Hélène Grimaud

Variazioni selvagge

Bollati Borighieri, Torino 2005

1.

Concertista precoce, giunta al successo già nella tarda adolescenza, Hèlène Grimaud a 35 anni ha scritto un’autobiografia interiore (Variazioni selvagge, Bollati Boringhieri, Torino 2006) stilisticamente affascinante, ma soprattutto di grande significato psicologico.

La storia di Hèlène è quella tipica di un soggetto introverso oppositivo il cui potenziale di individuazione dà luogo a più momenti di disadattamento al mondo finché non trova i canali giusti per esprimersi, realizzando, infine, una straordinaria armonia.

Nel Vademecum dell’Introversione, ho scritto che gli introversi hanno un bisogno di autorealizzazione la cui soglia minimale è spostata più o meno al di sopra della media. Naturalmente, più la soglia è elevata più il soggetto deve impegnarsi nella ricerca della sua strada, correndo anche il rischio di perdersi.

La biografia interiore di Hèlène conferma questo assunto.

La storia si avvia sulla base di un atteggiamento costantemente oppositivo. L’infanzia di Hèlène si svolge all’insegna di qualificazioni provenienti dall’ambiente familiare univocamente negative:

"- E' incontentabile!

Mille volte, da piccola, ho sentito dire parole simili da chi mi guardava, accudiva, criticava e, ancor prima di capirne il senso, me ne ero fatta una famiglia, come con i peluche. Era la famiglia degli «in», cominciavano tutte per «in» e avevano tutte il potere di dipingere stupore e inquietudine sul volto di mia madre. Sola nella mia stanza, le ripetevo, scandivo attentamente quel che ricordavo delle loro sillabe, ne disegnavo l'albero genealogico.

La capostipite… era «intrattabile»…

Di solito, dopo intrattabile veniva in-soddisfatta. Poi in-gestibi-le, o im-possibile. In-disciplinata, in-saziabile, in-subordinata. In­adattabile. Im-prevedibile.” (p. 9)

La famiglia è di ceto medio-alto borghese, culturalmente raffinata, ma con un orientamento normativo che solo lentamente darà luogo all’accettazione della diversità di Hélène. Per un lungo periodo, il rapporto più difficile è con la madre:

“Detestavo farla preoccupare. Accigliandosi, solcava di rughe la radice del naso, e questo mi stringeva il cuore. Provavo un orrendo senso di colpa, mi sentivo cattiva. Eppure la cattiveria non mi apparteneva, non era quella la mia essenza. D'accordo, scaraventavo le bambole contro il muro, e con loro distruggevo lo slancio affettuoso di chi me le aveva donate, ma non ero io a farlo, c'era qualcosa in me che voleva uscire, esprimersi, evadere.” (p 11)

L’orientamento disadattivo si manifesta anche a livello di socializzazione scolare:

“Non somigliavo per niente agli altri bambini. Non avevo compagni di giochi, né a scuola - per me nient'altro che una sofferenza - né nelle attività extrascolastiche.” (p. 10)

A scuola, Hélène scopre anche la insensibilità media dei bambini:

“Cattiva? I bambini Io sono, talvolta. Se chiudevo gli occhi, potevo figurarmi la cattiveria: le loro risa, i colpi furtivi assestati a un capro espiatorio durante le ricreazioni, i calci ai fianchi di un cane malato. Come spiegarle la mia avversione per gli altri, per quel loro modo di far combriccola e poi prendere di mira e colpire il più debole? Li trovavo penosi, e mi sentivo assolutamente diversa da loro. E lo ero, non è così?” (p. 11)

Lo era di certo.

Insofferente di ogni convenzione:

“Non che mi sentissi un maschio: ero una bambina, ma mi disgustava che con il pretesto del mio sesso ci si aspettasse da me un atteggiamento consono, convenzionale e totalmente estraneo alla mia natura. Per fortuna, mia madre rispettava il mio carattere; non mi ha mai imposto gonne, camicette o vestitini ricamati.” (p.12)

Bisognosa di un raccoglimento che le consentiva di osservare il mondo standone fuori:

“Durante l'intervallo, per evitare gli altri, correvo a nascondermi nelle aule o nei corridoi, dietro i vestiti appesi agli attaccapanni di metallo. A volte, un sorvegliante mi trovava e mi rimandava in co­tile. Lì avevo il mio posticino, l'angolo di un alto muro che mi proteggeva la schiena; immobile come una lucertola, osservavo tutto quello che accadeva, soprattutto dalle parti delle quinte. (p. 12)

Insopportabile quando era costretta ad interagire con gli altri:

“Neanche in aula riuscivo a riconciliarmi con il mio ambiente. Maestri e professori non riuscivano a tenermi a bada. Non ero una cattiva allieva, ma intervenivo di continuo, o mi mettevo a fantasticare quando si doveva stare attenti; facevo domande fuori luogo, straripavo come un torrente. Disturbavo la classe. E mi dispiaceva. Non riuscivo a sentirmi del tutto innocente delle critiche che mi piovevano addosso. Il senso di colpa mi rodeva, e per molto tempo, la notte, sentii nei sogni l'urlo del mistral spingermi giù dall'enorme scalinata della scuola, che nel mio incubo si ergeva senza ringhiera, senza appigli: vertiginosamente cadevo, m'inabissavo.” (p. 13)

Al disagio legato all’interazione sociale corrisponde una sensibilità vivace per la Natura e la Cultura:

“… un luogo in cui non provavo alcun senso di estraneità c’era. Era la Camargue, ed era magica…

Se ovunque avevo l'impressione d'essere una nota stonata, là, invece, mi sentivo parte di una grande armonia. Negli stagni, negli specchi d'acqua sconfinati, si sentiva la forza del Rodano, s'intuiva che poteva diventare un toro, ondate come cornate. Lì non c'era più il sole delle api e delle mimose da giardino, ma l'implacabile bagliore del mezzogiorno ai quattro punti cardinali. I fenicotteri rosa, i cavalli selvaggi, smuovevano il penetrante profumo del sale e della terra. La libertà con cui, d'improvviso, gli uni prendevano il volo e gli altri partivano al galoppo scuotendo la criniera, mi rinvigoriva. La Camargue era più di un paesaggio: la fugace avvisaglia, l'intuizione folgorante di un'armonia tra me e un avvenire. Là, per la prima volta, ebbi il presagio di grandi cose, il presagio di un destino.” (pp. 16-17)

“Non avevo veri amici, né fratelli o sorelle, e non me ne lamentavo. I miei genitori mi davano il nutrimento necessario alla mia immaginazione. Anzitutto i libri, soprattutto i libri.

Mi gettavo su di loro non appena tornavo da scuola, cartella so­to la scrivania e spalle adagiate al cuscino. Avevo i miei favoriti e le mie liste d'attesa. Li convocavo nel parlatorio. Ne cominciavo anche due alla volta: l'uno da sfogliare come una margherita, pagina dopo pagina, o da assaporare come un pasticcino, e l'altro da divorare senza perder tempo, golosamente e senza la minima disaffezione. Quella passione mi portava, come su una nuvola, dalla pagina su cui avevo fatto un segno il giorno prima al ritorno da scuola il giorno dopo. L'amicizia dei personaggi mi proteggeva dalla vacuità delle ricreazioni e dalla noia delle lezioni.” (p. 19)

L’infanzia di Hélène si svolge in un clima familiare tutt’altro che negativo, ma, come capita spesso agli introversi, la sua esperienza complessivamente non è serena:

“È strano, quando mi chiedono se sono stata una bambina felice rispondo istintivamente di sì; ma, se ci penso bene, se m'immergo nel ricordo di ciò che ero, la risposta è no, decisamente no. A essere obiettivi, avevo tutto per essere felice, eppure soffocavo (non sempre, non per tutto il tempo). Semplicemente, ero consapevole del mio involucro ingombrante, di quell'io che mi limitava e al quale tante volte avrei voluto sfuggire.” (p.30)

2.

Un primo cambiamento interviene a sette anni. L’emozionalità turbolenta di Hélène si distende nell’incontro con la musica:

“La musica si accordava con me, perché sono convinta che per essere musicisti si debba essere compulsivi; nella musica, come in qualsiasi attività che richieda la ricerca della perfezione, c'è una compulsione innata. Immagino che ci sia in tutti i bambini che studiano uno strumento o praticano uno sport. Si deve avere un'ostinazione quasi morbosa, delle idee e insieme una certa esuberanza, un'intensa espressività.” (p.39)

“Il piacere tattile di suonare, di tentare quell'emozione che in nessun luogo, in nessun modo, avevo mai potuto esprimere né portare all'apice, mi colmava. Provavo la felicità di tradurre i miei sentimenti e insieme di riceverne l'eco, grazie alla magiari quei tasti bianchi e neri; la felicità di respirare, del tutto presente. Mi sentivo fisicamente assorbita dalla musica.

I miei genitori non hanno mai dovuto dirmi: «Hélène, esercitati al piano»; «Hélène, le scale»; «Hélène, i compiti»; «Hélène!». Al contrario.” (39)

La dedizione alla musica non dissolve immediatamente l’ansia dei genitori:

“Il precipitare improvviso degli eventi, e la piega presa da quest'ultima attività extrascolastica, turbavano mia madre. Ne sentivo la reticenza. Sebbene non sacrificassi la scuola per studiare musica, e non passassi al pianoforte - che pure era il mio unico svago - più di quattro ore al giorno, al Conservatorio non avevo fatto amicizia con nessuno, non dividevo il mio tempo con nessuno. (p. 45)

La solitudine di Hélène è solo apparente. Essa non frequenta i coetanei perché con loro non ha alcunché da spartire. Comunica però con i Grandi della musica e della letteratura, e ne ricava un appagamento totale.

L’equilibrio, sotteso da una modalità compulsiva che abbandona il piano della ribellione per imboccare la via del perfezionismo, dura fino all’adolescenza, allorché viene meno in conseguenza di una passione amorosa:

“E poi, senza sapere né come né perché, ho cominciato a vacillare nel sorriso altrui, ad accapigliarmi con le cose, a urtare contro di esse, a sentirmi pesante, sgraziata, ingombrante per me stessa. «I più begli anni della vita». Quante volte ho sentito queste parole, allora e in seguito. Che assurdità! Di colpo, più niente sembrava semplice. Non si sa più quel che si vuole, non si sa per che cosa si è fatti. Diventa difficile seguire la propria strada. I più begli anni, in realtà, sono un vero e proprio purgatorio.” (p.63)

“Mi ero infiammata. Non ricordo bene la cronologia della trasformazione. Semplicemente, cominciai ad avere quel nome, quel viso, appiccicati in testa come la carta di una caramella alle dita. Ero innamorata a modo mio: compulsivamente, e aggressiva più che seduttiva. Commedie, strofinamenti, disperazioni, grandi decisioni. E senza dubbio tutto questo accadde nel momento peggiore: con l'amore era cresciuto in me anche lo spirito di rivolta, di ribellione, di contestazione.

In-subordinata, in-disciplinata. In-trattabile. In-sopportabile. Il tempo degli «in» era tornato. (p. 64)

Con l’innamoramento, tipicamente adolescenziale e passionale, affiora anche la consapevolezza di una femminilità che non può non attrarre gli sguardi. La riservatezza di Hélène, l’odio per l’invadenza di sgaurdi contro cui nulla può fare, il sentire che il suo valore trascende di gran lunga la corporeità determinano un’ulteriore interazione negativa con il mondo sociale:

“E gli uomini hanno cominciato a sorridermi: sorrisi tremendi, senza gentilezza, senza alcuna dolcezza, appiccicosi come caramelle sudice. Lo sguardo lascivo ha mille varianti, alcune beffarde e altre di una timidezza che nasconde qualcosa d'osceno. Sguardi accesi da voluttà, o infinitamente malinconici; quelli di chi rinuncia al frutto proibito e sogna di gustarselo, avvelenandosi ogni giorno con il proprio desiderio. Per me, come per tutte le ragazze, l'ispezione di cui ero oggetto e il brillio degli occhi erano raggelanti; emanavano qualcosa di arcaico, di barbarico, violenza pura; un'idea di forze oscure, grandi e feroci.” (p. 77)

“A volte, questo sguardo indecente c'è anche nelle donne, e non è più facile da sopportare. D'altronde, gli incontri con certe donne non sono più piacevoli; nel migliore dei casi, vedono in me una rivale; nel peggiore, una nemica. È il colmo: me ne infischio delle apparenze e sono vittima della mia. Spero d'incontrare delle amiche, e scopro il laser impietoso di uno sguardo che mi soppesa, mi valuta, si spaventa, mi rifiuta. Poco ci manca che mi senta un'appestata, piccolo demone fatale, divoratore d'anime come le streghe arse sui roghi.” (p. 78)

3.

La crisi adolescenziale evolve su di un registro che implica la rivolta contro ogni richiamo alla norma e alla normalità. Essa implica l’intuizione di una via originale da scoprire e da seguire, ma data la giovane età, si traduce in un’incomprensibile (per gli altri) volontà di fare di testa sua.

Il rapporto con gli insegnanti di musica si complica:

“E al Conservatorio: Che pretese! E che carattere! In-transigente. Ma io ero sempre stata intransigente. - Dovrai imparare a mettere un po' d'acqua nel tuo vino, Hélène -. Quante volte ho sentito questa frase? Tutte le volte che pensavo - giustamente - che molta gente dovesse mettere un po' di vino nella sua acqua; nella sua acqua tiepida, insipida, spesso torbida.” (p. 89)

Contro il parere degli insegnanti, Hélène decide di sfidare se stessa e di affrontare prematuramente lo scoglio di un arduo concorso a Mosca. Ne esce sconfitta, ma ulteriormente rafforzata nella convinzione di dover andare avanti da sola, a qualunque costo:

“A Mosca non vinsi nulla, non fui premiata.

I miei insegnanti avevano ragione di temere per me. A Mosca prese corpo per la prima volta l'idea di una vita solitaria, e il bisogno di fuggire lontano, lontano, e di trovare da sola la mia strada.”(p. 100)

“Guadagnare di meno? Che importa se mi diverto, se conservo il mio stile di vita? Non mi serve molto. Bella casa, piscina, begli oggetti, bella macchina... tutte cose che non m'interessano. E poi, di cosa dovrei aver paura? Di vivere?

Aver sempre paura, ripiegarsi su sé stessi, disporre di una rete di sicurezza. Eppure, ci vorrebbe uno stimolo ben più forte del timore per cambiare il mondo, per migliorarlo. La bellezza, l'amore, e anche il rischio.

Come spiegarlo a chi, con le migliori intenzioni, mi esortava alla prudenza? - Sii saggia, paziente, sottomessa...” (p.103)

La conquista del partner oggetto del suo primo innamoramento rivela a Hélène un’altra verità. Il suo bisogno di sviluppo sconfina dall’orizzonte progettuale consueto di una giovane donna:

“L’amore non mi mancava affatto. Dopo che l’avevo ottenuto, conquistato, si era rivelato più opprimente che appagante. Vivere due mi era sembrato ben più difficile che camminare da soli. Non faceva germogliare niente. D'altra parte, io ero già in movimento, in partenza per un pellegrinaggio musicale.” (p. 119)

Il paradosso che esso sembra sconfinare anche dall’ambito della musica:

“Le ragazze della mia età sognavano veli di tulle, pizzi, culle, ba­bini, tutte cose che non facevano per me, e che - in verità - mi sembravano inaudite e piuttosto sconvenienti. Non c'è dubbio che amare sia vedere la fiamma delle cose; ma la mia visione era diversa. Non si trattava solo della musica. Mi ero sempre sentita in esilio, altrove e d'altrove, e intuivo che la musica non mi avrebbe soddisfatta interamente. Era la mia pari, il mio «essere della partita»; era talmente me che non potevo volgermi verso di lei: non era il mio orizzonte. Era l'enigma e insieme la soluzione dell'enigma, non il mio scopo ma la mia compagna, la diligenza postale su cui salivo nel desiderio di rompere gli indugi ed estrarre finalmente dalla vita il succo di cui avevo sentore, quel qualcosa a cui tendevo con tutto il mio essere e che non sapevo definire, ma di cui ero in attesa; sì, ero in trepidante attesa di un ignoto che - ne ero certa - non aspettava che di rivelarmi il suo nome, il suo volto, la sua natura. (p.119)

L’intuizione di questo ignoto porta ancora disordine e confusione nella vita di Hélène:

“Non lavoravo più, se non sulle partiture. Passavo tutto il tempo a leggere libri, e molte note. Immersa nella mia inerzia, mi rifiutavo di uscire dall'appartamento. Dalla finestra, quasi fossi un uccello, contemplavo con sovrano distacco l'agitazione di Montparnasse, laggiù, ai miei piedi. Quello che facevo appena arrivata a Parigi - quel piacevole girovagare, lasciandosi portare dal flusso dei corpi nei torrenti delle vie e guardando avidamente i volti che mi affascinavano - era finito. Ammuffivo, rimuginavo, mi disperavo, intralciata da un'accozzaglia di personaggi da romanzo, di conoscenze frammentarie. Non volevo vedere nessuno. Non sapevo più come si scrivesse la parola «gioia».

Da piccola, volevo invecchiare perché credevo che l'infanzia fosse un purgatorio e che la mia età m'impedisse di prendere il volo. Ma, diversamente da quel che avevo immaginato, ora che vivevo a modo mio le cose non andavano meglio. Ero libera, del tutto libera, eppure, peggio di così... sopravvivevo a stento. Non mi ero mai sentita così fuori dal mondo, dalla bellezza, dalla gioia. Avevo l'impressione d'essere completamente dissociata.

In una di quelle interminabili giornate, trovai, in una raccolta di aforismi, questa frase di Leon Bloy: «Quando appare una grande personalità, chiedetevi anzitutto dov'è il suo dolore». A quel punto della vita, potevo individuare il mio. Ero tormentata da un senso d'impotenza, anzi d'inutilità. Il mio dolore era un atto, e la sua contemplazione un abisso. Un grande buco nero nel mio petto; esso non comunicava più con gli spazi infiniti, con il cosmo, con la vertiginosa architettura della musica: come una falla nello scafo d'una nave, comunicava con le acque glauche degli abissi, e inghiottiva tenebre.” (127-128)

Giunta alle soglie del successo, già riconosciuta nel suo valore di pianista e con il mondo maschile ai suoi piedi, Hélène si ritrae ed opera uno stacco. L’isolamento, per quanto doloroso e sotteso da una ricerca il cui obbiettivo sembra misterioso, non è però inutile:

“Cosa m'insegnarono quei due anni d'indipendenza? Qualcosa sulla natura della musica, che era anche la mia. Ero una persona libera, senza inibizioni; non ero fatta né per i nidi né per le calche. Volevo andare avanti seguendo il mio istinto e i mìei desideri, e continuare per la mia strada senza temere che un giorno si perdesse tra sabbie mobili. M'insegnarono che la solitudine è il luogo essenziale in cui posso essere me stessa, essere con me stessa, dove la realtà prende la forma del desiderio; solo quel che si desidera tra sé e sé tende a essere reale.” (p. 133)

La solitudine, dunque, come matrice della riconduzione del soggetto a se stesso e come tentativo di trovare la propria strada. Per coltivarla, Hélène s’allontana dalla Francia, va negli Stati Uniti, s’immerge in un mondo che le è estraneo e inquietante, nelle cui pieghe sembra sopravvivere più che vivere:

“Non c'è niente che possa prepararvi a New York: né al Bronx né a Harlem, Manhattan, Ellis e Staten Island, e neppure a Times Square. Niente e nessuno può prepararvi allo choc di questa città, che è il vero baricentro del nostro mondo. Una volta laggiù, o se preferite lassù, si cambia universo. New York è una sfida all'idea stessa di città; isolati, piani e rilievi, proporzioni, disposizione delle luci, numero, misura, gravità, effetti di simmetria, spinte orizzontali o verticali: tutto diverso, in un'altra scala. Le interminabili linee diritte fanno sembrare le facciate lievi e disumane, quasi una risposta a Icaro: si potrebbe credere che si sia voluto alzarle fino a un cielo da cui non si cade più. Grande elettricità, perenne alta tensione, persistente anticiclone. New York è un posto in cui anzitutto si prova angoscia. Tanta gente oppressa: centinaia, migliaia, milioni di persone che si affrettano nelle vie e sembrano non dover far altro che far esistere la città. Nessun legame, nessuna socievolezza, né il peso del passato né quello del futuro; si mette tutto in gioco giorno per giorno, in un presente definitivo e senza domani. Ogni minuto è diverso, niente si ripete, tutto appare assolutamente nuovo. A ogni crocevia si sente una quantità di lingue, si vedono individui d'ogni tipo, dal poeta eccentrico al chairman preoccupato, si accerta ogni orrore, grande o miserabile, legato al denaro, e soprattutto si capisce cosa voglia dire stare in mezzo alla folla e sentirsi in un deserto. Si vive con il presentimento di una catastrofe; un presentimento eccitato, al limite della follia.” (p. 155)

Hélene si adatta a vivere in anguste case ove non dispone del pianoforte. Continua a studiare le partiture, a leggere, ma sa di essere in attesa. Di cosa?

La svolta avviene casualmente in virtù dell’incontro con uno strano personaggio, un reduce di guerra di cui tutti hanno paura, e soprattutto del suo cane lupo, una femmina di nome Alawa con cui Hélène instaura un rapporto straordinario:

“Sul piano affettivo, Alawa è stata una delle presenze più importanti della mia vita. Il nostro attaccamento e la nostra reciproca fiducia erano totali, assoluti. Dennis continuava a stupirsene: è molto raro che si stabiliscano dei legami con una lupa, ed è quasi impossibile se non la si è allevata. La spontaneità della nostra intesa era inspiegabile. Alawa era canadese, con una strana pelliccia dal pelo molto lungo. Aveva occhi intensamente gialli. Con lei mi sentivo felice, intera, assurdamente giovane e forte.” (p. 150)

in conseguenza del rapporto con Alawa, Hélène intuisce che, avenso a lungo esplorato l’universo simbolico della cultura, ciò che le manca è il rapporto originariamente molto intenso con la Natura. Per dare spazio a tale bisogno fonda nel Nord America, superando difficoltà economiche e burocratiche, un centro per la tutela dei lupi selvatici. Colà raggiunge la completezza del suo essere:

“La musica, il lavoro, il pianoforte, li ho scoperti molto presto, da bambina. Ho fatto miei gli eccessi di Schumann e di Brahms. Mi mancava una dimensione; o meglio, una latitudine e una longitudine. Poi le trovai, e finalmente ero a casa mia, nel posto in cui si crea il linguaggio. La natura è anche questo, il luogo immenso in cui l'altro Verbo - la musica - germoglia. La natura è la preparazione della musica nel canto degli uccelli, nel fruscio del vento tra i grandi olmi e nell’ululare notturno dei lupi che mi chiamano sotto la luna, mi fanno venir voglia di correre, di scrollarmi con loro nella neve.” (p. 167)

Attraverso il contatto continuo con la natura e con i lupi, le inquietudini si dissolvono, le contraddizioni si ricompongono, l’avversione nei confronti del mondo si placa. Dopo tre anni di ulteriore isolamento nel Centro – una sorta di ritiro spirituale – Hélène torna a vivere, a suonare, a dare concerti, a incidere dischi di successo. Ha trovato finalmente la sua strada e ne è consapevole:

“A poco a poco, ho raggiunto quest'armonia interiore, accettando le mie contraddizioni, comprendendo che certi esseri non sono una cosa sola ma un puzzle di aspirazioni contrastanti, e che è suicida, menomante, rinnegare qualcosa di sé per adeguarsi a una norma imposta da un modello. Quale modello? Quello della bambina modello? Della brava ragazza che sposa il genero ideale e riproduce il modello in due o tre bambini? Il modello della pianista eterea? Ogni essere ha in sé il mistero delle proprie contraddizioni, delle proprie lotte interiori.

Noi tutti siamo l'incarnazione di un mistero. Ora sono meravigliosamente felice, perché ho trovato il mio equilibrio, ho risolto quel problema di simmetria che mi spingeva a ferirmi, da bambina. Ho trovato questo punto segreto, intimo, personale, tra i lupi, la natura più selvaggia e la musica più raffinata: tra Cielo e Terra. Provo gratitudine. (p. 168)

4.

Se fosse un romanzo, Variazioni selvagge sarebbe un libro straordinario. Trattandosi di un’autobiografia interiore, esso assume un significato ancora più rilevante.

Il potenziale di sviluppo intrinseco al corredo genetico dei soggetti introversi oppositivi si manifesta inesorabilmente, nel corso delle fasi evolutive, sotto forma di un disordine comportamentale direttamente proporzionale alla sua intensità. E’ come se quel potenziale, che contiene una spinta verso un’autorealizzazione la cui soglia minima è spostata in alto rispetto alla media, operasse come una spinta motivazionale che porta il soggetto sul terreno della ribellione sistematica ai codici normativi da cui è investito e al cui rispetto è di continuo richiamato.

La ribellione implica l’intuizione che il proprio destino non può esaurirsi in un processo di normalizzazione. Si tratta però di un’intuizione viscerale, confusa, che solo lentamente può  tradursi nella definizione di un progetto di sviluppo personale. Tale definizione dipende poi dalle circostanze ambientali. Se la guerra che il soggetto è costretto a dichiarare al mondo in nome di una vocazione che non rientra nei modelli normativi, che tendono all’omologazione, è interagita negativamente, la possibilità che il disordine comportamentale cronicizzi trasformandosi in una scelta di vita deviante è elevatissima.

Hélène è stata fortunata: per quanto ansioso, l’ambiente familiare è stato sufficientemente rispettoso della sua “stranezza" e ha intuito che l’irrequietezza della figlia richiedeva un canale di scorrimento che non poteva ridursi alla scuola e prescindeva dalla socializzazione secondaria. Hélène è stata fortunata anche nell’aver scoperto precocemente la sua attitudine per la musica.

Nella sua storia, però, si dà un aspetto assolutamente singolare: la crisi che sopravviene introno ai vent’anni, quando Hélène sembrerebbe aver raggiunto già un buon grado di autorealizzazione. Essa intuisce che il suo potenziale d’individuazione richiede un ulteriore sviluppo e cerca, anche correndo il rischio di rimanere emarginata, ciò che sente come una mancanza ad essere.

I fatti le hanno dato ragione. Ha trovato la sua strada e ha raggiunto e superato una soglia di autorealizzazione spostata molto in alto. Solo in virtù di questo ha trovato l’equilibrio interiore e l’armonia con se stessa e con il mondo.