Scritto nel 1853, appena due anni dopo Moby Dick, Bartleby lo scrivano è un racconto lungo assolutamente sorprendente. Ambientato in uno studio legale di Wall Street, reso claustrofobico dall'essere al piano terra di un edificio circondato da grattacieli le cui finestre si affacciano, da un lato, " sul muro bianco di un ampio cavedio, che prendeva luce da un lucernario e attraversava la casa da cima a fondo" e, dall'altro, su "un alto muro di mattoni, annerito dagli anni e incupito dalla perenne ombra" distante appena tre metri, il racconto è la ricostruzione fornita dall'avvocato che gestisce lo studio dell'incontro con Bartleby, il più strano tra gli scrivani ch'egli ha conosciuto nella sua lunga carriera.
Bartleby sembra venire dal nulla. Della sua storia, l'avvocato sa una sola cosa, che riferisce alla fine del racconto: "Bartleby era stato un impiegato subalterno nell'ufficio delle lettere smarrite a Washington, dal quale era stato all'improvviso licenziato per un cambiamento nell'amministrazione." E' egli stesso una lettera smarrita, una lettera morta, un messaggio che deve avere un senso, com'è proprio di ogni esperienza umana, ma che non arriva al destinatario. E' un essere indecifrabile e incomprensibile, che oggi gli psichiatri definirebbero senz'alcuna difficoltà uno psicotico.
La sua stranezza, evidente d'acchito ("In risposta a un annuncio, una bella mattina, si parò immobile sulla soglia del mio ufficio un giovane - la porta infatti era aperta, perché era estate. Rivedo ancora quella figura: pallidamente linda, penosamente decorosa, irrimediabilmente squallida!"), è compensata da una compostezza che inganna l'avvocato (" Dopo qualche cenno sulle sue qualifiche, lo assunsi, felice di avere nella mia squadra di copisti un uomo dall'aspetto così singolarmente mite").
Mite Bartleby lo è veramente. Egli accetta una sistemazione logistica pressoché invivibile :
"Avrei dovuto già accennare alle porte pieghevoli di vetro smerigliato che dividevano in due il mio ufficio: da una parte c'erano i miei scrivani, dall'altra c'ero io. A seconda dell'umore aprivo le porte oppure le chiudevo. Decisi di assegnare a Bartleby un angolo accanto alle porte pieghevoli, ma dalla mia parte, in modo da avere a portata di voce quell'uomo tranquillo, se, per caso; si fosse dovuto sbrigare qualche lavoretto. Sistemai dunque la sua scrivania in quella parte della stanza, accanto a una finestrina laterale che in origine offriva uno scorcio sul retro, affacciandosi su certi cortili sporchi e muri di mattoni, ma che allora, a seguito di successive costruzioni, non si affacciava più su nulla, sebbene lasciasse entrare un po' di luce. A meno di tre piedi dai vetri della finestra c'era un muro, e la luce veniva da molto in alto, filtrando tra due alti edifici, quasi piovesse dal pertugio di una cupola. Per rendere ancora più soddisfacente la sistemazione, mi procurai un alto paravento verde pieghevole che poteva escludere completamente Bartleby dalla mia vista, pur lasciandolo a portata di voce. Così, in certo modo, convivevano solitudine e compagnia."
Nonostante questa sistemazione, Bartleby comincia a lavorare ad un ritmo forsennato. Egli è un dipendente perfetto, tranne che per il carattere ostinatamente chiuso:
"In un primo tempo Bartleby eseguì una straordinaria mole di lavoro. Quasi fosse ingordo di avere qualcosa da copiare, pareva volesse rimpinzarsi di documenti. Non c'era pausa per digerirli. Scriveva giorno e notte, copiando alla luce del sole e al lume della candela. Mi avrebbe entusiasmato quella sua dedizione, se fosse stato allegramente operoso. Continuava invece a macinare lavoro in silenzio, esangue, con moto meccanico."
Si tratta però del canto del cigno della sua laboriosità, che attesta un perfezionismo schiavizzante. Un moto di ribellione sopravviene presto in una forma singolare:
"Era con me, credo, da tre giorni - non c'era stata ancora la necessità di esaminare le sue copie - quando, dovendo completare in gran premura una faccenduola, di punto in bianco chiamai Bartleby. Nella fretta e nella naturale aspettativa di un'immediata obbedienza, me ne stavo seduto con la testa china sull'originale posato sulla mia scrivania, la mano destra di lato, nervosamente tesa nel porgere la copia, in modo che, emergendo dal suo cantuccio, Bartleby potesse afferrarla e procedere all'esame senza il minimo indugio.
In questo atteggiamento sedevo dunque quando lo chiamai, spiegando rapidamente quello che volevo da lui, cioè esaminare insieme a me un breve documento. Figuratevi la mia sorpresa, anzi la mia costernazione, quando, senza muoversi dal suo angolino, con voce singolarmente soave, ma ferma, Bartleby rispose: "Preferirei di no".
Rimasi per qualche tempo seduto, trasecolato, in assoluto silenzio, chiamando a raccolta le mie facoltà attonite. Subito mi venne da pensare che gli orecchi mi avessero ingannato, oppure che Bartleby avesse completamente frainteso quello che volevo. Ripetei la richiesta con quanta chiarezza mi era possibile, ma con altrettanta chiarezza giunse la risposta di prima: "Preferirei di no".
"Preferirei di no!", ripetei in un'eco, alzandomi di furia e attraversando la stanza d'un balzo. "Come sarebbe a dire? Le ha dato di volta il cervello? Su, mi aiuti a controllare questo foglio con l'originale - prenda", e glielo buttai.
"Preferirei di no", disse."
E' l'avvio di una sorda protesta che lentamente si radicalizza. L'avvocato è messo a dura prova dall'atteggiamento di Bartleby, che non riesce a decifrare:
" Con chiunque altro sarei esploso, e, senza sprecare altro fiato, l'avrei cacciato con ignominia dal mio cospetto. Ma c'era in Bartleby qualcosa che non soltanto stranamente mi disarmava, ma anche, in modo curioso, mi toccava e sconcertava."
Lo sconcerto spinge l'avvocato ad osservare con attenzione i comportamenti di Bartleby, che praticamente è come se si fosse murato viva nell'angolo di lavoro:
" Trascorsero alcuni giorni che videro lo scrivano impegnato in un altro lunghissimo lavoro. La stranezza del suo comportamento da un po' di tempo a quella parte mi portò a osservare da vicino i suoi modi. Notai che non andava mai a pranzo, anzi che non andava mai da nessuna parte. Per quanto ne sapessi, non mi risaltava che fosse mai uscito dall'ufficio: eterna sentinella nel suo angolo."
L'osservazione non risolve il mistero di Bartleby, ma induce nell'avvocato un sentimento di pena:
" Nulla esaspera una persona seria quanto la resistenza passiva. Se l'individuo cui si resiste non è di temperamento disumano e chi gli resiste è una persona innocua nella sua passività, allora, il primo, quando è di buon umore, si sforza, nella sua immaginazione, di capire con la carità quanto si dimostra impossibile da spiegare con la ragione. Così, per lo più, consideravo Bartleby e le sue maniere. "Poveraccio", pensavo. "Non ha intenzioni malvagie; è chiaro che non vuole essere insolente; basta guardarlo per capire che le sue eccentricità - sono involontarie; Mi è utile. Riesco ad andarci d'accordo. Se lo mando via, è probabile che capiti con un principale meno indulgente; sarà trattato male, rischia addirittura di morir di fame. Sì. Ecco che, a basso prezzo, posso crogiolarmi nell'autocompiacimento. Mostrarmi amico di Bartleby, assecondarlo nella sua ostinazione mi costerà poco o niente, mentre io accumulo nell'animo quello che finirà per dimostrarsi un dolce bocconcino per la mia coscienza"."
Questa disposizione d'animo è solo in parte dovuta al fatto che Bartleby continua imperterrito a fare il suo dovere:
" Con il passare delle giornate mi riconciliai con Bartleby. La sua perseveranza, l'indipendenza da ogni vizio, la sua industriosità indefessa (tranne quando, in piedi, dietro il paravento, sceglieva di sprofondarsi in fantasticherie), l'immobilità, l'inalterabile compostezza in ogni circostanza, facevano di lui un acquisto prezioso. Ed ecco una cosa fondamentale: era sempre lì, il primo al mattino, ininterrottamente durante la giornata, l'ultimo alla sera. Avevo nella sua onestà una fiducia assoluta. I più preziosi documenti li sentivo perfettamente al sicuro in mano sua."
Sopravviene poi casualmente la scoperta che Bartleby si è stabilmente installato nello studio e conduce un'esistenza miserabile. Tale scoperta aumenta lo sconcerto e la confusione:
" Esaminando con attenzione il luogo, conclusi che chissà da quanto tempo Bartleby doveva mangiare, vestirsi, dormire nel mio ufficio; il tutto senza un piatto, senza un letto, senza uno specchio. Il sedile imbottito di un vecchio divano traballante, in un angolo, mostrava la lieve impronta di una forma sparuta che lì si era coricata. Arrotolata sotto la sua scrivania trovai una coperta; sotto la grata vuota del camino, una scatola di lucido e una spazzola; su una sedia, una bacinella di latta con del sapone e un asciugamano cencioso; in un giornale alcune briciole di focaccine e un pezzetto di formaggio. "Sì", pensai, "è evidente che Bartleby si è installato qui, una sistemazione da scapolo, tutto per conto suo". Immediatamente mi sentii pervadere dal pensiero: "Che squallida solitudine, che isolamento ci sono qui, sotto i miei occhi! La sua povertà è grande, ma la sua solitudine, che cosa orribile! Pensaci. Alla domenica Wall Street è deserta come Petra; la notte, alla fine di ogni giornata, è il vuoto. Questo edificio, che nei giorni feriali brulica di operosità e di vita, di notte rimanda l'eco del nulla, e durante tutta la domenica è abbandonato. E Bartleby ha scelto questo luogo come propria casa
Per la prima volta in vita mia fui sopraffatto da un senso di ineluttabile, struggente malinconia. Prima di allora non avevo mai sperimentato altro che un triste languore non sgradevole. Il vincolo della comune umanità mi trascinava irresistibilmente verso un cupo sconforto. Una malinconia fraterna!"
La comprensione evoca un'insofferenza spiegata in maniera sottile:
" a mano a mano che la solitudine e l'isolamento di Bartleby crescevano nella mia immaginazione, quella stessa malinconia trascolorava in paura, quella pietà in repulsione. E così vero, e anche così terribile, che fino a un certo punto il pensiero o la vista dell'infelicità impegnano i nostri migliori sentimenti, ma, in certi casi speciali, oltre a un certo punto, non succede più. Sbagliano quanti asseriscono che invariabilmente ciò deriva dall'innato egoismo del cuore umano. Discende piuttosto da una certa impotenza a porre rimedio a un male estremo e organico. Per un essere sensibile la pietà non di rado è sofferenza. E quando alla fine si intuisce che tale pietà non si traduce in un efficace soccorso, il senso comune impone all'animo di sbarazzarsene. Quanto vidi quella mattina mi convinse che lo scrivano era vittima di un disordine innato e incurabile. Avrei forse potuto soccorrere il corpo, ma non era il corpo a dolergli; era la sua anima che soffriva, e non potevo raggiungere la sua anima."
Questo miscuglio di sentimenti promuove nell'avvocato la decisione di licenziare Bartleby, ma questi non solo rifiuta, con la formula consueta, di andarsene, bensì reagisce sospendendo ogni attività lavorativa:
" Il giorno successivo notai che Bartleby non faceva nulla salvo starsene in piedi alla finestra, perso nella fantasticheria ispiratagli dal muro cieco. Quando gli chiesi perché non scrivesse, rispose di aver deciso di non scrivere più.
"Come, anche questo adesso? Cos'altro?", esclamai. "Non vuole più scrivere?"
"No".
"Per quale ragione?"
"Non capisce da sé la ragione?", rispose con indifferenza.
Lo guardai fisso e notai che i suoi occhi apparivano spenti e vitrei."
Di fatto, Bartleby, avendo rinunciato a lavorare, non fa altro che starsene in piedi tutto il giorno, fissando ostinatamente il muro fuori dalla finestra. Nell'avvocato, infine, la pena prevale sulla rabbia:
"Sì Bartleby, stattene lì, dietro il tuo paravento", pensavo. "Non ti perseguiterò più; sei innocuo e silenzioso come una di queste vecchie sedie. In breve, non mi sento mai così solo come quando so che sei lì. Perlomeno lo vedo, lo percepisco, intuisco lo scopo predestinato della mia vita. Mi basta. Altri forse avranno ruoli più nobili da interpretare, ma la mia missione nel mondo, Bartleby, è di darti una stanza d'ufficio per tutto il tempo che ti andrà di rimanervi".
La strana presenza di Bartleby crea però problemi con i clienti. L'avvocato decide di cambiare ufficio e di abbandonare Bartleby al suo destino. Questi però ha fatto breccia, con la sofferenza, nel suo cuore. Il commiato è patetico:
""Addio, Bartleby, me ne vado... addio e Dio la protegga in qualche modo. Prenda", facendogli scivolare qualcosa in mano. Ma finì a terra e allora - strano a dirsi - dovetti fare uno sforzo per strapparmi da lui, e sì che avevo tanto desiderato sbarazzarmene."
Non è finita, però. Il proprietario e il nuovo inquilino, nonché i vicini protestano per l'ospite indesiderato, che è rimasto pervicacemente al suo posto. L'avvocato opera un ultimo tentativo di persuasione:
""Bartleby", dissi, "si rende conto che mi fa tribolare ostinandosi a occupare l'ingresso, dopo essere stato licenziato dall'ufficio?"
Nessuna risposta.
"Ora una delle due: o lei fa qualcosa, oppure qualcosa va fatto a lei. In che lavoro le piacerebbe impegnarsi? Vorrebbe riprendere a copiare per qualcuno?"
"No, preferirei non fare cambiamenti".
"Vorrebbe fare il contabile in una drogheria?"
"Si sta troppo al chiuso. No, non mi va di fare il contabile, ma non faccio il difficile".
"Troppo al chiuso?", esclamai. "Ma se lei se ne sta sempre rinchiuso!"
"Preferirei non fare il contabile", aggiunse come a sistemare subito quella piccola questione.
"Le andrebbe di lavorare in un bar? In quel mestiere non si sforza gli occhi".
"Non mi piacerebbe affatto, anche se, come ho già detto, non faccio il difficile".
L'insolita loquacità mi diede un'ispirazione. Ritornai alla carica.
"Le piacerebbe allora viaggiare per tutto il paese a riscuotere crediti per i commercianti? Le farebbe bene alla salute".
"No, preferirei fare qualcos'altro".
"Che ne direbbe di andare in Europa al seguito di qualche giovane gentiluomo per intrattenerlo con la sua conversazione... Le andrebbe?"
"Per niente. Non mi pare che ci sia niente di stabile. Mi piace stare fermo in un posto. Ma non faccio il difficile"."
L'ultima proposta è commovente:
""Bartleby", dissi con il tono più gentile che in tutta quella concitazione mi riuscì di assumere, "vuole venire con me - non nel mio ufficio, ma nel mio appartamento - e restare lì finché non avremo trovato con comodo una sistemazione conveniente? Su, andiamoci adesso, subito".
"No, per il momento preferirei non cambiare nulla"."
Su iniziativa del proprietario, Bartleby viene internato. Non parla con nessuno, continua a fissare il muro e si lascia morire di fame.
La conclusione del racconto, che commenta l'unico indizio sulla vita di Bartleby che l'avvocato è riuscito a reperire, è straordinariamente icastica:
" Lettere smarrite, lettere morte! Non suona come uomini morti? Pensate a un uomo, per natura e sventura, incline a una languida disperazione: esiste un lavoro più adatto ad accentuarla che maneggiare continuamente queste lettere morte e metterle in ordine per darle alle fiamme? Ogni anno ne vengono bruciate a carrettate. Qualche volta dal foglio piegato il pallido impiegato estrae un anello - il dito al quale era destinato, forse, imputridisce nella tomba; una banconota inviata in un moto di pronta carità... e colui che ne avrebbe tratto sollievo non mangia più e non soffre più la fame; parole di perdono per coloro che morirono nello sconforto; di speranza per coloro che morirono disperati; buone nuove per coloro che morirono soffocati da sventure inconsolabili. Apportatrici di vita, queste lettere rovinano verso la morte.
O Bartleby! O umanità!"
Lode a Melville per una finezza psicologica, da fenomenologo non da analista, ovviamente, che egli attribuisce all'avvocato, degna di un grande psichiatra.
Chiunque conosce gli psicotici rimane colpito spesso dalla loro muta e dignitosa sofferenza, dietro la quale s'intuisce il dramma di un'anima nobile che è stata costretta a dichiarare guerra al mondo. Solo i neopsichiatri non sono mai colpiti da esperienze del genere, che attribuiscono ad una disfunzione cerebrale. Potrebbero, dovrebbero imparare qualcosa dai grandi scrittori. In una prefazione al racconto, Borges ha scritto:
"Bartleby è più di un artificio o un ozio dell'immaginazione onirica; è, fondamentalmente, un libro triste e veritiero che ci mostra quell'inutilità essenziale che è una delle quotidiane ironie dell'universo."
L'aggettivo veritiero è appropriato. L'intuizione letteraria arriva spesso laddove non arriva la (falsa) scienza.