone, l’articolazione dei messaggi preferisce l’attività della metà destra della bocca e della mano destra. L’ascolto del linguaggio è un processo che, tanto nell’adulto quanto nel bambino, interessa soprattutto l’orecchio destro, e in genere si verifica uno spostamento dello sguardo verso il lato destro quando l’adulto articola un’espressione. Queste asimmetrie comportamentali indicano che le espressioni di tipo referenziale sono prodotte e percepite con un maggiore coinvolgimento dell’emisfero cerebrale sinistro. Le asimmetrie di attività cognitive complesse, frutto dell’apprendimento e proprie di adulti in grado di esprimere e comprendere un discorso (Trevarthen, 1987b), emergono anche nei bambini molto piccoli quando attuano comportamenti che richiamano lo scambio conversazionale; tutto ciò sembra rivelare un sistema di motivi, innato e prefunzionale, per tutte le forme di comunicazione espressiva, linguaggio compreso.
E possibile che esista una funzione emotiva complementare nell’altro emisfero del cervello.
Gli stati di autoregolazione e talune forme di ricezione emotiva che tengono sotto controllo la sfera interpersonale in cui avviene io scambio dei messaggi, potrebbero interessare la metà destra del cervello e venire espresse con più intensità nella parte sinistra del corpo. Gli studi sui potenziali evocati (Eimas et al., 1971) e le osservazioni sui cambiamenti di coerenza nelle oscillazioni dell’elettroencefalogramma (Thatcher et al., 1987) suggeriscono che i bambini ascoltino l’emozione impressa nella voce materna con l’emisfero destro che, alla loro età, è a uno stadio di sviluppo più avanzato rispetto a quello sinistro. I piccoli che si sentono particolarmente tristi, soli o spaventati tendono con maggior frequenza a toccarsi il corpo o i vestiti con la mano sinistra (Trevarthen, 1986b, 1989a), nonostante sia possibile che portino alla bocca preferibilmente la destra. L’asimmetria strutturale del cervello potrebbe essere al servizio di motivi tra loro contrastanti e complementari, affinché il sé cerchi la relazione con gli altri sin dalla nascita.” (p 126-127)
“Il motherese intuitivo
Dagli studi sui primi giochi “conversazionali”, è lecito concludere che i bambini al di sotto dei tre mesi di età hanno esigenze specifiche rispetto al modo in cui le madri dovrebbero comportarsi per aiutarli a crescere e a imparare attraverso la comunicazione. Analogamente, le madri possiedono una forma di adattamento innato per produrre un “linguaggio infantile” (baby-talk) capace di offrire il tipo di sostegno emotivo che il piccolo cerca. Insieme ripetono a intervalli regolari parole brevi, con modulazioni semplici e cantilenate, con una voce sonora e tuttavia rilassata, “sussurrata” e mediamente acuta (Stern et al., 1982). Poiché le caratteristiche tipiche usate nei discorsi delle madri rivolte a bambini molto piccoli (le tonalità vocali e l’andamento melodico, il tempo, la metrica e la ripetitività) risultano comuni a culture e linguaggi del tutto diversi tra loro, evidentemente senza che tali caratteri siano stati appresi, si definisce questo modo di parlare “motherese intuitivo” (Fernald, 1985; Fernald et al., 1989; Grieser, KuhI, 1988). Le madri cinesi e quelle americane parlano secondo gli stessi modelli, sebbene il cinese, diversamente dall’inglese, sia una lingua tonale: le differenze di inflessione e di pronuncia che intercorrono tra i linguaggi vengono temporaneamente sospese, e già immediatamente dopo la nascita i bambini mostrano di prediligere questo stile (Fernald, Kuhl, 1987; Fernald, Simon, 1984).
Le espressioni linguistiche rivolte a bambini molto piccoli sono tendenzialmente brevi, ripetitive, con un’intonazione ritmica e un tono oscillante: la periodicità è un fattore chiave nel motherese. Secondo un modello tipico, la madre articola brevi espressioni (di circa mezzo secondo) ogni 0,75 secondi (adagio), facendo una pausa su battute alterne. Il piccolo riprende il ritmo e, a sua volta, emette un` espressione”, inserendosi esattamente nella pausa che la madre fa tra un vocalizzo e il successivo: è così che insieme giungono a “darsi il turno” (Trevarthen, Marwick, 1986). La mamma si serve di un gran numero di variazioni di tono per segnalare i cambiamenti del proprio contatto emotivo e l’empatia che prova per le emozioni del bambino (Papouek et al., 1985).
La gamma dei tratti prosodici nel modo di parlare di una madre si arricchisce dopo che il bambino ha compiuto il terzo mese di vita e i discorsi contengono suoni più vigorosi, canzonatori e sillabe prive di senso (Sylvester-Bradley, Trevarthen, 1978; Trevarthen, Hubley, 1978). Questa è una risposta alle reazioni più divertite del figlio, che nutre una maggiore consapevolezza di ciò che lo circonda e mostra tentativi, bene orientati, di seguire e afferrare gli oggetti. Gli sviluppi nella “qualità del discorso” materno, il modo in cui trasmette i sentimenti modificando gli organi vocali, seguono quindi la crescita del bambino per quanto riguarda il piacere tratto dal gioco e l’energia delle sue risposte. Si ritiene che le mamme comincino proprio a quest’età a insegnare sistematicamente ai figli le finezze di una manifestazione emotiva (Malatesta, 1985), ma l’espressività infantile si modifica anche a seguito di sviluppi interni.
Ciò che le madri dicono con le parole fornisce molte informazioni circa l’attivo legame psicologico con i bambini. L’analisi linguistica di una trascrizione di ciò che la madre dice al figlio, identificando una serie di “atti linguistici”, rivela la sua inclinazione emotiva verso il piccolo e il grado di accuratezza con cui accoglie la variabilità dei suoi sentimenti. Le coppie madre-figlio mostrano diversi adattamenti di tipo interpersonale ed emotivo, differenze che risultano importanti anche dal punto di vista clinico (Stern, 1985; Trad, 1990).
Analogamente ai caratteri paralinguistici, i cambiamenti nel contenuto e nella qualità dei discorsi materni riflettono al tempo stesso i modi in cui la comunicazione infantile cambia nello sviluppo; le emozioni delle madri mutano ed esse riferiscono cose diverse circa i sentimenti e le modalità di relazione con il gioco del bambino (Trevarthen, Hubley, 1978; Trevarthen, Marwick, 1986).” (pp. 127-129)...
“La regolazione delle prime comunicazioni per mezzo delle emozioni Le comunicazioni infantili risultano meglio coordinate, più regolari ed elaborate, maggiormente evocative e produttive quando le risposte provengono da un partner che mostri un’empatia positiva. Ciò significa che il bambino è preparato a partecipare, in qualità di attore, a uno scambio “dialogico” o a un “incastro di sentimenti” di particolare qualità e ricchezza (Bràten, 988). Egli non sta semplicemente cercando un qualsiasi tipo di fatti “contingenti” (Watson, 1980), o forme ricorrenti di stimolazione aventi un certo grado di varietà o intensità fisica. La struttura diadica ottimale delle emozioni dimostra l’esistenza di una motivazione che definisce le altre persone come dotate di speciali caratteristiche conversazionali ed empatiche e di speciali espressioni di sentimento. Inoltre, l’analisi dei coniportamenti dei due partner comunicativi negli scambi “migliori”, o comunque in quelli meglio organizzati e coordinati, mostra che adulti e neonati condividono i medesimi standard emotivi che consentono di definire “buona” o “cattiva” un’espressione, e di replicare di conseguenza; questa è la ragione per cui ciascuno è pronto a ricevere un immediato sostegno emotivo dalle reazioni appropriate dell’altro.
Ne deduciamo che le emozioni che si succedono all’interno di relazioni affettuose tra madre e figlio sono essenziali per la regolazione di uno sviluppo cerebrale e di una crescita psicologica normali. Esse non sono soltanto responsabili del controllo naturale degli appetiti e delle avversioni istintive che sono all’immediato servizio della sopravvivenza del corpo, né si limitano a regolarizzare le fasi di nutrizione e i cicli sonno-veglia. Le emozioni che generano le espressioni in cervelli separati, quello della madre e quello del figlio, possono giungere a unirsi in una confluenza di affetti che sviluppa un’organizzazione autonoma, come accade tra due musicisti esperti che improvvisano un unico brano armonizzandolo in maniera coerente e di piacevole ascolto. L’analogia è molto stretta: le applicazioni dell’improvvisazione musicale in psichiatria mostrano come gli stati affettivi possano essere trasmessi e misurati in forme musicali (Pavlicevic, Trevarthen, 1989). Una chiara misura della confluenza è l”agganciarsi” reciproco di movimenti e vocalizzi aventi la medesima frequenza; ma questa è solo l’ossatura di una complessa cooperazione di forme e modelli espressivi.
I disturbi emotivi possono indebolire o distruggere una relazione tra due persone qualunque a qualsiasi età: se uno dei due è troppo eccitato o depresso, troppo spaventato o aggressivo, i contatti reciproci assumono una forma che riduce le possibilità di cooperare e agire consapevolmente. Questo vale per gli scambi tra bambini molto piccoli e le loro madri, e il “gioco” della protoconversazione con un bambino di due mesi non ha successo se uno dei due è in una condizione di turbamento o di distacco.
Chiaramente, il bambino non richiede un periodo prolungato per maturare cognitivamente, per apprendere ad avere emozioni ed essere suscettibile a disturbi emotivi. Come è stato dimostrato da Fraiberg (1980), le reazioni dei bambini di pochi mesi nei confronti dei disagi emotivi della madre attestano che le condizioni di depressione o altre forme di malattia mentale possono presentarsi persino a questo stadio precognitivo, in modo del tutto simile per dinamica e configurazione a quanto avviene negli adulti. Questo è quanto sosteneva la Scuola delle relazioni oggettuali (Kellerman, 1983).” (134-135)
“Il ruolo delle emozioni nell’attaccamento
Nella Teoria dell’attaccamento, la qualità del legame affettivo di un bambino nei confronti della mamma e la sua autoregolazione emotiva sono considerate una conseguenza della sensibilità materna, della sua disponibilità e delle coerenza delle sue cure (Bowiby, 1958).
Tuttavia, le intrinseche differenze dei temperamenti infantili, influenzando la capacità di fornire risposte emotive e l’equilibrio dell’umore, avranno effetti anche sullo sviluppo della relazione (Buck, 1984; Field, 1985).
La comunicazione emotiva tra madre e figlio si snoda in un rapporto specifico tra persone che si riconoscono reciprocamente come individui unici (Blehar et al., 1977; Bowlby, 1958). Il fatto che un bimbo abbia sviluppato o “interiorizzato” un”immagine” preferita ad altre, che gli consente di identificare la madre a un’età così precoce, è cosa dimostrata dalle espressioni di attenzione sospettosa, di paura o di disagio con cui si orienta verso un estraneo. Gli esperimenti mostrano che un bambino di due mesi può riconoscere la madre dalla voce o dall’aspetto. La comunicazione non è solo uno scambio di espressioni codificate secondo le stesse forme per tutte le persone, indistintamente: i tratti identificativi degli individui vengono raccolti e riconosciuti, e tale riconoscimento può rinforzare tanto i sentimenti positivi quanto quelli negativi. I bambini al di sotto dei due mesi di età possono addirittura manifestare una preferenza per le fotografie di persone che gli adulti considerano “di bell’aspetto” (Langlois et al., 1990): presumibilmente, le immagini di volti attraenti contengono caratteri che, per la mente infantile, indicano loro la disponibilità a un rapporto emotivo positivo.
Il comportamento infelice ed elusivo nei confronti di una madre che soffra di disagi emotivi, abitualmente distaccata, eccessivamente dipendente o invadente e insensibile, mostra che la relazione, o l”immagine materna”, potrebbe trasformarsi e risultare caratterizzata dal conflitto e dall’evitamento, piuttosto che dal piacere e dalla cooperazione (Murray, 1992; Stern, 1985). Ii fatto che una simile avversione appresa si possa presentare a pochi giorni dalla nascita, indica che il sistema emotivo infantile è strutturalmente adatto per regolare il contatto con una persona secondo una particolare qualità relazionale. Le prove che ci giungono dai neonati, di cui abbiamo già detto, collocano gli esordi di questo rapporto di cooperazione appresa ancora più indietro nel tempo, negli stadi prenatali.” (pp. 135-136) 5.
Tutti questi dati orientano Trevarthen a concludere il capitolo con due critiche esplicite nei confronti del cognitivismo. La prima è la seguente:
“I bambini sono esseri emotivamente coerenti sin dalla nascita e durante i loro primi mesi di vita sono in grado di partecipare attivamente alla comunicazione con altre persone orientate in modo emotivamente appropriato verso di loro. Per fare questo, essi fanno ricorso a un’ampia gamma di emozioni. E quantomeno curioso che tali capacità siano state tanto spesso disconosciute.
E necessario collocare le osservazioni sulle caratteristiche comunicative ed emotive dei bambini – nel momento in cui essi interagiscono attivamente con persone ed eventi naturali e regolano le proprie esperienze in maniera adattiva – entro il contesto di studi sperimentali che hanno cercato di misurare isolatamente le differenti parti del sistema. Le presunte conclusioni negative, provenienti da approcci empiristici riduttivi, sono state numerose: è ancora radicato il pregiudizio secondo cui bambini troppo piccoli per possedere schemi cognitivi, un concetto di sé e script sociali, non potrebbero realmente nutrire delle emozioni. E stato addirittura suggerito che essi non provino sentimenti finché non abbiano imparato il significato delle proprie espressioni motorie a partire dalle risposte emotive di chi si occupa di loro (Lewis, Michalson, 1985). Essi dunque verrebbero alla luce dotati soltanto di un continuum bipolare di sensazioni positive e negative, o di intensità dell’arousal. Preconcetti del genere impediscono un’intelligente osservazione di come i bambini usano le emozioni.
Molti studi sperimentali hanno sostenuto di poter risolvere interrogativi importanti a partire da pochi dati. Vi sono stati numerosi tentativi per scoprire quando i bambini riescono a discriminare le configurazioni del viso o i movimenti impiegati dagli adulti per esprimere l’emozione (Nelson, 1985); la maggior parte di essi partiva dal presupposto secondo cui l’insuccesso nella percezione consentirebbe di escludere la presenza di motivi e della capacità di orientare un’azione verso uno scopo. Generalmente si crede che l’ambiente, in senso fisico e in senso umano, debba offrire emozioni ai bambini e insegnare loro come distinguerle ed elaborarle. Il tentativo di identificare in maniera oggettiva emozioni tra loro distinte, descrivendo finemente espressioni facciali tipiche estratte dal contesto comunicativo e isolate da altri tipi di espressione, ha però generato soltanto sterili dibattiti sul modo in cui categorizzare e definire le emozioni stesse. Infine, sistemi di punteggi attribuiti ai nomi utilizzati dalle madri per parlare delle emozioni dei loro figli, sia ricordandole sia ricercandole in fotografie, sono stati impiegati per identificare le emozioni precoci e tracciare una mappa dei loro presunti sviluppi, nonostante le ovvie limitazioni poste dall’utilizzo di parole isolate per trasmettere informazioni emotive.
Risultati più interessanti sono venuti invece da studi in cui i sentimenti evocati da parole dotate di valenza emotiva sono stati posti a confronto fra loro per disegnare un campo di somiglianze e differenze (Plutchick, 1980). Uno sforzo introspettivo di questo genere per riferire i sentimenti sembra accordarsi con un’importante caratteristica delle emozioni, cioè il loro modo di funzionare come un campo dinamico di stati controbilanciati (Kellerman, 1983). Le qualità emotive si mappano in stati di autoregolazione: ma sebbene tutto ciò venga riconosciuto, la funzione di regolazione intersoggettiva esercitata dalle emozioni nello scambio comunicativo risulta spesso trascurata.
Naturalmente etologi e psichiatri hanno riconosciuto l’importanza dell’uso interattivo o comunicativo dell’emotività, ma nella maggior parte dei casi l’interesse è puntato sulla regolazione dei conflitti e delle negoziazioni competitive e soprattutto sull’uso dell’inganno, cioè della repressione dei sentimenti, per raggiungere la dominanza sociale (Hinde, 1985).
La psichiatria si preoccupa dell’insuccesso delle relazioni personali e della distruzione dell’immagine di sé, così come accade nella malattia mentale; l’uso delle emozioni in modo positivo è invece rimasto nell’ombra (Emde, 1988; Emde et al., 1991).” (pp. 136-138) La seconda conclusione è ancora più radicale:
“Nella nostra cultura razionale e scientifica si avverte una persistente resistenza, persino tra quanti analizzano la comunicazione madre-figlio in modo attento e sensibile, ad accettare che
i bambini possano nutrire emozioni prima di aver sviluppato quel livello di indipendenza cognitiva dallo stimolo che Piaget ha definito “costanza dell’oggetto” (ad esempio, Izard, 1980; Saarni, Harris, 1989). Si ritiene che, per definire l’oggetto dell’emozione e separarlo dal “sé”, sia necessario un livello minimo di “pensiero” o di “programmazione” percettivo-motoria che vada al di là del “qui e ora”. Così Daniel Stern – che ha contribuito più di ogni altro al nostro apprezzamento degli “effetti dinamici” e di “sintonizzazione” che si realizzano nei giochi comunicativi con i bambini – fa proprie alcune tesi assai opinabili riguardo all’assenza della paura e delle sue espressioni prima dei sei mesi, argomentando che “la paura, in forma d’ansia, risulta dalle stime cognitive di un futuro immediato, e la capacità di anticipare un futuro immediato non sembra presente in modo significativo almeno finché il bambino non ha superato circa il sesto mese di vita” (Stern, 1985, p. 20), ma concede che il bambino piccolo possa provare forme di “angoscia primitiva” affidandosi a “valutazioni affettive” piuttosto che a “stime cognitive”. Questa teoria è associata alla convinzione che l’intersoggettività non compaia nel bambino per i primi sette-nove mesi, finché “scopre di avere una mente e che anche gli altri ne possiedono una – la fondamentale comprensione che le più profonde esperienze soggettive, l’argomento’ della mente, sono potenzialmente condivisibili” (Stern, 1985, p. 124).
Nel bambino più piccolo il processo empatico stesso passa inosservato, mentre è solo la risposta empatica ad essere registrata. Percepire che è stato creato un processo empatico che collega le due menti è una cosa del tutto diversa per il bambino. L’empatia di chi si occupa di lui, quel processo cruciale per lo sviluppo infantile, diventa ora un oggetto diretto della sua esperienza. (Stern, 1985, p. 125)
Analisi dettagliate dei cambiamenti che avvengono nella comunicazione fra madri e figli, a partire dallo stadio neonatale lungo tutto il primo anno di vita, rendono difficile negare che il bambino possieda sin dalla nascita un’ampia gamma di emozioni. Le prove che ci giungono dalle microanalisi di videoregistrazioni di protoconversazioni e di giochi tra madri e figli di due mesi sono inequivocabili. In un bambino con meno di tre mesi di vita troviamo emozioni di tutti i tipi, utilizzate nella regolazione immediata del contatto interpersonale o dell”incastro dialogico” (Bràten, 1988). Trovo del tutto artificiale l’idea di un’intersoggettività che abbia inizio a partire dal sesto mese di vita. I seppur notevoli sviluppi delle capacità percettive, cognitive, motorie ed espressive, nonché della consapevolezza, delle capacità mnestiche e di previsione, in questa che è la fase di più rapida trasformazione dello sviluppo umano, non sembrano in grado di creare la competenza per un contatto emotivo ed empatico con un’altra persona. Né sembra che lo sviluppo della coscienza generi tutte le forme di intersoggettività, sebbene sia ampiamente confermato che, intorno ai sei mesi circa, il bambino raggiunge una nuova forma di autoconsapevolezza, molto più sensibile e vivace, oltre a un senso di presenza sociale per quanto riguarda l’apprezzamento e l’approvazione provenienti da altre persone (Reddy, 1991; Trevarthen, 1990b).
Credo che le teorie che intendono spiegare lo sviluppo emotivo non facciano altro che descrivere i cambiamenti dovuti sia alla crescita basata sull’esperienza (procedurale) dei motivi che spingono a rapportarsi al mondo, sia all’ampliamento di una conoscenza pratica sul modo di comunicare riguardo a relazioni, ruoli, compiti, esperienze, significati e così via; ma non parlano dell’arricchimento della gamma emotiva stessa (Emde et al., 1991; Trevarthen, 1982). Le ricerche sulle espressioni facciali infantili, che si avvalgono dei giudizi di adulti (madri incluse) su fotografie, per tracciare la differenziazione delle emozioni, in realtà esplorano le immagini, o le “teorie”, degli adulti rispetto ai bambini come esseri coscienti in grado di intendere, e indagano sulle attribuzioni di ciò che essi potrebbero voler dire nell’atto comunicativo. La descrizione delle reazioni e delle interazioni inconsapevoli e intuitive tra adulti e bambini fornisce una base più solida per tratteggiare il modo in cui le emozioni agiscono nel regolare direttamente i rapporti intersoggettivi.
La distinzione fra motivi diretti verso se stessi, quelli diretti verso oggetti e quelli intersoggettivi ci aiuta a discriminare fra le emozioni. E chiaramente dimostrato che i bambini, alla nascita, possiedono non solo un sistema emotivo coerente e differenziato che riproduce, in miniatura, l’intera gamma osservabile negli adulti (allo stesso modo in cui la mano del neonato, o del feto, ha cinque dita), ma anche la distinzione tra funzioni emotive che sono “riferite alla persona”, “riferite all’oggetto” e “riferite al corpo”. Certamente queste funzioni diventano più chiare ed efficaci con lo sviluppo, ma appaiono in forma rudimentale già nel neonato. In altre parole, le emozioni non sono costruite con, un processo di apprendimento a partire da stati egocentrici indifferenziati di eccitazione, arousal, frustrazione o sorpresa.
Per dirla in un altro modo ancora, gli esseri umani nascono dotati di emozioni intuitive e in grado di riferirle agli oggetti in diversi modi per regolare differenti tipi di relazione che possiedono motivazioni psicologiche molteplici. Le emozioni così differenziate vengono inizialmente generate per autopoiesi (autocreazione) nei tessuti del cervello ancora allo stadio embrionale, isolate dal mondo in cui in seguito opereranno (Fogel, 1985; Thelen, 1985). Nel nostro passato evolutivo, è possibile che le strutture di base fossero collegate alle primitive richieste adattative di tessuti e di sistemi del corpo esterni al cervello e alla percezione di oggetti e di eventi nell’ambiente esterno al corpo, per agirvi; nell’organismo umano, tutto ciò rappresenta una caratteristica centrale, regolata su base genetica, dell’epigenesi cerebrale.
Dalle ricerche degli ultimi tempi appare allo stesso modo evidente che chi si prende cura del bambino ed entra in una relazione intima di sostegno affettivo con lui deve offrire risposte emotive intuitive e comportamenti controllati in modo inconsapevole, che non possono essere frutto di apprendimento. Le straordinarie somiglianze che compaiono in diverse culture rispetto, ad esempio, all’intonazione, al tempo, ai toni e ai ritmi delle vocalizzazioni materne, e le caratteristiche simili, ma meno marcate, osservate quando uomini o bambini più grandi tentano lo stesso contatto con un neonato, testimoniano l’universalità sia delle esigenze dei piccoli, sia della motivazione propria di ogni mente umana a soddisfarle. Sembra probabile che il substrato neurobiologico per questi codici emotivi, reciprocamente riconosciuti, sia identico nella madre e nel bambino. Si può dire che entrambi condividano gli stessi criteri per la scansione temporale, la forma e la forza dinamica, e che si relazionino l’uno all’altra come esseri complementari: entrambi hanno emozioni che nella comunicazione si adeguano reciprocamente e si “inter-animano”.” (pp.138-141)
Il capitolo 4 si conclude con una nota che Trevarthen ha scritto per l’edizione italiana di notevole interesse:
“Nota
È notevole che, più di centoventicinque anni dopo la pubblicazione del famosissimo libro di Darwin sull’espressione delle emozioni negli animali e nell’uomo, gran parte degli psicologi continui a sostenere che le emozioni dei bambini piccoli sono poco differenziate, in attesa di compiere esperienze sociali e di ottenere il riflesso dei sentimenti e delle reazioni di altre persone. Ciò si collega intimamente a una teoria dello sviluppo dell’autocoscienza guidata dall’apprendimento sociale. Darwin era convinto del contrario: considerava le emozioni il “cuore” della comunicazione umana, fondamentali per indirizzare un bambino “sulla strada giusta”. Analisi dettagliate delle interazioni fra bambini di pochi mesi e altre persone dimostrano la loro capacità di esprimere l’intera gamma delle emozioni, vuoi con smorfie della faccia, vuoi con vocalizzazioni e gesti delle mani (Trevarthen, 1993a). Man mano che il bambino cresce, i mutamenti anatomici e nella sua capacità di realizzare rapide sequenze di movimenti con i muscoli che esprimono le emozioni testimoniano il differenziarsi di sottigliezze nuove, ma la valenza dei sentimenti e dei loro effetti sulle altre persone non cambiano. Le convenzioni sociali e i ruoli personali, acquisiti man mano che un bambino assume il proprio posto nella società, influenzano l’evocazione e l’espressione delle emozioni, che a loro volta ricevono significati diversi nel linguaggio e nel modo in cui i comportamenti emotivi vengono considerati entro i contesti morali che fanno parte della nostra vita di comunità. Ciò nonostante, un neonato è già in grado di scambiare empaticamente emozioni con un’altra persona, a patto che essa desideri presentarsi emotivamente disponibile al piccolo nei modi a lui o lei comprensibili.
Non riesco a immaginare come le emozioni potrebbero funzionare per regolare le relazioni, e la valutazione di tutte le esperienze, oltre che delle loro rappresentazioni significative e simboliche, se nel cervello non esistesse un insieme chiaro e universale di stati ed espressioni emotive innate: ciò è quanto emerge dalle osservazioni sui neonati. Inoltre, l’espressione delle emozioni rispetto ai tre versanti dell’esperienza (quello del corpo, quello di oggetti fisici che possono presentare valenze tali da suscitare emozioni, e quello di altre persone – o animali – che sono in grado sia di suscitare che di ricevere reazioni emotive) dimostra la funzione centrale dei contrasti e delle transizioni affettive nel proseguire in azioni coscientemente intraprese, utilizzando il mondo e comunicando riguardo a esso (Trevarthen, 1993a, 1998). Credo sia un compito importante per la psicologia cercare di comprendere in che modo i processi emotivi intrinseci sono regolati per attraversare i mutamenti collegati all’età, in modo da trasformare le interrelazioni fra questi tre aspetti della nostra vita emotiva. Questi mutamenti infatti determinano cose tanto importanti come le nostre relazioni di attaccamento, le nostre esplorazioni della realtà e le amicizie con cui ci leghiamo per ricercare un accordo su cosa significhi l’universo e per condividere la cultura.” (pp. 142 – 143)
6.
E’ evidente che, con le sue ricerche e il suo mantenersi defilato rispetto al cognitivismo che ha egemonizzato la Psicologia dagli anni Sessanta agli anni Novanta del secolo scorso, Trevarthen si può ritenere tra i precursori di un nuovo approccio alle emozioni, che si è delineato con la pubblicazione delle opere di J. Panksepp, J. LeDoux e A, Damasio. Non ritengo un caso che, per quanto ne so, nessuno di questi autori lo abbia mai citato. In realtà Trevarthen, sottolineando il ruolo primario delle emozioni sociali e dell’intersoggettività e il loro valore persistente nell’organizzazione dell’esperienza adulta, è andato al di là di tutti e tre. Egli ha stabilito un ponte tra le emozioni sociali e l’acquisizione della cultura, sul quale occorrerà continuare a riflettere.