1.
"Un uomo deve saper affrontare la sua cattiva sorte, i suoi errori, la sua coscienza e tutto quel genere di cose. Contro cos'altro si dovrebbe combattere altrimenti?"
Pronunciata da un anziano capitano nei confronti del giovane protagonista che, sollecitato da lui ad accettare il primo comando di una nave, ha superato una prova piuttosto dura, la frase esprime la filosofia di vita di Conrad: un lucido, disincantato realismo - con una venatura pessimistica - che fa appello alla capacità dell'uomo di assumersi dignitosamente le sue responsabilità esistenziali. Il coraggio di esistere - titolo di un libro nel quale il teologo Paul Tillich proponeva il modello di una vita virtuosa ponendo tra parentesi il problema dell'esistenza di Dio - potrebbe essere una "cifra" appropriata per l'opera conradiana.
In una nota scritta nel 1920, Conrad riconosce esplicitamente la matrice biografica del racconto, che risale al primo comando di una nave che gli fu affidato: compito che egli assolse proficuamente, temprando il suo carattere e portandolo, nel giro di due anni, ad abbandonare la vita di mare per dedicarsi alla scrittura. Nella memoria, quest'esperienza personale, che Conrad riconosce come minuscola storicamente, assume un significato universale: essa giunge a rappresentare il passaggio esistenziale "dalla gioventù, spensierata e fervida, al periodo più autoconsapevole e travagliato dell'età più matura": il conseguimento, dunque, di un'identità individuale adulta.
Il racconto è fin troppo noto perché sia necessario illustrarne la trama. Basterà dire che un giovane, ma non più giovanissimo marinaio, giunto al confine della linea d'ombra che separa la giovinezza dalla maturità, assume quasi casualmente, per la prima volta, il comando di una nave che s'imbatte in una interminabile bonaccia e il cui equipaggio viene estenuato da un'epidemia di febbre tropicale. La gestione di una situazione così difficile, che evoca il fantasma di imbarcazioni alla deriva con tutti i marinai a bordo morti, ricade sulle spalle del capitano, che, tra l'altro, si sente in colpa per non aver controllato accuratamente alla partenza la farmacia di bordo, la cui scorta di chinino è esigua. Allo smarrimento, che si esprime in un gamma di stati d'animo ("Ero oppresso dalle mie responsabilità che non potevo dividere con nessuno"; "L'affanno delle avversità cominciava ad avere un certo effetto su di me e contemporaneamente provavo disprezzo per quella oscura debolezza del mio animo"; "Io dovevo sopportare dentro di me un tumulto di dolorosa vitalità, di dubbio, confusione, autorimproveri, e una strana riluttanza ad affrontare l'orrenda logica della situazione"; "Il mio primo comando. Adesso capisco quello strano senso di insicurezza nel mio passato. Ho sempre sospettato di non essere all'altezza. E adesso ne ho la prova. Mi tiro indietro. Non valgo niente"; "C'erano dei momenti in cui sentivo non solo che sarei diventato matto, ma che lo ero già; e allora non osavo aprir bocca per paura di tradirmi con qualche urlo da demente"), fa seguito la determinazione di fronteggiare virilmente la situazione. Per diciassette giorni, il capitano sta sulla tolda, quasi senza dormire vicariando, con l'aiuto del solo cuoco di bordo, l'equipaggio volonteroso ma estenuato dalla febbre. La nave infine è salva con tutti gli uomini. La prova è stata superata.
La tessitura del racconto pone in luce la capacità straordinaria di Conrad di descrivere oggettivamente gli eventi, facendo leva sul fondale naturalistico offerto dalla distesa infinita del mare e del cielo, intrecciandoli con le vibrazioni dell'anima ("Eccoli là: stelle, sole, mare, luce, tenebra, spazio, grandi distese d'acqua; la formidabile Opera dei Sette Giorni, in cui l'umanità sembra essersi smarrita senza essere stata invitata. Oppure adescata. Come me che sono stato adescato in questo tremendo comando, inseguito dalla morte").
L'acme del racconto viene raggiunto nel momento in cui, con l'equipaggio malato, le vele flosce per l'assenza di vento e la nave praticamente alla deriva, la tenebra della notte avvolge tutto ("La tenebra impenetrabile circondava la nave così da vicino che a stendere la mano fuori bordo pareva di poter toccare qualche sostanza non terrena. Si aveva un'impressione di terrore inconcepibile e di inesprimibile mistero"; "Doveva essere così la tenebra prima della creazione. Si richiuse dietro di me. Sapevo di essere invisibile all'uomo che era al timone. E anch'io non vedevo niente. Lui era solo, io ero solo, tutti gli uomini erano soli là dove si trovavano. E anche ogni forma era sparita; alberi, vele, attrezzature, battagliole, tutto cancellato nella terribile uniformità di quella notte assoluta"; "Guardare intorno alla nave era come guardare dentro a un baratro nero e senza fondo. L'occhio si perdeva in inconcepibili abissi"). E' proprio questa circostanza, che sembra presagire il pericolo di essere inghiottiti dal nulla, che dà al capitano la consapevolezza del suo ruolo ("Io mi ergevo in mezzo a loro come torre ferma, inaccessibile alla malattia, sensibile solo al dolore della mia anima"). In virtù della tenebra e dell'intuizione della solitudine esistenziale, che è propria di ogni essere umano, la "regione crepuscolare fra la giovinezza e la maturità" viene attraversata e sormontata. Un uomo che, fino allora si era limitato a tirare avanti ("Mi accorsi che la mia immaginazione aveva percorso canali convenzionali e che le mie speranze erano sempre state senza grandezza"), scopre che la vita, per essere vissuta pienamente, postula un eroismo senza enfasi, il coraggio di esistere appunto.
2.
Nella nota del 1920, Conrad scrive: "Questa storia, che pur nella sua brevità, lo riconosco, è un'opera abbastanza complessa, non intendeva trattare il soprannaturale. Però più di un critico è stato propenso a leggerla in questo modo, cogliendovi un tentativo, da parte mia, di dare il più ampio sfogo all'immaginazione trasportandola oltre i confini del mondo in cui vive e soffre l'umanità. Ma in realtà la mia immaginazione non è fatta di stoffa tanto elastica. Credo che se tentassi di mettervi la tensione del soprannaturale fallirebbe miseramente e mostrerebbe una sgradevole lacuna. Non avrei mai potuto fare un simile tentativo, perché tutto il mio essere morale e intellettuale è permeato dall'invincibile convinzione che tutto ciò che cade sotto il dominio dei nostri sensi si trova nella natura e, per quanto eccezionale, non può essere diverso nella sua essenza da tutte le altre manifestazioni del mondo visibile e tangibile di cui noi siamo parte consapevole. Il mondo dei vivi contiene già abbastanza meraviglie e misteri così com'è: meraviglie e misteri che agiscono sulle nostre emozioni e sulla nostra intelligenza in modi così inesplicabili da giustificare una concezione della vita quasi come uno stato incantato. No, sono troppo saldo nella consapevolezza del meraviglioso per essere affascinato dal puro soprannaturale, che (consideratelo come volete) non è altro che un artificio, l'invenzione di menti insensibili all'intima delicatezza del nostro rapporto con i morti e con i vivi, nelle loro innumerevoli moltitudini, una profanazione dei nostri ricordi più teneri, un oltraggio alla nostra dignità. Qualunque sia la mia naturale modestia, non scenderà mai tanto in basso da cercare aiuto per l'immaginazione in quelle vane chimere comuni a tutte le età e che in se stesse sono sufficienti per riempire di indicibile tristezza tutti coloro che amano l'umanità."
Conrad esclude dunque che nella sua opera si dia una tensione che trascende l'orizzonte mondano. Il mistero insondabile, e perciò affascinante dell'esistenza, va affrontato senza la pretesa di penetrarlo fino al fondo: va, dunque, vissuto e sfidato da ogni individuo, conscio della sua solitudine esistenziale e nondimeno disposto ad assumersene la responsabilità. Il ruolo del capitano, che deve operare scelte e prendere decisioni senza potere condividere questo peso con altri è la metafora di una condizione universale: ogni uomo veleggia sul gran mare della vita dovendo affrontare il mistero dell'infinito da cui non deve lasciarsi irretire, perché, in ultima analisi, il problema è non andare alla deriva, vale a dire mantenere una rotta.
Che il coraggio di esistere in Conrad sia un richiamo rivolto anzitutto all'individuo, che deve accettare in qualche misura di essere solo, poiché da quest'accettazione consapevole ricava il senso dell'identità adulta, è fuor di dubbio. Ne La linea d'ombra, più che in tutti gli altri romanzi di Conrad, però, la solitudine esistenziale non esclude il bisogno di una relazione significativa, al limite di solidarietà, con gli altri esseri umani.
Sempre nella nota, è scritto:"Le parole "Degno del mio imperituro rispetto" che ho scelto per il motto del frontespizio, sono citate dal testo stesso del libro; e, sebbene uno dei miei critici abbia pensato che riguardassero il veliero, è evidente, dato il posto in cui si trovano, che si riferiscono all'equipaggio di quella nave: estranei completi per il loro nuovo capitano e che pure gli furono così vicini durante quei venti giorni che parvero trascorrere sull'orlo di una lenta e agonizzante distruzione. E quello, fra tutti, è il ricordo più grande! Di sicuro è una gran cosa aver comandato un pugno di uomini degni del proprio imperituro rispetto."
Nonostante in preda alla febbre, gli uomini dell'equipaggio sono di fatto ammirevoli nell'impegno con cui, pur svuotati di energia, tentano di eseguire i comandi del loro capitano. Pur gravato di una responsabilità estrema, questi non è del tutto solo. Egli si ritrova accanto un personaggio singolare, che viene così rappresentato: "Ransome era il cuoco. Il primo ufficiale me lo aveva indicato il primo giorno, ritto sul ponte, a braccia conserte sull'ampio petto, che guardava il fiume. Lo si notava anche da lontano per la figura ben proporzionata, per qualcosa di molto marinaresco nel portamento. Più da vicino gli occhi quieti e intelligenti, il volto distinto, la disciplinata scioltezza dei modi lo rendevano una personalità attraente. Quando, in aggiunta, il signor Burns mi disse che era il miglior marinaio della nave, espressi la mia sorpresa che nel fiore degli anni e con un simile aspetto s'imbarcasse come cuoco su una nave. Dipende dal cuore", aveva detto il signor Burns. "Ha qualcosa che non va. Non deve sforzarsi troppo se non vuole rischiare di rimanerci secco"."
Nonostante la precarietà della condizione fisica, resa paradossale da un aspetto solido e muscoloso, nel momento di massima difficoltà, quando il vento ricomincia a spirare e non c'è più nessuno dell'equipaggio in grado di operare uno sforzo, è Ransome che, sfidando la morte, soccorre il capitano: "Ransome e io correvamo lungo i ponti a mollare tutte le scotte e le drizze. Poi ci precipitammo alla punta estrema del castello di prua. Il sudore della fatica e di puro nervosismo sgorgava copioso dalle nostre teste mentre ci affannavamo per mettere le ancore in posizione di lancio. Non osavo guardare Ransome mentre lavoravamo fianco a fianco. Scambiavamo brevi parole. Lo sentivo ansimare vicino a me ed evitavo di volgere gli occhi dalla sua parte per paura di vederlo cadere e spirare nell'atto di spremere le sue forze - per cosa? In realtà, per un consapevole ideale. Il consumato marinaio che era in lui si era destato. Non aveva bisogno di ordini. Sapeva cosa fare. Ogni sforzo, ogni movimento era un atto di coerente eroismo. Non spettava a me sorvegliare un uomo così ispirato."
Quanto la collaborazione dell'equipaggio e l'eroismo senza enfasi di Ransome contino per il capitano, aiutandolo a varcare la linea d'ombra, è inutile sottolinearlo.
3.
"Si va avanti. E il tempo, anche lui va avanti; finché dinnanzi si scorge una linea d'ombra che ci avvisa che anche la regione della prima giovinezza deve essere lasciata indietro."
"La giovinezza è una gran bella cosa, una grande forza, fin tanto che non ci si pensa. Sentii che stavo diventando autoconsapevole."
Il racconto di Conrad offre l'occasione di riflettere sul passaggio epocale dalla giovinezza alla maturità, che non coincide con il pervenire alla maggiore età. Questa infatti, sia essa ritualizzata come in molte culture primitive o semplicemente festeggiata come nella nostra, implica un cambiamento formale di appartenenza ad una classe di età o giuridico di pieno godimento dei diritti civili. Il passaggio epocale è di ordine psicologico. Esso, quando sopravviene, conclude un travaglio che si avvia precocemente.
Il barlume dell'autoconsapevolezza interviene tra i cinque e i sette anni di età, allorché il bambino comprende che cos'è la morte e sviluppa un'ansia più o meno intensa che lo porta ad interrogare i genitori, a chiedere spiegazioni, rassicurazioni, ecc. L'intuizione attesta che lo sviluppo mentale è pervenuto ad un livello tale per cui la previsione del tempo consente al bambino di vivere la parabola dell'esistenza come destinata inesorabilmente a finire. Tale intuizione comporta anche la consapevolezza che i suoi genitori moriranno prima di lui e che egli è destinato a rimanere solo. Essa dunque implica non solo il morire, ma anche il soffrire (per il lutto) e il sentire che l'individuo ha un'identità differenziata rispetto agli altri, vale a dire che, almeno per alcuni aspetti, è solo.
Questo "trauma" viene di solito ammortizzato rapidamente, ma esso rimane latente, si riaffaccia con l'adolescenza, associandosi alla tendenza a porsi problemi filosofici sul senso della vita, sul significato del dolore e della morte, sul problema del male, ecc. Prendere posizione in rapporto a questi problemi, farsene una ragione, affrontarli, coincide con l'assunzione della responsabilità rispetto ad essi, con il nascere di un'identità adulta.
Questo carico di ansia esistenziale, specifico della soggettività umana, è un nodo di grossa portata, che permette di comprendere i due modi più frequenti di sottrarsi ad esso: la religione e la rimozione. La religione, come ho scritto altrove, è la medicina più potente che l'umanità ha scoperto per lenire i suoi affanni. Essa trasforma magicamente il negativo in positivo: la vita non ha una fine, perché essa prosegue dopo la morte; il dolore è una prova assegnata da Dio, la cui sopportazione si traduce in merito; l'ingiustizia che regna sulla terra sarà rimediata nell'aldilà, ecc. lo scoglio contro cui urta la soluzione religiosa è il problema del male. Dato che Dio non può esserne responsabile, la causa del male ricade o sul maligno o sull'uomo. Si tratta in ogni caso di creature di Dio. Il riferimento al libero arbitrio, essendo Dio onnipotente, è filosoficamente insufficiente.
La rimozione, almeno nella nostra società, si può ritenere la soluzione più diffusa. Il problema è che, essendo i contenuti dell'ansia esistenziale intrinseca alla struttura della soggettività umana, la rimozione alleggerisce la coscienza ma crea, livello inconscio, una condizione di pressoché perpetua turbolenza. Parte del disagio psicologico che affligge il nostro mondo si può ricondurre al tentativo di non prendere posizione in rapporto a quei contenuti.
Ma che significa, prescindendo dalla soluzione religiosa, prendere posizione? Come può l'uomo tollerare il mistero della complessità del Cosmo e della sua mente, che lo rende consapevole di tale complessità e del suo destino mortale? Se non c'è un aldilà e se ogni esperienza si esaurisce nel volgere di pochi decenni, a quale altro principio ricondursi se non al carpe diem? Che cosa può significare impegnarsi a capire, a lottare, a realizzare al massimo grado le proprie potenzialità? Donde si può ricavare, insomma, il coraggio di esistere?
Conrad, come risulta chiaro dalla prima citazione riportata, fornisce una risposta apparentemente semplice. Essa comporta l'affrontare la vita come un'avventura che mette a dura prova, ma il cui travaglio è ampiamente ripagato dall'accettare la sfida in nome della consapevolezza che dona la maturità, e il cui aspetto più specifico è l'assumere su di sé la responsabilità dell'esistere.
Si tratta indubbiamente di una soluzione che rievoca lo stoicismo. Nonostante i suoi limiti, questa antica corrente filosofica rappresenta ancora oggi una nobile e dignitosa alternativa a qualunque suggestione metafisica.