Racconto breve e intenso di una sconcertante drammaticità, centrato sul conflitto tra un padre anziano, rimasto vedovo e ormai sulla via del declino psicofisico, e il figlio giovane e vigoroso, che ha preso in mano le redini dell'azienda paterna, conseguendo risultati eccellenti, ed è in procinto di sposare una ragazza di famiglia agiata.
Il padre nutre un sordo rancore nei confronti del figlio, impastato d'invidia per la sua giovinezza, il successo e l'amore. Egli gli rimprovera, nel suo intimo, di averlo soppiantato nella guida dell'azienda, di averlo trascurato e di avere tradito la memoria della madre, morta due anni prima, fidanzandosi. E' un delirio senile senza fondamento, la cui conseguenza è fatale.
Il dramma si realizza nello spazio di una mattina di domenica. Il figlio - Georg - ha scritto una lettera ad un amico, che risiede da vari anni in Russia, ma versa in difficoltà sia sul piano finanziario sia su quello affettivo, comunicandogli finalmente il fidanzamento e il prossimo matrimonio. Ha tardato a metterlo al corrente della cosa, come pure dei suoi successi lavorativi, per non ferire la sensibilità dell'amico che, tra l'altro, è anche malato. Georg è, dunque, un soggetto scrupoloso. Ciò è comprrovato anche dal senso di colpa che lo invade nel momento in cui, entrando nella camera del padre, che egli indulge a vedere come una quercia, si rende conto invece del suo stato di abbandono e di decadimento. Repentina è la decisione di tenerlo con sé e di accudirlo anche dopo il matrimonio.
All'amore del figlio corrisponde, però, nell'anima del padre un rancore lungamente covato, e che trova come pretesto per esplodere la lettera scritta all'amico. Negandogli la verità, Georg lo avrebbe ingannato. Agli occhi del padre, egli è un traditore, addirittura un essere diabolico. Ha tradito la memoria della madre, fidanzandosi subito dopo la sua morte. Ha tradito il padre, emarginandolo nell'azienda e abbandonandolo in casa per correre dietro alle gonnelle della fidanzata. Nonostante un'apparente affettuosità, è chiaro che egli non aspetta altro che liberarsi di lui.
La rampogna del padre è durissima, e evoca in Georg una reazione d'incredulità prima, di pena poi e infine di rabbia. Mentre il padre gli si erge di fronte barcollando pensa:" Ora si chinerà in avanti : potesse cascar giù e sfracellarsi! Quella parola gli saettò nella testa come una scudisciata." Questa scudisciata è fatale, poichè sopravviene nel momento in cui il padre conclude la rampogna con una atroce maledizione: " E perciò sappilo: io qui ti condanno a morire annegato!"
Il cortocircuito emozionale tra la rabbia e la condanna determina un drammatico acting-out: " Georg si sentì spinto fuor della stanza, ancora negli orecchi il tonfo prodotto dal padre nel saltar dal letto per inseguirlo. Sulla scala, di cui scese a volo i gradini come scivolando su un piano inclinato, rovesciò quasi a terra la domestica che stava salendo per le pulizie mattutine. "Gesù!" gridò la donna coprendosi il viso col grembiule, ma lui era già lontano. Come il vento uscì dal portone; al di là della strada una forza lo incalzava verso l'acqua. Già si aggrappava al parapetto, come un affamato al cibo: lo superò con un volteggio, da quel provetto ginnasta, orgoglio dei suoi genitori, ch'era stato da ragazzo. Ancora si tenne stretto con le mani che via via cedevano, guardò intensamente, di tra le sbarre del ponte, un autobus il cui rumore senza dubbio avrebbe coperto quello della sua caduta, gridò piano: "Miei cari genitori, io vi ho sempre voluto bene!" e si lasciò precipitare."
Questa conclusione è vieppiù agghiacciante se si tiene conto che lo stato d'animo di Georg, all'inizio del racconto, è rilassato, com'è proprio di chi si sente in pace con la propria coscienza e ha davanti a sé una prospettiva di vita serena come il paesaggio che egli si pone a guardare dalla finestra dopo avere terminato la lettera.
Che Kafka sia dotato di un'intuizione psicologica finissima è noto da sempre. Il Processo vale da solo più di tutta la letteratura psicoanalitica dedicata ai sensi di colpa, che è rimasta sostanzialemte e pervicacemente irretita dal riferimento freudiano alle pulsioni distruttive. Nella sua brevità. Però, La sentenza dice qualcosa di più. Nel racconto c'è l'intuizione di una dinamica psicologica che associa inesorabilmente al conflitto dei figli con i padri, quali che ne siano le ragioni, una colpa sacrilega. Kafka ha insomma colto la presenza, nella sfera profonda dell'inconscio, del mito gerarchico, vale a dire di una logica che sacralizza il potere genitoriale in nome del fatto che esso, indipendentemente dal comportamento delle singole persone che lo agiscono, è rappresentativo dell'autorità divina, di tutte le generazioni che hanno preceduto il soggetto e della classe dei seniores.
Ci si può chiedere in quale misura questo mito affondi le sue radici nella struttura della mente umana e in quale misura abbia un'origine culturale. L'incidenza della cultura è fuori di dubbio. Il culto degli avi, che associa al rispetto il terrore, è presente presso tutte le culture primitive. L'evoluzione sociale, caratterizzata dalla differenziazione della famiglia allargata rispetto alla società, ha trasformato il potere degli avi nel potere del patriarca, il capo-clan. Tale potere si è poi ulteriormente definito come diritto del genitore sul figlio. A questo riguardo, basta pensare che nell'antica Roma, fino al I° secolo d. C., il pater familias disponeva del diritto di dare la morte al figlio per un'inadempienza senza incorrere nei rigori della legge.
L'incidenza della cultura sembra però incidere su qualche aspetto primario, psicobiologico, della mente umana, e in particolare dell'inconscio. Ciò è reso evidente dal fatto che la nostra società non è più, almeno formalmente, patriarcale, ma il mito gerarchico si mantiene vivo e attivo all'interno della soggettività giovanile. La secolarizzazione, che comporta un'intimità tra genitore e figlio in passato sconosciuta, non sembra modificare sostanzialmente un automatismo in conseguenza del quale il conflitto del figlio col genitore determina comunque un senso di colpa filiale, tanto più insidioso quanto più esso è del tutto rimosso.
La dinamica descritta da Kafka è ancora oggi reperibile in molteplici esperienze giovanili. Di rado, essa si traduce in un acting-out suicidiario. Più spesso essa sottende le sindromi di attacchi di panico e le depressioni, che costringono i figli ad aggrapparsi ai genitori restaurando con ciò il loro potere onnipotente. Essa è presente anche in numerose esperienze masochistiche, caratterizzate dal fatto che l'intento del figlio di differenziarsi dal genitore e di dare prova di essere più forte, più coerente e di valere di più si traduce in un tragitto che porta il figlio a rimanere al palo o a dovere ammettere di essere come o peggiore del genitore.
Il Padre, a livello inconscio, è un archetipo, vale a dire il referente simbolico di un bisogno d'appartenenza e d'integrazione sociale che sacralizza la società e l'autorità che essa riconosce. Di sicuro questo archetipo trova il suo fondamento nella percezione originaria onnipotente che i bambini hanno dei grandi, e che dura almeno sino al quinto anno di vita. Altrettanto sicuramente l'archetipo viene potentemente corroborato dagli insegnamenti religiosi impartiti precocemente.
Il mito gerarchico non potrà mai, presumibilmente, essere del tutto sormontato. Un superamento radicale, d'altro canto, non avrebbe senso perché la società umana ha bisogno di una gerarchia. Il problema è che la gerarchia deve fondarsi sul prestigio di chi agisce i ruoli autoritari e non sul potere sacrale del ruolo in sé e per sé. Una formazione critica delle coscienze richiederà la capacità di naturalizzare l'ambivalenza filiale, vale a dire di permettere ai figli di valutare criticamente i comportamenti genitoriali nel bene e nel male, e di concedersi di potere amare ciò che nel genitore è amabile e di potere odiare ciò che in lui è odioso.