1.
Benché non recentissimo, data la velocità con cui si sviluppano le neuroscienze, il saggio di Plutchik rimane per ora la rassegna più dettagliata delle ricerche neurobiologiche sulle emozioni, anche se ovviamente il suo intento è di valorizzare la teoria messa a punto dall’autore, che è rigorosamente psicoevoluzionistica. Per la sua completezza, la cui unica lacuna è l'assenza di ogni riferimento ad A. Damasio, la cui prima opera (L'errore di Cartesio) è stata pubblicata nel 1994, essa fornisce l'occasione di operare qualche riflessione sullo "stato dell'arte" in tema di emozioni.
L’esordio del libro enuncia una verità che non pochi psicologi tendono a mascherare:
“Le emozioni fanno talmente parte della nostra vita che si potrebbe pensare che gli psicologi debbano essere in grado di definire il campo e di studiarne sistematicamente i problemi. Sarete sorpresi di sapere che gli psicologi da lungo tempo considerano lo studio delle emozioni come uno degli argomenti più confusi e difficili di tutta la psicologia, e vi è un accordo relativamente scarso su come definire il termine e su come procedere nello studiare l'argomento.” (p. 23)
Di fatto, esistono ancora molteplici definizioni del termine emozione che comportano un certo grado di accordo e di disaccordo tra gli autori, sicché ricavare da esse una definizione integrativa è alquanto difficile. Quella che fornisce Plutchik, come prima approssimazione, è la seguente:
“L'emozione è un insieme complesso di interazioni tra fattori soggettivi e oggettivi, mediate da sistemi neurali/ormonali, che possono, a) dare origine a esperienze affettive come sensazioni di attivazione e di piacere/dispiacere; h) generare processi cognitivi come effetti percettivi emotivamente rilevanti, valutazioni, processi di etichettamento; c) attivare aggiustamenti fisiologici di vasta portata alle condizioni elicitanti; d) portare a un comportamento che è spesso, ma non sempre, espressivo, finalizzato e adattativo.” (p. 27)
Al di là della definizione, il problema è che esistono più di venti teorie delle emozioni, alcune delle quali sono parziali, nel senso che riguardano uno o due problemi principali, mentre altre sono generali, tentano cioè ad includere tutti i problemi che fanno capo alle emozioni.
Plutchik dedica un lungo paragrafo all’illustrazione del perché è così difficile studiare le emozioni, giungendo alla seguente conclusione:
“Diverse ragioni rendono difficile lo studio delle emozioni. Fra di esse vi è il fatto che il linguaggio delle emozioni è complesso e spesso ambiguo; inoltre, le persone sono consapevoli che loro stesse, e probabilmente anche gli altri, mascherano o nascondono i propri sentimenti per vari motivi sociali; il comportamentismo diffidava dei resoconti introspettivi giudicandoli inaffidabili; la ricerca di laboratorio sulle emozioni ha creato dei problemi etici. Per quanto queste ragioni siano rilevanti, va considerato un ulteriore fattore, quando si cerca di capire perché lo studio delle emozioni è così difficile: si tratta delle diverse tradizioni storiche che hanno influenzato direttamente o indirettamente il modo di concepire le emozioni, e questo riguarda tanto lo scienziato che l'uomo della strada.” (p. 36)
Sarei totalmente d’accordo su quest’ultima considerazione se essa significasse che, quando la scienza ha come oggetto l’uomo o una qualunque dimensioni dell’umano - come le emozioni -, è inevitabile che essa debba fare i conti con i “pregiudizi” ideologici preesistenti (anche nell’accezione non univocamente negativa che il termine ha in Gadamer), vale a dire con la cultura che ne precede l'avvento e ha già inesorabilmente fornito delle interpretazioni.
Purtroppo, però, Plutchik intende per tradizioni storiche solo le teorie formulate sulle emozioni da autori "storici": C. Darwin, W. James, W. Cannon, S. Freud. A costoro, infatti, è dedicato il secondo capitolo, che si conclude con un breve accenno alla tradizione cognitivista.
In realtà, se si volesse veramente tenere conto delle tradizioni storiche, vale a dire del contesto socio culturale all’interno del quale si è sviluppata la teoria delle emozioni, occorrerebbe riconoscere che Darwin, riconducendosi a Locke e a Hume, attribuisce alla natura umana un potente istinto sociale, che per molti aspetti influenza la sua emozionalità, mentre Freud, riconducendosi ad Hobbes, nega quell’istinto e, di conseguenza, assume le emozioni come derivati delle pulsioni (eros, tanathos). W. James e W. Cannon, poi, avviano la riflessione psicologica sulle emozioni incentrandolo sul rapporto tra mente e corpo; dimensioni che, da Cartesio in poi, sono state considerate e vissute culturalmente come dissociate, tal che non è sorprendente che, agli albori della neurobiologia delle emozioni, siano affiorate una teoria centrale e una periferica.
Occorrerebbe, infine, considerare che, nel contesto di una civiltà che ha eletto l’adattamento al mondo così com’è a metro di misura della normalità, tutte le teorie sulle emozioni siano rimaste cristallizzate sull’ideologia adattamentista. Su questo aspetto, che ritengo straordinariamente importante, tornerò ulteriormente.
2.
Il secondo capitolo è dedicato alla distinzione delle emozioni in primarie e secondarie e alla loro classificazione:
“Se si assume che esistano un piccolo numero di emozioni considerate primarie o basilari o basiche o fondamentali, e che tutte le altre emozioni siano secondarie, combinazioni o miscugli di quelle primarie, si devono identificare le emozioni primarie e poi spiegare quali emozioni miste o miscugli di emozioni derivano da esse.” (p. 67)
Le emozioni primarie proposte nel corso degli anni sono rappresentante nella tabella seguente:
Dalla tabella risulta chiaro che tutti gli autori “concordano sull'esistenza di un numero ridotto di emozioni primarie. Il numero più piccolo è tre e il più grande undici, ma la maggior parte delle proposte elencano da cinque a nove emozioni. E’ anche interessante il fatto che determinate emozioni come paura e rabbia compaiono in ogni lista. La tristezza (o i sinonimi dolore, angoscia o solitudine) compare in ogni lista tranne due. E la gioia (o i quasi equivalenti amore, piacere, entusiasmo, felicità o soddisfazione) compare in ogni lista. Meno comunemente citate come emozioni primarie sono sorpresa, disgusto, curiosità, aspettativa, vergogna e senso di colpa.” (p. 71)
Ancora più problematica è la concordanza sulle emozioni secondarie e sugli “ingredienti” emozionali primari che le sottendono. Le numerose liste prodotte dagli autori sono, infatti, addirittura più eterogenee delle liste inerenti le emozioni di base.
Le emozioni secondarie comunemente ammesse sono Amore, Amichevolezza, Allarme, Timore, Rimorso, Disprezzo, Odio, Ostilità, Colpa, Orgoglio, Vergogna, Ansia, ecc.
Il collegamento delle emozioni tra loro si può stabilire sulla base di tre caratteristiche: intensità, somiglianza e polarità. Plutchik scrive:
“La maggior parte di coloro che hanno studiato le emozioni riconoscono che il linguaggio delle emozioni ha un'intrinseca dimensione d'intensità. Per molte parole nel lessico delle emozioni, in genere è possibile trovare altre parole che suggeriscono una versione più intensa o più debole di quell'emozione. Per esempio, forme più intense di rabbia sarebbero collera e furore, mentre forme meno intense sarebbero fastidio e irritazione. Analogamente, possiamo identificare le differenze d'intensità fra pensierosità, tristezza e sofferenza. Questi esempi indicano che la maggior parte delle emozioni (o forse tutte) si collocano in punti diversi lungo dimensioni implicite d'intensità.
Un secondo punto da sottolineare è che le emozioni variano nella somiglianza reciproca. Questa caratteristica è chiaramente evidente nel caso di sinonimi quali paura e spavento (che possono semplicemente riflettere punti vicini lungo la dimensione dell'intensità), ma vale anche per le dimensioni principali. La dimensione di rabbia, per esempio, è più simile alla dimensione di disgusto (antipatia, disprezzo) che alla dimensione di gioia (allegria, entusiasmo). E anzi possibile studiare sistematicamente il grado di somiglianza delle diverse dimensioni emozionali, o emozioni primarie, come si vedrà tra breve.
Una terza caratteristica importante che fa parte della nostra esperienza delle emozioni è la loro natura bipolare. Nella nostra esperienza quotidiana tendiamo a concepire le emozioni in termini di coppie di opposti; parliamo di felicità e tristezza, amore e odio, paura e rabbia. James una volta osservò che possiamo usare l'autocontrollo per influenzare le nostre tendenze emozionali mettendo in pratica emozioni opposte; possiamo affrontare le nostre Sensazioni di odio cercando di amare i nostri nemici. Perciò, possiamo concludere che il linguaggio delle emozioni implica almeno tre caratteristiche delle emozioni: 1) variano d'intensità; 2) variano nel grado di somiglianza reciproca; 3) esprimono sensazioni o azioni opposte o bipolari.” (p. 78)
Sono stati fatti diversi tentativi di studiare queste caratteristiche in modo sistematico. Sulla base dei giudizi di somiglianza, Plutchik è giunto a rappresentare il seguente cerchio emozionale:
Il commento è il seguente:
“La prima cosa da notare nella figura 3.2 è che i termini emozionali sono distribuiti lungo tutto il cerchio, e non vi sono vuoti. Nulla, nel metodo usato per individuare le collocazioni angolari, poteva garantire questo risultato, il quale, pertanto, non è un artefatto dovuto al metodo.
Ulteriore conferma di questo punto è il fatto che molti termini che sono linguisticamente opposti cadono in parti opposte del cerchio. Per esempio i termini diffidente e ricettivo sono separati di quasi 180°. Questo è vero anche per affettuoso e ostile e per felice e disgustato. Analogamente, parole che hanno un significato palesemente opposto si trovano anche sui versanti opposti del cerchio. Per fare solo qualche esempio, le parole accettante, allegro, ricettivo sono opposte a seccato, risentito, disgustato; emozioni quali contento, felice, entusiasta sono opposte a triste, infelice, disperato.
Una seconda osservazione importante è la particolare sequenza di termini. E evidente che emozioni con significati simili tendono a raggrupparsi. Per esempio, i termini disperato, depresso, infelice, deluso, incerto, sconcertato, confuso, perplesso, sorpreso si collocano in posizioni adiacenti. Troviamo raggruppamenti analoghi per le dimensioni della paura e della rabbia e per altre dimensioni fondamentali.
Una terza caratteristica interessante di questo cerchio emozionale empirico è che contribuisce a definire il linguaggio talvolta ambiguo delle emozioni. Per esempio, preoccupato è spesso concepito nel contesto della paura, ma empiricamente era collocato nel cluster delle parole di depressione. Analogamente, sdegnoso, che contiene uno spiccato elemento di rifiuto o di disgusto, risultò collocato nel cluster delle parole di rabbia. Questo risultato indica che le definizioni del dizionario non sempre corrispondono al modo in cui le persone usano effettivamente i termini emozionali.” (p. 80)
Utilizzando un’analisi fattoriale, si giunge poi al seguente modello circomplesso:
Da tale modello risulta chiaro che “le categorie si fondono l’una nell’altra in un continuum senza inizio né fine. Termini che sono vicini (per esempio, calmo e rilassato) tendono ad essere sinonimi, mentre termini opposti sul cerchio tendono ad essere contrari (per esempio, eccitato/annoiato; seccato/calmo; triste/lietissimo).” (p. 84)
C’è da chiedersi a questo punto se il gioco vale la candela, se cioè vale la pena utilizzare il metodo sperimentale per giungere a risultati che sembrano far già parte, intuitivamente, del senso comune.
Plutchik pensa di sì, perché è sulla base di tali premesse che è possibile costruire modelli o teorie delle emozioni.
3.
Alle teorie, appunto, è dedicato il capitolo quarto, che, per la classifica dei modelli e la chiarezza espositiva, merita una citazione quasi integrale:
Tomkins (1962, 1970) ipotizza che esistano otto emozioni fondamentali o primarie (che chiama affetti). Gli affetti positivi sono interesse, sorpresa e gioia. Quelli negativi sono angoscia, paura, vergogna, disgusto e rabbia. Queste emozioni primarie sono «risposte strutturate innate» a certi tipi di stimoli, e vengono espresse attraverso un'ampia varietà di reazioni corporee, soprattutto facciali. Per ogni affetto si ipotizza che esistano programmi specifici in aree subcorticali del cervello. Vi è pertanto una base genetica, specie‑specifica, per l'espressione delle emozioni primarie.
La teoria sottolinea soprattutto le distinzioni fra il sistema degli affetti e il sistema delle motivazioni. Spesso gli psicologi danno per scontato che motivazioni quali fame e sesso costituiscano potenti impulsi all'azione. Tomkins ritiene invece che le motivazioni siano anzitutto segnali di bisogni fisici, segnali che verrebbero amplificati dalle emozioni. Per esempio, la deprivazione di ossigeno (anossia) crea un bisogno di ossigeno, ma l'affetto della paura crea il senso di urgenza o di panico. Durante la seconda guerra mondiale i piloti che avevano dimenticato di indossare la maschera, a 9000 metri d'altezza soffrivano di una graduale carenza di ossigeno. II bisogno era presente, ma il lento processo di deprivazione non produceva una consapevolezza del bisogno, e non c'era panico. Senza la presenza dell'emozione, i piloti non agivano, e morivano.
Il sistema degli affetti è più generale del sistema delle pulsioni. Le pulsioni operano soprattutto nel portare certi oggetti dentro o fuori del corpo, e tendono ad avere un andamento ritmico. Gli affetti possono associarsi a quasi ogni stimolo (mediante apprendimento) e possono esistere per periodi di tempo più o meno lunghi. Gli affetti sono più forti delle pulsioni, secondo Tomkins, poiché per portare una persona ad agire, tutto ciò che dobbiamo fare è creare uno stato emozionale (per esempio, gioia, rabbia o vergogna), a prescindere dallo stato pulsionale. Una persona che viene spaventata da un'automobile, si metterà a correre, a prescindere dal fatto che sia affamata o assetata.
Uno dei più stretti collaboratori di Tomkins è Carroll Izard, che ha ampliato la teoria di Tomkins con particolare attenzione al ruolo delle espressioni facciali nelle emozioni.
Izard sostiene che si è data troppa importanza al feedback del sistema nervoso autonomo come determinante principale delle emozioni, e propone di considerare gli affetti primariamente come risposte facciali. I pattern di reazioni facciali che consideriamo emozionali avrebbero una base neurologica in programmi subcorticali specifici per ogni emozione. Tali programmi sarebbero geneticamente determinati. «Non si apprende ad avere paura, a piangere, a trasalire, più di quanto non si apprenda a provare dolore o a boccheggiare per mancanza di ossigeno. Naturalmente, si apprende ad aver paura di cose specifiche, ad arrabbiarsi, vergognarsi o eccitarsi in certe condizioni» (Izard e Tomkins, 1966). Analogamente, l'idea di ansia appresa o di depressione appresa è fuorviante. Le persone non apprendono a sentirsi spaventate o depresse; apprendono soltanto i segnali che innescano reazioni di ansia o depressione (Izard, 1972).
Seguendo Tomkins, Izard afferma che vi sono diverse emozioni primarie, che si possono combinare a formare tutte le altre. Talvolta elenca otto emozioni fondamentali, talaltra dieci. La lista più lunga comprende interesse, gioia, sorpresa, angoscia, rabbia, disgusto, disprezzo, vergogna, colpa e paura. Sebbene molti ricercatori abbiano ritenuto di avere studiato l'una o l'altra di queste emozioni isolate, Izard sostiene che questo è improbabile. Emozioni primarie discrete si verificano molto raramente nella vita di una persona.
Per illustrare le sue idee sulla mescolanza o sulla strutturazione delle emozioni, Izard esamina il concetto di ansia. Nel 1966, con Tomkins, aveva descritto l'ansia come un affetto dirompente che si dovrebbe identificare semplicemente come paura. Ma nel 1972 concluse che l'«ansia» era un concetto multidimensionale che includeva le emozioni di paura e due o più delle emozioni seguenti: angoscia, rabbia, vergogna, senso di colpa e interesse. Anche amore, ostilità e depressione erano emozioni complesse.
Izard afferma che da un punto di vista evolutivo non sembra probabile che un animale debba pensare prima di poter sentire. In effetti, per sopravvivere, un animale deve avere delle risposte emozionali (come fuggire o attaccare) innescate da meccanismi innati, pulsioni o percezioni, oltre che da cognizioni. Per esempio, la comparsa di un certo colore sul ventre della femmina innesca la danza di accoppiamento dello spinarello. Izard direbbe che in questa reazione emozionale non è coinvolto alcun processo cognitivo. Un altro esempio, che si incontra spesso nella pratica clinica, è l'ansia liberamente fluttuante o paura senza oggetto, che Izard interpreta come emozione senza un segnale cognitivo. In breve, «l'emozione [è] un'esperienza definita non da uno stimolo ma da processi ereditari trasmessi attraverso l'evoluzione» (ibid.).
Izard ha anche alcune idee interessanti sulla comparsa e sullo sviluppo delle emozioni nei bambini piccoli (Buechier e Izard, 1983). Quelle che chiama emozioni fondamentali o discrete si sviluppano molto presto nella prima infanzia, e hanno ognuna una funzione specifica, cioè segnalano alla figura di accudimento i bisogni urgenti del bambino. Questi stati emozionali sono segnalati da espressioni facciali, che Izard ritiene essere strettamente collegati all'esperienza emozionale.
Dal punto di vista di Izard, le emozioni sono soltanto una parte dell'organizzazione della personalità. Gli altri sottosistemi della personalità comprendono i sistemi omeostatico, percettivo, cognitivo e motorio. Sebbene ogni sistema abbia un certo grado di indipendenza, sono tutti collegati in modo complesso.
Per giustificare il concetto di emozioni primarie, Izard elenca alcuni criteri, fra cui i seguenti: le emozioni fondamentali hanno una base neurale specifica, un'espressione facciale specifica, una sensazione distinta, un'origine nei processi evolutivo‑biologici; una proprietà motivante che assolve funzioni adattative (Izard, 1991).
I contributi di Izard sono indubbiamente importanti, e hanno stimolato una quantità di colleghi a proseguire la ricerca in questa direzione. Ricordiamo gli esperimenti sui fattori collegati all'abbinamento fra espressioni facciali ed etichette verbali, sulle variabili transculturali nelle descrizioni di emozioni e sugli indici fisiologici di pattern muscolari nel volto. Ricordiamo poi la sua lista di aggettivi autodescrittivi, che i clinici hanno utilizzato con varie popolazioni psichiatriche.
Nel 1962 Schachter e il suo collega Jerome Singer descrissero in un articolo un modello cognitivo delle emozioni che ha influenzato numerosi psicologi. Per William James le nostre sensazioni emozionali erano in gran parte basate sulle esperienze di modificazioni fisiologiche collegate al sistema nervoso autonomo. Ne deriva che noi basiamo la nostra esperienza di emozioni diverse, come tristezza e rabbia, su schemi diversi di attivazione del sistema nervoso autonomo, specifici per ogni emozione.
Poiché i dati in proposito sono scarsi, Schachter e Singer decisero di tentare di identificare la base per catalogare uno stato emozionale secondo l'interpretazione del soggetto. Ma, ancora influenzati da James, aggiunsero la condizione della presenza concomitante di uno stato di attivazione fisiologica. Il soggetto può interpretare il medesimo stato di attivazione fisiologica come gioia o rabbia, o qualunque altro stato emozionale, a seconda di come interpreta la situazione. Questa concezione presuppone un unico tipo di eccitazione o attivazione fisica. Per esempio, un uomo che è eccitato perché gioca a football si troverebbe nello stesso stato fisiologico di un uomo che è eccitato perché sta baciando la sua ragazza.
Quali sono i dati a sostegno di queste affermazioni? Lo studio principale mirato a confermarle, che fu pubblicato nel 1962, descrive un complicato esperimento d'inganno in cui i soggetti erano degli studenti universitari. Questo studio è ampiamente citato perché si ritiene che dimostri la teoria di Schachter e Singer; sembra dunque opportuno presentarlo nei dettagli.
A diversi gruppi di studenti universitari che partecipavano all'esperimento venne comunicato che sarebbe stata loro iniettata una nuova vitamina per determinarne gli effetti sulla visione. In realtà venne loro iniettata adrenalina, che tende a produrre tachicardia e palpitazioni. Lo sperimentatore poi espose i soggetti di un gruppo a una condizione di «euforia»: una persona che era d'accordo con lo sperimentatore correva per la stanza, giocava con aeroplanini di carta e si comportava in modo sciocco. Venne valutata la partecipazione dei soggetti a tali attività, e inoltre i soggetti espressero delle autovalutazioni del proprio grado di felicità e di rabbia. Ai soggetti di un altro gruppo fu chiesto di riempire un questionario che presentava domande imbarazzanti, e furono raggiunti da un'altra persona che faceva da «spalla» allo sperimentatore, ed era stata istruita a comportarsi come se fosse arrabbiata. Anche qui vennero eseguite le valutazioni dei comportamenti di rabbia e le autovalutazioni di felicità e rabbia. Ad altri gruppi di soggetti, gli sperimentatori dissero che dovevano aspettarsi dei sintomi fisici che in realtà non si verificano mai dopo un'iniezione di adrenalina. Ad alcuni soggetti venne praticata un'iniezione di soluzione salina (un placebo), che non ha alcun effetto fisico.
Un risultato sorprendente di questo studio fu che le autovalutazioni mostravano che i soggetti erano più felici che arrabbiati nella situazione di rabbia. In seguito gli sperimentatori dovevano scoprire che ciò accadeva perché agli studenti erano stati promessi due punti in più nell'esame finale se partecipavano all'esperimento, e dunque temevano, riferendo sensazioni di rabbia, di perdere questa ricompensa: perciò le autovalutazioni non riflettevano in modo preciso le sensazioni emozionali dei soggetti.
Quando vennero analizzate le valutazioni comportamentali degli osservatori non si trovarono differenze significative fra i gruppi che avevano ricevuto l'iniezione di adrenalina e gli altri (gruppi placebo). Poiché questo risultato era in contrasto con le aspettative degli autori, essi fecero un'ulteriore analisi interna, che consisteva nell'eliminare dai gruppi certi soggetti che tendevano a giustificare le proprie reazioni fisiche, i cosiddetti soggetti autoinformati. Dopo questa modifica, emersero alcune differenze significative fra i gruppi.
Visto il numero dei soggetti eliminati dall'esperimento, è interessante considerare questo aspetto più in dettaglio. Dei 185 soggetti originari, uno rifiutò di accettare l'iniezione e undici si dimostrarono così sospettosi che i loro dati furono scartati. A venti soggetti placebo fu riscontrato un battito cardiaco rallentato, e furono tolti dallo studio. Sedici soggetti nelle condizioni sperimentali furono considerati autoinformati ed eliminati. Un soggetto fu eliminato per un guasto del sistema di registrazione. Pertanto, dei 185 soggetti originari, soltanto 136 furono inclusi nel computo finale, il che significa che non vennero utilizzati i dati di quasi un soggetto su quattro.
Un altro aspetto discutibile dell'esperimento riguarda l'uso del ritmo cardiaco come misura di attivazione fisiologica. E’ stato dimostrato da molti autori (per esempio Lacey e Lacey, 1962) che il ritmo cardiaco è scarsamente correlato con altre misure di attivazione fisiologica, come la pressione arteriosa o la resistenza cutanea. E’ anche risaputo che certi stimolanti (per esempio le anfetamine) producono un decremento del battito, mentre certi sedativi (per esempio, la clorpromazina) hanno l'effetto opposto (Goodman e Gilman, 1960). Pertanto, il battito cardiaco è una misura inadeguata dei livelli generali di attivazione fisiologica.
Harris e Katkin (1975) giunsero a un'analoga conclusione dopo aver passato in rassegna la letteratura sul falso feedback dell'informazione relativa al sistema nervoso autonomo come fattore che produce l'emozione. I dati erano controversi, ma almeno erano coerenti con l'idea che «l'emozione è principalmente uno stato cognitivo, non dipendente dall'attivazione del sistema nervoso autonomo». In altre parole, è possibile che vengano riferite delle emozioni senza che ci sia evidenza di attivazione fisiologica, e viceversa, può esserci attivazione fisiologica senza evidenza di emozioni.
Nonostante la grande influenza dello studio di Schachter e Singer sulla ricerca successiva, non risulta che esso sia stato replicato (Marshall e Zimbardo, 1979; Maslach, 1979; reisenzein, 1983). Tuttavia, lo sìtudio è importante in quanto sottolinea il ruolo dei fattori cognitivi - cioè le interpretazioni del soggetto ‑ nel determinare gli stati emozionali. Nella vita reale degli esseri umani e degli animali, le valutazioni cognitive delle situazioni si verificano prima che il sistema nervoso entri in azione per liberare ormoni nel sangue. Dal punto di vista delle probabilità di sopravvivenza, è altamente improbabile che il comportamento emozionale debba aspettare dagli organi interni una valutazione degli echi dell'attivazione fisiologica.
Una teoria simile per molti aspetti a quella di Schachter è stata proposta da Mandler in Mind and Emotion (1975). L'autore intende presentare un concetto psicologico di attivazione come termine esplicativo fondamentale. Buona parte del libro si occupa del problema di James dell'uovo e della gallina, ovvero di che cosa viene prima ‑ la sensazione dell'emozione o lo stato di attivazione del sistema nervoso autonomo ‑ e, come tutti coloro che hanno affrontato questo problema, Mandler non giunge a conclusioni definitive.
L'assunto fondamentale di Mandler è che l'attivazione del sistema nervoso autonomo «è un segnale all'organizzazione mentale per attivare l'attenzione, lo stato di allerta e la ricognizione dell'ambiente». Inoltre, l'attivazione può risultare o da una «scarica automatica preprogrammata del sistema nervoso autonomo», per stimolazione, o da un'«anaIisi del significato» cioè una valutazione o un'interpretazione della situazione. Per alcuni aspetti, la teoria di Mandler ricorda quella di James, in quanto la percezione dell'attivazione produce un'esperienza emozionale. In altri passi, Mandler sembra sposare il punto di vista alternativo che «valutazioni cognitive e attivazione (...) sono necessariamente contemporanee».
Una delle critiche più importanti mosse da Cannon alla teoria di James è che le risposte del sistema nervoso autonomo sono molto più lente delle risposte introspettive riguardo agli stati emozionali. Mandler ammette che, di conseguenza, possono aversi risposte emozionali in assenza di attivazione, contrariamente a quanto afferma la sua teoria. Per affrontare questo problema, egli ipotizza la possibile esistenza di immagini provenienti dal sistema nervoso autonomo, una sorta di ponte temporale fra l'inizio dell'evento ambientale e la sensazione dell'emozione.
Per Mandler il sistema nervoso autonomo è un sistema di segnalazione che partecipa alla valutazione delle situazioni. Questo è di dubbia rilevanza per le emozioni, poiché le modificazioni che interessano il sistema nervoso autonomo sono lente, diffuse, abbastanza generalizzate, e spesso inaccessibili all'introspezione. Vi sono prove che molte risposte del sistema nervoso autonomo, come la resistenza cutanea, la pressione arteriosa o la tensione muscolare, non si possono discriminare neppure soggettivamente.
Mandler stesso cita prove del fatto che le persone possono facilmente ingannarsi rispetto ai propri livelli di attivazione. Possono essere portate a credere che ci sia attivazione quando di fatto non c'è, possono credere che non vi sia stata attivazione quando misurazioni oggettive del sistema nervoso autonomo mostrano il contrario. Gli studi del falso feedback di indici di attivazione del sistema nervoso autonomo mostrano quanto possano essere inattendibili i resoconti soggettivi di attivazione. Inoltre, gli studi sull'effetto placebo hanno fornito descrizioni di stati emozionali in assenza di attivazione del sistema nervoso autonomo. Infine, una vasta letteratura psico-farmacologica indica che molti farmaci che riescono a oltrepassare la barriera emato-encefalica possono avere effetti profondi su sensazioni e comportamenti emozionali senza avere alcun effetto sul sistema nervoso autonomo. Pertanto, è improbabile che variazioni nel livello di attivazione del sistema nervoso autonomo svolgano un ruolo determinante nel resoconto soggettivo di uno stato emozionale di un essere umano, o nella comparsa di un comportamento emozionale in un organismo inferiore.
Tutti gli autori che si sono occupati di emozioni riconoscono che le emozioni sono tipicamente innescate da eventi, ma si è un po' trascurata un'analisi precisa di ciò che fa scattare l'emozione, e delle interpretazioni o conoscenze associate a questi fattori innescanti. Nel libro di Ortony, Clore e Colfins, The cognitive Structure of Emotions (1988) gli autori tentano di valutare il contributo che la cognizione porta all'emozione. Non prestano attenzione al ruolo della fisiologia, del comportamento o delle espressioni, non perché considerino irrilevanti questi aspetti dell'emozione, ma perché si propongono di studiare una tappa precedente nella catena emozionale: le cognizioni. Cercano di «portare una parvenza di ordine in quello che resta un campo di studio molto confuso e confondente».
Gli autori partono dal presupposto che le emozioni sorgono in seguito a certe cognizioni o interpretazioni. L'emozione stessa è una sensazione o esperienza soggettiva che gli esseri umani adulti possono riferire verbalmente. In altre parole, la teoria di Ortony, Clore e Collins considera le emozioni come sensazioni riferibili mediante il linguaggio delle autodescrizioni.
Ortony, Clore e Collins osservano che si usano quattro classi di dati per studiare le emozioni. Anzitutto, il linguaggio delle emozioni registrato nei dizionari; ma una teoria delle emozioni non è una teoria del linguaggio delle emozioni. Il linguaggio delle emozioni è spesso ambiguo e metaforico, dipende dalla storia e dalla cultura. L'autodescrizione, sebbene soggetta a molti condizionamenti allo scopo di non rivelare i veri stati interiori, è ancora considerata il modo migliore di cogliere Un'emozione. La terza fonte di dati è costituita dal comportamento o dalle espressioni manifeste4, su cui si è concentrata l'attenzione di molti psicologi ed etologi. Infine, le reazioni fisiologiche. Ortony, Clore e Collins si occupano soltanto delle prime due classi di dati.
All'interno della loro teoria, questi autori distinguono fra un tipo emozionale e gli indicatori emozionali. Un tipo emozionale è una famiglia distinta di emozioni strettamente collegate che hanno in comune le condizioni elicitanti di base. Per esempio, paura è un tipo emozionale, mentre felice, odio, pietà, rimorso sono indicatori che rappresentano differenti tipi emozionali. La paura è presumibilmente un tipo emozionale, perché dipende dall'interpretazione di certi eventi come carichi di conseguenze indesiderabili per sé stessi.
Secondo questa teoria, tre aspetti del mondo determinano le nostre conoscenze: eventi, agenti e oggetti. Gli eventi sono le interpretazioni che le persone danno delle cose che accadono. Gli oggetti sono semplicemente gli oggetti, mentre gli agenti sono cose (in genere persone) che possono causare o contribuire agli eventi. Le emozioni sono considerate una sorta di reazione a catena, che comincia sempre con una forte reazione positiva o negativa alle conseguenze degli eventi, ad azioni degli agenti o a qualche aspetto degli oggetti. Perciò possiamo essere contenti o dispiaciuti per le conseguenze di un evento; possiamo approvare o disapprovare l'azione di una persona; possiamo apprezzare o non apprezzare un oggetto. Se approviamo l'azione di un agente, e se l'agente siamo noi, la sensazione o attribuzione emozionale è l'orgoglio. Se l'agente è qualcun altro, proveremo ammirazione. Se disapproviamo noi stessi, proveremo vergogna, mentre se disapproviamo qualcun altro avremo un atteggiamento di rimprovero. Analisi simili si possono fare per termini quali soddisfazione, sollievo, delusione e rabbia. In quest'ottica, l'amore viene semplicemente descritto come l'apprezzare qualche aspetto di un oggetto. Altri esempi sono:
Gioia = contentezza per un evento desiderabile Angoscia = scontentezza per un evento non desiderabile Pietà = scontentezza per un evento ritenuto indesiderabile per qualcun altro Risentimento = scontentezza per un evento ritenuto desiderabile per qualcun altro
Ortony, Clore e Collins aggiungono che la descrizione fondamentale dell'emozione si basa sull'esperienza o sensazione soggettiva, e il meccanismo cognitivo o di valutazione non è necessariamente conscio, cioè una persona può avere una sensazione di paura senza sapere su quale conoscenza è basata questa paura. Da un punto di vista funzionale, gli autori affermano che una funzione dell'emozione è focalizzare l'attenzione sull'evento che induce l'emozione e preparare l'individuo all'azione, nel caso si rendesse necessaria.
Nel capitolo 2 abbiamo descritto quale tipo di studi sono generati da questa teoria, che è anche interessata alle etichette che i soggetti sperimentali assegnano a determinati eventi cognitivi, e sembra implicare che le emozioni richiedono un alto livello di pensiero astratto, quale si può avere negli adulti. L'applicabilità di questa teoria ai bambini o agli animali semplicemente non viene presa in considerazione.
Gran parte dell'opera di Lazarus (1966; Lazarus e Folkman, 1984) riguarda le relazioni fra lo stress e la capacità di affrontarlo (coping) negli adulti. Egli giunse gradualmente a rendersi conto che stress e coping fanno parte di un ambito più vasto: le emozioni. Nel 1991 pubblicò Emotion and Adaptation, che descrive le sue ipotesi sulle relazioni fra tutti questi campi di studio.
Lazarus sottolinea che lo studio delle emozioni deve comprendere lo studio di cognizione, motivazione, adattamento e attività fisiologica. Le emozioni implicano valutazioni dell'ambiente e delle relazioni dell'individuo con gli altri, e tentativi di venire a patti con essi. Pertanto Lazarus definisce la sua teoria come un «sistema esplicativo cognitivo-motivazionale‑relazionale» incentrato sulla relazione persona‑ambiente.
L'idea centrale della sua teoria è il concetto di valutazione, che si riferisce a un processo decisionale che valuta i danni e i benefici personali esistenti in ogni interazione persona-ambiente. Le valutazioni primarie riguardano la rilevanza dell'interazione per i propri obiettivi, quanto la situazione è congruente con l'obiettivo (impedimento o facilitazione degli obiettivi personali) e il coinvolgimento dell'Io (grado di impegno). Le valutazioni secondarie decidono sul biasimo o il credito, sul proprio potenziale di coping e sulle aspettative future. Le emozioni sono considerate categorie discrete, ognuna delle quali può essere collocata su un continuum da «debole» a «forte». Parecchie emozioni possono verificarsi contemporaneamente, perché in ogni particolare incontro vengono coinvolti molteplici motivazioni e obiettivi. Ogni emozione comporta una specifica tendenza all'azione, come l'attaccare nel caso della rabbia, la fuga nel caso della paura, il nascondersi nel caso della vergogna e così via.
Un elemento fondamentale del concetto di valutazione secondaria è il concetto di coping, che si riferisce ai modi di gestire e interpretare conflitti ed emozioni. Secondo Lazarus vi sono due tipi generali di processi di coping. Il coping focalizzato sul problema affronta i conflitti con un'azione diretta mirata a modificare la relazione (per esempio, attacco in caso di pericolo). Il coping focalizzato sull'emozione (o cognitivo) affronta i conflitti reinterpretando la situazione (per esempio, diniego di fronte a una minaccia). Il concetto di valutazione non ha nulla a che fare con la razionalità, l'intenzionalità o la coscienza.
Un altro aspetto importante della teoria di Lazarus è il concetto di temi relazionali nucleari. Un tema nucleare è il danno o il beneficio principale che si ottiene in ogni incontro emozionale. Per esempio, il tema relazionale nucleare per la rabbia è «un'offesa umiliante contro me e le mie cose»; per il senso di colpa è «aver trasgredito un imperativo morale»; per la speranza è «temere il peggio ma desiderare il meglio». Dunque l'emozione coinvolge sempre la cognizione. Come disse Shakespeare, «non c'è nulla di buono o di cattivo, è il pensiero a renderlo tale».
Ci si può chiedere se sia necessaria una valutazione per tutte le reazioni emozionali, o se possano verificarsi delle emozioni senza valutazione. Lazarus dedica un certo spazio alla questione, concludendo che «la valutazione è una causa necessaria e sufficiente delle emozioni, e l'emergere di emozioni diverse nei lattanti e nei bambini piccoli di diversa età riflette lo sviluppo della comprensione di sé e del mondo». Lazarus ritiene che questo sia applicabile anche agli animali.
Un'altra questione è se dobbiamo comprendere il funzionamento del cervello per poter comprendere le emozioni. Lazarus è di parere negativo: dobbiamo comprendere come persone e animali agiscono e reagiscono da mente), per poter comprendere come funziona il cervello.
Una terza questione è se all'interno di una determinata cultura può essere sperimentata un'emozione per cui quella cultura non possiede un nome specifico. Per esempio, poiché i tahitiani hanno pochi vocaboli per indicare tristezza o solitudine, ciò significa che non percepiscono queste emozioni? Lazarus ritiene che in ogni cultura si sperimentino le relazioni fondamentali sottostanti a tutte le emozioni, che siano definite o meno con un nome. Vale a dire, le emozioni sono anzitutto fenomeni psicobiologici, più che fenomeni linguistici.
Tentando di dimostrare l'applicabilità delle sue idee sulle emozioni allo sviluppo infantile, alla salute mentale e alla psicopatologia, Lazarus conclude: «Sebbene tutti sembrino presumere che l'emozione sia irrazionale, [è vero] piuttosto il contrario; l'emozione dipende dalla ragione.» Il suo assunto fondamentale è che «allo scopo di sopravvivere e prosperare, gli animali (specialmente gli esseri umani) sono costruiti biologicamente in modo tale che sono costantemente coinvolti in valutazioni (stime) delle loro relazioni mutevoli con l'ambiente». Per la valutazione occorre individuare e giudicare le condizioni adattative di vita che richiedono l'azione. E’ questa valutazione che determina lo stato emozionale.
La teoria di Lazarus è importante perché dirige l'attenzione su un aspetto dell'emozione, la conoscenza, che altri hanno trascurato o minimizzato. Nessuno ha mai esplicitamente negato che occorra una percezione o una cognizione per innescare la sequenza di eventi che risultano nell'emozione, ma raramente si è tentato di manipolare in modo sistematico le condizioni stimolo, allo scopo di identificare le variabili che influenzano la cognizione. A rigor di termini, non esiste una psicologia della cognizione, non più di quanto esista una psicologia del sistema nervoso autonomo o una psicologia della sensazione. Tutte queste variabili o misure entrano in quello stato complesso chiamato emozione, e a trascurarne una si rischia di perdere di vista l'intero fenomeno. Un grande pregio della teoria di Lazarus è che non presenta una visione ipersemplificata delle emozioni, ma dà risalto a molti degli intricati problemi che richiedono nuove ricerche e nuove elaborazioni teoriche.
Quasi tutti gli psicoanalisti sono clinici impegnati nella pratica privata della psicoanalisi. I loro scritti non si occupano dei dati sperimentali, ma della coerenza della teoria e della sua applicabilità alla pratica terapeutica. Sebbene i casi clinici che essi presentano nei loro scritti siano costellati di riferimenti alle emozioni, sono stati relativamente scarsi i tentativi di elaborare una teoria psicoanalitica delle emozioni (o degli affetti, come gli psicoanalisti preferiscono chiamarle).
Sándor Radó divenne psicoanalista in Europa, ma trascorse molti anni della sua vita negli Stati Uniti come direttore di un importante istituto psicoanalitico. Pur avendo ricevuto una formazione di orientamento ortodosso, i suoi contributi teorici, in particolare nel settore degli affetti, sono innovativi.
Come molti altri analisti, Radó sottolinea che le emozioni sono stati dell'individuo che vengono inferiti sulla base di vari indizi: il comportamento nella situazione terapeutica, le associazioni libere, i sogni, la storia della vita. Tuttavia, fare delle inferenze sulle sensazioni di un'altra persona dipende almeno in parte dall'empatia e dalla risonanza emozionale. Spesso è possibile inferire l'esistenza di un'emozione in un'altra persona, anche se il soggetto non ne riferisce l'esistenza. Se il paziente non riferisce di provare affetti, ciò è dovuto, presumibilmente, al processo di rimozione, ma anche in questo caso le emozioni rimosse possono continuare a esercitare un'influenza sulle azioni e sui pensieri del paziente.
Radó dice che si possono identificare almeno sette importanti pattern affettivi: fuga, lotta, sottomissione, sfida, rimuginazione, espiazione, autodanneggiamento.
Radó elabora poi una teoria delle emozioni basata su considerazioni evolutive. Vi sono quattro livelli psicologici di integrazione o controllo. Il primo, chiamato il livello edonico, si riferisce semplicemente agli effetti del piacere e del dolore nell'organizzazione e nella scelta di diverse forme di comportamento. Troviamo questa modalità primitiva di controllo in tutti gli organismi, anche in quelli più semplici. Il suo effetto è di indirizzare un individuo verso una fonte di piacere allontanandolo da una fonte di dolore. Negli organismi primitivi, con capacità sensoriali limitate, segnali di piacere o di dolore risultano soltanto da un contatto diretto. Il contatto con un oggetto buono, come il cibo, porta ad assorbire o incorporare la fonte di piacere, con un conseguente riempirsi o ingrossarsi dell'organismo. Scrive Radó (1969): «La manifestazione più primitiva di questa tendenza dell'organismo è di assorbire letteralmente la causa o fonte di piacere, per incorporazione. Pensate all'organismo unicellulare che ingloba il cibo e al neonato che cerca di introdurre in bocca tutto ciò che può. Nell'essere umano quest'espressione della tendenza ad assorbire piacere si modifica in una tendenza ad assorbire piacere aggrappandosi alla fonte del piacere. Un altro aspetto del principio di piacere‑assorbimento è la reazione dell'organismo quando il piacere è perduto o allontanato. La deprivazione dà luogo a una tendenza comportamentale facilmente individuabile, il bisogno di riappropriarsi della fonte di piacere perduta.»
Il contatto con un oggetto cattivo o pericoloso in genere produce dolore, che è semplicemente un segnale d'allarme primitivo indicante che il danno si è già verificato. «Questo sistema di segnalazione, sviluppato in una fase precoce della storia evolutiva, è la base stessa su cui si è sviluppata l'intera organizzazione del comportamento d'allarme.»
Come l'effetto del piacere è di produrre una risposta di incorporazione, così l'effetto del dolore è di produrre una risposta di liberazione. Queste risposte compaiono nei riflessi primitivi volti a eliminare agenti che causano dolore già incorporati. Per esempio, lo sputo, il vomito o la diarrea hanno l'effetto di eliminare corpi estranei dal sistema gastrointestinale. Altri esempi di riflessi di liberazione sono lo starnuto, la tosse e le lacrime.
Radó sostiene che il dolore mentale o il dolore anticipato possono innescare il comportamento di liberazione altrettanto prontamente che il dolore fisico, ma i tentativi di liberazione sono meno efficaci e possono essere persino patologici. Per esempio, il meccanismo difensivo della rimozione è una forma di risposta liberatoria, e serve a escludere dalla consapevolezza pensieri o emozioni dolorosi. Si sa che alcuni pazienti psicotici negli stati deliranti possono strapparsi improvvisamente un organo vitale (per esempio, un occhio o i genitali), ma percepiscono l'automutilazione come un modo di evitare visioni o sensazioni dolorose. Radó conclude: «L'autoregolazione edonica, che può aver fatto la sua comparsa già nell'organizzazione dei protozoi, è rimasta fondamentale per il processo vitale in tutte le tappe dell'evoluzione, e anche nell'uomo. Nonostante le complicazioni legate all'emergere e allo sviluppo di livelli superiori d'integrazione, l'organismo umano, come tutti gli altri organismi animali, è un sistema biologico che opera sotto regolazione edonica (...) Tutto il comportamento è probabilmente guidato dalle sensazioni o dai sentimenti di piacere e dolore.»
Radó chiama il secondo livello d'integrazione livello emozionale/animale. Man mano che gli organismi svilupparono recettori di distanza con un corrispondente sviluppo del sistema nervoso centrale, si formano anche nuovi modi di organizzare e selezionare pattern di comportamento. Questi nuovi metodi di controllo sono le emozioni primarie paura, rabbia, amore e dolore.
Come il piacere e il dolore avvicinano o allontanano l'organismo dagli stimoli presenti nell'ambiente, le quattro emozioni primarie sono un modo più controllato di fare la stessa cosa. Per esempio, la paura organizzerà pattern di combattimento o di attacco. Queste emozioni creano la possibilità di anticipare eventi futuri, poiché un animale che valuta un evento ambientale come minaccioso può correre via impaurito oppure attaccare con rabbia. In un certo senso, il comportamento manifesto amplifica qualunque stato interno dell'organismo.
Radó chiama il terzo livello d'integrazione livello emozionale/di pensiero; esso è associato con un notevole incremento dell'encefalizzazione. Le emozioni sono più trattenute e più miste. Compaiono emozioni derivate, come apprensione, irritazione, gelosia e invidia. Lo scopo di governare e sfruttare sostituisce lo scopo di distruggere con rabbia. E’ più frequente l'uso di meccanismi difensivi quali la rimozione. Le emozioni esibite sono molte di più delle quattro fondamentali.
Radó chiama il quarto livello di regolazione dell'azione livello non emozionale/di pensiero. Questo livello implica la padronanza degli eventi ottenuta soltanto con mezzi razionali, intellettuali. Gli elementi fondamentali di tale padronanza sono la prudenza e il differimento della reazione. La ragione può avere il sopravvento nella valutazione di eventi determinati da sensazioni immediate di piacere o dolore, e può portare un individuo a utilizzare mezzi dolorosi funzionali al raggiungimento di obiettivi piacevoli. Per esempio, gli adulti si sottopongono a interventi odontoiatrici dolorosi per avere denti sani o belli. Tuttavia, Radó (1969) afferma esplicitamente che «un essere umano non emozionale non è mai esistito e non può esistere. Il controllo dell'emozione è un'altra faccenda». Radó definisce poi l'emozione come «il segnale preparatorio che predispone l'organismo al comportamento d'allarme (...) Lo scopo di questo comportamento è di ristabilire la sicurezza dell'organismo».
Come psicoanalista, Radó considera queste idee significative soltanto nell'applicazione al trattamento dei pazienti. Pertanto si sofferma sulle applicazioni pratiche della sua teoria, e afferma che il comportamento disturbato è essenzialmente un'iperreazione. Una persona che sperimenta dolore, paura, rabbia o altre emozioni d'allarme cerca di liberarsi della loro causa attraverso il ritiro, la sottomissione o la lotta. Queste reazioni d'allarme spesso non funzionano, e creano invece uno stile di comportamento estremo e caratterizzato da rigidità.
La concezione di Radó è originale e stimolante, ed è evidentemente influenzata dalle idee di Cannon su lotta e fuga come reazioni d'allarme. Alcune idee di Radó, in particolare quelle relative al valore di comunicazione sociale delle emozioni, ricordano Darwin. Ma fondamentalmente egli lavora all'interno della tradizione freudiana, che ammette l'esistenza di emozioni inconsce e miste le cui caratteristiche si possono soltanto inferire sulla base di prove indirette.
Charles Brenner è un noto psicoanalista, che è stato presidente della American Psychoanalytic Association. Il suo lavoro è fortemente ancorato al pensiero psicoanalitico classico, e le sue proposte teoriche si sono discostate con molta cautela da questa tradizione.
Brenner sottolinea che la teoria freudiana degli affetti era per lo più limitata all'affetto d'angoscia, e che Freud era primariamente interessato alle emozioni come processi di scarica motoria. Dopo Freud, gli psicoanalisti si sono sempre più interessati alla cosiddetta «psicologia dell'Io» e hanno cercato di chiarire il ruolo delle idee in relazione all'azione. Brenner si proponeva di elaborare una teoria degli affetti che fosse congruente con la psicologia dell'Io.
Come tutti gli psicoanalisti, Brenner ritiene che i resoconti consci, soggettivi delle emozioni (affetti) siano spesso inaffidabili, semplicemente perché quasi tutti gli stati affettivi sono caratterizzati da miscugli di sensazioni piacevoli e spiacevoli, oltre che da aspettative o ricordi di eventi sia buoni che cattivi. Tali ambivalenze sono la regola piuttosto che l'eccezione. Inoltre, questi affetti possono essere rimossi o modificati del tutto o in parte, e perciò un resoconto conscio raramente descrive ciò che intende descrivere. Per esempio, afferma Brenner (1974), l'idea di superare un rivale può produrre un sentimento di piacere e trionfo, ma può anche comportare pietà o compassione per il rivale e un'aspettativa di punizione per averlo sconfitto. L'unico modo di dipanare questi miscugli complessi, secondo Brenner, è ricorrere al metodo psicoanalitico, che richiede l'osservazione del comportamento del paziente nella situazione terapeutica, tramite le associazioni libere, i sogni e la storia passata.
Allo scopo di collegare gli affetti alla psicologia dell'Io, Brenner (ibid.) definisce un affetto come «una sensazione di piacere, dispiacere, o entrambe, più le idee, sia consce che inconsce, associate a quella sensazione». Da questo punto di vista, l'angoscia è una sensazione di dispiacere associata a certe determinate idee di pericolo. Brenner distingue fra le diverse parole collegate all'angoscia secondo l'intensità del dispiacere e il grado di certezza del pericolo. Per esempio, se il pericolo è imminente, l'affetto viene chiamato paura. Se il dispiacere è intenso, parliamo di panico. Se il dispiacere è moderato e il pericolo incerto, l'affetto viene definito preoccupazione. Queste idee sono riassunte nella tabella seguente:

Quando un individuo, per qualsivoglia ragione, sviluppa un affetto sgradevole come l'angoscia, sorgono determinate conseguenze. In accordo con l'operare del cosiddetto principio di piacere, egli tenta di ridurre il dispiacere, o tramite azioni quali il ritiro dalla situazione o tramite operazioni mentali inconsce chiamate difese dell'Io. Esempi di difese dell'Io sono la rimozione, con cui l'individuo diventa inconsapevole delle sensazioni spiacevoli; il diniego, che di fatto ignora l'esistenza dell'evento; lo spostamento, che svia l'affetto verso oggetti non pericolosi.
Brenner prosegue sottolineando che la teoria dell'angoscia come affetto si applica anche all'affetto della depressione. Mentre l'angoscia è definita come sensazioni di dispiacere connesse all'idea che stia per accadere qualcosa di brutto, la depressione è definita come sensazioni di dispiacere associate all'idea che sia già accaduto qualcosa di brutto. Il qualcosa di brutto «può essere una ferita narcisistica o un'umiliazione; può essere una persona o un altro oggetto che si è perduto; può essere una cattiva azione commessa o una punizione brutale sofferta; può implicare dolore fisico, angoscia mentale o entrambi» (Brenner, 1975). Brenner afferma che l'esperienza di perdita non è necessariamente basata su una perdita reale; anche una perdita fantasticata può causare l'affetto della depressione.
Nella depressione, come nell'angoscia, la comparsa dell'affetto innesca qualche tipo di difesa dell'Io come rimozione, diniego o proiezione. Queste difese servono a ridurre le sensazioni di dispiacere. Tuttavia, poiché le difese dell'Io raramente riescono a eliminare del tutto un pericolo o una perdita, il risultato finale è sempre un compromesso fra l'affetto e la reazione all'affetto da difesa). Un sintomo, come una fobia, o un tratto di personalità, come la sottomissione, può esprimere il compromesso.
Queste idee sono rappresentate schematicamente nella seguente figura:

La percezione di una situazione come pericolosa o come determinante una perdita personale porta allo sviluppo degli affetti di angoscia o di depressione o entrambi. Siccome questi affetti sono dolorosi, varie difese dell'Io (a seconda della storia personale dell'individuo) cominciano poi ad agire per ridurre le sensazioni di dispiacere. Poiché molte difese non sono pienamente efficaci, ne risulta un compromesso, che implica la formazione di un sintomo o di un tratto di carattere.
Quali sono le implicazioni di queste idee per la clinica? Anzitutto, Brenner afferma con forza che non esiste un'angoscia liberamente fluttuante o priva di contenuto. «Quando un paziente si lamenta di provare angoscia, ma non sa consciamente cos'è che teme, gli analisti ipotizzano che la natura della sua paura, il "qualcosa di brutto" che sta per succedere, come tutte le altre idee associate a essa, sia inconscia. Presumono che siano la rimozione e altre difese a essere responsabili del fatto che il paziente stesso è incapace di dire di che cosa ha paura, di fornire qualunque contenuto alla sua ansia» (ibid.). In secondo luogo, in linea con la teoria che gli affetti innescano le difese dell'Io che agiscono per minimizzare l'affetto doloroso, la presenza di angoscia manifesta o di depressione indica un fallimento della difesa, indica che l'individuo non è riuscito a ridurre l'affetto spiacevole. Allora il terapeuta dovrebbe esaminare il problema del perché le difese dell'lo non funzionano. Questa indagine può fornire un insight sulle dinamiche di personalità che il terapeuta non è in grado di riconoscere in altro modo. Una terza implicazione delle idee di Brenner si collega all'uso del termine depressione, che è inteso in due sensi diversi: come uno stato affettivo e come un'etichetta diagnostica. L'etichetta diagnostica «depressione» si riferisce a un gruppo eterogeneo di sintomi, conflitti e cause. Il terapeuta dovrebbe cercare di separare il ruolo del pericolo da quello della perdita oggettuale, e di identificare le difese e i tratti di personalità in cui si riflettono i compromessi che le persone operano nel gestire le vicissitudini della propria vita.
Il concetto di Brenner di affetti come stati edonici più idee è un contributo importante alla teoria psicoanalitica. Permette di meglio comprendere il ruolo delle difese dell'Io e propone alcune interessanti applicazioni terapeutiche.
La teoria dell'evoluzione è stata definita una delle più grandi rivoluzioni in biologia, e ha influenzato non soltanto i biologi, ma anche i fisici e gli studiosi di scienze sociali. Come si rese conto Darwin, l'evoluzione implica cambiamenti tanto nelle strutture fisiche che nei sistemi mentali (o comportamentali). Per questo motivo Darwin cominciò a osservare l'espressione delle emozioni negli animali e negli esseri umani, e raccolse le sue osservazioni nel volume del 1872.
La teoria dell'evoluzione è entrata gradualmente a far parte del bagaglio di idee degli psicologi sulla natura delle emozioni: l'idea che le emozioni sono forme di segnali comunicativi che hanno valore adattativo o di sopravvivenza; l'idea che certe emozioni fondamentali o primarie possono interagire per produrre le grandi varietà di emozioni che si manifestano nella vita di tutti i giorni. Le conseguenze di queste e di altre idee sono evidenti in molte teorie odierne delle emozioni.
Buck si è proposto di interpretare le emozioni dal punto di vista della teoria della comunicazione, soprattutto in The Communication of Emotion, pubblicato nel 1984. In base alla teoria della comunicazione le emozioni sono significative principalmente nel contesto di un sistema che coinvolge l'interazione fra un emittente e un ricevente. Quando si verificano delle emozioni, uno stato emozionale viene codificato nel sistema nervoso centrale ed espresso o trasmesso mediante espressioni facciali, suoni o gesti. Il ricevente presta attenzione a questi segnali, li decodifica, e usa l'informazione ricevuta in accordo con il proprio stato motivazionale o emozionale.
Buck considera la motivazione e l'emozione due aspetti dei medesimi processi sottostanti. Entrambe hanno a che fare con l'adattamento corporeo e con il mantenimento dell'omeostasi, e comportano un'espressione esterna di stati interni; a entrambe si può avere accesso direttamente tramite l'esperienza soggettiva. Lo scopo del sistema motivazionale‑emozionale è quello di facilitare l'armonia nei rapporti sociali attraverso la comunicazione di stati e di intenzioni. Contrariamente alla teoria di James e in accordo con quella di Cannon, Buck ritiene che l'esperienza soggettiva non sia basata sul feedback dal sistema nervoso autonomo, ma consista per lo più in una lettura dell'attività neurochimica in certe zone del cervello. Infatti, secondo la teoria dell'evoluzione, «è utile per una creatura dotata di adeguate capacità cognitive avere una conoscenza diretta dello stato di alcuni dei suoi sistemi neurochimici associati con stati motivazionali‑emozionali, così come è utile per un animale sociale avere conoscenza di determinati stati motivazionali‑emozionali nei suoi compagni».
Gli animali sociali devono essere in grado di comunicare stati di paura, rabbia e interesse sessuale allo scopo di raggiungere i loro obiettivi. E se il sistema sociale deve funzionare, gli individui ai quali le comunicazioni sono dirette devono essere in grado di comprenderle correttamente per la maggior parte del tempo. Nel corso dell'evoluzione certe esibizioni diventano ritualizzate, come modi di trasmettere informazioni in maniera facilmente riconoscibile. Per esempio, alcuni etologi ritengono che lo sviluppo delle sopracciglia nei Primati operi per accentuare l'innalzamento delle sopracciglia associato a sorpresa o interesse. Si è anche ipotizzato che il complesso insieme dei muscoli facciali si sia evoluto per aumentare l'efficacia della comunicazione emozionale.
Buck ipotizza l'esistenza di tre tipi o aspetti delle emozioni: il mantenimento dell'omeostasi, l'espressione dei comportamenti di esibizione e l'esperienza soggettiva. Ogni aspetto andrebbe interpretato come un aggiornamento continuo o una lettura dello stato di determinati sistemi cerebrali. Queste letture rendono l'individuo consapevole dei bisogni di cibo, acqua o aria, e degli impulsi all'attacco o alla fuga. Tale consapevolezza permette a una persona di anticipare i problemi di equilibrio omeostatico prima che si presentino.
Questa teoria comunicativa delle emozioni presuppone che in tutte le interazioni emozionali siano chiaramente coinvolti dei processi cognitivi. Le persone denominano o valutano gli stimoli sulla base di esperienze passate e circostanze presenti, che a loro volta influenzano la qualità delle sensazioni soggettive che ne risultano. Le regole dell'esibizione, definite da una data cultura o sottogruppo, influenzano la misura in cui le sensazioni soggettive trovano espressione nel comportamento manifesto.
Il modello fondamentale che Buck propone è il seguente: gli stimoli esterni interagiscono con il sistema motivazionale‑emozionale e con il precedente apprendimento in proposito. Il sistema cognitivo del cervello valuta e definisce lo stato emozionale. Il processo di valutazione è anche influenzato dagli stati omeostatici, dalle tendenze espressive e dall'esperienza soggettiva. Le regole dell'esibizione determinano poi in quale misura lo stato motivazionale‑emozionale viene a essere espresso in autodescrizioni, comportamenti finalizzati, espressioni corporee. La ricerca sperimentale basata su questa teoria si è occupata principalmente della comunicazione e del riconoscimento delle esibizioni emozionali.
In un libro intitolato The Emotions (1986) Nico Frijda, uno psicologo olandese, enuncia alcuni principi:
1. Le emozioni hanno una base biologica; le emozioni implicano sia attività corporea che impulsi; le emozioni si verificano negli animali oltre che negli esseri umani.
2. Le emozioni negli esseri umani sono variamente influenzate da fattori cognitivi che possono non essere presenti negli animali; tali fattori sono norme, valori e autoconsapevolezza.
3. La presenza di emozioni sia negli esseri umani che negli animali è invariabilmente associata a tentativi di inibizione e di controllo, o, più in generale, alla regolazione.
4. Le emozioni differiscono tra loro quanto alle modalità di attivazione, al tipo di tendenza all'azione e alla risposta del sistema nervoso autonomo.
5. Emozioni diverse ‑ cioè tendenze all'azione diverse ‑ sono innescate da diverse configurazioni stimolo, secondo l'interpretazione che ne dà il soggetto.
6. Le emozioni sono suscitate da eventi che sono significativi per la vita del soggetto.
Frijda presenta la sua teoria come una teoria cognitiva, perché sottolinea i processi cognitivi coinvolti nelle emozioni. Quando una persona deve affrontare un evento stimolo, un meccanismo analizzatore interno codifica l'evento sulla base di eventi noti. Un meccanismo comparatore poi giudica se l'evento è rilevante per gli interessi dell'individuo. Un meccanismo diagnosticatore valuta la situazione in base a ciò che l'individuo può o non può fare in proposito. Un meccanismo valutatore giudica l'urgenza o la serietà della situazione. Un meccanismo propositore d'azione genera un piano per l'azione o una tendenza all'azione. A seconda della natura della tendenza all'azione, un meccanismo generatore di modificazioni fisiologiche produce adeguati cambiamenti fisici. L'ultima fase è la scelta di un'azione manifesta. Dovrebbe essere evidente che si tratta di una sequenza di processi cognitivi ipotetici, dei quali sono scarse le prove dirette.
Frijda definisce le emozioni come modificazioni della prontezza all'azione, o della prontezza a modificare l'ambiente o a stabilire relazioni con esso. Le emozioni riguardano questioni relative alle gratificazioni.
Dove entra in gioco l'esperienza emozionale in questa teoria? Frijda afferma che l'esperienza emozionale consiste principalmente nella consapevolezza della prontezza all'azione, sotto forma di impulsi a correre, attaccare o abbracciare. Sebbene l'apprendimento abbia un effetto importante sulla connessione fra stimoli, da una parte, ed esperienza e comportamento emozionali, dall'altra, in molti casi vi è una connessione innata stimolo-risposta che si basa su programmi neurali.
Frijda propone diverse altre idee sulle emozioni. Una è che la modificazione della prontezza all'azione che definisce uno stato emozionale generalmente si verifica in risposta a emergenze o interruzioni. Un'altra è che la flessibilità dei pattern di reazione e la capacità di inibire o controllare il comportamento sono elementi essenziali delle emozioni. Questi fattori sono ciò che aiuta a distinguere fra le emozioni di un essere umano e le emozioni più limitate di una formica. Tuttavia, poiché flessibilità e controllo inibitorio non sono attributi del tipo «tutto o nulla», non possiamo sapere con esattezza in quale stadio dell'evoluzione abbiano avuto inizio le emozioni.
Quella di Frijda è una teoria funzionalistica. Le emozioni hanno uno scopo; agiscono per affrontare situazioni di emergenza relative alle gratificazioni della vita, e lo fanno valutando la rilevanza degli eventi e organizzando un'azione appropriata. Quando le emozioni sembrano essere disfunzionali, come nei casi della tossicodipendenza o del suicidio, l'interpretazione di Frijda è che tali disturbi riflettano i limiti del sistema emozionale. Infine, Frijda sottolinea che le emozioni, poiché si sono evolute per affrontare le situazioni di emergenza, costituiscono un sistema a reazione rapida basato su una quantità minima di elaborazione dell'informazione. Di conseguenza, il sistema emozionale ogni tanto può fare degli errori e generare un'emozione non richiesta o un'emozione mappropriata per una data situazione. Tuttavia, a lunga scadenza, e considerando la quantità di rischio, vi è un adattamento ragionevolmente soddisfacente.
La teoria psicoevoluzionistica delle emozioni fu presentata per la prima volta in un articolo del 1958, e ulteriormente elaborata in The Emotions: Facts, Theories and a New Model (1962), in Emotion: a Psychoevolutionary Synthesis (1980a) e in molti articoli. La teoria contiene almeno sei postulati fondamentali, presentati nella seguente tabella:

Il primo postulato, che le emozioni sono meccanismi di comunicazione e di sopravvivenza, è un riflesso diretto della tradizione etologica risalente a Darwin. Darwin (1872) aveva osservato che le emozioni hanno due funzioni per tutti gli animali: anzitutto, aumentano le probabilità di sopravvivenza individuale attraverso reazioni appropriate a situazioni di emergenza che si verificano nell'ambiente (mediante la fuga, per esempio); in secondo luogo, agiscono come segnali di intenzioni di azione futura attraverso comportamenti di esibizione di vario tipo (Enquist, 1985)
La teoria dell'evoluzione sostiene che l'ambiente naturale crea per tutti gli organismi problemi di sopravvivenza che devono essere risolti in modo soddisfacente, se l'organismo deve sopravvivere. Questi problemi comprendono, per esempio, rispondere in modo differenziato a prede e a predatori, al cibo e ai partner sessuali, a chi dà accudimento e a chi lo richiede. Le emozioni si possono concepire come schemi adattativi di base, identificabili a tutti i livelli filogenetici, che affrontano questi problemi essenziali di sopravvivenza. Le emozioni sono quegli adattamenti comportamentali evolutivi ultraconservativi (come gli amminoacidi, il DNA e i geni) che hanno avuto successo nell'aumentare le probabilità di sopravvivenza degli organismi. Si sono pertanto mantenute in forme funzionalmente equivalenti attraverso tutti i livelli filogenetici (Plutchik, 1962, 1970, 1980a,b).
Il secondo postulato, che le emozioni hanno una base genetica, deriva direttamente dal contesto psicoevoluzionistico. Darwin indicò almeno quattro tipi di dati che possiamo utilizzare per confermare l'esistenza di una base genetica delle emozioni. Anzitutto, egli notò che alcune espressioni emozionali compaiono in forma simile in molti animali (per esempio, l'aumento apparente di dimensioni durante la collera o le interazioni agonistiche, dovuto all'erezione dei peli o delle penne, ai cambiamenti di postura o al rigonfiamento di sacche d'aria). In secondo luogo, alcune espressioni emozionali compaiono nei lattanti nella stessa forma che negli adulti (sorridere e aggrottare le ciglia, per esempio). In terzo luogo, alcune espressioni emozionali si mostrano in forme identiche nei bambini nati ciechi e in quelli con vista normale (fare il broncio e ridere, per esempio). Infine alcune espressioni emozionali compaiono in forma simile in razze e gruppi umani ampiamente diversificati (EiblEibesfeldt, Ekman e Friesen, 1971).
Studi genetici recenti che hanno messo a confronto gemelli omozigoti (cioè nati da un unico uovo) ed eterozigoti (nati da due uova fecondate separatamente), studi incrociati su bambini adottati e altri metodi hanno dimostrato l'esistenza di una componente ereditaria in qualità temperamentali (emozionali) quali aggressività (Fuller, 1986; Wimer e Wimer, 1985), timore o paura (Goddard e Beilharz, 1985), assertività doehlin, Horn e Willerman, 1981) e timidezza (Stevenson‑Hinde e Simpson, 1982), per citarne solo alcune.
La teoria genetica afferma che gli individui non ereditano un comportamento in quanto tale, ma soltanto i meccanismi strutturali e fisiologici che mediano il comportamento. I geni influenzano le soglie di sensibilità, le inclinazioni percettive, le strutture cellulari e gli eventi biochimici. Determinano le regole epigenetiche che agiscono come filtri per delimitare il tipo d'informazione a cui è consentito l'accesso nel sistema e il modo in cui quell'informazione dev'essere elaborata. Per esempio, la maggioranza degli animali sembrano avere dei rivelatori uditivi sintonizzati sui segnali che sono di speciale rilevanza per la loro sopravvivenza dumsden e Wilson, 1981). La maggior parte delle espressioni emozionali (ma non tutte) si basano su pattern o schemi genetici che determinano la generalità dello sviluppo emozionale e le reazioni a eventi probabili nell'ambiente (Plutchik, 1983).
Il terzo postulato fondamentale è che le emozioni sono costrutti ipotetici, o inferenze, basati su varie classi di dati. I dati che utilizziamo per inferire l'esistenza delle emozioni includono: a) la conoscenza delle condizioni stimolo; b) la conoscenza del comportamento di un organismo in una varietà di situazioni; c) la conoscenza di quale sia il comportamento tipico della specie; d) la conoscenza delle reazioni dei pari a quel comportamento; e) la conoscenza dell'effetto del comportamento di un individuo sugli altri (Plutchik, 1980a). Una delle ragioni più importanti per cui gli stati emozionali sono difficili da definire in modo inequivocabile è che può verificarsi contemporaneamente più di un'emozione. Qualunque esibizione manifesta di un'emozione può riflettere stati complessi, quali approccio ed evitamento, attacco e fuga, sessualità e aggressività, paura e piacere.
Il quarto postulato fondamentale è che le emozioni sono catene complesse di eventi con circuiti stabilizzanti che tendono a produrre qualche tipo di omeostasi comportamentale… Le emozioni sono innescate da vari eventi, i quali devono essere valutati cognitivamente come rilevanti per il benessere o l'integrità della persona. Se viene fatta una determinazione di questo tipo, ne conseguiranno varie sensazioni, e un pattern di modificazioni fisiologiche che hanno il carattere di reazioni anticipatorie associate a vari tipi di sforzi o impulsi, come l'impulso a esplorare, ad attaccare, a battere in ritirata o ad accoppiarsi. A seconda della forza relativa di questi vari impulsi, si avrà una risultante vettoriale finale nella forma di un'azione manifesta mirata ad avere un effetto sullo stimolo che ha innescato in primo luogo questa catena di eventi. Per esempio, i segnali di angoscia di un cucciolo o il pianto di un bambino aumenteranno la probabilità che la madre o un sostituto materno arrivi sulla scena. L'effetto globale di questo sistema di feedback complesso è di ridurre la minaccia o di modificare la situazione di emergenza in modo tale da raggiungere un temporaneo equilibrio omeostatico nel comportamento.
Il quinto postulato afferma che le relazioni fra emozioni si possono rappresentare con un modello strutturale tridimensionale a forma di cono, come si vede nella figura seguente:

La dimensione verticale rappresenta l'intensità delle emozioni, la circonferenza definisce il grado di somiglianza fra emozioni, la polarità è rappresentata dalle emozioni opposte nel cerchio. Questo postulato include anche l'idea che alcune emozioni siano primarie e altre siano derivate o miste, nello stesso senso in cui esistono colori primari e colori misti. Sono stati pubblicati diversi studi che mostrano che il linguaggio delle emozioni si può rappresentare con un cerchio o modello circomplesso (Conte e Plutchik, 1981; Fisher, Heise e altri, 1985; Plutchik, 1980a; Russell, 1989; Wiggins e Broughton, 1985).
Il concetto di emozioni primarie e derivate porta al sesto postulato, il quale afferma che le emozioni sono collegate ad alcuni ambiti concettuali derivati, un'idea che è stata elaborata in parecchi modi diversi. Per esempio, è stato dimostrato che il linguaggio delle emozioni miste è identico al linguaggio dei tratti di personalità. L'ostilità è stata giudicata composta di rabbia e disgusto, la socievolezza un misto di gioia e accettazione, il senso di colpa una combinazione di piacere più paura. Sono state identificate le componenti emozionali di centinaia di tratti di personalità. Inoltre, vi sono ora prove precise che anche i tratti di personalità esibiscono una struttura circomplessa, esattamente come le emozioni (Conte e Plutchik, 1981; Russell, 1989; Wiggins e Broughton, 1985).
Si può estendere ulteriormente l'idea di derivati. Termini diagnostici quali depresso, maniacale e paranoide si possono interpretare come espressione estrema di emozioni fondamentali quali tristezza, gioia e disgusto. Vari studi hanno anche rivelato che il linguaggio delle diagnosi condivide anch'esso una struttura circomplessa con le emozioni (Schaefer e Plutchik, 1966).
Estendendo ancora il concetto di derivati, la nostra ricerca ha mostrato che anche il linguaggio delle difese dell'lo può essere concepito come collegato alle emozioni. Per esempio, lo spostamento può essere concepito come un modo inconscio di affrontare una rabbia che non si può esprimere direttamente senza essere puniti. Analogamente, la proiezione si può concepire come un modo inconscio di affrontare una sensazione di disgusto o rifiuto di sé stessi, attribuendo questa sensazione agli altri. Paralleli di questo tipo sono stati delineati per ognuna delle emozioni primarie e sono stati descritti in dettaglio da Kellerman (1979), Plutchik, Kellerman e Conte (1979) e Plutchik (1989)…
La teoria psicoevoluzionistica dell'emozione è stata utile sotto vari aspetti. Ha fornito un modello generale delle emozioni che è applicabile agli animali oltre che agli esseri umani. E’ economica, perché i medesimi presupposti hanno rilevanza e validità esplicativa per parecchi ambiti concettuali (affetti, personalità, difese, diagnosi). Ha previsto alcune nuove osservazioni che hanno ricevuto conferma empirica da struttura circomplessa di affetti, tratti di personalità, diagnosi e difese). Ha anche fornito qualche nuova conoscenza su temi specifici come le relazioni fra emozioni e motivazioni (Plutchik, 1980a), emozioni e cognizioni (Plutchik, 1977, 1985), emozioni ed empatia (Plutchik, 1987), emozioni e sogni (Kellerman, i987b), emozioni e processo primario (Kellerman, 1990). E, cosa non meno importante, ha fornito la cornice teorica per la costruzione di nuovi strumenti testistici per misurare gli affetti (Plutchik, 1966, 1971, 1989), la personalità (Plutchik e Kellerman, 1974), le difese dell'Io (Plutchik, Kellerman e Conte, 1979), gli stili di coping (Buckley, Conte e altri, 1984; Wilder e Plutchik, 1982) e la psicoterapia (Kellerman, 1979; Plutchik, 1990).
Le varie idee qui esposte traggono spunto, chiaramente, da aspetti della genetica e della teoria dell'evoluzione. Implicano che le emozioni sono meccanismi adattativi fondamentali che possono essere identificati a tutti i livelli evolutivi, e che esistono basi genetiche degli stati emozionali. La generalità di questo modello delle emozioni è un riflesso diretto della generalità e della validità della teoria dell'evoluzione.” (pp. 91-115)
4.
I capitoli successivi del libro si possono ritenere in gran parte scritti a sostegno della teoria di Plutchik.
Nel capitolo quinto, dedicato alla Misurazione delle emozioni, la distinzione tra stati emozionali e tratti introduce la descrizione dell’EPI messo a punto da Plutchik.
La distinzione tra stati e tratti è analizzata in questi termini:
“Uno dei problemi più delicati dello studio delle emozioni riguarda le distinzioni che tendiamo a fare tra emozioni passeggere ed emozioni di lunga durata. Io posso usare la parola arrabbiato per descrivere una sensazione transitoria associata con qualcuno che mi ha pestato accidentalmente un piede, ma posso usarla per descrivere una persona che appare quasi sempre irritabile: cioè, penso a questa persona come a una persona arrabbiata. Nel primo caso il termine arrabbiato si riferisce a uno stato temporaneo, nel secondo si riferisce a un tratto permanente, a quello che in genere consideriamo un tratto di personalità. Da qualche parte, nel mezzo, vi sono parole quali stati d'animo e affetti, che suggeriscono stati emozionali che possono durare per giorni, settimane o anche mesi.
In generale, si presume che gli stati emozionali siano sensazioni suscitate da modificazioni immediate di una situazione (per esempio, vincere a una lotteria, essere minacciati, perdere il lavoro), o da modificazioni fisiologiche temporanee (per esempio, avere molta fame, avere un gran mal di testa, farsi massaggiare). I tratti, invece, sono in genere considerati schemi stabili di comportamento che si manifestano in una varietà di situazioni. Per esempio, qualcuno può sentirsi ansioso in previsione di un esame. All'estremo opposto del continuum vi sono persone per le quali l'ansia è una parte costante della vita, e diciamo che hanno un disturbo ansioso o una nevrosi d'ansia.
Sebbene i due estremi del continuum siano abbastanza chiari, è stato spesso sottolineato che la distinzione fra stati e tratti è perlopiù arbitraria (Allen e Potkay, i981). Spesso la medesima lista di aggettivi, o un altro test emozionale, possono essere usati per misurare sia gli stati che i tratti, solo modificando leggermente le istruzioni. Se ai soggetti viene chiesto di descrivere come si sentono in questo momento, o come si sono sentiti negli ultimi giorni e così via, stiamo chiedendo informazioni sugli stati emozionali, o stati d'animo. Se invece ai soggetti viene chiesto di descrivere come si sentono in genere, stiamo parlando di tratti permanenti. Dunque le distinzioni fra emozioni e tratti di personalità non sono nette, e questi due campi possono rappresentare due estremi delle medesime dimensioni. Non vi è una risposta semplice o univoca alla domanda di quanto duri un'emozione. Definire una certa condizione come un'emozione o un tratto di personalità è una questione di grado.” (pp. 120-121)
L’Emotions Profile Index è illustrato nei termini seguenti:
“L'EPI permette misure delle otto emozioni fondamentali postulate da Plutchik nel 1958 e descritte più in dettaglio in pubblicazioni successive (1962, 1970, 1980a, 1990). Si basa sull'idea che tutte le caratteristiche interpersonali della personalità risultano dalla commistione di due o più emozioni primarie o fondamentali. Questo significa che coloro che si descrivono come timidi o malinconici ci informano implicitamente delle emozioni primarie che vanno a costituire questi tratti. La timidezza, per esempio, implica frequenti sensazioni di paura, mentre la malinconia implica frequenti sensazioni di tristezza.
L'EPI venne costruito facendo valutare a dieci psicologi clinici le emozioni primarie che contribuivano a costituire un gran numero di tratti. Si giunse a scegliere dodici termini di tratto sulla base di un'elevata coerenza intergiudici e su un ampio campione dell'universo di tratti descritto dagli studi di analisi fattoriale. Questi dodici termini furono poi abbinati in tutte le possibili combinazioni, generando sessantasei coppie. Si riscontrò che quattro coppie avevano identiche categorie di punteggio, per cui furono scartate; nella sua forma definitiva il test consta di sessantadue coppie di termini.
L'EPI è un test a scelta obbligata. AI soggetto viene semplicemente chic sto di indicare quale delle due parole abbinate lo descrive meglio; per esempio, è più litigioso o più timido? Al termine scelto viene attribuito un punteggio in base alle emozioni primarie che quel termine implica. Ogni volta che il soggetto sceglie fra due termini di tratto guadagna un punto su una o più delle otto dimensioni corrispondenti a emozioni primarie. Perciò il test non misura solo l'ansia, ma misura anche, nello stesso tempo, rabbia, tristezza, gioia e così via. Poiché il soggetto non ha sempre chiare le implicazioni delle proprie scelte, il test è anche, in un certo senso, un test proiettivo, perché in genere il soggetto non riconosce l'implicito meccanismo per l'assegnazione del punteggio. Infine, la forma a scelta obbligata riduce i vizi di risposta causati dalla tendenza a scegliere i tratti socialmente desiderabili, perché molte scelte sono fra due tratti ugualmente indesiderabili o desiderabili. Nel test è inserito un punteggio di conformità sociale come misura della tendenza del soggetto a scegliere tratti socialmente desiderabili (o indesiderabili) in quei casi in cui gli item non sono equivalenti.
Ecco i dodici termini usati nell'EPI: avventuroso, affettuoso, tendente a rirnuginare, cauto, malinconico, impulsivo, obbediente, litigioso, permaloso, imbarazzato, timido, socievole. Viene data una breve definizione per ogni termine. Il punteggio totale per ognuna delle otto dimensioni corrispondenti alle emozioni primarie viene convertito in un punteggio percentile basato su dati appartenenti alla norma. I ricercatori poi riportano i punteggi percentili su un diagramma circolare, come è illustrato nella figura 5.1 per un gruppo di pazienti gravemente depressi. Il centro del cerchio rappresenta il percentile zero e la circonferenza esterna è il centesimo percentile. Più grande è la zona nera, più forte è la disposizione emozionale rivelata.

La figura 5.1 mostra che i pazienti depressi hanno punteggi molto elevati sulla dimensione Depressione, e punteggi moderatamente elevati su Timidezza (ansia), Sfiducia (rifiuto), Aggressività (rabbia) e Controllo (aspettativa). Tendono ad avere punteggi bassi su Non-controllo (interesse per la novità) e Gregarietà (socializzare con gli altri). Punteggi alti su emozioni opposte indicano aree di conflitto. Di conseguenza, in questo gruppo di pazienti sembra esserci un notevole conflitto fra Aggressività (rabbia) e Timidezza (ansia).” (pp. 123-125)
L’impressione è che la misurazione delle emozioni conferma solo l’organizzazione bipolare delle emozioni stesse. Tale organizzazione, poi, appare fortemente dipendente dalla relazione tra Io e Altro (reale e immaginario): relazione, però, che gli studiosi delle emozioni tendono a considerare poco o punto, facendola rientrare nell’ambito dell’adattamento sociale che governa, come una sorta di Moloch, la loro teorizzazione.
5.
Ben due capitoli sono dedicati al problema, originariamente posto da Darwin, dell’espressione facciale delle emozioni che, nel corso degli anni, si è esteso anche alle espressioni vocali e gestuali.
Nonostante qualche studioso abbia cercato di negare che le espressioni facciali e le emozioni siano collegate in modo significativo, l’intuizione di Darwin si può ritenere sostanzialmente giusta e avvalorata dalle ricerche successive:
“Le espressioni facciali delle emozioni sono apprese come le parole di una lingua, o sono innate? Darwin riteneva che alcune espressioni facciali umane fossero innate, così come molte espressioni negli scimpanzé e in altri Primati. Le prove portate a sostegno di questo punto di vista sono le seguenti: 1) alcune espressioni facciali compaiono in forma simile negli animali, soprattutto nei Primati; 2) alcune espressioni facciali si vedono nei lattanti e nei bambini nella stessa forma che negli adulti; ) alcune espressioni facciali si vedono in forma identica in bambini nati ciechi e in bambini con vista normale; 4) alcune espressioni facciali compaiono in forma simile in razze e gruppi umani ampiamente diversificati.
Basandosi su queste osservazioni, Darwin concluse che le espressioni facciali operano come segnali o come forme di comunicazione fra gli individui. Egli riteneva che le espressioni facciali rivelino qualcosa sulla probabilità di un'azione. Di solito è probabile che fare una faccia arrabbiata sarà seguito da parole arrabbiate, minacce o attacchi fisici. Se una persona può giudicare il comportamento probabile di un'altra persona, o stimarne con precisione le intenzioni, questo può essere molto utile, perché gli permetterà di adattare il proprio comportamento alla situazione e possibilmente di influenzare il risultato dell'interazione. Tali comunicazioni e adattamenti possono giungere a influenzare le probabilità di sopravvivenza individuale.
In anni recenti sono stati descritti molti studi che affrontano questi problemi. Di particolare interesse è la questione dell'universalità delle espressioni facciali delle emozioni.
Nel 1969 Ekmnan, Sorenson e Friesen pubblicarono uno studio transculturale sul riconoscimento delle espressioni facciali. Da tremila fotografie, ne scelsero trenta che, a loro giudizio, mostravano soltanto espressioni pure di singole emozioni. Le fotografie rappresentavano le sei emozioni che Tomkins e altri ricercatori hanno proposto come primarie o fondamentali: felicità, sorpresa, paura, rabbia, disgusto, tristezza. Le fotografie erano di maschi e femmine bianchi, adulti e bambini, attori e pazienti psichiatrici. Furono mostrate a studenti negli Stati Uniti, in Brasile e in Giappone, e a volontari adulti nella Nuova Guinea e in Borneo. Le sei parole emozionali furono tradotte nelle diverse lingue, e a ogni giudice venne chiesto di prendere una parola da ogni gruppo di sei al fine di dare un nome all'espressione facciale.
I risultati mostrarono un elevato accordo fra gli studenti di Stati Uniti, Brasile e Giappone (dal 60 al 90%). Izard (1971) ha riportato risultati analoghi per altre sette culture civilizzate. Un accordo relativamente inferiore fu trovato per le due società primitive. La felicità fu giudicata in modo coerente (92%) in Borneo e in Nuova Guinea, ma l'accordo percentuale per la rabbia (usando le mediane) era del 56 per cento circa, per la tristezza del 55 per cento circa, per la paura del 46 per cento, per la sorpresa del 38 per cento e per il disgusto del 31 per cento. Tutte queste percentuali sono superiori ai giudizi casuali, ma è evidente che i gruppi primitivi non giudicano le espressioni facciali esattamente nello stesso modo dei gruppi occidentalizzati. Ekman e colleghi concludono che «i loro risultati confermano l'ipotesi di Darwin che le espressioni facciali delle emozioni siano simili negli esseri umani, a prescindere dalla cultura, a causa delle loro origini evolutive». Si tratta indubbiamente di una generalizzazione estrema, se si pensa ai vari limiti di questo studio. Per esempio, si usavano soltanto trenta fotografie; i giudici erano soltanto quindici nel Borneo e quattordici in uno dei gruppi della Nuova Guinea; lo studio usava soltanto sei emozioni, e i risultati mostravano meno accordo fra i gruppi primitivi che fra quelli civilizzati. Inoltre, si potrebbe argomentare che anche nelle società primitive è penetrata l'influenza occidentale, attraverso il cinema.
Per affrontare quest'ultima critica, Ekman e Friesen (1971) fornirono un resoconto dettagliato di uno studio svolto con membri del gruppo culturale di lingua Fore della Nuova Guinea sudorientale. Fino al 1960 questo popolo era una cultura isolata dell'«età della pietra» con scarso o nessun contatto con l'Occidente. I giudici utilizzati nello studio erano stati scelti perché non avevano mai visto un film, non parlavano né capivano l'inglese o il pidgin, non avevano mai vissuto in città e non avevano mai lavorato per un bianco. Questi criteri erano soddisfatti da centottanta adulti e centotrenta bambini.
A causa dell'analfabetismo e di altri problemi, il compito di giudizio venne semplificato. AI giudice veniva letto un semplice racconto, e poi gli venivano mostrate tre figure contemporaneamente. Il soggetto doveva scegliere l'illustrazione in cui la faccia della persona mostrava l'emozione descritta nella storia. Alcuni altri membri della tribù Fore lavorarono come assistenti di ricerca, reclutando i soggetti, leggendo e traducendo le storie, e venne raccomandato loro di non suggerire.
Usando questa tecnica, i ricercatori trovarono un accordo estremamente elevato sia fra gli adulti che fra i bambini per quasi tutte le espressioni emozionali. Per gli adulti l'accordo medio per la felicità era del 92 per cento; per la rabbia dell'87 per cento; per la tristezza dell'81per cento; per il disgusto dell'83 per cento; per la sorpresa del 68 per cento; per la paura del 64 per cento. In questo campione le espressioni di paura e di sorpresa spesso non erano nettamente distinte.
Come follow-up di questo studio, Ekman e Friesen accennano brevemente al fatto di aver preparato delle fotografie di espressioni emozionali simulate da questi stessi abitanti della Nuova Guinea e di averle mostrate a studenti americani, i quali, nella maggior parte dei casi, giudicarono correttamente le emozioni. Ekman e Friesen concludono che «particolari espressioni facciali sono universalmente associate a particolari emozioni», sottolineando tuttavia che fattori culturali e apprendimento influenzano le espressioni emozionali in tre modi: creando differenze nelle condizioni che elicitano l'emozione, attraverso le conseguenze di un'emozione, attraverso le regole che indicano quando mostrare o non mostrare una data espressione.” (pp. 156-157)
“Un altro modo di esaminare le analogie transculturali nell'espressione facciale è di videoregistrare le espressioni facciali dei soggetti, senza che essi lo sappiano, mentre guardano sia film neutri sia film inducenti stress, raffiguranti la mutilazione di parti del corpo. Ekman eseguì tali videoregistrazioni di venticinque studenti universitari giapponesi e venticinque studenti americani. Utilizzando il Facial Affect Scoring System per identificare i muscoli facciali e le espressioni risultanti dallo stress, scoprì che la frequenza con cui gli studenti americani e giapponesi mostravano rabbia, paura, disgusto, sorpresa, tristezza e felicità era abbastanza simile. La correlazione era di +0,88. Tuttavia, quando un connazionale entrava nella stanza i comportamenti facciali dei due gruppi di studenti erano del tutto diversi. Gli studenti giapponesi tendevano a sorridere educatamente, mentre gli americani mantenevano la stessa espressione. Queste osservazioni implicano che in culture diverse possono operare diverse regole di esibizione.
Ekman e Friesen (1986) crearono tre varianti sull'espressione di disprezzo: 1) stringere e sollevare leggermente l'angolo del labbro da una parte sola; 2) la stessa espressione bilateralmente; 3) sollevare leggermente tutto il labbro, senza stringere o sollevare gli angoli delle labbra. Le fotografie di queste espressioni, nonché quelle di altre sei emozioni, furono mostrate a studenti di dieci Paesi: Estonia, Grecia, Hong Kong, Italia, Giappone, Scozia, Turchia, Stati Uniti, Germania occidentale, Sumatra occidentale.
I risultati mostrarono un elevato accordo (fra 73 e 90%) per le sei espressioni emozionali, felicità, sorpresa, tristezza, paura, disgusto e rabbia. Vi fu un accordo ugualmente alto per la prima variante (sollevamento unilaterale dell'angolo del labbro) del disprezzo, ma non per le altre. Gli autori concludono che l'espressione di disprezzo unilaterale sembra essere riconosciuta dalla maggior parte dei soggetti in ogni cultura studiata, e dovrebbe pertanto essere aggiunta alla lista delle emozioni fondamentali.” (p. 158)
Anche gli studi sulla espressione vocale delle emozioni portano a conclusioni analoghe.
“Il linguaggio umano fa uso di suoni vocali, ma rappresenta un miscuglio complesso dì pattern linguistici (cioè i codici che chiamiamo parole) e di elementi non linguistici, che si riferiscono a caratteristiche quali volume, tono, variabilità, respirazione e nasalità. Il problema di separare queste due componenti del linguaggio umano è estremamente difficile. Tuttavia, sebbene le parole di una lingua siano ovviamente apprese, la qualità vocale specifica è probabilmente determinata anche da fattori genetici. I pattern linguistici sembrano essere tanto caratteristici di una persona quanto le sue impronte digitali, un fatto ben noto alla polizia di tutte le nazioni.
La ricerca in quest'area ha due tradizioni principali; una si occupa del processo di codifica delle emozioni nell'eloquio (cioè identificare gli aspetti del discorso che riflettono le emozioni); l'altra si occupa della decodifica (cioè la capacità dei giudici di riconoscere l'emozione nel parlato). I dati sulla codifica rivelano alcune differenze fra le emozioni (almeno per come vengono generate dagli attori che recitano la parte), ma vi è grande sovrapposizione. Per esempio, in una rassegna di questa letteratura Scherer (1989) riporta che l'emozione della gioia è caratterizzata da tono elevato, grande variabilità di tono, volume alto e ritmo veloce. La rabbia è descritta come caratterizzata da tono elevato, ampia gamma di frequenza, grande variabilità, volume alto e ritmo veloce. La paura è simile alla rabbia. Il dolore ha un tono basso, una gamma ristretta, volume basso e ritmo lento. La sovrapposizione, specialmente fra gioia, rabbia e paura, è evidente, e questo può essere dovuto anche alla scarsa conoscenza di quali variabili sia più opportuno misurare.
Riguardo all'abilità degli uomini di decodificare le emozioni nel discorso umano, una rassegna di trenta studi ha rivelato una precisione media di circa il 60 per cento in rapporto a un accordo casuale del 12 per cento. Questo accordo è all'incirca lo stesso di quello trovato quando si formulano dei giudizi sulla base di fotografie (ibid.).” (pp. 167-168)
Diverso, ovviamente, è il discorso per l’espressione gestuale delle emozioni, che sono più fortemente condizionate culturalmente:
“Sembra che i gesti siano una specie di gergo visivo in cui alcuni hanno un'origine antica e altri (come la V per vittoria) un'origine molto recente. Esprimono le emozioni proprio come fanno le parole, ma non sono spontanei o innati. Hanno spesso interpretazioni abbastanza diverse in luoghi diversi, e quando vengono usati tendono a sottolineare la parola pronunciata. I gesti sono più comuni e accettabili nelle classi sociali inferiori e nei bambini o nei giovani. Gli uomini li usano più spesso delle donne. La maggior parte delle persone non hanno idea delle origini storiche dei gesti che usano. E, cosa più importante nel presente contesto, i gesti esprimono forti emozioni, di solito rabbia, disgusto, derisione, disinteresse, circospezione, paura, apprezzamento e accettazione.” (p. 171)
Cosa si può ricavare da queste ricerche, al di là della conferma dell’intuizione di Darwin? In realtà ben poco. Ci si può rendere conto di questo leggendo l’elenco dei problemi che una teoria delle emozioni facciali dovrebbe risolvere, riportato nel capitolo settimo:
“Quali sono alcuni dei fatti che devono essere spiegati in relazione all'espressione facciale delle emozioni? Ecco un elenco parziale.
1. Quasi tutte le persone sono fortemente interessate al volto. Tengono fotografie dei volti di altre persone sulla scrivania, negli album e alle pareti. I volti di grandi personaggi sono spesso fotografati e ingranditi a proporzioni gigantesche. Il nostro interesse per gli specchi suggerisce che noi esaminiamo costantemente anche la nostra faccia.
2. Le nostre facce esprimono chiaramente alcune emozioni, ma non tutte. Riteniamo di poter leggere facilmente sul volto espressioni di rabbia, paura, sorpresa, tristezza, gioia e disgusto, ma molte emozioni sono più difficili da giudicare dal volto, come senso di colpa, invidia, gelosia e noia. Dire che giudicare è difficile, tuttavia, non significa che sia impossibile.
3. Negli studi di laboratorio l'abilità dei giudici di leggere o decodificare correttamente le emozioni da fotografie è relativamente scarsa. Il tasso di giudizi «corretti» aumenta se ai giudici viene data una lista ristretta di parole emozionali da usare, e se sinonimi e quasi sinonimi sono considerati risposte corrette.
4. L'uso di fotografie di espressioni simulate o spontanee probabilmente non è il modo ideale di studiare le emozioni, perché le espressioni emozionali hanno un inizio, una durata e una fine. Nelle fotografie va persa gran parte della complessità delle espressioni facciali.
5. I lattanti mostrano molte delle stesse espressioni facciali degli adulti, apparentemente senza aver avuto il tempo di apprenderle. Anche i bambini ciechi e sordi dalla nascita mostrano sul volto quelle che sembrano essere espressioni emozionali tipiche. Questo indica che i meccanismi cerebrali geneticamente determinati organizzano l'espressione di almeno alcune emozioni.
6. La stimolazione elettrica di determinati neuroni o vie subcorticali produce negli animali espressioni emozionali tipiche, confermando l'esistenza di centri cerebrali specializzati per l'organizzazione delle espressioni emozionali.
7. Le osservazioni relative a esseri umani con vari tipi di danno cerebrale o nervoso rivelano che una persona può mostrare forti espressioni emozionali (come ridere o piangere) e affermare di non sentirsi né felice né triste. Le persone con altri tipi di lesioni nervose (per esempio emiparesi) non possono mostrare volontariamente espressioni emozionali tipiche, eppure eventi divertenti o tristi possono innescare pattern normali di espressione.
8. I bambini cominciano fin da piccoli a imparare come nascondere alcune delle loro espressioni emozionali, e molti adulti sono assai abili in questo (vedi la «faccia da poker»). Gli adulti sono anche abbastanza capaci di creare volontariamente qualunque espressione, a prescindere da come si sentano in quel momento. Possono sorridere quando sono tristi e apparire cordiali quando in realtà sono arrabbiati.
9. La maggior parte dei ricercatori presuppongono che un'emozione sia una sensazione descrivibile, ignorando il fatto che molte persone hanno difficoltà a trovare parole per le loro sensazioni, possono talvolta reprimere o distorcere le sensazioni, o talvolta ingannare gli altri sulle loro vere sensazioni. Questi fatti rendono difficile interpretare semplici correlazioni fra sensazioni descritte ed espressioni manifeste, non importa quanto accuratamente le espressioni si possano misurare.
10. Le espressioni emozionali si verificano raramente o mai in isolamento. Ambivalenza e conflitto sono la regola nelle relazioni sociali umane e animali. Pertanto le espressioni facciali rifletteranno generalmente miscugli o miscele di emozioni, e miscugli di influenze corticali e subcorticali.
11. Esistono prove evidenti che un piccolo numero di espressioni facciali, cioè paura, rabbia, disgusto, tristezza e divertimento, sono giudicate coerentemente in molte culture, comprese quelle che hanno poco o nessun contatto con le società occidentali.
12. Secondo Ekman (1993) le emozioni possono verificarsi anche senza alcuna espressione facciale caratteristica, inoltre, alcune emozioni non hanno un'espressione distintiva.” (pp. 175-176)
E’ evidente che, se questi sono i problemi, si danno poche possibilità che una qualunque teoria possa venirne a capo. Se è scontato infatti che alcune emozioni possono essere espresse e decodificate attraverso le espressioni facciali è un dato di fatto che l’emozionalità umana è una dimensione più complessa di quanto si possa ricavare da quelle espressioni. Alcune emozioni di indubbia importanza - come per esempio il senso di colpa, la gelosia, la vendicatività, ecc - non possono essere colte facilmente attraverso esse.
In secondo luogo, il rapporto tra espressioni facciali e emozioni deve fare i conti con tre circostanze: la simulazione, per cui i soggetti manifestano mimicamente, vocalmente e gestualmente emozioni che di fatto non provano; le regole culturali di esibizione (display), per cui i soggetti controllano, sino al limite dell’inespressività, emozioni che provano; e la rimozione, per cui i soggetti non manifestano emozioni che di fatto sperimentano a livello inconscio.
C’è insomma una complessità intrinseca all’esperienza emozionale umana, tale per cui pretendere di teorizzarla a livello sperimentale sembra parecchio arduo.
6.
Nella misura in cui le emozioni primarie sono innate, non è sorprendente che esse si manifestino nei bambini piccoli fin dai primi giorni di vita. Sono quattro le emozioni originariamente più evidenti: gioia, paura, rabbia, tristezza (e, forse, il digusto).
E’ evidente che esse funzionano come segnali rivolti all’esterno che promuovono l’accudimento e la cura degli adulti. Si devono a Bowlby le ricerche a riguardo più interessanti:
“L'idea che i comportamenti emozionali dei lattanti abbiano delle funzioni è stata elaborata da uno psichiatra inglese, Bowlby (1969). Egli suggerisce che sono almeno quattro i sistemi che operano per controllare il comportamento del bambino. Uno è chiamato sistema d'attaccamento, la cui funzione è di mantenere prossimità, vicinanza o contatto fra il piccolo e la figura di accudimento. Il secondo è il sistema paura/cautela, la cui funzione è di aiutare il bambino a scappare o a evitare pericoli potenziali. Il terzo è il sistema esplorativo, che motiva il bambino a giocare o a interagire con gli altri e con parti dell'ambiente. Il quarto è il sistema affiliativo, che favorisce l'acquisizione di abilità sociali e di legami con una persona diversa dalla figura principale di attaccamento. E’ evidente che tutti questi sistemi (pattern di comportamento) hanno la funzione di ottenere sostegno e nutrimento e di evitare i pericoli, e dunque operano per aumentare le probabilità di sopravvivenza. Bowlby ritiene che questi quattro sistemi interagiscano e funzionino senza che il bambino ne sia cognitivamente consapevole (nel senso adulto). Con lo sviluppo delle capacità intellettive, il bambino può diventare più consapevole dell'operare di questi sistemi e più capace di esercitare un controllo cosciente su di essi.” (p. 199)
“Bowlby […] si interessò allo studio delle separazioni prolungate madre-bambino e della deprivazione di cure materne. Le sue osservazioni indicarono che il lattante o il bambino deprivato attraversa una fase di protesta, seguita da fasi di disperazione e distacco se la separazione si protrae per più di una settimana.
Bowlby trovò dei paralleli a questi pattern di reazione nella ricerca etologica. Molti uccelli e mammiferi mostrano reazioni paragonabili in condizioni simili di separazione dalla madre. Bowlby concluse che il comportamento di attaccamento è biologicamente radicato e costituisce la base dei futuri legami affettivi a lungo termine. Egli riteneva che il comportamento di attaccamento), cioè il mantenere uno stretto contatto con la madre o una figura di accudimento, si fosse evoluto attraverso la selezione naturale perché accresceva le probabilità di sopravvivenza del lattante grazie alla protezione della madre.
Per la teoria dell'attaccamento il bambino è dotato alla nascita di una serie di comportamenti caratteristici della specie che aumentano la probabilità di restare in prossimità della madre. Esempi di tali comportamenti sono il pianto, il sorriso e l'aggrapparsi, che agiscono come segnali, e fattori quali testa e occhi grandi, pelle morbida e altre caratteristiche che sembrano attirare gli adulti. Uno dei collaboratori di Bowlby, Mary Ainsworth, descrisse tredici comportamenti considerati elicitanti l'attaccamento: pianto, sorriso, vocalizzazioni, orientamento visuo-motorio, pianto all'allontanarsi della figura di attaccamento, seguire, camminare carponi, nascondere il volto nel grembo della madre, esplorare partendo dalla madre come «base sicura», aggrapparsi, sollevare le braccia nel saluto, battere le mani in segno di saluto e muoversi verso la madre damb, Thompson e altri, 1985). Questi comportamenti operano al fine di far attaccare il lattante alla madre, il che a sua volta produce protezione e maggiori probabilità di sopravvivenza.
La separazione del lattante dalla madre è una situazione pericolosa per il bambino, e attiva in lui tutti i meccanismi e comportamenti che ha a disposizione, il più evidente dei quali è il pianto. In studi successivi si scoprì che i genitori che rispondevano prontamente e in modo coerente al pianto del bambino avevano figli che alla fine del primo anno di vita piangevano relativamente poco.” (pp. 207-208)
L’intenso bisogno di appartenenza messo in luce da Bowlby, attraverso il quale il bambino sperimenta le emozioni più varie, è un dato di fatto che non sarà mai sufficientemente considerato. Esso dovrebbe essere assunto come l’indizio dell’importanza che la relazione con l’Altro ha nella strutturazione del mondo emozionale, anche prima che un Io in senso proprio si definisca. Non solo, però, come accennato, questo indizio non viene tenuto sufficientemente in contro dagli psicologi che si interessano di emozioni. Il problema è che, partendo dall’attaccamento viscerale del bambino, occorrerebbe interrogarsi anche sulle emozioni che promuovono il distacco, vale a dire sulle emozioni che si manifestano in periodici comportamenti oppositivi.
Riguardo a questo aspetto, e fatta eccezione per alcuni psicoanalisti (M. Mahler, Winnicott, R. Spitz, C. G. Jung, ecc.), gli psicologi tacciono, anche perché non hanno progettato o operato esperimenti a riguardo.
Il loro interesse sembra scorrere sempre nella direzione di ricerche più semplici, che, al limite, possono apparire banali.
E’ questo il caso del problema di quando i bambini imparano a dare un nome alle emzioni. Riguardo a questo Plutchik scrive:
“La ricerca sull'uso di parole emozionali nei bambini dipende ovviamente dal fatto che il bambino sia abbastanza grande da usare le parole. Perciò, quasi tutte le ricerche di questo tipo sono state condotte con bambini e ragazzi da due-tre anni circa all'adolescenza. In alcuni di questi studi il ricercatore chiede semplicemente alle madri di ricordare quando i loro figli usarono per la prima volta parole emozionali quali felice, triste, arrabbiato e impaurito. In una variante di questo tipo di studio, alle madri viene chiesto di tenere un diario in cui annotare esempi di uso di parole emozionali e i contesti in cui vengono usate. In un altro disegno di ricerca si presentano a bambini piccoli delle fotografie di espressioni facciali e si chiede loro di identificare l'emozione vista. Un altro metodo ancora si basa su interazioni fumate di bambini che litigano, piangono, tirano calci e ricevono regali. I soggetti vengono intervistati, e viene loro chiesto come si sentono i vari partecipanti. In genere, questi studi rivelano che la capacità del piccolo di operare inferenze corrette sulle emozioni nelle figure o negli altri inizia verso i due anni, due anni e mezzo. A quell'epoca circa metà dei bambini sanno identificare le facce felici nelle fotografie, e alcuni anche le facce tristi o arrabbiate. A quattro anni tutti i bambini capiscono felice. A cinque anni la maggior parte dei bambini sanno identificare sorpreso e impaurito dalle fotografie, e le figure tristi a sette anni. Se si presentano ai bambini delle brevi descrizioni di eventi che potrebbero produrre in loro un'emozione particolare, quelli di quattro anni possono in genere identificare felicità, tristezza, rabbia, disgusto e sorpresa (Camras e Allison, 1985). Quando a bambini dai due ai cinque anni veniva chiesto di operare dei giudizi a scelta obbligata fra varie coppie di espressioni facciali viste in fotografia, confondevano spesso arrabbiato con impaurito. Quando le espressioni facciali erano prese da film a colori di attori che creavano ogni espressione nello spazio di cinque secondi, quasi tutti i bambini di quattro anni discriminavano fra tutte e cinque le facce (felice, triste, arrabbiato, sorpreso, impaurito, Smiley e Huttenlocher, 1989).
E’ anche interessante notare che bambini di dieci-dodici anni identificati come depressi erano consapevoli non soltanto della tristezza che provavano, ma anche delle concomitanti sensazioni di rabbia. Otto dei dieci bambini depressi dissero spontaneamente che la depressione era una combinazione di tristezza e rabbia. Erano quindi consapevoli del fatto che le emozioni (quali tristezza e rabbia) possono mescolarsi e interagire per produrre qualità speciali che hanno etichette proprie (come la depressione). Questi risultati indicano che a tre o quattro anni i bambini sanno riconoscere negli altri parecchie emozioni fondamentali, e che il vocabolario complesso delle emozioni viene gradualmente integrato molto più tardi. A dieci anni i bambini riconoscono che le emozioni possono essere miste, e la maggior parte di loro sono capaci di disegnare l'espressione delle emozioni primarie.” (p. 210)
7.
L’ideologia adattamentista delle emozioni, che, a mio avviso, è una verità indubbia, ma parziale, governa i due capitoli successivi del libro (9 Emozioni e evoluzione, 10 La comunicazione delle emozioni negli animali). Essa è espressa a chiare lettera dall’autore:
“Dal punto di vista dell'evoluzione le emozioni si possono definire come determinati tipi di comportamenti adattativi che si possono individuare negli animali oltre che nell'uomo. Questi pattern adattativi si sono evoluti per affrontare problemi di sopravvivenza fondamentali in tutti gli organismi, come dover trattare con predatore e preda, compagno potenziale ed estraneo, oggetti commestibili e veleni, e implicano reazioni di avvicinamento o evitamento, di attacco e fuga, di attaccamento e perdita, di liberazione o espulsione. Secondo la teoria dell'evoluzione questi pattern sono i prototipi di quelle che chiamiamo emozioni negli animali superiori e nell'uomo. Questi pattern interattivi di adattamento possono essere concepiti come i prototipi di paura e rabbia, accettazione e disgusto, gioia e tristezza. Le sensazioni soggettive che in genere identifichiamo come emozioni sono uno sviluppo evolutivo relativamente tardo, e nomi dovrebbero essere usate come il criterio unico o più importante della presenza di uno stato emozionale. Le emozioni sono adattamenti complessi e interazionali e devono pertanto avere una varietà di forme espressive, ognuna delle quali può essere usata per inferire le proprietà dello stato che ne è alla base. Anche se i dettagli dei processi adattativi variano fra animali, specie e tipi diversi, a seconda della natura dell'ambiente e della genetica, la funzione di ogni pattern di adattamento è rimasta invariata attraverso tutti i livelli filogenetici. Dal punto di vista dell'evoluzione, le emozioni sono pattern di adattamento che aumentano le probabilità di sopravvivenza dell'individuo e della specie.” (pp. 223-224)
Questo monismo ideologico, a mio avviso, riduce l’interesse dei capitoli in questione, tranne che per un aspetto, quello che riguarda l’autoconsapevolezza degli stati emozionali:
“Gli argomenti trattati [sono] sufficienti a giustificare l'idea che le emozioni siano presenti negli animali oltre che negli esseri umani, nonostante l'assenza di un repertorio verbale negli animali. Questa premessa suggerisce la domanda: «E che dire dell'autoconsapevolezza negli animali? Gli animali sanno di avere delle emozioni?»
In primo luogo, dobbiamo fare una distinzione fra avere un'esperienza ed esserne consapevoli, proprio come possiamo distinguere fra avere un comportamento ed esserne consapevoli. Gli esseri umani mostrano molti comportamenti di cui in genere sono inconsapevoli, come corrugare la fronte, respirare, deglutire, e manierismi personali come grattarsi la testa. Possono anche mostrare varie reazioni come sbattere le ciglia, riflessi del ginocchio o contrazioni pupillari, di cui sono del tutto inconsapevoli.
Ma che dire delle emozioni? Gli animali sanno di provare un'emozione quando mostrano un comportamento emozionale? Griffin (1976), uno zoologo, affronta il problema della consapevolezza negli animali. La sua opinione è che la ricerca sulla comunicazione sociale nelle api, l'orientamento e la navigazione negli animali, e l'acquisizione del linguaggio negli scimpanzé suggerisce la possibilità che abbiano luogo delle «conversazioni» fra membri di una data specie, e che gli animali abbiano esperienze mentali e comunichino con un intento conscio.
Purtroppo vi sono scarse prove, se non di carattere aneddotico, a sostegno dell'ipotesi dell'intenzionalità negli animali, e vi sono ancora meno prove della loro autoconsapevolezza. Una serie ingegnosa di ricerche, tuttavia, fornisce alcune informazioni al riguardo. Gallup (1977) collocò degli scimpanzé di fronte a uno specchio a figura intera così che potessero vedere la propria immagine riflessa, in base al presupposto che la consapevolezza di sé sia basata sull 'autoriconoscimento. Entro qualche giorno il comportamento cambiò, da un comportamento normalmente rivolto verso un altro animale a un comportamento chiaramente autodiretto (per esempio, strigliarsi parti del corpo che non riuscivano normalmente a vedere, estrarre cibo dalle fessure tra i denti, o fare smorfie allo specchio). Quando i ricercatori mettevano della pittura rossa sul muso degli scimpanzé, essi mostravano un'attenzione assai maggiore per quella zona. Questo comportamento non si verificava in animali dì controllo che non erano mai stati posti prima di fronte a uno specchio.
I ricercatori hanno replicato questo fenomeno dell'autoriconoscimento (e, per implicazione, dell'autoconsapevolezza) negli oranghi oltre che negli scimpanzé, ma ogni tentativo di riprodurre il fenomeno nei Primati inferiori - scimmie ragno, cappuccini, mandrilli e amadriadi e gibboni - è fallito. Questi risultati, se apparentemente dimostrano l'esistenza dell'autoconsapevo lezza in alcune scimmie, pongono seriamente in discussione la tesi di Griffin che l'autoconsapevolezza si può trovare a tutti i livelli evolutivi.
La possibilità che l'autoconsapevolezza degli stati emozionali non esista a livelli filogenetici inferiori alle grandi scimmie antropomorfe, non implica che le emozioni non esistano a questi livelli filogenetici. Come abbiamo già visto, i dati utilizzati per inferire stati emozionali negli animali implicano la conoscenza del comportamento tipico di un organismo e la presenza di certe classi di comportamenti finalizzati. Dati questi tipi di segnali, possiamo fare inferenze sugli stati emozionali senza considerare il problema dell'autoconsapevolezza. In altre parole, la questione dell'autoconsapevolezza negli animali è interessante, ma è essenzialmente irrilevante per la questione più ampia del riconoscimento delle emozioni negli animali.” (232)
L’autoconsapevolezza, dunque, è un’esperienza quasi esclusivamente umana. Sarebbe interessante capire quale contributo danno le emozioni a questa esperienza esistenziale e quale incidenza essa ha sull’organizzazione delle emozioni umane.
Gli psicologi non sono molto interessati a problemi del genere.
Non è sorprendente, dunque, che Plutchik passi a trattare delle strutture cerebrali coinvolte presumibilmente nelle esperienze emozionali. In rapporto a questo aspetto, il libro paga inesorabilmente il fatto di essere stato scritto ormai 15 anni fa, quando le tecniche neuroradiologiche che hanno prodotto a riguardo dati estremamente rilevanti non erano ancora adottate.
8.
Questo limite si riflette anche nel capitolo 12, dedicato alle teorie delle funzioni del cervello nelle emozioni. Se si esclude Damasio, la rassegna è articolata e dettagliata, sicché vale la pena citarla integralmente:
“
Negli ultimi decenni le neuroscienze hanno fatto grandi progressi nella comprensione di come funziona il cervello. Questi contributi riflettono la collaborazione di molte discipline fra le quali la neurofisiologia, la psicologia fisiologica, l'etologia e la biochimica. Abbiamo imparato molte cose sui molti sistemi cerebrali e sulle loro interazioni, ed è stato possibile formulare delle ipotesi su come il cervello contribuisce al comportamento emozionale e all'esperienza delle emozioni...
Fin dalla metà degli anni quaranta, Robert Heath ha studiato la fisiologia e la biochimica cerebrale negli esseri umani e negli animali. La sua ricerca ha reso possibile una concezione più ampia delle basi neurali delle emozioni.
I dati a cui Heath ricorre per giustificare le sue idee sono di diversi tipi. La stimolazione elettrica a livello neocorticale ha effetti scarsi o nulli sulle emozioni. La lobotomia in genere non modifica il comportamento emozionale dei pazienti schizofrenici. Invece l'ablazione di siti subcorticali produce spesso profondi disturbi della memoria e del comportamento emozionale. La stimolazione elettrica di centri subcorticali in pazienti che erano in grado di descrivere i propri pensieri e sensazioni mostra che i ricercatori possono elicitare sensazioni piacevoli stimolando aree settali e sensazioni spiacevoli stimolando certe zone dell'ippocampo. L'uso dei potenziali evocati per mappare le reti anatomiche interconnesse consentì a Heath di identificare queste zone come coinvolte nell'espressione delle emozioni:
1) regione settale, ippocampo e amigdala;
2) nuclei di relè sensoriali subcorticali per l'udito (nuclei genicolati mediali), la visione (nuclei genicolati laterali), la somatoestesia (talamo venterolaterale posteriore) e la propriocezione vestibolare (nucleo fastigiale del cervelletto);
3) siti coinvolti nell'espressione facciale e nel movimento oculare (collicolo superiore, nuclei del terzo nervo, oliva inferiore nel ponte);
4) nuclei niesencefalici che contengono grandi quantità dei principali neurotrasmettitori del cervello; nella substantia nigra si trova dopamina, nel locus curuleus noradrenalina e nei nuclei del rafe serotonina.
Queste e altre osservazioni portarono Heath a concludere che il sistema limbico convenzionale è soltanto una piccola parte del sistema coinvolto nel comportamento emozionale. Tutte le parti principali del cervello ‑ rombencefalo, mesencefalo e proencefalo ‑ partecipano agli stati eniozionali. Questa affermazione è giustificata dal fatto che le emozioni in genere implicano modificazioni diffuse dei muscoli scheletrici (modificazioni posturali o dell'espressione facciale), oltre che del sistema nervoso autonomo, e anche modificazioni nella percezione e nella valutazione. Di particolare interesse è la scoperta di alcuni siti inducenti piacere che hanno la funzione di inibire l'attività presso i siti aversivi.
Il sistema del piacere
Nel tentativo di individuare le funzioni dei sistemi subcorticali nell'uomo, all'inizio degli anni cinquanta Heath studiò 106 pazienti incurabili che erano disposti a farsi impiantare dei minuscoli elettrodi in profondità nel cervello. In alcuni casi gli elettrodi venivano lasciati per alcuni giorni, in altri casi anche per otto anni. Ad alcuni pazienti Heath impiantò dei sottilissimi tubicini o cannule per poter introdurre sostanze chimiche nel cervello.
Heath scoprì che quando i pazienti descrivevano delle sensazioni piacevoli, si verificavano costantemente delle modificazioni neurali nelle registrazioni relative alla regione settale, alle zone profonde del cervelletto e all'amigdala dorsolaterale. Quando attraverso cannule somministrava droghe inducenti dipendenza, come la marijuana e la cocaina, i pazienti descrivevano sensazioni piacevoli, soprattutto quando veniva stimolata la zona settale.
Dopo che Olds e Milner dimostrarono nel 1954 che i ratti si autostimolano ripetutamente determinate aree del cervello con deboli correnti elettriche, Heath usò questa tecnica con alcuni suoi pazienti. Scoprì che i pazienti stimolavano ripetutamente siti nel sistema del piacere, e particolarmente l'area settale rostrale. Anche l'introduzione di acetilcolina, un neurotrasmettitore, nelle aree settali produceva sensazioni piacevoli, e in un paziente induceva l'orgasmo. Nello stesso tempo, l'attività dell'ippocampo, un sistema aversivo, veniva inibita. Questa relazione reciproca funzionava per il dolore fisico oltre che per le sensazioni sgradevoli. In questo modo Heath fu in grado di ridurre moltissimo la sofferenza dei malati di cancro stimolando elettricamente il sistema del piacere. Mediante stimolazione settale riuscì anche a ridurre gli attacchi epilettici.
Il sistema aversivo
Mentre usava gli elettrodi impiantati in profondità per registrare le modificazioni elettriche in varie strutture cerebrali, Heath parlava con i pazienti. Quando il paziente descriveva sensazioni o ricordi spiacevoli, egli notava modificazioni elettriche in nuclei quali l'ippocampo, l'amigdala mediale corticale e il giro del cingolo. Quando somministrava una stimolazione elettrica su questi siti, le risposte più comuni erano sensazioni di paura e di rabbia e talvolta comportamento violento. Tre pazienti, periodicamente soggetti a violenti attacchi psicotici, mostravano un'attività elettrica anomala nell'ippocampo e in alcuni siti dell'amigdala.
La stimolazione elettrica dell'ippocampo e dell'amigdala dorso-laterale tendeva a produrre attacchi negli animali sperimentali e nei pazienti. La stimolazione elettrica e chimica (acetilcolina) della regione settale riduceva notevolmente l'incidenza delle crisi nei pazienti epilettici e riduceva anche l'attività elettrica anomala nell'ippocampo. Heath ne concluse che esiste una relazione inversa fra il sistema del piacere (rappresentato principalmente dalla regione del setto) e il sistema aversivo (rappresentato principalmente dall'ippocampo).
Heath concluse inoltre che il concetto tradizionale di un sistema limbico come base delle emozioni è troppo limitato. Quasi tutte le parti del cervello contribuiscono a determinare l'espressione delle emozioni, nel comportamento e nelle verbalizzazioni di stati interni. Di grandissima importanza è il concetto di un'interazione tra sistema del piacere e sistema aversivo. Tuttavia, non tutti i neurofisiologi sono convinti della validità di queste osservazioni, e parecchi ricercatori hanno proposto altre teorie sui meccanismi nervosi soggiacenti alle emozioni. Vedremo ora alcune di queste teorie.
Pribram ha poca simpatia per la concezione di James, in base alla quale gli stati interni sarebbero determinati da un feedback nervoso dai visceri al cervello. Una delle sue obiezioni è che molti degli ormoni circolanti prodotti dallo stress non riescono a oltrepassare la barriera emato-encefalica e a raggiungere il cervello; un'altra è che gli effetti biologici dello stress sono spesso molto brevi, mentre gli stati d'animo possono durare indefinitamente. Pribram contesta anche la teoria di Papez‑MacLean, che sottolinea il ruolo del sistema limbico nelle emozioni. Egli afferma che la stimolazione o la distruzione delle strutture limbiche influenzano funzioni non emozionali come la memoria; inoltre, la stimolazione di zone non limbiche come parti della corteccia frontale può produrre modificazioni viscerali.
La teoria di Pribram si distingue dalle altre per parecchi aspetti. Anzitutto, piuttosto che porre l'accento sulle modificazioni viscerali come fonte principale di input per gli stati soggettivi, sottolinea l'importanza dei fattori attinenti alla memoria. Afferma che gli eventi inaspettati, o l'incongruenza fra esperienza passata e input attuale, producono una reazione d'allarme che mette in moto vari processi cerebrali nel tentativo di tenere sotto controllo l'input agli organi di senso.
Tale controllo può verificarsi in uno dei due modi seguenti, o in entrambi: attraverso processi preparatori o attraverso processi partecipatori. Esempi di processi preparatori sono la rimozione e la difesa percettiva, nel senso che queste reazioni tendono a ignorare o rifiutare quegli aspetti della situazione che hanno dato inizio a uno stato emozionale. I processi partecipatori tendono ad affrontare l'incongruenza o il disequilibrio riadattando in qualche modo l'organismo. In altre parole, l'episodio va a far parte del sistema di ricordi della persona, e l'incongruenza fra stimolo e ricordo viene poi minimizzata. Stati quale interessamento, ammirazione e meraviglia sono esempi di processi partecipatori che hanno in comune qualche tipo di implicazione degli eventi ambientali.
Queste idee si fondano sui concetto che la stabilità di un individuo dipende dall'esistenza di una serie di programmi neurali basati sia sulla genetica che sull'esperienza. Le emozioni si verificano quando gli eventi ambientali creano delle incongruenze, che a loro volta fanno entrare in azione i meccanismi di controllo. Pribram (1967) definisce le emozioni «il risultato di disposizioni o atteggiamenti neurali che regolano l'input quando l'azione è temporaneamente impedita». Questa concezione sottolinea l'idea che un'emozione sia un evento nervoso interno, non un comportamento espressivo. Di fatto, Pribram (1970) dice abbastanza esplicitamente che «l'emozione non viene necessariamente espressa nel comportamento».
Queste idee fornirono la base per una serie di ricerche empiriche, molte delle quali relative ai centri nervosi coinvolti nel controllo preparatorio e partecipatorio dell'input.
I lavori di Pribrarn sono molto seri, ma un po' vaghi nel trattare emozioni specifiche. E interessante pensare che le incongruenze fra input e «piani» attivino processi nervosi chiamati emozioni. Ma in che modo questa ipotesi ci aiuta a comprendere la paura, la rabbia o la gioia? Nulla ci viene detto su tali questioni. Il valore del lavoro di Pribram sta nel fatto che orienta la nostra attenzione verso un modo alternativo di considerare le emozioni e il cervello.
José Delgado è un neurofisiologo che, attraverso una lunga serie di ricerche, ha contribuito alla nostra comprensione dei meccanismi cerebrali coinvolti nell'emozione. Ha mostrato, per esempio, che vi sono tre tipi di strutture cerebrali in relazione alle emozioni. Nel primo tipo la stimolazione elettrica del cervello non produce effetti osservabili che si possano considerare emozionali. Esempi di tali strutture sono la corteccia motoria, il pulvinar (una parte del talamo) e la substantia nigra. Se stimolate elettricamente, le strutture del secondo tipo producono manifestazioni comportamentali emozionali, ma senza l'esperienza soggettiva dell'emozione. Un esempio è la parte anteriore dell'ipotalamo. Il terzo tipo di struttura produce sia un comportamento emozionale sia un'esperienza emozionale, come i ricercatori hanno mostrato stimolando elettricamente la zona grigia centrale del mesencefalo, il nucleo postero-ventrale del talamo, l'area tectale del talamo e certe parti dell'ippocampo (Delgado, 1960).
Ma Delgado ha fatto ben di più che darci una sorta di atlante cerebrale delle emozioni. In una pubblicazione del 1966 ha considerato molti dei problemi relativi a una teoria delle emozioni; le osservazioni seguenti si basano in gran parte su questo lavoro.
Qualunque cosa sia un'emozione, non è semplicemente una sensazione soggettiva. Delgado sottolinea che si possono esprimere stati emozionali in così tanti modi diversi che nessun aspetto isolato (come le sensazioni descritte) può essere considerato il criterio ultimo o definitivo dell'esistenza di un'emozione. Ciò implica che possiamo riconoscere le emozioni negli animali come nell'uomo; esempi dei dati su cui egli si basa sono: il comportamento intenzionale degli animali, come nell'uccisione di un altro animale; le reazioni di altri animali della stessa specie (per esempio, il comportamento sottomesso delle scimmie nei confronti di un maschio aggressivo); la disponibilità di un animale a operare per indurre un'emozione in sé stesso, come vediamo negli studi sull'autostimolazione elettrica. Oltre a questi tipi di indici, molti comportamenti espressivi riflettono emozioni. La tabella 12.1 fornisce una lista di comportamenti del gatto collegati ad azioni offensive o difensive.

La varietà di tali comportamenti porta Delgado alla sua teoria dell'organizzazione frammentaria del comportamento. Ogni elemento comportamentale elencato nella tabella è coinvolto non soltanto nelle espressioni emozionali ma anche in altri tipi di attività. Per esempio, leccare può far parte del mangiare, dell'esplorare, del giocare e dell'accudire i piccoli. E improbabile che il pattern motorio del leccare abbia nel cervello una rappresentazione separata per ogni tipo di attività. Un'ipotesi più plausibile è che un centro nervoso organizzi il comportamento del leccare, e impulsi nervosi provenienti da altre parti del cervello attivino questo centro, a seconda dello stimolo di partenza (per esempio, cibo, un oggetto nuovo, un cucciolo e così via). Il risultato è che semplici frammenti di comportamento (come leccare, soffiare o mordere) possono diventare parte di sequenze diverse d'azione e perciò assumere diversi significati funzionali.
Questa idea implica che non esiste un unico circuito cerebrale per la rabbia o per il piacere, ma che deve esservi un gruppo di strutture che svolgono un ruolo nell'integrare i vari comportamenti che definiscono ogni emozione. Coerente con questa teoria è il fatto che la stimolazione elettrica di parti diverse del cervello può produrre la stessa emozione. Per esempio, la stimolazione elettrica dell'ipotalamo laterale e della sostanza grigia centrale mesencefalica ha prodotto attacchi aggressivi, mentre la stimolazione dei lobi frontali o della corteccia occipitale no.
Sebbene sia importante identificare i centri cerebrali coinvolti nell'integrazione del comportamento emozionale, è anche importante discutere le condizioni stimolo che producono le emozioni. Delgado (1966) nota che «alcune reazioni emozionali dipendono da input sensoriali, mentre altre no; l'interpretazione cosciente è necessaria per alcuni tipi di emozioni e non per altri; gli stimoli emozionali possono avere origine nell'ambiente, nella memoria o persino nell'ambito di circuiti neuronali attivati da fenomeni chimici o elettrici». Alcuni stimoli che producono emozioni sono «naturali» e hanno un impatto analogo su tutti i membri della stessa specie (o addirittura di specie diverse). Per esempio, rumori forti improvvisi e dolore tendono a produrre paura, ed eventi che soddisfano pulsioni essenziali producono piacere. Molti stimoli sono specifici di una data cultura, cosicché i loro significati dipendono da esperienze generali condivise e da apprendimenti che risalgono alla prima infanzia. Spesso gli stimoli che evocano le emozioni sono personali e idiosincratici, e raggiungono il loro effetto agendo sulla sensibilità individuale e sulla storia personale.
Di particolare interesse è il lavoro di Delgado sull'inibizione del comportamento; si tratta di un requisito necessario dell'organizzazione del comportamento in pattern significativi. La comparsa di una singola azione, come colpire un nemico con la mano destra e non con la sinistra, implica la scelta di un'unica sequenza d'azione e, contemporaneamente, l'inibizione di tutte le altre sequenze.
Utilizzando scimmie non anestetizzate con elettrodi impiantati nel cervello, Delgado ha mostrato molti diversi tipi di inibizione di attività. In un primo caso, insegnò alle scimmie una certa risposta per ottenere cibo. La stimolazione elettrica della commessura anteriore, del pallido e del putamen arrestava il movimento necessario per avere il cibo. Non appena la stimolazione veniva interrotta l'animale andava a cercare il cibo. Un secondo tipo di inibizione sembrava essere una forma di sonno. La stimolazione del setto per cinque minuti o più produceva in quasi tutti gli animali uno stato di sonnolenza, che talvolta continuava per alcuni minuti dopo la cessazione della stimolazione. Un terzo tipo di inibizione era una reazione «d'arresto». La stimolazione delle vie motorie sotto l'area motoria della corteccia produceva un arresto improvviso di tutta l'attività, ma con una conservazione della normale tensione posturale. In altri casi la stimolazione del giro del cingolo anteriore c di certi punti del sistema reticolare ferma ogni attività ed è associata con una perdita costante di tono muscolare. L'animale si affloscia, e la stimolazione esterna (come una scossa elettrica) non ha alcun effetto.
Delgado descrive anche diversi casi di esseri umani stimolati con elettrodi impiantati nel cervello. Questo trattamento viene effettuato col consenso del paziente, e solo nel tentativo di trattare epilessia, morbo di Parkinson o dolore intrattabile nei malati di cancro. In questi casi i ricercatori hanno dimostrato che la stimolazione elettrica può produrre descrizioni di sensazioni di ansia, rabbia, piacere e tristezza. Questi studi sull'uomo rafforzano la convinzione che i pattern emozionali indotti dalla stimolazione cerebrale negli animali sono molto simili a quelli prodotti da una stimolazione analoga nell'uomo. Il lavoro di Delgado è un buon esempio di un tentativo di integrare i dati neurologici e i concetti psicologici.
Molte delle ricerche e delle teorie descritte finora riguardano gli effetti della stimolazione elettrica di strutture cerebrali e gli effetti di lesioni o ablazioni di parti del cervello. Tuttavia, è ormai ben noto che i fattori biochimici svolgono un ruolo importante nel determinare le reazioni del cervello. James P. Henry (1986), neurofisiologo e psichiatra, si è dedicato a questo aspetto del funzionamento cerebrale in relazione alle emozioni.
La figura 12.1 illustra come Henry considera tre emozioni primarie: rabbia, paura e depressione.

Egli ritiene che le reazioni emozionali comincino sempre con la percezione di una situazione, quella che altri hanno chiamato stima o valutazione. La persona valuta la situazione nella corteccia fronto-temporale in relazione sia alla memoria a breve termine che a quella a lungo termine, e poi, a seconda della valutazione (cioè attaccare nella rabbia, scappare nella paura e sottomettersi nella depressione, per esempio), vengono attivati dei circuiti emozionali. Per la rabbia Henry ritiene che il nucleo centrale dell'amigdala nel sistema limbico svolga un ruolo importante; per la paura è il nucleo basale dell'amigdala, per la tristezza l'ippocampo o il setto. Questi circuiti innescano sensazioni soggettive e/o un comportamento manifesto come lottare, attaccare, mordere o correre. Per sostenere queste azioni complesse e diffuse, viene anche attivato il sistema neuroendocrino, che produce modificazioni della pressione arteriosa, del ritmo cardiaco, della secrezione di noradrenalina, testosterone e altre sostanze. L'attivazione dei nuclei dell'amigdala (e dell'ipotalamo) risulta nella liberazione di adrenalina e noradrenalina nel sangue da parte del midollo surrenale. Nella rabbia, l'escrezione dì noradrenalina nell'urina sembra aumentare più velocemente dell'escrezione di adrenalina. L'ipotalamo innesca gli aumenti di testosterone dovuti a un incremento dell'ormone gonadotropo nella ghiandola pituitaria. I livelli di zucchero (glucosio) nel sangue aumentano per aiutare l'individuo a prepararsi per l'attacco o la fuga, e vengono prodotti altri ormoni quali l'adrenocorticotropina (ACTH). Ricerche precedenti indicano che la produzione di ACTH tende a essere associata a depressione, a diminuzione di tensione, sottomissione e inibizione del comportamento.
La ghiandola surrenale in realtà è una combinazione di due distinte ghiandole che si sono unite nel corso dell'evoluzione. La porzione interna della ghiandola, il midollo, controlla la produzione periferica di noradrenalina e adrenalina, mentre la porzione esterna, la corteccia, produce soprattutto glucocorticoidi, che influenzano il metabolismo dello zucchero. La corteccia surrenale, a sua volta, è controllata dalla liberazione di ACTH nella ghiandola pituitaria. Secondo Henry la produzione di ACTH in risposta a uno stimolo inducente paura implica l'attivazione del sistema pituitario attraverso la stimolazione ippocampale. Gli ormoni della corteccia surrenale liberano glucosio, aumentano la portata del flusso sanguigno e influenzano il sistema immunitario.
Le interazioni sociali hanno importanti effetti sui tipi di ormoni liberati. Per esempio, il livello di serotonina nel sangue aumenta in una scimmia che diventa dominante in un gruppo sociale. La sconfitta in una lotta aumenta l'attività parasimpatica, rallenta il ritmo cardiaco, rilassa i muscoli e riduce l'urinazione. Henry interpreta questi effetti come significativi del fatto che la sconfitta porta all'inibizione dell'attività per ridurre il consumo di energia, e per affrontare il dolore e una possibile perdita di sangue, aumentando così le probabilità di sopravvivenza. Altri studi hanno dimostrato che le persone che vincono una gara tendono a presentare un aumento del livello di testosterone nel sangue. Illustra l'importanza di questi cambiamenti ormonali nelle emozioni il fatto che, almeno negli uccelli, la liberazione di ormoni specifici precede quasi ogni tappa dei complessi pattern comportamentali che vanno dalla scelta del territorio alla costruzione del nido, al covare, al nutrire e allevare i piccoli (Hinde, 1982).
Henry fece un'altra importante affermazione. A suo avviso, è troppo riduttivo parlare del ruolo di una particolare struttura cerebrale nelle emozioni come se funzionasse in isolamento, ma si devono concepire le singole strutture come parte di sistemi o assi più vasti. Egli individua due assi di questo tipo. Uno è l'asse midollo surrenale‑sistema simpatico, fra cui l'amigdala, il locus coeruleus e il midollo surrenale. Alti livelli di attivazione sono associati allo stato di allarme e al comportamento di attacco o fuga. Bassi livelli sono associati a rilassamento e sonno.
In interazione con questo asse, vi è quello che Henry chiama l'asse ippocampale‑pituitario-corteccia surrenale, che comprende i nuclei del rafe, la serotonina come neurotrasmettitore, l'ippocampo e gli ormoni liberati dalla corteccia surrenale. Una bassa attivazione di questo sistema è associata al comportamento di pulizia, all'attaccamento sociale e a sensazioni piacevoli, un'alta attivazione implica depressione e perdita degli attaccamenti. Quando questi due sistemi interagiscono a vari livelli di attivazione, Henry ipotizza che possano sorgere diversi problemi biologici, come mostra la figura 12.2.

Egli ritiene che alti livelli di attivazione di questi due sistemi possano produrre alti livelli di cortisolo e alti livelli di noradrenalina nel sangue, aumento della pressione arteriosa, possibili disturbi coronarici e possibili disturbi autoimmunitari.
Sebbene Henry basi queste idee su dati di ricerca, esse sono anche congetturali. L'idea che i comportamenti emozionali siano basati su una biogrammatica biochimica, anatomica e genetica, innescata dagli ormoni è interessante e continuerà indubbiamente a stimolare la ricerca.
Panksepp ritiene che le emozioni siano reazioni complesse psicofisiologiche-comportamentali dell'organismo a vari tipi di stimoli. Le sue ricerche condotte per parecchi anni hanno riguardato l'identificazione e lo studio dei circuiti di controllo emozionali nel cervello. Egli ritiene che la ricerca abbia identificato almeno quattro circuiti emozionali di questo tipo, sebbene esista la possibilità di scoprire in futuro altri circuiti per emozioni quali l'allegria e la gioia (Panksepp, 1982, 1989).
Secondo Panksepp certi tipi di stimoli o eventi ambientali tendono a produrre reazioni emozionali. Per esempio, l'imprigionamento è un tipo di evento che innesca reazioni di furore; il dolore innesca paura; le perdite sociali innescano panico; incentivi positivi quali il contatto sociale innescano aspettativa. Panksepp ci ammonisce a non fraintendere l'uso di questi quattro termini, poiché potremmo usare altrettanto bene una varietà di altri termini collegati, come odio e rabbia invece di furore, allarme e ansia per paura, solitudine e dolore per panico, speranza e curiosità per aspettativa. Panksepp (1986) afferma inoltre che esistono determinati attributi generali che definiscono i circuiti di controllo emozionale. Essi sono:
1) i circuiti sottostanti sono geneticamente prefissati e rispondono a circostanze importanti che minacciano l'esistenza (per esempio, minaccia, dolore, perdita);
2) i circuiti organizzano il comportamento attivando o inibendo pattern di movimento e modificazioni del sistema nervoso autonomo e ormonali che sono risultati adattativi durante la storia evolutiva della specie (per esempio, mordere, scappare, grida d'angoscia e annusare);
3) i circuiti emozionali possono cadere sotto il controllo di stimoli neutri mediante condizionamento;
4) i circuiti emozionali interagiscono con i meccanismi cerebrali che influenzano la valutazione, il processo decisionale e la coscienza.
Panksepp sottolinea che è un errore considerare l'emozione primariamente come uno stato di reattività all'attivazione del sistema nervoso autonomo. I dati oggi disponibili mostrano che le emozioni sono fondamentalmente associate ad alcuni schemi comportamentali ben organizzati collegati alla sopravvivenza ‑ come attacco, fuga ed esplorazione ‑ che le modificazioni del sistema nervoso autonomo sostengono o rinforzano.
Panksepp definisce i circuiti di controllo emozionale come vie di comunicazione a doppio senso che reclutano simultaneamente alcune strutture e funzioni cerebrali in risposta a situazioni di importanza vitale. Trasmettono informazioni dagli organi di senso, dalla memoria associativa e dai magazzini della memoria alle strutture limbiche e ad altre parti del sistema nervoso. Il risultato finale di questo interscambio complesso è il comportamento integrato e adattativo.
Sebbene i dati di ricerca siano ben lontani dall'essere concordi a proposito dell'esatta natura dei circuiti di controllo emozionale, i dati relativi agli studi sugli animali e sull'uomo indicano quanto segue.
1. I pattern della paura sono associati all'attivazione dell'amigdala basolaterale e centrale, della sostanza grigia centrale e dell'ipotalamo ventrolaterale.
2. I pattern della rabbia sono associati a vie nervose nell'amigdala corticomediale, nella sostanza grigia centrale e nell'ipotalamo mediale.
3. I pattern dell'angoscia di separazione sono associati all'attivazione del talamo dorsomediale e del nucleo basale della stria terminale, una banda di fibre nervose che va dall'amigdala all'ipotalamo anteriore.
4. I pattern di aspettativa (curiosità, rovistare) sono associati all'attivazione di parti dei gangli della base e delle strutture orbitofrontali.
Queste idee sono riassunte nella tabella seguente.

Nella tabella, le principali strutture cerebrali che si ritiene siano implicate in ogni sistema di controllo emozionale sono rappresentate solo in parte. E evidente che i nervi cranici devono essere coinvolti in questi circuiti, oltre a riflessi spinali e del sistema nervoso autonomo di vario tipo. Per esempio, il nervo facciale trigemino è implicato nel controllo del mordere (furia), i nervi cranici oculomotori sono coinvolti nei movimenti oculari e nel frugare, e vari nervi cranici sono coinvolti nelle vocalizzazioni dell'angoscia di separazione. Poiché le emozioni tendono a essere associate a suoni caratteristici, ogni circuito può influenzare i controlli respiratori e vocali per generare piagnucolii, strilli, tubare e urla identificati con emozioni diverse. Analogamente, i circuiti influenzano le reazioni del sistema nervoso autonomo e dei muscoli scheletrici, che producono le modificazioni nel colore della pelle, nella temperatura cutanea, la sudorazione, i brividi, l'erezione dei peli, le risposte cardiovascolari caratteristiche delle emozioni. E’ probabile, in base ai dati a nostra disposizione, che i pattern di comportamento manifesto siano diversi per emozioni diverse, ma la stessa cosa non vale per le modificazioni del sistema nervoso autonomo. Panksepp ritiene che le modificazioni del sistema nervoso autonomo che accompagnano le emozioni rinforzino e siano congruenti con le richieste comportamentali delle emozioni (per esempio, un maggior afflusso di sangue ai muscoli nel caso della rabbia).
Queste idee di Panksepp sono un ulteriore modello per la comprensione delle relazioni tra le emozioni e il funzionamento del cervello e del sistema nervoso. La ricerca futura identificherà probabilmente ulteriori circuiti di controllo emozionale e consentirà di meglio localizzare quelli già noti.
Detlev Ploog è un neurofisiologo ed etologo che ha svolto le sue ricerche in Germania presso il Max Planck Institute. Ha partecipato a un programma di ricerca a lungo termine relativo all'identificazione dei meccanismi nervosi soggiacenti ai comportamenti specie‑specifici. E’ un metodo usuale in medicina, dove i ricercatori tentano di trovare somiglianze e differenze fra gli animali e l'uomo in aspetti quali gli organi, il sistema immunitario e il cervello.
Un esempio della ricerca di Ploog riguarda la neuroetologia della segnalazione sociale, in particolare della segnalazione vocale. La trattazione che segue è basata sulla sua analisi di questo problema (Ploog, 1986).
Da un punto di vista evolutivo, la capacità di produrre suoni ha una lunga storia. Vediamo gli inizi rudimentali di una faringe in grado di produrre suoni nei dipnoi. Uno sviluppo ulteriore si verifica negli anfibi (per esempio, nelle rane) e nei mammiferi nella differenziazione della muscolatura laringea (corde vocali). Nell'uomo i movimenti della lingua, delle labbra e del palato molle producono il linguaggio verbale con un coinvolgimento soltanto minimo delle corde vocali. Invece, tanto l'uomo che gli animali producono i suoni non verbali quasi esclusivamente con le corde vocali.
I metodi della neuroetologia mettono a confronto il comportamento vocale di animali inferiori e superiori, nel tentativo di collegare le differenze sia allo stile di vita che ai sistemi cerebrali. Volendo fare solo un esempio, le rane maschio hanno cinque richiami: uno è un richiamo di accoppiamento che attira le femmine, e un altro è un richiamo che minaccia gli altri maschi. Entrambi sono specie‑specifici. Al contrario, la scimmia scoiattolo ha numerosi richiami le cui varianti servono come segnali comunicativi.
Come possiamo conoscere il ruolo dei diversi segnali vocali? Possiamo vedere quanto spesso un tipo di richiamo ne segue un altro. Questo pattern dà una certa idea della somiglianza delle motivazioni associate a ogni richiamo. Un altro metodo consiste nell'impiantare minuscoli elettrodi nel cervello della scimmia e trovare i siti da cui possono essere elicitati richiami diversi. I ricercatori poi danno all'animale l'opportunità di accendere o spegnere la corrente elettrica da solo, fornendo così un indice della piacevolezza o spiacevolezza dello stato interno corrispondente a ogni richiamo. I ricercatori ipotizzano che quanto più è basso il livello di autostimolazione per un particolare richiamo, tanto maggiore sia l'aversività (spiacevolezza) dello stato interno connesso a quel richiamo.
Utilizzando queste procedure, Ploog e colleghi identificarono le proprietà di quindici tipi di richiami nella scimmia scoiattolo, raggruppandoli nelle cinque classi seguenti:
Segnali di avvertimento: suoni descritti come «schiocchi», «uggiolare» e «pigoli d'allarme».
Segnali di protesta: suoni descritti come «lamenti», «gracchi» e «strilli»; variano da segni dì leggero disagio a intensa minaccia.
Segnali di sfida: suoni descritti come «ronzii», «ringhi» e «sputi».
Segnali di desiderio di contatto sociale: suoni descritti come «cinguettii», pigolii d'isolamento» e «squittii»; agiscono per attirare l'attenzione di un altro membro del gruppo verso chi emette il richiamo.
Segnali di compagnia: suoni descritti come «chiacchiericcio», «cicalare» e «schiamazzi»; sembrano confermare vincoli sociali o attaccamento.
Un confronto fra tutti i richiami mette in evidenza un tratto comune. Più intensa è l'espressione di aggressività, maggiore è la gamma di frequenza del richiamo. Il fatto che questi richiami specie‑specifici siano relativi a eventi collegati agli stati di emergenza e alla sopravvivenza ‑ come l'avvertimento, la protesta, la sfida, l'aggressione, il contatto sociale e la compagnia ‑ implica che essi sono un tipo di espressione delle emozioni.
Il carattere innato dei richiami
Diversi ricercatori hanno svolto degli studi per cercare di stabilire se questi richiami delle scimmie scoiattolo fossero innati o venissero appresi attraverso) l'esperienza sociale. In uno studio, alcuni cuccioli venivano allevati da madri incapaci di emettere qualunque suono. Sebbene deprivati di esperienza vocale, i piccoli cominciavano a vocalizzare immediatamente dopo la nascita e producevano tutti i tipi di richiami adulti. In un altro studio piccoli di scimmia che erano stati resi sordi il quarto giorno di vita producevano richiami vocali specie-specifici. In un terzo studio i ricercatori esposero dei piccoli di scimmia allevati senza esperienza di vocalizzazioni specie‑specifiche all'ascolto di registrazioni su nastro di richiami d'allarme emessi da scimmie adulte. Un richiamo era un pigolio d'allarme che indicava la presenza di uccelli predatori, e l'altro era l'uggiolio, il richiamo d'allarme per i predatori al suolo. Il piccolo di scimmia mostrava un'immediata risposta di fuga verso la madre in entrambi i casi. Sembra perciò che la produzione di richiami specie‑specifici e la percezione di tali richiami siano innate.
E’ interessante mettere a confronto il comportamento vocale dei piccoli di scimmia e dei neonati umani. Nei primi tre mesi di vita entrambi vocalizzano, sia che odano o che siano sordi. Tuttavia, la piccola scimmia sorda continuerà a esprimere questi segnali vocali limitati (quello che gli etologi chiamano pattern fisso d'azione) fino all'età adulta. Il bambino sordo invece non imparerà a parlare. Queste osservazioni indicano che nelle vocalizzazioni delle scimmie e in quelle degli esseri umani sono interessate due organizzazioni cerebrali diverse.
L’organizzazione cerebrale del comportamento vocale
Gli studi sulla stimolazione elettrica del cervello nella scimmia scoiattolo hanno rivelato molte cose sui meccanismi cerebrali sottostanti ai segnali vocali specie‑specifici. La stimolazione della neocorteccia non elicita mai vocalizzazioni nella scimmia scoiattolo. Quando i ricercatori stimolano varie strutture subcorticali, elicitano espressioni specie‑specifiche come ringhi, strilli, lamenti e cinguettii. I ricercatori hanno trovato siti, nell'ipotalamo, nel talamo e nel mesencefalo, che stimolati producono vocalizzazioni. La stimolazione di una parte dell'area grigia centrale nel mesencefalo dorsale produce vocalizzazioni in anfibi, rettili, gatti, cani e scimmie.
La ricerca di Ploog suggerisce l'esistenza di un sistema gerarchico di organizzazione per l'espressione vocale nel cervello. Un primo livello riguarda i nervi cranici che determinano movimenti della muscolatura della laringe e movimenti respiratori associati. Il secondo, la zona grigia centrale del mesencefalo, da cui la stimolazione elettrica può elicitare un gran numero di richiami normali. La distruzione di quest'area provoca mutismo. Il terzo livello comprende quattro aree diverse che mediano stati motivazionali diversi come minacce, avvertimenti, paura e aggressività, connessi alle vocalizzazioni. Queste strutture comprendono l'amigdala, l'ipotalamo laterale, l'ipotalamo dorsomediale e il talamo mediodorsale. Il quarto livello è rappresentato da parte del giro del cingolo, che si ritiene eserciti un effetto facilitante o inibente sull'attivazione dei livelli inferiori.
Un confronto fra scimmie ed esseri umani per quanto riguarda l'espressione vocale rivela che la lesione cerebrale di certe zone neocorticali nelle scimmie ha poco o nessun effetto sul loro comportamento vocale, sebbene possa avere effetti notevoli sugli esseri umani. La distruzione della corteccia cingolata anteriore nell'uomo causa mutismo temporaneo e un disturbo permanente dell'eloquio, ma non ha effetto sulle vocalizzazioni spontanee delle scimmie in una situazione sociale. Lesioni nell'area buccale della corteccia motoria possono paralizzare le corde vocali nell'uomo, mentre non hanno effetto sulle vocalizzazioni della scimmia. Sembra che il controllo volontario dell'espressione vocale sia uno sviluppo evolutivo tardo. Soltanto gli esseri umani hanno acquisito il controllo corticale diretto sulla Voce.
Implicazioni
li comportamento vocale è chiaramente collegato a problemi di sopravvivenza importanti nella vita di un animale. E usato per esprimere avvertimenti, minacce, paura, aggressività, bisogni sociali e conforto, che sono chiaramente stati emozionali. Perciò, lo studio del comportamento vocale fa parte dello studio delle emozioni.
Dal punto di vista evolutivo, è vantaggioso per un individuo comunicare la probabilità di un'azione futura, e per il ricevente comprendere tale comunicazione. Affinché ciò possa avvenire, sembra esservi una graduale modificazione di un pattern comportamentale connesso a un determinato stato motivazionale per renderlo più cospicuo. Gli etologi chiamano questo fenomeno ritualizzazione, e la forma del comportamento ritualizzato pattern fisso d'azione. Esempi di pattern fisso d'azione sono l'annuire delle lucertole in situazioni competitive e i canti specie‑specifici degli uccelli, che hanno la funzione di marcare il territorio e di attirare i compagni. Sebbene i pattern fissi d'azione siano geneticamente programmati e relativamente costanti nell'espressione, quale pattern viene messo in atto in un dato momento dipende dallo stato motivazionale dell'animale oltre che dalle condizioni stimolo. Ploog (1986) conclude: «Poiché i segnali sociali sono espressione di emozioni, dobbiamo ammettere che i vertebrati ‑ che si trovino a un livello evolutivo alto o basso - esprimono emozioni quando comunicano attraverso segnali.»
Infine, la stimolazione elettrica del cervello produce espressioni vocali che gli osservatori non riescono a distinguere da vocalizzazioni naturali e spontanee della specie. Al contrario, non è possibile evocare un comportamento complesso non vocale come correre o afferrare. Questo accade presumibilmente perché vocalizzare fa parte di una classe più vasta di comportamenti motivati, quali mangiare, attaccare o fuggire, in cui i pattern fissi d'azione sono tipici. Perciò le espressioni vocali degli animali esprimono emozioni e stati motivazionali.
Joseph LeDoux è uno psicofisiologo che si è interessato all'identificazione delle vie neurali sottostanti alle emozioni. Tuttavia, egli fa notare un'ambiguità nel significato della parola emozione come la usiamo abitualmente. Alcuni ricercatori hanno studiato le emozioni riflesse nelle espressioni, altri si sono occupati dell'esperienza soggettiva delle emozioni, mentre altri ancora si sono interessati della valutazione degli input sensoriali per determinarne la rilevanza per la persona. Per ogni significato della parola emozione può esservi una neurofisiologia sottostante diversa.
In un capitolo dello Handbook of Physiology, LeDoux (1988) ha passato in rassegna numerosi studi sulla neurofisiologia e la neuroanatomia delle emozioni. Egli identifica le molte incoerenze in questa letteratura, oltre che i risultati più replicabili, e trae alcune conclusioni sulle relazioni fra emozioni e cervello. Le pagine che seguono si basano ampiamente su questo capitolo.
Per lungo tempo i ricercatori hanno accettato l'idea che il sistema limbico è alla base delle emozioni, ma la ricerca recente ha sollevato dubbi su quali strutture esattamente compongano il sistema limbico e sul ruolo da esse svolto. Dopo aver passato in rassegna la letteratura, LeDoux afferma che il modo più accettabile di descrivere il sistema limbico è a partire da determinate aree proencefaliche: l'ippocampo, il giro del cingolo, la corteccia rinale (aree di proiezione olfattiva), l'amigdala e la corteccia orbitofrontale. Queste aree e alcune delle loro connessioni sono mostrate schematicamente nella figura 12.3.

Gli input di quasi tutti gli organi di senso vanno a relè nel talamo e di lì alle zone di ricezione primaria (coniocorteccia). Le aree sensoriali riceventi primarie proiettano alle zone di associazione unimodale della corteccia, che sono collegate a loro volta ad alcune strutture limbiche. Proiettano inoltre alle zone di associazione polimodali e supramodali della corteccia, che sono collegate alle strutture limbiche. Questo schema si applica a quasi tutte le modalità sensoriali; il sistema olfattivo, tuttavia, non ha un relè talamico, ma va direttamente a zone della corteccia oltre che all'amigdala. L'amigdala riceve impulsi nervosi non soltanto dalla corteccia e dal talamo, ma anche da percorsi viscerali.
Una delle questioni complesse su cui si sa ben poco è il problema di come i sistemi emozionali cerebrali producono i movimenti del viso, la postura e l'attacco o la fuga nel corso dell'interazione fra due individui. Tali adattamenti richiedono relazioni complesse fra sistemi sensoriali e motori, mediate da valutazioni della natura dell'interazione. Perché possa verificarsi un comportamento emozionale adattativo, deve esserci un modo di confrontare gli input con le informazioni immagazzinate nel cervello. Questo processo di valutazione dev'essere diffuso in tutto il regno animale, perché senza una tale capacità un organismo non potrebbe sopravvivere (LeDoux, 1984).
Anche grazie alla ricerca sulla sindrome di Kluver‑Bucy, sembra probabile che i processi di valutazione siano in qualche modo legati al funzionamento dell'amigdala oltre che di parti del lobo temporale. Gli esperimenti con scimmie col cervello diviso e l'amigdala distrutta unilateralmente hanno mostrato un comportamento normale quando esse vedono il mondo attraverso l'emisfero cerebrale che ha l'amigdala intatta. Viceversa, le scimmie rimanevano mansuete e tranquille di fronte a stimoli minacciosi quando l'unico occhio che rimaneva aperto era connesso all'emisfero con l'amigdala distrutta. L'amigdala contiene recettori per ormoni come gli steroidi, che influenzano anche gli stati emozionali. Esistono prove che la regione grigia centrale mesencefalica è anch'essa coinvolta nella mediazione delle emozioni.
Uno dei contributi più importanti di LeDoux è la sua dimostrazione del fatto che il condizionamento classico della paura, usando segnali uditivi e scosse elettriche, non richiede la partecipazione della corteccia (almeno nei ratti). Sembra che sia sufficiente un collegamento talamo‑amigdala. Questo fenomeno non significa che le emozioni possono verificarsi in assenza di cognizioni, ma soltanto che dobbiamo avere una concezione più ampia della cognizione, poiché anche senza la partecipazione della corteccia il cervello ha bisogno di distinguere fra un evento emozionale e un evento non emozionale.
Dopo aver esaminato questi numerosi studi anatomici e fisiologici, LeDoux arriva alle conclusioni seguenti.
1. L'emozione non è un fenomeno unitario, ma comprende elementi di valutazione, di espressione e di sensazione.
2. La valutazione della rilevanza emozionale degli input sensoriali si verifica al di fuori della consapevolezza, probabilmente in neuroni localizzati nell'amigdala.
3. I meccanismi che valutano la rilevanza dello stimolo sono filogeneticamente antichi e sono ampiamente diffusi in tutto il regno animale.
4. I meccanismi neurali soggiacenti all'esperienza emozionale sono filogeneticamente recenti, e sono connessi allo sviluppo del linguaggio e dei processi cognitivi collegati; LeDoux (1984) afferma inoltre: «Una conseguenza di queste osservazioni è che, come esseri umani, la nostra capacità di conocere noi stessi consciamente è limitata dai pattern di connessione anatomica
La conoscenza di prima mano delle condizioni motivazionali sottostanti a gran parte del comportamento adattativo rimarrà inaccessibile alla persona cosciente, che prova sentimenti.»
10.
La lettura del libro di Plutchik produce un effetto che è abbastanza ricorrente nell'ambito della letteratura neurobiologica sulle emozioni. Nonostante si apprendano sempre nuove cose, si rimane sostanzialmente delusi. E' fuori di dubbio che l’impegno di un numero crescente di ricercatori ha permesso di acquisire molteplici dati sugli aspetti fisiologici, neurobiologici, endocrini e psicologici delle emozioni. Ciò nonostante, l’impressione complessiva è che alla teorizzazione difetti sempre qualcosa di fondamentale in rapporto all'esperienza che gli esseri umani fanno di esse: rispetto, insomma, al Sentire con le sue fluttuazioni, le sue contraddizioni, la sua indefinita complessità, che vengono intuitivamente colte come dimensioni che si realizzano in gran parte al di fuori del teatro della coscienza.
Un'ulteriore prova a riguardo è fornita dagli ultimi due capitoli - rispettivamente sull’Amore e la tristezza nella vita quotidiana e sui Disturbi emozionali - nei quali i limiti dell’ideologia adattamentista e, più in generale, della psicologia etologico-evoluzionistica appaiono del tutto evidenti. Per quanto riguarda in particolare i disturbi emozionali, poi, l'impressione è che i neuroscienziati delle emozioni si trovano sempre a mal partito quando cercano di interpretarli come disfunzioni adattive.
Il problema, a mio avviso, è che insistere sul carattere univocamente adattivo delle emozioni umane porta in un vicolo cieco interpretativo. Per molteplici aspetti, soprattutto riferiti al rapporto con l'ambiente esterno, quel carattere ovviamente è fuor di dubbio. Chi può pensare, infatti, che non sia utile una reazione automatica di paura a pericoli che possono mettere in gioco l'incolumità fisica o una reazione immediata di disgusto quando capita di portare alla bocca un cibo avariato?
Ma, intanto, nell’uomo, l’adattamento più importante riguarda il gruppo cui appartiene e la società nella quale egli vive: è dunque di carattere sociale. In secondo luogo. le emozioni sociali implicano relazioni significative di lunga durata all’interno delle quali, a partire dal sistema familiare, si possono produrre ambivalenze più o meno marcate che non possono essere rimediate dai moduli di gerarchizzazione che prevalgono negli animali. In terzo luogo, posto che il bisogno di appartenenza è potentissimo nell’uomo, non occorrerebbe dimenticare che esso convive con un bisogno di differenziazione e di libertà che non lo è di meno.
E’ estremamente probabile che la teoria delle emozioni si rinnoverà profondamente nel momento in cui prenderà atto che l’esperienza emozionale umana, incapsulata per molti aspetti, sul piano reale e su quello interiore, nella relazione tra Io e Altro ha una sua intrinseca contraddittorietà e drammaticità.