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Arthur Schopenhauer
Il mondo come volontà
e rappresentazione
Tomo II
Indice generale
LIBRO TERZO
IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE
SECONDA CONSIDERAZIONE
La rappresentazione, indipendente dal principio di ragione: l'idea
platonica: l'oggetto dell'arte.
LIBRO QUARTO
IL MONDO COME VOLONTÀ
SECONDA CONSIDERAZIONE
Affermazione e negazione della volontà di vivere, dopo
raggiunta la conoscenza di sé.
Tomo secondo
LIBRO TERZO
IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE
SECONDA CONSIDERAZIONE
La rappresentazione, indipendente dal principio di ragione: l'idea
platonica: l'oggetto dell'arte.
Τί τὸ ὂν μὲν ἀεὶ, γένεσιν δὲ οὐκ ἔχον; χαὶ τί τὸ γιγνύμενον
μὲν χαὶ ἀπολλύμενον, ὄντως δὲ οὐδέπυτε ὄν;
ΠΛΔΤΩΝ
§ 30.
Dopo aver nel primo libro considerato il mondo come pura
rappresentazione, come oggetto per un soggetto, nel secondo libro
l'abbiamo guardato dall'altra sua faccia, trovando che questa
è volontà, e risultò che il mondo, oltre
all'esser rappresentazione, non è altro che volontà.
In virtù di tale conoscenza, il mondo come rappresentazione
l’abbiam definito, sia nel complesso che nelle sue parti,
oggettità della volontà: ciò che viene quindi a
significare la volontà fatta oggetto, ossia rappresentazione.
Ricordiamoci inoltre che codesta oggettivazione della volontà
aveva molti gradi, ma determinati: attraverso i quali, con chiarezza
e compiutezza di grado in grado più alta, veniva l'essenza
della volontà ad entrar nella rappresentazione, ossia a
presentarsi come oggetto. In codesti gradi abbiamo già nel
secondo libro riconosciuto le idee di Platone, in quanto essi gradi
sono appunto le specie determinate, o le originarie, immutabili
forme e proprietà di tutti i corpi naturali, sia inorganici
che organici; come anche sono le forze universali manifestantisi
secondo leggi di natura. Tali idee in complesso si presentano
adunque in individui e fenomeni singoli innumerevoli, stando di
fronte ad essi come modelli di fronte alle copie. La
molteplicità di codesti individui può esser
rappresentata solo mediante tempo e spazio; il loro nascere e perire
solo mediante causalità: nelle quali forme tutte noi non
vediamo se non differenti modi del principio di ragione, che
è il principio ultimo di ogni cosa finita, di ogni
individuazione, nonché la general forma della
rappresentazione, com'essa penetra nella conoscenza dell'individuo
in quanto individuo. L'idea invece non rientra in quel principio:
non le tocca quindi né molteplicità né
mutamento. Mentre gl'individui, nei quali ella si presenta, sono
innumerevoli, e nascono e muoiono senza posa, ella resta immutata,
sempre una ed identica, né il principio di ragione ha valore
per lei. Ma poi che questo è la forma, a cui va sottomessa
tutta la conoscenza del soggetto, in quanto esso conosce come
individuo, vengono anche le idee a trovarsi affatto fuori della
sfera di conoscenza dell'individuo in quanto individuo. Se quindi si
vuol che le idee diventino oggetto della conoscenza, questo
può accadere solo col sopprimere l'individualità nel
soggetto conoscente. Più precisi ed ampii chiarimenti di
ciò saranno materia della trattazione che segue.
§ 31.
Ma, prima di tutto, ancora una considerazione essenziale. Spero mi
sia riuscito nel libro precedente di generare la persuasione che la
cosa in sé della filosofia kantiana – la quale vi si presenta
come una dottrina di gran peso, ma oscura e paradossale, sì
che, soprattutto per il modo con cui Kant l'introduce, ossia
mediante la deduzione dal causato alla causa, apparve come una
pietra d'inciampo, anzi come il lato debole della sua filosofia –
non è altro che la volontà, quando a tal
riconoscimento si pervenga per la via affatto diversa da noi
seguita; volontà, nella sfera di questo concetto allargata e
precisata al modo suesposto. Spero inoltre che, in virtù di
quanto ho detto, non si troverà ostacolo a riconoscere nei
determinati gradi dell'oggettivazione di quella volontà,
costituente l'in-sé del mondo, ciò che Platone
chiamava le idee eterne, ossia le forme immutabili (ειδη), le quali,
riconosciute come il primo ma anche come il più oscuro e
paradossale dogma della sua dottrina, sono state per una serie di
secoli oggetto di meditazione, di contesa, di beffa e di venerazione
da parte di tanti cervelli così vanamente intonati.
Se adunque per noi la volontà è la cosa in sé,
e l'idea è invece la diretta oggettità di quella
volontà in un grado determinato, veniamo a trovare che la
cosa in sé di Kant e l'idea di Platone, la quale per lui
è l'unico οντως ον – questi due grandi oscuri paradossi dei
due maggiori filosofi dell'Occidente –, pur non essendo del tutto
identici, sono nondimeno strettamente affini, e distinti per una
sola determinazione. I due grandi paradossi sono addirittura –
appunto pel fatto di suonar in modo tanto diverso, malgrado la loro
intima concordanza e parentela, a causa della straordinaria
differenza tra le individualità dei loro autori – il miglior
commento reciproco l'uno dell'altro, rassomigliando a due strade
affatto diverse, che pur conducono ad una mèta. Questo si
può chiarire con poco. Kant dice, nella sostanza, quanto
segue: «Tempo, spazio e causalità non sono
determinazioni della cosa in sé; bensì appartengono
solamente al suo fenomeno, non altro essendo se non forme della
nostra conoscenza. Ma poiché ogni pluralità ed ogni
principio e fine è possibile sol mediante tempo, spazio e
causalità, ne deriva che anche pluralità, principio e
fine si riferiscono esclusivamente al fenomeno, e non mai alla cosa
in sé. Ed essendo la nostra conoscenza sotto condizione di
quelle forme, ne viene che l'esperienza tutta intera è
semplice conoscimento del fenomeno, e non della cosa in sé:
quindi non possono le sue leggi aver valore per la cosa in
sé. Ciò s'estende perfino al nostro proprio io, che
noi conosciamo soltanto come fenomeno, e non quale può essere
in se stesso». Questo è, sotto l'importante rispetto
qui preso a esaminare, il significato e il contenuto della dottrina
kantiana. Platone invece dice: «Le cose di questo mondo, che i
nostri sensi percepiscono, non hanno nessuna vera consistenza: esse
divengono sempre, ma non sono mai: hanno un'esistenza appena
relativa, esistono soltanto nel loro reciproco rapporto e per il
loro reciproco rapporto: tutto il loro essere può così
chiamarsi con egual ragione un non-essere. Non sono quindi neppure
oggetto di una vera e propria conoscenza (επιστημη); potendosi aver
conoscenza solo di ciò che esiste in sé e per
sé; e sempre nello stesso modo: mentre esse non sono se non
l'oggetto di un'opinione provocata per mezzo di sensazione (δοξα
μετ' αισθησεως αλογου). Fin quando restiamo vincolati alla loro
percezione, rassomigliando a uomini i quali stiano in una oscura
caverna, così strettamente legati da non poter nemmeno
volgere il capo; i quali null'altro vedano, alla luce di un fuoco
acceso dietro di loro, se non le ombre, riflesse sulla parete di
contro, di oggetti reali fatti passare tra loro medesimi ed il
fuoco; ed anche di se stesso o dei compagni ciascuno veda soltanto
l'ombra su quella parete. Tutta la loro sapienza starebbe nel
predire l'ordine di successione, appreso per esperienza, di quelle
ombre. Ciò che invece può esser chiamato un vero
essere (οντως ον), perché sempre è ma non mai comincia
né finisce, sono le cause reali di quelle ombre: sono le
eterne idee, le forme prime di tutte le cose. Quelle non hanno
pluralità: perché ciascuna è, per essenza,
unica; essendo ella il prototipo, del quale sono riproduzioni oppure
ombre tutte le omonime, singole, periture cose. Né tocca loro
un principio o una fine; poi che esse veramente sono, e non
cominciano e non finiscono come i loro evanescenti riflessi. (In
entrambe queste determinazioni negative è di necessità
sottintesa la premessa, che tempo spazio e causalità non
abbiano per le idee significato né valore, e che le idee non
stiano entro cotali forme). Delle idee soltanto si ha quindi vera e
propria conoscenza, potendo di questa essere oggetto solo ciò
che perennemente e sotto ogni aspetto (quindi in sé)
è; non ciò che ora è, ora non è, secondo
il punto da cui lo si considera». Questa è la dottrina
di Platone. Risulta evidente, e non richiede ulteriore spiegazione,
che l'intimo senso delle due dottrine è identico; che l'una e
l'altra tiene il mondo visibile per un'apparenza, la quale è
in sé nulla, ed acquista significato e realtà riflessa
solo da ciò che in lei si esprime (per Kant la cosa in:
sé, per Platone l'idea). Ed a questa unica verace essenza
sono affatto estranee, secondo entrambe le dottrine, tutte le forme
dei fenomeni, anche le più universali e sostanziali. Per
negare codeste forme, Kant le ha direttamente assunte in espressioni
astratte: e, senz'altro, tempo spazio e causalità ha
riconosciuto non appartenenti alla cosa in sé, quali semplici
forme dei fenomeni: Platone invece non è pervenuto fino
all'ultima espressione, e le sue idee ha solo in modo indiretto
mostrate prive di quelle forme, negando loro ciò che
unicamente per mezzo delle forme stesse diventa possibile, ossia
pluralità dell'identico, nascita e morte. Ma per abbondare
voglio ancora rendere evidente con un esempio quella singolare e
importante concordanza. Stia davanti a noi un animale, in piena
attività di vita. Platone dirà: «Questo animale
non ha alcuna esistenza effettiva, bensì solo apparente: un
perpetuo divenire, una esistenza relativa, la quale può esser
chiamata tanto un non-essere, quanto un essere. Effettiva esistenza
ha soltanto l'idea, che in quell'animale si riproduce, ossia
l'animale in se stesso (αυτο το θηριον), il quale da nulla
dipendente esiste solo in sé e per sé (θαθ' ἑαυτο, αει
ὡς αυτως), non è nato, non morirà, sempre ad un modo
sarà (αει ον, χαὶ μηδεποτε ουγε απολλυμενον). Fin quando
adunque riconosciamo in questo animale la sua idea, è affatto
indifferente e senza importanza, se noi abbiamo davanti questo
animale d'adesso o un suo progenitore vissuto or sono mille anni; e
così se esso sia qui o in una terra lontana; e se si mostri
in questa o quella maniera, posizione o azione; e se infine sia esso
o qualunque altro individuo della sua specie: tutto ciò non
ha peso, e riguarda il solo fenomeno, mentre l'idea dell'animale
unicamente ha effettiva esistenza ed è oggetto di verace
conoscimento». Così Platone. Kant dirà su per
giù: «Questo animale è un fenomeno nel tempo,
nello spazio e nella causalità, che sono tutte condizioni a
priori dell'esperienza possibile giacenti nella nostra
facoltà conoscitiva, non già determinazioni della cosa
in sé. Perciò quest'animale, sì come noi lo
vediamo in un tempo determinato, in un dato luogo, quale individuo
formatosi nella connessione dell'esperienza, ossia nella catena di
causa ed effetto, e necessariamente perituro, non è punto
cosa in sé, ma soltanto un fenomeno che non vige se non in
modo relativo alla nostra conoscenza. Per conoscer ciò che
l'animale può essere in se medesimo, e quindi
indipendentemente da tutte le determinazioni riferentisi al tempo,
allo spazio e alla causalità, si richiederebbe un modo di
conoscenza diverso da quell'unico a noi reso possibile dai sensi e
dall'intelletto».
Per avvicinare ancor più la formula kantiana alla platonica,
si potrebbe anche dire: tempo, spazio e causalità sono quella
disposizione del nostro intelletto, in grazia della quale l'unico
essere di ogni specie che effettivamente esiste ci si presenta come
una pluralità di individui della specie medesima, sempre da
capo nascenti e morienti, in successione infinita. La percezione
delle cose per mezzo e in conformità della suddetta
disposizione è l'immanente; mentre quella, che si rende
consapevole del come sta veramente la cosa, è la
trascendentale. Questa la si riceve in abstracto mediante la critica
della ragion pura: ma in via d'eccezione può anche stabilirsi
intuitivamente. Quest'ultima affermazione è una mia aggiunta,
che per l'appunto mi occupo di spiegare nel presente terzo libro.
Se si fosse mai davvero intesa e afferrata la dottrina di Kant, e,
da Kant in qua, capito Platone; se si avesse con fedeltà e
serietà meditato l'intimo senso e contenuto delle dottrine di
questi due grandi maestri, invece di far sproloqui coi termini
tecnici dell'uno e parodiare lo stile dell'altro, non si sarebbe
potuto mancar di scoprire da gran tempo quanto concordino i due
grandi sapienti, e come il significato puro, l'indirizzo ultimo
delle due dottrine sia proprio il medesimo. E così non pure
non si sarebbe ostinatamente confrontato Platone con Leibniz, col
quale il suo genio non s'accorda in nessun modo, e tanto meno con un
noto signore ancor vivente1, quasi per dileggiare i Mani del grande
pensatore antico; ma sotto ogni rispetto saremmo assai più
progrediti di quanto siamo, o piuttosto non saremmo così
ignominiosamente retrocessi, come è accaduto in questi ultimi
quarant'anni; non ci si sarebbe lasciati tirar pel naso oggi da un
ciarlatano, domani da un altro, né questo secolo XIX,
annunziantesi così significante, avremmo inaugurato in
Germania con filosofiche farse recitate sulla tomba di Kant (come
talora gli antichi ai funerali dei loro), fra il giusto dileggio
d'altre nazioni – perché ai gravi e perfino rigidi tedeschi
scherzi siffatti si convengono meno che a ogni altro. Ma così
ristretto è il vero e proprio pubblico degno dei filosofi
genuini, che perfino i discepoli atti a comprenderli sono loro
parcamente condotti dai secoli.
Εισι δη ναρθηκοφοροι μεν πολλοι, Βακχοι δε γε παυροι. (Thyrsigeri
quidem multi, Bacchi vero pauci). Ἡ ατιμια φιλοσοφια̣ δια ταυτα
προσπεπτωκεν, ότι ον κατ’ αξιαν αυτης άπτονται’ ου γαρ νοθους, εδει
άπτεσθαι, αλλα γνησιους. (Eam ob rem philosophia in infamiam
incidit, quod non pro dignitate ipsa attingunt: neque enim a
spuriis, sed a legitimis erat attractanda). Plat.
Si andò dietro alle parole, alle parole:
«rappresentazioni a priori, indipendentemente dall'esperienza
consapute forme dell'intuire e del pensare, concetti primi del puro
intelletto», etc. – e ci si chiese poi se le idee di Platone,
le quali anche vogliono essere concetti originarii e per di
più ricordi di un'intuizione delle cose davvero reali,
anteriore alla vita, non forse coincidessero con le forme kantiane
dell'intuire e del pensare, le quali stanno a priori nella nostra
conscienza. Queste due affatto eterogenee dottrine – la dottrina
kantiana delle forme, che limitano al fenomeno la conoscenza
individuale, e la dottrina platonica delle idee, la cui conoscenza
per l'appunto nega espressamente quelle forme – queste dottrine
sotto un tal rispetto diametralmente opposte si confrontarono
attentamente, perché esse nelle loro espressioni un poco
vengono a rassomigliarsi. E si tenne consiglio, e ci si
accapigliò sulla loro coincidenza, e si trovò alla
fine, che non erano la stessa cosa; e si concluse, che la teoria
platonica delle idee e la critica kantiana della ragione non
avessero nessun punto di contatto2. Ma basti di ciò.
§ 32.
Per le considerazioni fatte finora, malgrado tutto l'intimo accordo
fra Kant e Platone, e l'identità della mèta che ad
essi traluceva, o della concezione del mondo la quale li mosse e
guidò al filosofare, non sono tuttavia identiche per noi
l'idea e la cosa in sé; piuttosto è per noi l'idea
solo immediata e quindi adeguata oggettità della cosa in
sé, la quale ultima è tuttavia la volontà; la
volontà, in quanto non è ancora oggettivata, non
ancora è divenuta rappresentazione. Imperocché la cosa
in sé deve, appunto secondo Kant, esser sciolta da tutte le
forme inerenti al conoscere in quanto tale: ed è soltanto
(come sarà mostrato nell'appendice) un errore di Kant il non
aver noverato tra codeste forme, primo di tutte,
l'essere-oggetto-per-un-soggetto, essendo proprio questa la prima e
più universal forma d'ogni fenomeno, ossia rappresentazione.
Alla sua cosa in sé avrebbe egli dunque dovuto espressamente
toglier la qualità d'essere oggetto; ciò che l'avrebbe
salvato da quella grande, subito scoperta inconseguenza. L'idea
platonica invece è per necessità oggetto, un che di
conosciuto, una rappresentazione: e appunto perciò, ma anche
solo perciò, distinto dalla cosa in sé. Ella ha
semplicemente deposto le subordinate forme del fenomeno, le quali
tutte noi comprendiamo sotto il principio di ragione, o meglio non
ancora è in quelle penetrata; ma la prima e più
universal forma ha ella mantenuto, ossia quella di rappresentazione,
d'essere oggetto per un soggetto. Sono le forme a questa
subordinate, che moltiplicano le idee in singoli ed effimeri
individui, de' quali il numero è affatto indifferente
rispetto all'idea. Il principio di ragione è adunque ancora
la forma in cui s'adagia l'idea, entrando nella conoscenza del
soggetto in quanto individuo. Il singolo oggetto manifestantesi in
conformità del principio di ragione è quindi soltanto
una mediata oggettivazione della cosa in sé (che è la
volontà), tra la qual cosa in sé ed esso oggetto sta
ancora l'idea come unica immediata oggettità della
volontà, non avendo ella preso alcun'altra forma propria del
conoscere in quanto tale, se non quella generica della
rappresentazione, ossia dell'essere oggetto per un soggetto. Quindi
ella sola è anche l'adeguata oggettità della
volontà o cosa in sé, anzi è proprio la cosa in
sé, ma soltanto in forma di rappresentazione: e qui sta la
base della grande concordanza tra Platone e Kant – per quanto, a
tutto rigore, la cosa di cui parlano non sia la medesima. I singoli
oggetti invece non son punto oggettità adeguata della
volontà; bensì questa vi è già
intorbidata da quelle forme di cui è espressione comune il
principio di ragione, e che sono condizione della conoscenza nel
modo in cui questa è possibile all'individuo come tale. Noi
invero, se è lecito trarre deduzione da una possibile
premessa, non conosceremmo più né singoli oggetti,
né casi, né mutamenti, né pluralità; ma
solamente idee, solamente i gradi nella scala dell'oggettivazione di
quell'una volontà della verace cosa in sé coglieremmo
in pura, non disturbata conoscenza, e sarebbe quindi il nostro mondo
un Nunc stans; se come soggetti del conoscere non fossimo in pari
tempo individui, ossia se la nostra intuizione non avesse per
intermediario un corpo, dalle cui affezioni ella muove, ed il quale
è anch'esso soltanto volontà concreta,
oggettità della volontà, ossia oggetto tra oggetti; e
come tale, può entrare nella conscienza conoscente solo nelle
forme del principio di ragione, sì che già presuppone
e quindi introduce il tempo con tutte le altre forme che quel
principio esprime. Il tempo è semplicemente l'immagine divisa
e spezzettata, che un essere individuo ha delle idee, le quali
stanno fuori del tempo, e sono quindi eterne: perciò dice
Platone essere il tempo una mossa immagine dell'eternità:
αιωνος εικων κινητη ὁ χρονος3
§ 33.
Poiché noi adunque come individui non abbiamo conoscenza se
non sottomessa al principio di ragione, e questa forma esclude la
conoscenza delle idee, certo è che quando sia a noi possibile
sollevarci dalla conoscenza delle singole cose a quella delle idee,
ciò può aversi solo accadendo nel soggetto una
mutazione corrispondente ed analoga a quel gran cambiamento nel modo
d'essere dell'oggetto; per la quale il soggetto, in quanto conosce
un'idea, non è più individuo.
Ci sovviene dal precedente libro, che il conoscere in genere
appartiene esso medesimo alla oggettivazione della volontà
nel suo grado più alto; e la sensibilità, i nervi, il
cervello non sono appunto, come altre parti dell'essere organico, se
non espressione della volontà in questo grado della sua
oggettità. Quindi la rappresentazione sorta per loro mezzo
è anch'essa parimenti destinata al servizio di quella, come
un mezzo (μηκανη) pel conseguimento dei suoi fini fattisi complicati
(πολυτελεστερα), per la conservazione di un essere avente molteplici
bisogni. In origine adunque e per natura è la conoscenza in
tutto al servizio della volontà; e come l'oggetto immediato,
che diviene suo punto di partenza mediante l'applicazione della
legge di causalità, non è se non volontà
oggettivata, così rimane anche ogni conoscenza informata al
principio di ragione in un più stretto o più largo
rapporto con la volontà. Imperocché l'individuo trova
che il suo corpo è un oggetto fra oggetti, coi quali tutti il
corpo stesso ha svariate relazioni e riferimenti, secondo il
principio di ragione; sì che la considerazione di quegli
oggetti riconduce pur sempre, in via diretta o indiretta, al proprio
corpo, ossia alla propria volontà. Essendo il principio di
ragione quello che pone gli oggetti in codesto rapporto con il corpo
e quindi con la volontà, deve la conoscenza che alla
volontà è serva essere perciò rivolta
unicamente a conoscer degli oggetti appunto i rapporti stabiliti
secondo il principio di ragione, ossia a tener dietro alle loro
svariate relazioni nello spazio, nel tempo e nella causalità.
Poiché solo in virtù di queste è l'oggetto
interessante per l'individuo, ossia ha un rapporto con la
volontà. Per conseguenza non altro conosce veramente degli
oggetti la conoscenza che sta al servizio della volontà, se
non le relazioni loro; e gli oggetti solo in tanto conosce, in
quanto essi esistono in un tempo, in un luogo, in date circostanze,
in virtù di date cause, con dati effetti – esistono, in una
parola, come singoli oggetti. E se fossero tolte via tutte codeste
relazioni, svanirebbero insieme per la conoscenza anche gli oggetti,
appunto perché questa non conosceva in quelli null'altro.
Neppure dobbiamo dissimularci, che quanto considerano le scienze
negli oggetti non è sostanzialmente altro se non quel che
sopra è detto: cioè le loro relazioni, i rapporti del
tempo, dello spazio, le cause dei mutamenti naturali, il confronto
delle forme, i motivi dei fatti – ossia semplici relazioni.
Ciò che le scienze distingue dalla comune conoscenza è
soltanto la lor forma, il carattere sistematico, l'alleviamento del
conoscere raggiunto col ridurre ogni caso singolo all'universale,
mediante la subordinazione dei concetti, e ottenendo così la
piena compiutezza. Ogni relazione ha pur essa un'esistenza solamente
relativa: per esempio ogni essere nel tempo è anche un
non-essere, perché il tempo per l'appunto non è se non
ciò, per cui mezzo possono a un medesimo oggetto toccare
determinazioni opposte. Quindi ogni fenomeno nel tempo è e
non è: poiché ciò che separa il suo principio
dalla sua fine non è se non tempo, ossia alcunché di
evanescente, inconsistente e relativo, chiamato in questo caso
durata. Eppure il tempo è la più general forma di
tutti gli oggetti della conoscenza posta al servizio della
volontà, ed il prototipo delle rimanenti forme di quella.
Ora, di regola al servizio della volontà rimane la conoscenza
sottomessa ognora, come già per tal servizio ebbe principio;
anzi è dalla volontà germinata, come la testa si
svolge dal tronco. Presso gli animali codesta sommissione della
conoscenza alla volontà non può mai venir meno. Negli
uomini può mancare solo in via d'eccezione, come tosto
vedremo. Tale differenza tra uomo e bruto viene manifestata
esteriormente con la differenza della relazione che in loro passa
tra il capo ed il tronco. Negli animali inferiori sono capo e tronco
ancora del tutto confusi; in ognuno è il capo rivolto a
terra, dove stanno gli oggetti della sua volontà: ed ancor
negli animali superiori sono capo e tronco assai più riuniti
che nell'uomo, il cui capo appare libero al sommo del tronco, solo
da esso portato, non ad esso servendo. Questo umano privilegio
presenta nel massimo grado l'Apollo del Belvedere: il
lungiattornomirante capo del Dio delle Muse poggia così
libero sulle spalle, da apparire in tutto disciolto dal corpo, non
più soggetto alle cure corporali.
§ 34.
Il passaggio dalla volgar conoscenza di singoli oggetti alla
conoscenza dell'idea – possibile, come ho detto, ma da considerarsi
soltanto quale eccezione – avviene d'un subito, pel fatto che la
conoscenza si scioglie dal servigio della volontà, e appunto
perciò il soggetto cessa di essere semplicemente individuale,
diventando soggetto puro della conoscenza, privo di volontà.
E questo non tiene più dietro alle relazioni, secondo il
principio di ragione, bensì posa in ferma contemplazione
dell'oggetto offertogli, e in questa s'immerge.
Ciò richiede di necessità, per esser chiaro, un'ampia
spiegazione. A quanto essa avrà di singolare non si badi per
ora, finché codesta apparente stranezza non venga a
dissiparsi da sé, quando sia stato afferrato nel suo
complesso il pensiero che quest'opera vuole comunicare.
Se, sollevati dalla potenza dello spirito, abbandoniamo la maniera
usuale di considerar le cose e cessiamo di ricercare secondo gli
aspetti del principio di ragione le reciproche relazioni loro, di
cui è ultimo termine sempre la relazione con la nostra
volontà; se quindi non più si considera il dove, il
quando, la causa e la finalità delle cose, ma unicamente
ciò che elle sono; se non lasciamo che il pensare astratto, i
concetti della ragione s'impadroniscano della conscienza,
bensì viceversa tutta la forza dello spirito nostro diamo
all'intuizione, in questa ci sprofondiamo, e la conscienza intera
lasciamo riempire dalla tranquilla contemplazione dell'oggetto
naturale che ci sta innanzi, sia esso un paesaggio, un albero, una
roccia, un edifizio o quel che si voglia; allor che – secondo
un'espressiva locuzione tedesca – ci si perde appieno in
quell'oggetto, ossia si dimentica il proprio individuo, la propria
volontà, e si rimane nient'altro che soggetto puro, chiaro
specchio dell'oggetto, come se l'oggetto solo esistesse, senza che
alcuno fosse là a percepirlo, né più è
possibile separare colui che intuisce dall'intuizione stessa,
poiché sono diventati tutt'uno, essendo l'intera conscienza
riempita e presa da una sola immagine d'intuizione; se adunque in
siffatto modo l'oggetto s'è disciolto da ogni relazione con
altri oggetti fuor di se stesso, e il soggetto s'è disciolto
da ogni relazione con la volontà – allora quel che viene
così conosciuto non è più la singola cosa come
tale, ma è l'idea, l'eterna forma, la diretta
oggettità della volontà in quel grado. E perciò
appunto non è più individuo quegli che è
assorto in tale intuizione, imperocché proprio
l'individualità vi s'è perduta. Egli è invece
puro soggetto della conoscenza, fuori della volontà, del
dolore, del tempo. Quest'affermazione, ora così ostica (della
quale io molto bene so, che conferma il detto di Thomas Paine, du
sublime au ridicule il n'y a qu'un pas), apparirà nel seguito
di mano in mano più chiara e meno stupefacente. Era la stessa
verità che balenava a Spinoza quando scrisse: mens aeterna
est, quatenus res sub aeternitatis specie concipit (Eth., V, prop.
31, schol.)4 In siffatta contemplazione accade insieme d'un tratto,
che il singolo oggetto diventi idea della propria specie; e
l'individuo intuente si faccia puro soggetto del conoscere.
L'individuo come tale conosce solo oggetti singoli; il puro soggetto
del conoscere, solo idee. Imperocché l'individuo è il
soggetto del conoscere nella sua relazione con un determinato,
singolo fenomeno della volontà, ed in servizio di esso.
Codesto singolo fenomeno della volontà è, in quanto
tale, sottomesso al principio di ragione in tutte le sue forme; ogni
conoscenza riferentevisi segue perciò anch'essa il principio
di ragione, e ai fini della volontà nessuna conoscenza vale
se non questa, che per oggetto ha sempre e solamente relazioni.
L'individuo conoscente, come tale, e la singola cosa da lui
conosciuta sono sempre in qualche luogo, in un dato tempo; sono
anelli nella catena delle cause e degli effetti. Il puro soggetto
della conoscenza ed il suo correlato – l'idea – sono usciti fuori da
tutte quelle forme del principio di ragione: il tempo, il luogo,
l'individuo che conosce e l'individuo che viene conosciuto non hanno
per essi alcun significato. Non appena un individuo conoscente si
eleva nel modo indicato a puro soggetto del conoscere, ed appunto
con ciò l'oggetto conosciuto innalza ad idea, si presenta
integro e puro il mondo come rappresentazione, e accade la compiuta
oggettivazione della volontà, perché soltanto l'idea
è sua adeguata oggettità. Questa chiude oggetto e
soggetto parimenti in sé, essendo entrambi la sua unica
forma: ma in lei oggetto e soggetto mantengono appieno l'equilibrio:
e come l'oggetto anche qui non altro è se non la
rappresentazione del soggetto, così anche il soggetto –
perdendosi tutto nell'oggetto intuito – è diventato
quest'oggetto medesimo, in quanto l'intera conscienza non è
che la più limpida immagine di esso. Questa conscienza
appunto – in quanto tutte le idee, ossia i gradi
dell'oggettità della volontà, vengono per suo mezzo
percorse ordinatamente col pensiero – costituisce l'intero mondo
quale rappresentazione. Le singole cose d'ogni tempo e luogo non
sono altro che le idee moltiplicate dal principio di ragione (forma
della conoscenza degli individui in quanto tali) e perciò
turbate nella lor pura oggettità. Come nel mentre appare
l'idea non sono più in lei distinguibili soggetto ed oggetto,
perché sol quando l'uno e l'altro reciprocamente si compiono
e si penetrano appieno balza fuori l'idea, l'adeguata
oggettità della volontà, il vero mondo quale
rappresentazione; così sono anche in tale atto
indistinguibili, come cose in sé, l'individuo conoscente ed
il conosciuto. Perciocché se facciamo astrazione da quel vero
e proprio mondo quale rappresentazione nulla rimane, se non il mondo
come volontà. La volontà è l'in-sé
dell'idea, la quale oggettiva quella compiutamente; la
volontà è anche l'in-sé del singolo oggetto e
dell'individuo che lo conosce: i quali oggettivano quella
incompiutamente. In quanto volontà, fuor della
rappresentazione e di tutte le sue forme, essa è una e
identica nell'oggetto contemplato e nell'individuo, che innalzandosi
a codesta contemplazione diventa conscio di sé come puro
soggetto; oggetto e individuo non sono perciò distinti in
sé, poi che in sé essi sono la volontà, che
quivi conosce se stessa. E pluralità e varietà
consistono soltanto nel modo, in cui ella acquista tale conoscenza,
ossia soltanto nel fenomeno, in grazia della sua forma, che è
il principio di ragione. Come senza l'oggetto, senza la
rappresentazione io non sono soggetto conoscente, bensì
volontà cieca, così senza di me quale soggetto del
conoscere non può la cosa conosciuta essere oggetto,
bensì è pura volontà, impulso cieco. Questa
volontà è in sé, ossia fuor della
rappresentazione, una e identica con la mia; solo nel mondo quale
rappresentazione, la cui forma è sempre almeno di soggetto e
oggetto, veniamo a scinderci in conosciuto e conoscente individuo.
Non appena il conoscere – il mondo quale rappresentazione – è
tolto via, non rimane altro se non pura volontà, cieco
impulso. Il suo farsi oggettità, il divenir rappresentazione,
stabilisce d'un tratto sia soggetto che oggetto. L'essere invece
codesta oggettità pura, compiuta, adeguata oggettità
della volontà, pone l'oggetto come idea, libero dalle forme
del principio di ragione, e il soggetto come puro soggetto della
conoscenza, sciolto dall'individualità e dal servizio della
volontà.
Ora chi al modo sopra detto si è tanto addentro sprofondato e
smarrito nella contemplazione della natura, da non esistere
più se non come puro soggetto conoscente, viene con
ciò senz'altro a sentire che, in quanto tale, egli è
la condizione, egli è che contiene il mondo e ogni esistenza
oggettiva; poi che questa non si presenta più d'ora innanzi
se non come dipendente dall'esistenza sua. Egli trae adunque dentro
a sé la natura, sì da sentirla solo come un accidente
dell'esser suo. In questo senso dice Byron:
Are not the mountains, waves and skies, a part
Of me and of my soul,
as I of them?5
Ma come potrebbe, chi sente così, se stesso credere del tutto
mortale, in contrasto con l'immortale natura? Piuttosto lo
afferrerà la coscienza di ciò che l'Upanishad del Veda
esprime; «Hae omnes creaturae in totum ego sum, et praeter me
aliud ens non est» (Oupnek'hat, I, 122)6.
§ 35.
Per conseguire una più profonda penetrazione nell'essenza del
mondo, è assolutamente necessario apprendere a distinguere la
volontà quale cosa in sé dalla sua adeguata
oggettità; e inoltre i diversi gradi, in cui questa
più limpidamente e compiutamente appare – ossia le idee
stesse – dal semplice fenomeno delle idee nelle forme del principio
di ragione, del circoscritto modo di conoscenza degli individui.
Allora si converrà con Platone, dove egli alle idee sole
attribuisce un vero e proprio essere, riconoscendo invece agli
oggetti nel tempo e nello spazio, a quel che per l'individuo
è il mondo reale, una mera esistenza apparente, a mo' di
sogno. Allora si comprenderà come l'unica e identica idea si
manifesti in così numerosi fenomeni, ed ai conoscenti
individui la sua essenza palesi solo in modo frammentario, un
aspetto dopo l'altro. Anche si distinguerà allora l'idea in
sé dal modo, onde il suo fenomeno si offre all'osservazione
dell'individuo: quella riconoscendo essenziale, e questo invece non
essenziale. Ma vediamo ciò in esempi, prima minimi e poi
massimi. – Quando le nubi trasvolano, le figure ch'esse formano non
sono a loro essenziali, sono anzi a loro indifferenti: ma che le
nubi, essendo elastico vapore, vengano dall'impeto del vento
compresse, cacciate, dilatate, lacerate, questo è natura
loro, è l'essenza delle forze, che in loro si oggettivano,
è l'idea; mentre i lor mutevoli aspetti esistono soltanto per
l'individuale osservatore. – Al rivo, che sui sassi precipita sono i
gorghi, le onde, i disegni di spuma, ch'esso fa vedere, sono
indifferenti ed inessenziali: ma che il rivo obbedisca alla
gravità, e si comporti come liquido non elastico,
mobilissimo, privo di forma, trasparente, questa è la sua
essenza, questa è – se conosciuta intuitivamente – l'idea;
mentre solo per noi, finché noi conosciamo in quanto
individui, esistono quelle forme. Il ghiaccio sui vetri delle
finestre si cristallizza secondo le leggi della cristallizzazione,
le quali rivelano l'essenza della forza naturale quivi
manifestantesi, rappresentano l'idea; ma gli alberi e i fiori, che
quel ghiaccio raffigura, sono inessenziali ed esistono solo per noi.
Ciò che nelle nubi, nel rivo e nel cristallo apparisce,
è il più debole riflesso di quella volontà, che
più compiuta nella pianta, più ancora nell'animale,
compiutissima apparisce nell'uomo. Ma soltanto l'essenziale in tutti
quei gradi della sua oggettivazione costituisce l'idea; viceversa lo
spiegamento di questa, in quanto ella viene disgregata in fenomeni
svariati e multilaterali nelle forme del principio di ragione, non
è all'idea stessa essenziale, ma sta soltanto nel modo di
conoscenza dell'individuo, e ha unicamente per esso la
realtà. Lo stesso vale, necessariamente, anche per lo
spiegarsi di quell'idea, che è la più compiuta
oggettità della volontà: quindi la storia del genere
umano, la folla degli eventi, il mutar dei tempi, i molteplici
aspetti della vita umana in paesi e secoli diversi, tutto questo non
è se non la forma casuale presa dal fenomeno dell'idea, e non
appartiene a questa, nella quale soltanto è l'adeguata
oggettità della volontà, bensì al fenomeno che
cade nella conoscenza dell'individuo, ed è all'idea tanto
estraneo, inessenziale e indifferente quanto sono alle nubi le
figure, ch'esse rappresentano, al rivo la forma dei suoi gorghi e
delle sue spume, e al ghiaccio i suoi alberi e i suoi fiori.
Per chi ha ben compreso questo, e la volontà sa distinguere
dall'idea, e questa dal suo fenomeno, gli eventi del mondo hanno
significato non già in sé e per sé, ma solo in
quanto essi sono i segni dell'alfabeto, mediante i quali si
può leggere l'idea dell'uomo. Quegli non crederà col
volgo, che il tempo generi alcunché di veramente nuovo e
significante; che per esso o in esso qualcosa di effettivamente
reale pervenga ad esistere; o che il tempo medesimo abbia, come un
tutto, principio e fine, norma e sviluppo, e per avventura tenda,
quasi ad estremo termine, al massimo perfezionamento (come il volgo
pensa) del genere ultimo venuto e vivente trent'anni. Perciò
tanto sarà lontano dall'istituire con Omero tutto un Olimpo
pieno di Dèi a guida di quegli eventi temporali, quanto dal
tener con Ossian le forme delle nubi per esseri individuali;
poiché, come s'è detto, l'una e l'altra cosa ha
l'identica significazione, in rapporto all'idea che vi si manifesta.
Negli svariati aspetti della vita umana e nella perenne vicenda
degli eventi, egli terrà come immutabile ed essenziale
soltanto l'idea; nella quale la volontà di vivere trova la
sua più compiuta oggettità, e tutti i suoi vari
aspetti mostra nelle qualità, nelle passioni, negli errori e
nei meriti dell'uman genere – egoismo, odio, amore, paura, audacia,
leggerezza, ottusità, astuzia, spirito, genio, etc. – che
concorrendo ad incorporarsi in forme (individui) svariatissime,
perennemente fanno agire la grande e la piccola storia del mondo. E
in ciò è per sé indifferente se codesta storia
sia messa in moto da un nonnulla o da corone. Quegli troverà
infine, che accade nel mondo come nei drammi di Gozzi, nei quali
agiscono sempre gli stessi personaggi, con la stessa intenzione e lo
stesso destino: sono bensì diversi in ogni dramma i motivi e
gli avvenimenti, ma degli avvenimenti è uno lo spirito. I
personaggi d'un dramma nulla sanno di quanto è accaduto in un
altro, nel quale tuttavia agivano anch'essi: quindi, malgrado tutte
le esperienze dei drammi precedenti, Pantalone non diviene
più destro e più generoso, Tartaglia più
onesto, Brighella più audace e Colombina più
costumata.
Posto che fosse a noi concesso gettare un limpido sguardo sul regno
della possibilità e su tutte le concatenazioni di cause e di
effetti, balzerebbe fuori lo spirito della terra e ci mostrerebbe in
un quadro i più eminenti individui, luci del mondo, eroi, che
il caso ha distrutto prima che venisse il tempo della loro azione –
poi i grandi eventi, che avrebbero mutato la storia del mondo e
generato periodi di altissima e illuminata cultura, se non li avesse
soffocati nel nascere il più cieco accidente, il caso
più insignificante; e infine le magnifiche forze di grandi
individui, che avrebbero potuto fecondare tutta un'era del mondo, ma
che sviati da errore o da passione, o costretti da necessità,
quelle forze sterilmente dissiparono in oggetti indegni e
infruttiferi, o addirittura sprecarono come in un giuoco. Se tutto
questo vedessimo, avremmo da rabbrividire e da gemere pei tesori
perduti d'intere epoche del mondo. Ma lo spirito della terra
sorriderebbe, dicendo: «La fonte, dalla quale gl'individui e
le loro forze rampollano, è inesauribile e infinita come il
tempo e lo spazio: imperocché quelli sono, sì come
queste forme d'ogni fenomeno, null'altro se non fenomeni,
visibilità della volontà. Quella infinita sorgente non
può essere esausta da una misura finita: quindi ad ogni
evento oppure opera soffocati in germe, rimane aperta sempre, per
riprodursi, una giammai diminuita infinità. In questo mondo
del fenomeno è tanto poco possibile una vera perdita, come un
vero guadagno. La volontà sola è: ella, la cosa in
sé, ella, la sorgente di tutti quei fenomeni. La sua
autocoscienza, e l'affermazione o negazione, che ne procede,
è l'unico evento in sé»7
§ 36.
Al filo degli eventi tien dietro la storia: ella è
prammatica, in quanto deduce quelli secondo la legge di motivazione,
la qual legge determina la manifestantesi volontà, dove
questa è illuminata dalla conoscenza. Nei gradi inferiori
della sua oggettità, dove ancora agisce senza conoscenza,
è la scienza naturale, che studia come etiologia le leggi
delle variazioni dei suoi fenomeni, e quanto è in essi
permanente studia come morfologia; la quale allevia il suo compito
quasi infinito con l'aiuto dei concetti, raccogliendo il generale
per ricavarne il particolare. Infine le semplici forme, nelle quali
– per la conoscenza del soggetto in quanto individuo – appariscono
le idee scisse nella pluralità, ossia tempo e spazio, sono
studiate dalla matematica. Tutte queste, che hanno il nome comune di
scienze, seguono il principio di ragione nei suoi vari
atteggiamenti, e la materia loro è sempre il fenomeno, le sue
leggi, i suoi nessi, e i rapporti che ne derivano. Ma qual maniera
di conoscenza studia ciò che stando fuori e indipendente da
ogni relazione è in verità la sola cosa essenziale del
mondo, la vera sostanza dei suoi fenomeni, a nessun mutamento
soggetta e quindi in ogni tempo con pari verità conosciuta –
in una parola, le idee, che sono l'immediata e adeguata
oggettità della cosa in sé, della volontà?
È l'arte, l'opera del genio. Ella riproduce le eterne idee
afferrate mediante pura contemplazione, l'essenziale e il permanente
in tutti i fenomeni del mondo; ed a seconda della materia in cui
riproduce, è arte plastica, poesia o musica. Sua unica
origine è la conoscenza delle idee; suo unico fine la
comunicazione di questa conoscenza. Mentre la scienza, tenendo
dietro all'incessante e instabile flusso di cause ed effetti
quadruplicemente atteggiati, ad ogni mèta raggiunta viene di
nuovo sospinta sempre più lontano e non mai può
trovare un termine vero, né un pieno appagamento, più
di quanto si possa raggiungere correndo il punto in cui le nubi
toccano l'orizzonte; l'arte all'opposto è sempre alla sua
mèta. Imperocché ella strappa l'oggetto della sua
contemplazione fuori dal corrente flusso del mondo e lo tiene
isolato davanti a sé: e quest'oggetto singolo, ch'era in quel
flusso una infinitamente minima parte, diviene per lei un
rappresentante del tutto, un equivalente del molteplice infinito
nello spazio e nel tempo: a questo singolo ella s'arresta: ella
ferma la ruota del tempo: svaniscono per lei le relazioni: soltanto
l'essenziale, l'idea, è suo oggetto. Noi possiamo adunque
senz'altro indicarla come il modo di considerar le cose
indipendentemente dal principio di ragione all'opposto della
considerazione che appunto di tal principio tien conto, la quale
è la via dell'esperienza e della scienza. Quest'ultima
maniera di considerazione va paragonata ad una linea orizzontale
corrente all'infinito; la prima, invece, alla verticale che la
taglia in qualsivoglia punto. Quella che tien dietro al principio di
ragione è la maniera razionale, che nella vita pratica, come
nella scienza, sola vale e soccorre; quella che prescinde dal
contenuto del principio stesso è la maniera geniale, che sola
vale e soccorre nell'arte. La prima è la maniera di
Aristotele; la seconda, in complesso, quella di Platone. La prima
somiglia al violento uragano, che senza principio e fine trascorre,
e tutto piega, scuote, trascina con sé: la seconda al placido
raggio di sole, che traversa la via di quell'uragano senza esserne
scosso. La prima somiglia alle innumerabili, impetuosamente agitate
gocce della cascata, che sempre mutando non posano un attimo: la
seconda al placido arcobaleno, che poggia su questo tumulto furioso.
Solo mediante la pura contemplazione sopra descritta, assorbentesi
intera nell'oggetto, vengono colte le idee, e l'essenza del genio
sta appunto nella preponderante attitudine a tale contemplazione: e
poi che questa richiede un pieno oblio della propria persona e dei
suoi rapporti, ne viene che genialità non è altro se
non la più completa obiettità, ossia direzione
obiettiva dello spirito, contrapposta alla direzione subiettiva, che
tende alla propria persona, ossia alla volontà. Quindi
genialità è l'attitudine a contenersi nella pura
intuizione, a perdersi nell'intuizione, e la conoscenza, che in
origine esiste soltanto in servizio della volontà, sottrarre
a codesto servizio; ossia il proprio interesse, il proprio volere, i
propri fini perdere affatto di vista, e così spogliarsi
appieno per un certo tempo della propria personalità per
rimanere alcun tempo qual puro soggetto conoscente, chiaro occhio
del mondo. E ciò non per pochi istanti; ma così
durevolmente e con tanta conscienza, quanto è necessario per
riprodurre con meditata arte il conosciuto, e «ciò che
fluttua in ondeggiante apparizione fissare in durevoli
pensieri». Gli è come se – perché il genio si
riveli in un individuo – dovesse a questo esser toccata in sorte una
tal misura di forza conoscitiva, da superar di molto quella che
occorre al servizio d'una volontà individuale; e questo
più di conoscenza, divenuto libero, diventa allora un
soggetto sciolto da volontà, un lucido specchio dell'essenza
del mondo. Così si spiega la vivacità spinta
all'irrequietezza in individui geniali, di rado potendo loro bastare
il presente, perché non riempie la loro conscienza; questo da
loro quella tensione senza posa, quell'incessante ricerca di oggetti
nuovi e degni di considerazione, quindi anche quell'ansia quasi mai
appagata di trovare esseri a loro somiglianti, fatti per loro, coi
quali possano comunicare; mentre l'ordinario figlio della terra,
tutto riempito ed appagato dall'ordinario presente, in esso si
assorbe, e trovando inoltre dappertutto pari suoi, possiede quello
speciale benessere nella vita quotidiana, che al genio è
negato. S'è riconosciuto come parte essenziale della
genialità la fantasia, anzi talora la si è tenuta
identica a quella: nel primo caso con ragione, a torto nel secondo.
Imperocché oggetti del genio in quanto tale sono le eterne
idee, le permanenti essenziali forme del mondo e di tutti i suoi
fenomeni; ma la conoscenza dell'idea è, per necessità,
intuitiva, non astratta: in tal modo sarebbe la conoscenza del genio
limitata alle idee degli oggetti effettivamente presenti alla sua
persona, e dipendenti dalla catena delle circostanze che a lui
lì condussero, se la fantasia non allargasse il suo orizzonte
molto di là dalla realtà della sua personale
esperienza e non lo ponesse in grado di ricostruire, dal poco che
è venuto nella sua effettiva appercezione, tutto il
rimanente; e così far passare davanti a sé quasi tutte
le possibili immagini della vita. Inoltre, gli oggetti reali quasi
sempre non sono che manchevoli esemplari dell'idea in loro
manifestantesi: quindi il genio ha bisogno della fantasia, per veder
nelle cose non ciò che la natura ha in effetti formato,
bensì ciò ch'ella si sforzava di formare, ma che a
causa della lotta – nel precedente libro ricordata – delle sue forme
tra loro, non è riuscita a compiere. Torneremo su questo
proposito in seguito, trattando della scultura. La fantasia allarga
dunque la cerchia visuale del genio oltre gli oggetti offrentisi in
realtà alla sua persona; e l'allarga sia per la
qualità che per la quantità. Quindi una non comune
forza della fantasia è compagna, anzi condizione della
genialità. Invece, quella non è prova di questa; anzi,
possono anche uomini tutt'altro che geniali aver molta fantasia.
Imperocché come si può considerare un oggetto reale in
due modi opposti – o in modo puramente obiettivo, geniale, cogliendo
l'idea di esso, o in modo comune, sol nelle sue relazioni con altri
oggetti e con la propria volontà, conformi al principio di
ragione – così anche un fantasma si può considerare
nell'un modo e nell'altro: nel primo, esso è un mezzo per la
conoscenza dell'idea, della quale è comunicazione l'opera
d'arte; nel secondo, il fantasma è impiegato a costruir
castelli in aria, che piacciono al nostro egoismo e al nostro
capriccio, e momentaneamente ingannano e rallegrano. E così,
facendo dei fantasmi in tal guisa intrecciati, vengono invero
conosciute sempre le sole relazioni. Chi pratica questo giuoco
è un cervello fantastico: facilmente confonderà le
immagini, della sua fantasia, come fanno i romanzi ordinari d'ogni
specie, che sollazzano i pari suoi ed il gran pubblico, per
ciò che i lettori sognano di trovarsi al posto dell'eroe e
trovano quindi il racconto molto piacevole.
L'uomo comune, questa mercé all'ingrosso della natura, che ne
produce migliaia al giorno, è, come abbiamo detto, capace
solo fugacemente di guardare le cose in maniera affatto
disinteressata in ogni senso – ciò che costituisce la vera
contemplazione. Può alle cose volgere la sua attenzione solo
in quanto esse abbiano una qualsiasi relazione, anche se molto
indiretta, con la sua volontà. Poi che sotto questo riguardo,
il quale sempre richiede solamente la conoscenza delle relazioni,
è bastevole ed anzi è spesso più valido il
concetto astratto della cosa, non s'indugia a lungo l'uomo comune
nell'intuizione pura, e quindi non poggia a lungo lo sguardo sopra
un oggetto; bensì egli cerca sollecito in tutto ciò,
che gli si offre, soltanto il concetto, al quale la cosa va
ricondotta, come l'accidioso cerca la sedia – e non se ne interessa
più oltre. Perciò si sbriga di tutto così alla
svelta: di opere d'arte, di belli oggetti naturali, e dell'ognora
significante spettacolo della vita in tutte le sue scene. Egli non
s'indugia: cerca soltanto la sua strada nella vita, o anche, per
ogni caso, tutto ciò che potrebbe essere un giorno la sua
strada, ossia cerca notizie topografiche nel senso più ampio
della parola: con l'osservazione della vita stessa come tale non sta
a perder tempo. L'uomo geniale invece, la cui forza conoscitiva si
sottrae, per la propria prevalenza, al servizio della sua
volontà, si trattiene a considerar la vita per se stessa, si
sforza di raggiunger l'idea d'ogni cosa, e non già le
relazioni di ciascuna con le altre: perciò trascura sovente
la considerazione del suo proprio cammino nella vita, e lo percorre
quindi il più delle volte in modo abbastanza maldestro.
Mentre per l'uomo comune il proprio patrimonio conoscitivo è
la lanterna, che illumina la strada, esso è per l'uomo
geniale il sole, che disvela il mondo. Questa sì dissimile
maniera di guardar dentro alla vita, si fa presto visibile perfino
dall'apparenza esterna dei due. Lo sguardo dell'uomo, in cui il
genio vive e opera, fa distinguere costui facilmente, perché,
vivace e fermo insieme, ha il carattere della contemplazione; quale
possiamo vedere nelle immagini delle poche teste geniali, che la
natura ha di quanto in quanto prodotto fra gli innumeri milioni.
Invece nell'occhio dell'altro – quando non sia, come è il
più spesso, opaco o insignificante – si osserva facilmente il
vero contrapposto della contemplazione: il cercare. Per conseguenza
l'«espressione geniale di una testa consiste nel palesarvisi
un risoluto prevaler del conoscere sul volere, e quindi anche
nell'esprimervisi un conoscere senz'alcuna relazione con un volere,
ossia un puro conoscere». Viceversa, in teste quali sono di
regola, predomina l'espressione del volere, e si vede che il
conoscere entra sempre in azione solo in seguito a spinta del
volere, e perciò è sempre indirizzato secondo motivi.
Poi che la conoscenza geniale, ossia conoscenza dell'idea, è
quella che non segue il principio di ragione, l'altra invece che lo
segue dà nella vita saggezza e raziocinio, e produce le
scienze; perciò individui geniali avranno quelle
manchevolezze che trae con sé la trascuranza dell'altro modo
di conoscere. Tuttavia va qui notata la restrizione, che ciò
ch'io verrò dicendo sotto tale riguardo, li tocca solo in
quanto e mentre essi sono veramente in atto di aver la conoscenza
geniale, e questo non è punto il caso in ogni momento di lor
vita; imperocché la grande – sebbene spontanea – tensione,
che si richiede per vedere le idee fuori della volontà,
necessariamente si rilascia ed ha grandi pause; in cui gli uomini
geniali vengono, sia riguardo ai pregi che ai difetti, su per
giù a somigliare agli uomini comuni. Perciò s'è
dai tempi più remoti indicata l'attività del genio
come un'ispirazione; anzi, secondo esprime la parola stessa, come
l'attività di un essere sovrumano distinto dall'individuo
medesimo, che sol periodicamente s'impadronisce di questo. La
ripugnanza degli individui geniali a diriger l'attenzione sul
contenuto di principio di ragione, si rivelerà dapprima
rispetto al principio d'esistenza, come ripugnanza per la
matematica, la cui cognizione va alle forme più universali
del fenomeno, tempo e spazio, che per l'appunto non sono se non
forme del principio di ragione; ed è quindi proprio l'opposto
di quella cognizione, che cerca viceversa il contenuto del fenomeno,
l'idea esprimentevisi dentro, prescindendo da ogni relazione.
Inoltre anche la trattazione logica della matematica
ripugnerà al genio, perché questa, sbarrando la via
alla vera e propria penetrazione, non appaga; bensì,
presentando semplicemente una catena di sillogismi, secondo il
principio della ragione di conoscenza, tra tutte le forze dello
spirito occupa prevalentemente la memoria, per tenere ognora
presenti le proposizioni anteriori, a cui ci si riferisce. Anche
l'esperienza ha confermato, che grandi genii dell'arte non hanno
alcuna attitudine per la matematica: mai è esistito un uomo
eccellente in pari tempo nell'una e nell'altra. Alfieri narra di non
aver mai potuto capire neppur il quarto teorema di Euclide. A Goethe
la mancanza di cognizioni matematiche fu a sazietà
rimproverata dagli stolti avversari della sua teoria dei colori: e
invero quivi, dove non si trattava di calcolare e misurare su dati
ipotetici, bensì d'immediata conoscenza intuitiva della causa
e dell'effetto, era quel rimprovero così storto e fuori
posto, che coloro hanno appunto tanto con esso mostrato alla luce
del giorno la lor completa assenza di ragione, quanto con le altre
lor sentenze degne del re Mida. Che oggi ancora, quasi un mezzo
secolo dopo l'apparir della teoria goethiana dei colori, possano
perfino in Germania rimanere indisturbate in possesso delle cattedre
le fandonie neutoniane, e che si continui in tutta serietà a
discorrere delle sette luci omogenee e della lor varia
rifrangibilità, conterà un giorno tra le maggiori
caratteristiche intellettuali dell'umanità in genere e del
germanesimo in ispecie. Con lo stesso motivo sopra indicato si
spiega il fatto notissimo, che viceversa eccellenti matematici hanno
poca comprensione per le opere delle arti belle; secondo è
espresso in modo particolarmente ingenuo dal noto aneddoto di quel
matematico francese, che dopo aver letta l'Ifigenia di Racine
domandò alzando le spalle: Qu'est-ce-que cela prouve? Poi che
inoltre un'acuta comprensione dei rapporti secondo la legge di
causalità e motivazione costituisce l'intelligenza, mentre la
conoscenza geniale non è rivolta alle relazioni, ne viene che
un uomo intelligente, in quanto e nel mentre è tale, non ha
genio; e l'uomo di genio, in quanto e nel mentre è tale, non
è intelligente. Infine la conoscenza intuitiva in genere, nel
cui dominio esclusivo è l'idea, sta proprio di fronte alla
conoscenza razionale o astratta, guidata dal principio di ragione
del conoscere. È anche raro, com'è noto, trovar grande
genialità unita a predominante ragionevolezza, che anzi al
contrario individui geniali sono spesso in preda ad effetti violenti
e irragionevoli passioni. E di ciò non è punto causa
debolezza di ragione, bensì, in parte, eccezionale energia di
tutto il fenomeno della volontà, che forma l'uomo di genio, e
che si manifesta con la vivacità di tutti gli atti volitivi;
e in parte predominio della conoscenza intuitiva, mediante sensi e
intelletto, sull'astratta; quindi tendenza risoluta al campo
intuitivo; – l'espressione del quale, energica in sommo grado, di
tanto supera negli uomini geniali gl'incolori concetti, che non
più questi, bensì quella dirige l'azione divenuta
appunto perciò irrazionale: e per conseguenza l'impressione
del presente è su di loro potentissima, li trascina all'atto
inconsapevole, all'affetto, alla passione. Anche perciò, e
soprattutto perché la lor conoscenza s'è in parte
sottratta al servizio della volontà, nella conversazione
baderanno non tanto alla persona, con la quale parlano, quanto alla
cosa di cui parlano, che vivacemente aleggia loro dinnanzi: quindi
giudicheranno in un modo troppo obiettivo, senza riguardo al proprio
interesse, o racconteranno, invece di tacere, cose che prudenza
vorrebbe taciute, e così via. Quindi, finalmente, sono
inclinati a monologare, e possono in genere lasciar scorgere in
sé tante debolezze, da avvicinarsi davvero alla follia. Che
genialità e pazzia abbiano un lato in cui confinano, anzi si
confondono, fu osservato sovente; e perfino l'estro poetico fu detto
una specie di pazzia: amabili insania lo chiama Orazio (Od. III, 4),
e «graziosa follia» Wieland nell'introduzione
dell'Oberon. Lo stesso Aristotele, secondo riferisce Seneca (de
tranq. animi, 15, 16) avrebbe detto: «Nullum magnum ingenium
sine mixtura dementiae fuit». Il medesimo esprime Platone, nel
sopracitato mito della caverna oscura (de Rep. 7), col dire: Coloro,
che fuor della caverna hanno contemplata la vera luce solare e le
cose davvero esistenti (le idee), non possono rientrando nella
caverna più nulla vedere, perché i loro occhi hanno
perduto l'abitudine dell'oscurità, né più sanno
distinguere lì sotto le ombre; ed essi vengono perciò
nei loro errori derisi dagli altri, che non sono mai usciti da
questa caverna e da queste ombre. Egli dice anche espressamente nel
Fedro (p. 317) che senza qualche follia non può darsi poeta
vero; anzi (p. 327) che ciascuno, il quale nelle effimere cose
conosca le eterne idee, apparisce qual folle. Pur Cicerone
riferisce: «Negat enim, sine furore, Democritus, quemquam
poëtam magnum esse posse, quod idem dicit Plato» (de
divin. I, 37). E finalmente dice Pope:
Great wits to madness sure are near allied,
And thin partitions do
their bounds divide8.
Particolarmente istruttivo a questo proposito è il Torquato
Tasso di Goethe; dove questi ci pone innanzi agli occhi non solo il
dolore, il martirio proprio del genio in quanto tale, ma anche il
suo perenne inclinar verso la follia. Infine l'immediato contatto
tra genialità e pazzia è confermato dalle biografie di
uomini genialissimi – per esempio Rousseau, Byron, Alfieri –, e da
aneddoti delle altrui vite; per converso devo ricordare d'aver
trovato, visitando frequentemente i manicomi, taluni soggetti dotati
di capacità innegabilmente grandi, la cui genialità
traluceva palese attraverso la follia; la quale nondimeno aveva qui
preso del tutto il sopravvento. Ora, questo fatto non può
essere attribuito al caso, perché da un lato il numero dei
pazzi è relativamente assai piccolo, mentre dall'altro un
individuo geniale è un fenomeno raro oltre ogni comune
misura, e sol come straordinaria eccezione comparisce nella natura:
basti a persuadercene il contare i genii davvero grandi che tutta
intera l'Europa ha prodotto nell'era antica e nella moderna – ma
comprendendovi soltanto gli autori di opere che in ogni tempo hanno
conservato un durevole valore per l'umanità – e il numero di
questi singoli paragonar coi 250 milioni d'uomini che, rinnovandosi
di trenta in trent'anni, costantemente vivono in Europa. Ancora, non
voglio tacere che varie persone ho conosciuto, dotate d'una
superiorità intellettuale sicura, se pur non considerevole,
che in pari tempo dimostravano una leggera aria di follia. Da questo
può apparire che ogni elevazione dell'intelletto sopra il
livello comune, essendo un carattere anormale, già disponga
alla follia. Nondimeno voglio nel modo più breve possibile
esporre la mia opinione sul motivo puramente intellettuale di quella
parentela tra genialità e follia, poiché codesto esame
contribuirà senza dubbio a chiarire la vera essenza della
genialità, ossia di quella proprietà dello spirito che
sola può produrre vere opere d'arte. Ma questo rende
necessario anche un breve esame della follia9.
Un chiaro, compiuto riconoscimento dell'essenza della follia; un
esatto e limpido concetto di ciò che propriamente distingue
il folle dal savio, non s'è ancora, per quanto io sappia,
trovato. Né ragione, né intelletto si possono negare
ai folli; imperocché questi discorrono e intendono, anzi
spesso ragionano molto bene; di regola intuiscono con giustezza
ciò ch'è loro presente, e scorgono il rapporto tra
causa ed effetto. Visioni, simili a fantasmagorie febbrili, non sono
punto un ordinario sintomo di follia: il delirio altera la
percezione, la follia altera i pensieri. Il più delle volte
invero non errano i folli nella cognizione dell'immediato presente,
bensì il lor farneticare si riferisce ognora all'assente e
passato, e solo per tal via al rapporto di quello col presente.
Perciò adunque sembra a me che il loro male tocchi
particolarmente la memoria; non già nel senso che questa
manchi ad essi del tutto (che molti sanno a memoria molto, e
riconoscono talora persone da tempo non vedute), ma che il filo
della memoria sia rotto, smarrita la concatenazione costante di
quella, e reso impossibile un regolare coordinato risovvenirsi di
ciò che fu. Singole scene del passato si presentano con
giustezza, come l'isolato presente: ma nel risalire indietro
s'incontrano lacune, che i folli riempiono con fantasie, le quali o
essendo sempre le medesime diventano idee fisse (e allora si ha
monomania, malinconia) o cambiano ogni volta, in forma
d'immaginazioni momentanee (chiamandosi in questo caso stravaganza,
fatuitas). Perciò è tanto difficile ricavar da un
folle, nel suo entrare in manicomio, informazioni sulla sua vita
passata. Sempre più viene a confondersi nella sua memoria il
vero col falso. Per quanto sia conosciuto rattamente l'immediato
presente, lo si altera mediante la fittizia connessione con un
immaginario passato: i folli ritengono quindi se stessi, o altri,
identici a persone che esistono soltanto nel loro chimerico passato,
non riconoscono invece talune persone note, ed hanno così,
pur rappresentandosi con esattezza il singolo presente, ognora false
relazioni di questo con l'assente. Quando la follia raggiunge un
alto grado, viene una completa assenza di memoria, per cui il folle
diventa affatto incapace di riferirsi ad alcunché di assente
o di passato, ma è determinato esclusivamente dalla fantasia
momentanea, in rapporto con le chimere che nel suo capo riempiono il
passato. Allora non si è mai sicuri un istante, vicino a lui,
dalla violenza o assassinio, quando non gli si tenga ognora davanti
agli occhi la forza dominatrice. Il modo di conoscere del folle ha
di comune con l'animale, l'essere entrambi limitati al presente; ma
questo li distingue: che l'animale non ha propriamente alcuna
rappresentazione del passato come passato, per quanto esso agisca
sull'animale stesso per il mezzo dell'abitudine, sì che a mo'
d'esempio il cane riconosce anche dopo anni il suo antico padrone,
ossia riceve l'usata impressione dal suo sguardo, pur non avendo
nessun ricordo del tempo da allora trascorso: mentre il folle invece
reca pur sempre nella sua ragione un passato in abstracto, ma
però falso, che per lui solo esiste; e questo, o rimane
costante, o varia a momenti. Ora, l'influsso di questo falso passato
impedisce anche quell'uso del presente, conosciuto con giustezza,
che l'animale tuttavia può fare. Che intensa vita
intellettuale, inattesi orribili eventi producono spesso follia, io
mi spiego nel modo seguente. Ciascuna di quelle sofferenze è
sempre, in quanto evento reale, limitata al presente; quindi
passeggera e perciò non mai oltremisura grave; smisuratamente
grande si fa solo col diventar dolore fisso. Ma come tale, esso non
è più che un pensiero, e sta quindi nella memoria.
Ora, se un tale affanno, una tal dolorosa consapevolezza o memoria
è di tanto tormento da riuscire affatto intollerabile, tanto
che l'individuo finirebbe col soggiacervi, – allora la natura in
sì estremo grado angosciata ricorre alla follia, come
all'estrema àncora di salvamento della vita: lo spirito,
cotanto travagliato, fa come se strappasse il filo della propria
memoria, riempie le lacune con chimere, e da un dolore
intellettuale, che soverchia le sue forze, si rifugia nella follia –
come si amputa un membro preso dalla cancrena e lo si sostituisce
con altro di legno. Per esempio si consideri Aiace furioso, il re
Lear e Ofelìa: imperocché le creature del genio vero,
che sole si possono qui allegare, essendo a tutti note, sono per la
lor verità da tenersi come persone reali; e d'altronde in
ciò dimostra esattamente lo stesso anche la frequente
esperienza effettiva. Una lontana somiglianza con quella maniera di
passaggio dal dolore alla follia si scorge nel cercare che tutti
spesso facciamo, di allontanare quasi meccanicamente un penoso
ricordo, il quale improvviso ci sopravvenga, con una qualsiasi
esclamazione o con un movimento, distogliendo noi stessi di
là, distraendocene con violenza.
Se vediamo adunque il folle ben conoscere, nel modo indicato, il
singolo presente, e anche qualche singolo passato, ma misconoscerne
le relazioni e quindi errare e farneticare, proprio in ciò
è il suo punto di contatto con l'individuo geniale.
Imperocché anche il geniale, tralasciando la conoscenza delle
relazioni conforme al principio di ragione, per vedere e cercar
nelle cose soltanto l'idea loro, afferrare la lor vera essenza come
intuitivamente gli si rivela (per la quale essenza un oggetto
rappresenta tutta intera la sua specie, sì che, dice Goethe,
un caso vale per mille), – anche il geniale perde con ciò di
vista la conoscenza del nesso che lega le cose: il singolo oggetto
della sua contemplazione, oppure il presente, da lui con eccessiva
vivezza percepito, gli appariscono in così chiara luce, che i
rimanenti anelli della catena a cui quelli appartengono vengono di
conseguenza a trovarsi nell'ombra; la qual cosa produce fenomeni,
che hanno con quelli della follia una somiglianza da tempo
riconosciuta. Quel che in una singola cosa non esiste se non
incompiutamente e indebolito da modificazioni, il modo di vedere del
genio Io innalza fino all'idea, al compiuto: da per tutto quindi il
genio vede estremi, e appunto perciò la sua azione va sempre
all'estremo: non sa cogliere la giusta misura, gli manca la
temperanza, e il risultato è quel che s'è detto.
Conosce le idee appieno, ma non gl'individui. Perciò un
poeta, come fu osservato, può conoscere intimamente e a fondo
l'uomo, molto male invece gli uomini: egli è facile a essere
ingannato, ed è un trastullo in mano degli astuti10.
§ 37.
Sebbene adunque, come risulta dalla nostra esposizione, il genio
consista nella capacità di conoscere, indipendentemente dal
principio di ragione, le idee delle cose invece che i singoli
oggetti, i quali soltanto nelle relazioni hanno la loro esistenza; e
di essere, di fronte alle idee, il correlato stesso dell'idea, ossia
non più un individuo, bensì puro soggetto del
conoscere; – deve tuttavia questa capacità trovarsi in minore
e diverso grado presso gli uomini tutti: poiché altrimenti
sarebber questi altrettanto incapaci di goder le opere dell'arte,
quanto di produrle, e in genere non possederebbero per il bello e
l'elevato sensibilità alcuna; anzi queste parole non
avrebbero per loro alcun senso. Dobbiamo dunque ammetter come
esistente in tutti gli uomini – se per avventura non ve n'ha affatto
incapaci d'ogni godimento estetico – quel potere di conoscer nelle
cose le idee rispettive, e spogliarsi così per un istante
della loro personalità. Il genio ha di fronte ad essi il solo
vantaggio di possedere in maggior grado e più durevolmente
quel modo di conoscere; vantaggio che gli permette di mantenere in
questa conoscenza la riflessione necessaria per riprodurre a
volontà, in un'opera, ciò che ha conosciuto in tal
modo; e codesta riproduzione è l'opera d'arte. Con l'opera
d'arte il genio comunica agli altri l'idea percepita. L'idea rimane
dunque immutata e identica: uno e identico è anche il piacere
estetico relativo, sia esso prodotto da un'opera dell'arte o
direttamente dall'intuizione della natura e della vita. L'opera
d'arte è semplicemente un mezzo per rendere più facile
quella conoscenza in cui consiste il piacere estetico. Lo svelarsi a
noi dell'idea meglio nell'opera d'arte, che non direttamente dalla
natura e dalla realtà, dipende dal fatto che l'artista, il
quale l'idea sola e non la realtà conobbe, nell'opera sua
appunto l'idea pura ha riprodotto, l'ha isolata dalla realtà,
tralasciando ogni causalità perturbatrice. L'artista ci fa
attraverso i suoi occhi guardare dentro al mondo. L'aver questi
occhi, il conoscer nelle cose l'essenziale, che sta fuor d'ogni
relazione, è proprio il dono del genio, la qualità
innata; ma l'essere in grado di comunicare anche a noi questo dono,
dare a noi i suoi occhi, è la qualità acquisita, la
tecnica dell'arte. Perciò dopo aver nelle pagine precedenti
esposta l'intima natura della conoscenza estetica nelle sue linee
più generiche, il più minuto esame filosofico del
bello e del sublime, che ora segue, mostrerà entrambi nella
natura e nell'arte insieme, senza continuare a distinguere. Vedremo
dapprima quel che accade nell'uomo, quando il bello lo tocca, e
quando il sublime: se poi questa commozione egli l'attinga
direttamente dalla natura, dalla vita, oppure ne sia partecipe solo
per mezzo dell'arte, non costituisce un'essenziale bensì
appena un'esteriore differenza.
§ 38.
Abbiamo trovato nella contemplazione estetica due inseparabili
elementi: la conoscenza dell'oggetto, non come cosa singola, ma come
idea platonica, ossia come permanente forma di tutta questa specie
d'oggetti; quindi la coscienza del conoscente, non come individuo,
ma come puro, libero dalla volontà soggetto della conoscenza.
La condizione per cui entrambi gli elementi si mostrano sempre uniti
vedemmo essere il tralasciare la conoscenza legata al principio di
ragione, la quale è invece la sola che possa servire alla
volontà, com'anche alla scienza. Anche il piacere suscitato
dalla contemplazione del bello vedremo nascere da quei due elementi;
or più dall'uno, or più dall'altro, secondo l'oggetto
della contemplazione estetica.
Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da
sofferenza. A questa dà fine l'appagamento; tuttavia per un
desiderio, che venga appagato, ne rimangono almeno dieci
insoddisfatti; inoltre, la brama dura a lungo, le esigenze vanno
all'infinito; l'appagamento è breve e misurato con mano
avara. Anzi, la stessa soddisfazione finale è solo apparente:
il desiderio appagato dà tosto luogo a un desiderio nuovo:
quello è un errore riconosciuto, questo un errore non
conosciuto ancora. Nessun oggetto del volere, una volta conseguito,
può dare appagamento durevole, che più non muti:
bensì rassomiglia soltanto all'elemosina, la quale gettata al
mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo
tormento. Quindi finché la nostra conscienza è
riempita dalla nostra volontà; finché siamo
abbandonati alla spinta dei desiderii, col suo perenne sperare e
temere; finché siamo soggetti del volere, non ci è
concessa durevole felicità né riposo. Che noi andiamo
in caccia o in fuga; che temiamo sventura o ci affatichiamo per la
gioia, è in sostanza tutt'uno; la preoccupazione della
volontà ognora esigente, sotto qualsivoglia aspetto, empie e
agita perennemente la conscienza; e senza pace nessun benessere
è mai possibile. Così posa il soggetto del volere
senza tregua sulla volgente ruota d'Issione, attinge ognora col
vaglio delle Danaidi, è l'eternamente struggentesi Tantalo.
Ma quando una causa esteriore, o un'interna disposizione ci trae
all'improvviso fuori dall'infinita corrente del volere, e la
conoscenza sottrae alla schiavitù della volontà, e
quando l'attenzione non è più rivolta ai motivi del
volere, bensì percepisce le cose sciolte dal loro rapporto
col volere, ossia le considera senza interesse, senza
soggettività, in modo puramente obiettivo, dandosi tutta ad
esse, in quanto esse sono pure rappresentazioni e non motivi: allora
sopravviene d'un tratto, spontaneamente, la pace ognora cercata
sulla prima via, la via del volere, e ognora sfuggente; e noi ci
sentiamo benissimo. È lo stato senza dolore, che Epicuro
lodò come il massimo bene, e come condizione degli Dei:
poiché noi siamo, per quell'istante, liberati dalla bassa
ansia della volontà, celebriamo il sabba dei lavori forzati;
e la ruota d'Issione si ferma.
Ed è questo appunto lo stato, ch'io ho descritto più
sopra come necessario per la conoscenza dell'idea quale pura
contemplazione, assorbimento nell'intuizione, smarrimento di
sé nell'oggetto, oblio d'ogni individualità,
abolizione della conoscenza che segue il principio di ragione e
soltanto le relazioni afferra; è lo stato, in cui d'un subito
e indissociabilmente s'innalza il singolo oggetto intuito all'idea
della sua specie, e l'individuo conoscente a puro soggetto del
conoscere fuori della volontà; sì che entrambi, in
quanto tali, non stanno più nella corrente del tempo e di
tutte le altre relazioni. È tutt'uno, allora, se il sole che
sorge si vegga da un carcere o da un palazzo.
Interna disposizione, prevalenza del conoscere sul volere possono in
qualsivoglia condizione produrre questo stato. Ce lo dimostrano
quegli eccellenti olandesi, che codesta intuizione puramente
obiettiva rivolsero ai più insignificanti oggetti, e un
durevole monumento della loro obiettità e pacatezza di
spirito lasciarono nelle nature morte, che il contemplatore estetico
guarda non senza commozione, presentandoglisi alla mente il pacato,
tranquillo, di volontà scevro stato d'animo dell'artista,
ch'era necessario per guardare in modo tanto obiettivo sì
insignificanti oggetti, con tanta attenzione considerarli, e questa
contemplazione riprodurre con tanta cura: e mentre il quadro invita
anche lui a farsi partecipe di cotale stato, la sua commozione
è spesso ancora accresciuta dal contrasto della disposizione
d'animo agitata, conturbata da impetuoso volere, in cui egli stesso
si trova. Col medesimo spirito anche pittori paesisti, sopra tutti
Ruisdael, hanno spesso dipinto insignificantissimi oggetti
campestri, producendo con ciò, ancora più
piacevolmente, la stessa impressione.
A ciò perviene sola l'intima forza di un animo d'artista: ma
facilitata e dal di fuori favorita è quella disposizione
d'animo, puramente obiettiva, da oggetti che le si offrano, dalla
pienezza della bella natura che invita, anzi costringe alla
contemplazione. Quasi sempre a lei riesce, ogni volta che si riveli
d'un tratto al nostro occhio, sia pure per qualche istante, di
strapparci alla soggettività, alla schiavitù del
volere, e trasportarci nello stato del puro conoscere. Perciò
anche chi sia tormentato da passioni o bisogno o affanno, è
da un solo libero sguardo, ch'egli getti sulla natura, così
improvvisamente confortato, rallegrato e sollevato: la tempesta
delle passioni, l'ansia del desiderio e del timore, ed ogni tormento
del volere sono allora d'un tratto placati istantaneamente in
maniera maravigliosa. Imperocché nell'istante in cui noi,
liberati dal volere, ci siamo abbandonati al puro conoscere senza
più volontà, siamo come trasportati in un altro mondo,
dove tutto ciò che commuove la nostra volontà e quindi
sì forte ci scuote, più non esiste. Quella liberazione
della conoscenza ci trae fuori da tutto, tanto e sì appieno,
quanto il sonno e il sogno: felicità e infelicità sono
svanite: non siamo più l'individuo, che è obliato, non
siamo più che puro soggetto della conoscenza: non esistiamo
più se non come l'unico occhio del mondo, il quale da tutti
gli esseri conoscenti guarda, ma nell'uomo soltanto può
diventare del tutto libero dal servigio della volontà: e
allora ogni distinzione da individuo a individuo svanisce a tal
punto, da essere affatto indifferente se il contemplante occhio
appartenga a un re possente o a un tormentato mendico.
Imperocché né felicità né pena vengono
portati con noi al di là da quei confini. Sì presso
sta a noi perennemente un dominio, nel quale siamo del tutto
strappati al nostro dolore; ma chi ha la forza di trattenervisi a
lungo? Non appena una qualsiasi relazione tra quegli oggetti
oggettivamente intuiti e la nostra volontà, la nostra
persona, si riaffaccia alla conscienza, ha fine l'incantesimo: noi
ricadiamo indietro nella conoscenza che il principio di ragione
governa; conosciamo non più l'idea, ma la cosa singola,
l'anello d'una catena, alla quale noi stessi apparteniamo; e siamo
restituiti a tutto il nostro affanno. I più degli uomini,
mancando loro affatto l'oggettità, ossia la genialità,
stanno quasi sempre in questa condizione. Perciò non si
trovano volentieri soli con la natura; abbisognano di compagnia,
almeno quella d'un libro. Imperocché il lor conoscere rimane
soggetto al volere: negli oggetti essi cercano quindi solamente un
possibile rapporto con la propria volontà; e davanti a tutto
ciò che tal rapporto non abbia, risuona nel loro intimo un
perenne, sconsolato Non mi serve a nulla: dal che anche il
più bello spettacolo di natura viene a prendere per essi
nella solitudine una triste, sinistra, ostile apparenza.
Finalmente è ancora quel senso beato dell'intuizione libera
da volontà, che diffonde un sì mirabile incanto sul
passato come sulla distanza, e ce li mostra in una luce che tanto li
abbellisce, per effetto d'una nostra illusione. Quando ci
rappresentiamo giorni da lungo tempo trascorsi, vissuti in un paese
lontano, sono gli oggetti soltanto, che la fantasia nostra richiama,
e non il soggetto della volontà, il quale trascinava con
sé i suoi mali insanabili, allora come oggi; ma questi sono
dimenticati, perché già sovente da quei giorni hanno
fatto luogo ad altri mali. Così l'intuizione oggettiva agisce
nel ricordo come agirebbe nel presente, qualora avessimo su di noi
stessi la forza di abbandonarci a lei, liberi da volontà. Da
ciò deriva, che specialmente quando una pena qualsiasi ci
angoscia più del consueto, l'improvvisa memoria di scene
passate e lontane ci balena come un paradiso perduto. L'oggettivo
soltanto, non l'individuale-soggettivo è rievocato dalla
fantasia, e noi c'immaginiamo che quella visione oggettiva stesse
allora davanti a noi così pura, così incontaminata
dalla volontà, come ora ci sta la sua immagine nella
fantasia: mentre invece la relazione degli oggetti col nostro volere
ci creava tormento allora come adesso. Noi possiamo per mezzo degli
oggetti presenti sottrarci a tutti i dolori come per mezzo dei
lontani, sol che ci eleviamo alla pura considerazione oggettiva di
quelli, e perveniamo così a produrre l'illusione che essi
soli, e non già noi stessi, siano presenti: allora, disciolti
dal prepotente Io, come puri soggetti del conoscere saremo tutt'uno
con quegli oggetti. E nel modo ond'è loro indifferente il
nostro affanno, così è questo, in tali istanti,
indifferente a noi medesimi. Sopravvive allora unicamente il mondo
quale rappresentazione, e il mondo quale volontà è
svanito. Con tutte queste considerazioni vorrei aver chiarito di
qual genere e quanto grande sia la parte che nel piacere estetico ha
la condizione soggettiva di esso, cioè la liberazione del
conoscere dal servizio della volontà, l'oblio di se stesso in
quanto individuo, e l'elevazione della conscienza a puro, libero da
volontà, fuori del tempo, da ogni relazione indipendente
soggetto del conoscere. Con questo aspetto soggettivo della
contemplazione estetica si presenta ognora congiunto, qual
necessario correlato, l'aspetto oggettivo di quella: la percezione
intuitiva dell'idea platonica. Ma, prima di volgerci a un più
attento esame di quest'ultima, occorre indugiare ancora alquanto
sull'aspetto soggettivo del piacere estetico, per compierne lo
studio spiegando l'impressione del sublime, che da esso unicamente
dipende, e da una modificazione di esso deriva. In seguito la nostra
investigazione del piacere estetico raggiungerà, con l'esame
del suo aspetto oggettivo, intera compiutezza.
A quanto abbiamo detto vanno aggiunte dapprima le osservazioni che
seguono. La luce è la più rallegrante delle cose:
è divenuta il simbolo di tutto ciò ch'è buono e
salutare. In tutte le religioni indica la eterna salvezza, mentre
l'oscurità indica dannazione. Ormuzd risiede in purissima
luce, Ahriman in eterna notte. Il paradiso di Dante fa all'inarca
l'effetto del Wauxhall di Londra, tutti gli spiriti beati
apparendovi come punti luminosi, che si raccolgono in regolari
figure. L'assenza della luce ci fa immediatamente tristi; il suo
ritorno rallegra: i colori suscitano di per sé un vivo senso
di piacere, che, quando sono trasparenti, raggiunge il massimo
grado. Tutto ciò proviene esclusivamente dall'esser la luce
il correlato e la condizione del più compiuto modo di
conoscenza intuitiva, del solo, che direttamente non tocchi in nulla
la volontà. Imperocché la vista non è punto,
come l'affezione degli altri sensi, in sé immediatamente e
per la propria azione sensitiva capace di sentire nell'organo
un'impressione piacevole o spiacevole, ossia non ha alcun legame
immediato con la volontà: ma solo può averlo
l'intuizione che nell'intelletto ne deriva; e quel legame sta nel
rapporto dell'oggetto con la volontà. Già nell'udito
le cose vanno altrimenti: certi suoni possono direttamente produrre
dolore, e anche direttamente, pel puro senso, non già
rispetto all'armonia o alla melodia, essere piacevoli. Il tatto
essendo tutt'uno col sentimento del corpo intero, è ancor
più vincolato a questo diretto influsso sulla volontà:
tuttavia può aversi una sensazione tattile che non dia dolore
o piacere. Ma gli odori sono sempre piacevoli o spiacevoli; i gusti
ancor più. Questi due ultimi sensi adunque sono i più
inquinati dalla volontà: sono perciò sempre i meno
nobili, e Kant li chiamò sensi soggettivi. La gioia che
dà la luce è quindi in realtà nient'altro che
la gioia per l'oggettiva possibilità della più pura e
più compiuta conoscenza intuitiva; e come tale va derivata
dal fatto che il puro conoscere, libero e disciolto da ogni volere,
è in sommo grado rallegrante, e già di per sé
ha una gran parte nel godimento estetico. Da questo aspetto della
luce proviene alla sua volta la bellezza incredibilmente grande che
noi troviamo nel riflesso degli oggetti nell'acqua. Quella
lievissima, rapidissima, finissima maniera di reciproca influenza
dei corpi; quella, a cui noi dobbiamo le nostre percezioni di gran
lunga più perfette e più pure – l'influenza per mezzo
di raggi riflessi – è qui del tutto chiara, e su vasta scala
messa davanti ai nostri occhi: di là viene la gioia estetica
che ne proviamo, la quale, in sostanza, ha tutte le sue radici nel
principio soggettivo del piacere estetico, ed è gioia del
puro conoscere e delle sue vie11.
§ 39.
Ora, a tutte codeste considerazioni, le quali devono mettere in
rilievo la parte soggettiva del piacere estetico, ossia il piacere
stesso in quanto è gioia del puro, intuitivo conoscere come
tale, in opposizione alla volontà – viene a collegarsi,
essendovi direttamente connesso, lo studio di quella disposizione
che s'è chiamata sentimento del sublime.
Già osservammo che il trasportarsi dello stato della pura
intuizione più facilmente avviene, quando gli oggetti si
fanno a questa incontro, ossia quando, per la lor varia e in pari
tempo determinata e chiara forma, facilmente divengono i
rappresentanti delle loro idee; nelle quali appunto la bellezza, in
senso oggettivo, consiste. Più di tutto ha questo privilegio
la bella natura, e strappa quindi anche all'uomo più
insensibile almeno un fugace piacere estetico: anzi, è
sorprendente come in particolar maniera il mondo vegetale inviti
alla contemplazione estetica e quasi la imponga, sì che si
potrebbe dire, questa facilità essere in relazione col fatto
che gli esseri organici di quel mondo non sono essi medesimi, come i
corpi animali, immediato oggetto della conoscenza, e abbisognano
quindi d'un estraneo individuo intelligente, per entrare dal mondo
del cieco volere in quello della rappresentazione; sì che
quasi avevano la nostalgia d'entrarvi, per conseguire almeno
indirettamente ciò che direttamente è loro negato. Io
pongo del resto senz'altro in disparte questo pensiero audace e
forse confinante con la fantasticheria, poi che solo una molto
intima e amorosa contemplazione della natura può suscitarlo o
giustificarlo12. Fin quando è codesto offrircisi della
natura, con la significazione e l'evidenza delle sue forme (dalle
quali facilmente parlano a noi le idee in noi individuate), che
dalla conoscenza delle semplici relazioni asservite alla
volontà ci trasporta nella contemplazione estetica, e con
questa ci eleva a soggetti del conoscere, liberi da volontà;
fino allora è solamente il bello, che agisce su noi, e quel
che si sveglia è sentimento della bellezza. Ma se appunto
quegli oggetti, le cui forme significative ci invitano alla
contemplazione pura, hanno un atteggiamento ostile verso l'umana
volontà in genere, quale si palesa nella sua oggettità
– nel corpo umano –, ed a quella s'oppongono, e la minacciano con la
lor forza superiore, che vince ogni resistenza, o davanti alla
propria smisurata grandezza la impiccioliscono fino al nulla; e pur
ciò nondimeno il contemplatore non volge l'attenzione a
questa premente mossa ostile contro la volontà di lui, ma,
pure accorgendosene e riconoscendola, conscientemente ne rimuove lo
sguardo, nel mentre si discioglie con vigore dalla volontà e
dalle sue relazioni e, tutto dato alla conoscenza, appunto quegli
oggetti per la volontà paurosi contempla tranquillo come puro
soggetto del conoscere; solo cogliendone l'idea, estranea ad ogni
relazione, e quindi indugiandosi volentieri a contemplarli,
sentendosi così levato sopra se stesso, sopra la propria
persona, la volontà propria e la volontà in genere: –
allora lo riempie il sentimento del sublime; egli è in istato
di elevazione, e perciò si dice sublime anche l'oggetto che
un tale stato ha prodotto. Ciò che adunque distingue il
sentimento del sublime dal sentimento del bello, è questo:
nel bello il puro conoscere ha preso senza lotta il sopravvento,
mentre la bellezza dell'oggetto, ossia la conformazione di esso, che
ne lascia facilmente conoscer l'idea, ha senza opposizione e quasi
inavvertitamente la volontà e la conoscenza delle relazioni,
che la serve, allontanato dalla conscienza; e lasciata questa
sopravvivere come puro soggetto del conoscere, sì che della
volontà non resta neppure un ricordo; invece nel sublime
quello stato del puro conoscere è raggiunto solo mediante un
conscio ed energico districarsi dalle relazioni di quello stesso
oggetto con la volontà, riconosciute sfavorevoli; e mediante
un libero elevarsi, accompagnato dalla conscienza, sopra la
volontà come sopra la conoscenza che a lei si riferisce.
Codesta elevazione deve non soltanto esser guadagnata
consapevolmente, ma anche conservata; l'accompagna quindi un
continuo ricordo della volontà, ma non di un singolo,
individuale volere, come sarebbe la paura o il desiderio,
bensì il ricordo del volere umano in genere, in quanto esso
è genericamente espresso per mezzo della sua
oggettità, ossia del corpo umano. Qualora intervenga nella
conscienza un reale, singolo atto di volontà, per effetto di
una vera, personale angustia e d'un pericolo proveniente
dall'oggetto, ecco l'individuale volontà effettivamente
scossa prendere d'un subito il sopravvento, farsi impossibile la
calma della contemplazione, andar perduta l'impressione del sublime;
la quale cede il posto alla paura, in cui l'ansia, che l'individuo
prova, per salvarsi, caccia ogni altro pensiero. Alcuni esempi
gioveranno molto a chiarire e rendere indubitabile questa teoria del
sublime estetico; in pari tempo mostreranno la varietà dei
gradi nel sentimento del sublime. Imperocché, poi ch'esso
è nella sua principal determinazione tutt'uno col sentimento
del bello (determinazione che consiste nel puro conoscere libero da
volontà e nella conoscenza necessariamente concomitante delle
idee, le quali stanno fuor d'ogni relazione dominata dal principio
di ragione); e dal sentimento del bello si distingue solo per
un'aggiunta, ossia l'elevazione sopra il riconosciuto rapporto
ostile dell'oggetto contemplato con la volontà in genere;
nascono così – a seconda che tale aggiunta sia forte, chiara,
insistente, vicina, oppure debole, lontana, appena accennata –
più gradi del sublime: anzi, passaggi dal bello al sublime.
Credo più opportuno per la trattazione, questi passaggi e in
genere i più deboli gradi del sublime porre dapprima in
esempi davanti agli occhi; anche se coloro, la cui
sensibilità estetica non è molto grande, né
viva la fantasia, comprenderanno solo gli esempi, che più
tardi seguono, dei gradi più alti e più chiari. A
questi unicamente dovranno tenersi, ed i primi tralasciare.
Come l'uomo è a un tempo impetuoso e oscuro impulso del
volere (indicato, quale suo vertice, dal polo dei genitali) ed
eterno, libero, sereno soggetto del puro conoscere (indicato
mediante il polo del cervello); così è il sole –
conformemente a tale contrasto – nello stesso tempo sorgente della
luce, ch'è condizione del più perfetto modo di
conoscere, e sorgente del calore, ch'è condizione prima
d'ogni vita, ossia d'ogni fenomeno della volontà nei gradi
più alti di questa. Ciò che per la volontà
è il calore, è per la conoscenza la luce. La luce
è quindi il più grosso diamante nella corona della
bellezza, e ha il più deciso influsso sopra la conoscenza di
ciascun bell'oggetto: la sua presenza è condizione assoluta;
la sua favorevole situazione aumenta anche la bellezza di ciò
ch'è bellissimo. Più degli altri è dal suo
favore aumentato il bello dell'architettura; il qual favore tuttavia
da la maggior bellezza anche a ciò che v'ha di più
insignificante. Immaginiamo ora nel duro inverno, nell'universale
irrigidimento della natura, i raggi del sole basso all'orizzonte
riflessi da pietrosi massi, che quelli illuminano senza riscaldare,
essendo con ciò propizi solo al più puro modo di
conoscere e non alla volontà; la contemplazione del
bell'effetto di luce su codesti massi ci trasporta, come ogni cosa
bella, nello stato della conoscenza pura, il quale tuttavia per il
tenue ricordo della mancanza di calore, e quindi del principio
vivificante – ricordo suscitato appunto da quei raggi – esige di
già un certo elevarsi sopra l'interesse della volontà,
contiene una leggera esortazione a rimanere nella conoscenza pura,
rimuovendo ogni volere; ed appunto perciò viene ad essere un
passaggio dal sentimento del bello al sentimento del sublime. Altro
esempio quasi altrettanto debole è il seguente.
Trasportiamoci in una contrada molto solitària, con
illimitato orizzonte, sotto cielo perfettamente sereno, con alberi e
piante nell'aria affatto immobile, nessun animale, nessun uomo,
nessun'acqua scorrente, la più profonda quiete; tale
spettacolo è come un richiamo alla gravità, alla
contemplazione, a liberarsi dalla volontà e dalla sua
miseria: questo è sufficiente per dare alla contrada, sol per
essere solinga e immersa nella pace, una sfumatura di sublime. Non
offrendo ella alcun oggetto, né favorevole né
sfavorevole, alla volontà bisognosa d'un perenne aspirare e
conseguire, rimane unicamente lo stato della pura contemplazione; e
chi di questo non è capace, resta in preda al vuoto della
volontà disoccupata, al tormento della noia, con vergognosa
umiliazione. Quel paesaggio ci dà adunque la misura del
nostro valore intellettuale, di cui è buon indizio il grado
dell'attitudine nostra a sopportare, oppure ad amare la solitudine.
Ci offre perciò un esempio del sublime nel grado minore,
essendo davanti ad esso, alla sua tranquilla e pacata
necessità, insito nello stato di pura conoscenza, come
contrasto, un ricordo della soggezione e miseria della
volontà per sua natura perennemente agitata. Questa è
la specie di sublime, che si suole esaltare come prodotto dalla
vista delle infinite praterie nell'interno dell'America
Settentrionale.
Ma immaginiamo ora una contrada simile, la quale, spoglia anche
delle piante, non mostri che nude rocce; già l'assoluta
mancanza d'ogni essere organico necessario alla nostra sussistenza
è angosciosa per la volontà; il deserto prende un
carattere pauroso; la nostra disposizione si fa più tragica;
l'elevazione al puro conoscere avviene con un risoluto svincolarsi
dall'interesse della volontà; e mentre noi persistiamo nello
stato del puro conoscere, comparisce palese il sentimento del
sublime.
In grado ancor più alto questo può esser suscitato da
un'altra scena. La natura in tempestosa agitazione, dubbia luce
attraverso minacciose, nere nubi d'uragano; mostruose, nude,
precipiti rocce, le quali chiudono in loro cerchia la vista;
fragorose spumeggiami corrènti; assoluto deserto; gemiti
dell'aria fischiante attraverso le gole. La nostra pochezza, la
nostra lotta con la natura nemica, la nostra volontà, che vi
s'infrange, ci sta qui evidente innanzi agli occhi: ma fin che
l'angoscia individuale non prende il sopravvento, finché noi
restiamo in estetica contemplazione, ficca l'occhio dentro quella
battaglia delia natura, dentro quello spettacolo di volontà
infranta il puro soggetto del conoscere; e tranquillo, imperturbato,
non coinvolto (unconcerned) coglie le idee appunto in quegli oggetti
che sono per la volontà minacciosi e paurosi. Proprio in tal
contrasto è il sentimento del sublime. Ma più forte
ancora è l'impressione, quando abbiamo in grande, davanti
agli occhi, la battaglia delle infuriate forze naturali: quando in
quella scena una precipite cascata ci toglie col suo fragore la
possibilità d'udir la nostra stessa voce; – o quando ci
troviamo sull'ampio mare sconvolto dalla burrasca: onde alte come
case salgono e scendono, impetuose battono contro dirupate rive,
sprizzano alta nell'aria la spuma, e la burrasca urla, il mare
mugghia, guizzano lampi dalle nere nubi, colpi di tuono coprono la
voce della tempesta e del mare. Raggiunge allora evidenza massima,
nello spettatore imperturbato di questa scena, il doppio carattere
della sua coscienza: egli sente se stesso come individuo, come
fragile manifestazione della volontà, che il più
piccolo urto di quelle forze può sfracellare, inerme contro
la possente natura, da tutto dipendente, preda del caso, meno che
nulla di fronte a potenze mostruose; e d'altra parte nel tempo
stesso vede sé come eterno, tranquillo soggetto del
conoscere, il quale, essendo condizione dell'oggetto, è
appunto quegli che porta in sé questo mondo intero; la
tremenda battaglia della natura non è che la sua
rappresentazione, mentr'egli stesso contempla tranquillo le idee,
libero e straniero a tutti i voleri, a tutti i bisogni. Questa
è la piena impressione del sublime. Qui la produce la vista
d'una potenza, che minaccia all'individuo distruzione: potenza di
lui, senza confronto, maggiore.
In tutt'altro modo può sorgere quell'impressione dal
rappresentarsi nella fantasia una semplice grandezza di spazio e di
tempo, tanto smisurata da impicciolire l'individuo, nel confronto,
fino al nulla. La prima specie possiamo chiamare sublime dinamico,
la seconda sublime matematico, conservando le denominazioni e la
giusta distinzione di Kant; sebbene ci discostiamo interamente da
lui nello spiegar l'intima essenza di quell'impressione, non
riconoscendovi alcuna parte dovuta a riflessioni morali o a ipostasi
tratte dalla scolastica.
Se ci veniamo a smarrire nel considerar l'infinita grandezza del
mondo nello spazio e nel tempo, ripensando ai secoli passati ed ai
futuri – o anche, se il cielo notturno veracemente pone davanti al
nostro occhio innumerabili mondi –, vediamo noi stessi ridotti a un
nulla, ci sentiamo, in quanto individui, in quanto corpi animati, in
quanto effimere manifestazioni di volontà, come una goccia
nell'oceano svanire, scioglierci nel nulla. Ma in pari tempo, contro
codesto fantasma della nostra propria nullità, contro codesta
menzognera impossibilità si leva l'immediata conscienza, che
tutti quei mondi solamente nella nostra rappresentazione esistono,
solamente quali modificazioni dell'eterno soggetto del puro
conoscere – soggetto che riconosciamo in noi stessi non appena
dimentichiamo l'individualità, e che è il necessario
sostegno, la condizione di tutti i mondi e di tutti i tempi. La
grandezza del mondo, che prima c'inquietava, sta ora in noi: la
nostra dipendenza da lei viene soppressa mediante la sua dipendenza
da noi. Ma tutto ciò non si presenta subito alla riflessione;
invece, si mostra come la coscienza appena sentita d'essere, in un
senso qualsivoglia (il quale dalla filosofia sarà chiarito),
tutt'uno col mondo, e quindi nella sua smisurata grandezza non
già schiacciati, bensì innalzati. È la
conscienza sentita di ciò, che le Upanishad dei Veda
esprimono ripetute volte in così vari modi, specialmente
nella già citata sentenza: «Hae omnes creaturae in
totum ego sum, et praeter me aliud ens non est» (Oupnek'hat,
vol. I, p. 122). È innalzamento sul proprio individuo,
sentimento del sublime.
In modo affatto immediato quest'impressione del sublime matematico
ci è già prodotta da uno spazio piccolo, sì, in
confronto dell'universo, ma che, essendo a noi visibile intero e
direttamente, agisce su di noi nelle sue tre dimensioni con tutta la
grandezza sua; la quale basta a render quasi infinitamente
pìccola la proporzione del nostro corpo. Di tale effetto non
è capace uno spazio, che si presenti vuoto alla nostra
percezione; mai quindi uno spazio aperto, ma soltanto uno che,
essendo circoscritto, sia direttamente percepibile in tutte le
dimensioni: così un alto e grande interno, qual è
quello di S. Pietro in Roma o di S. Paolo in Londra. L'impressione
del sublime nasce qui da sentire l'impercettibile nullità del
nostro corpo davanti a una grandezza, la quale nondimeno d'altra
parte sta solamente nella nostra rappresentazione, e che portiamo
noi stessi, in quanto soggetto conoscente. Ossia, nasce qui come
sempre dal contrasto dell'insignificanza e dipendenza del nostro io,
in quanto individuo, in quanto fenomeno di volontà, con la
conscienza di quell'io in quanto puro soggetto del conoscere. Anche
la volta del cielo stellato agisce – quando la si osservi senza
riflessione – non altrimenti che quella volta di pietra; e non con
la sua vera, ma sol con la sua apparente grandezza. Vari oggetti
della nostra intuizione eccitano il sentimento del sublime,
perché – a causa della loro vastità, o della loro
antichità, ossia della loro durata temporale – noi ci
sentiamo davanti ad essi impiccioliti fino a sparire, e tuttavia ci
inebriamo nel goderne la vista. Di tal fatta sono le altissime
montagne, le piramidi d'Egitto, le colossali rovine di remota
antichità.
Anzi, perfino al campo etico può applicarsi la nostra
spiegazione del sublime; ossia a quel che si suol designare col nome
di carattere sublime. Poiché questo egualmente si ha, quando
la volontà non viene eccitata da oggetti, i quali pur
sarebbero atti ad eccitarla; e invece la conoscenza mantiene anche
allora il sopravvento. Un tal carattere considera quindi gli uomini
in modo affatto obiettivo, e non già secondo le relazioni che
possono avere secondo la sua volontà. Osserverà per
esempio i loro difetti, e perfino il loro odio e la loro ingiustizia
verso di lui medesimo, senza per ciò sentirsi spinto a
odiarli; li vedrà felici, senza provarne invidia;
riconoscerà le loro buone qualità, senza desiderarne
per questo di avvicinarli più intimamente; apprezzerà
la bellezza delle donne, senza desiderarle. La sua individuale
condizione felice o infelice non lo toccherà molto; piuttosto
sarà come Orazio descritto da Amleto:
for thou hast been
As one, in suffering ali, that suffers nothing;
A man, that fortune's buffets and rewards
Hast ta'en with equal thanks, etc.
A. 3, sc. 213
Imperocché nel suo corso vitale e nelle traversie di questo,
egli scorgerà meno il proprio fato individuale che non il
fato dell'umanità in genere; e per conseguenza si
comporterà piuttosto come quegli che conosce, anziché
come quegli che soffre.
§ 40.
Poiché i contrari si illuminano a vicenda, può qui
trovar posto l'osservazione, che il vero e proprio contrario del
sublime è alcunché a tutta prima non riconoscibile per
tale: l'eccitante. Chiamo così ciò che eccita la
volontà, con l'immediato prometterle esaudimento,
appagamento. Se l'impressione del sublime è nata dal fatto
che un oggetto avverso alla volontà può divenire
oggetto di pura contemplazione, e questa viene continuata sol
mediante un perenne distogliersi dalla volontà ed elevarsi
sopra l'interesse di lei, la qual cosa appunto costituisce il
sublime in tal disposizione; l'eccitante viceversa fa discendere lo
spettatore dalla contemplazione pura, richiesta per ogni percezione
del bello, eccitando forzatamente la sua volontà, per mezzo
di oggetti che direttamente l'attraggono: sì che lo
spettatore non è più puro soggetto del conoscere,
bensì bisognoso, dipendente soggetto del volere. Che di
solito si chiami eccitante ogni bellezza di genere lieto, è
concetto di troppo ampia sfera per mancanza di distinzione; ed io
devo metterlo in disparte, anzi disapprovarlo. Ma nel senso indicato
e spiegato, trovo nel dominio dell'arte due sole specie di
eccitante, ed entrambe indegne di lei. L'una, davvero bassa, nella
natura morta degli olandesi: quando ci si inganna a segno da
scambiar gli oggetti dipinti per commestibili, i quali per la loro
ingannevole rappresentazione suscitano l'appetito, che è
appunto un'eccitazione della volontà, per cui cessa ogni
contemplazione estetica dell'oggetto. Frutta dipinta si può
ancora ammettere, presentandosi come successivo sviluppo del fiore e
come bel prodotto di natura per forma e colore, senza che si deva
per forza pensare alla sua commestibilità; ma purtroppo
troviamo spesso, con naturalezza da illudere, vivande allestite e
servite in tavola, ostriche, aringhe, gamberi di mare, pane e burro,
birra, vino, etc.: cosa del tutto riprovevole. Nella pittura storica
e nella scultura, l'eccitante consiste in figure nude, che per
l'atteggiamento, la mezza nudità e tutto il modo della
rappresentazione mirano a destare libidine nello spettatore; dal che
vien subito distrutta la contemplazione puramente estetica: ossia si
opera in opposizione allo scopo dell'arte. Tale difetto corrisponde
in tutto a quello or ora biasimato negli olandesi. Quasi sempre ne
son privi gli antichi, malgrado tutta la bellezza e piena
nudità delle figure; perché l'artista medesimo le ha
create con puro, obiettivo spirito, pieno dell'ideale bellezza, e
non già in ispirito di soggettiva, bassa concupiscenza.
L'eccitante è quindi sempre da evitarsi nell'arte.
V'è anche un eccitante negativo, ancor più biasimevole
che non sia il positivo or ora illustrato: e questo è il
nauseante. Appunto come il vero eccitante, questo sveglia la
volontà dello spettatore e distrugge con ciò la
contemplazione puramente estetica. Ma quel che viene per suo mezzo
eccitato, è un vivace non-volere, una riluttanza; suscita la
volontà, ponendole innanzi oggetti del suo ribrezzo. Fu
perciò conosciuto da tempo, ch'esso è del tutto
inammissibile nell'arte; dove tuttavia anche il brutto – fin quando
non sia disgustoso – può esser tollerato a suo luogo, come
vedremo in seguito.
§ 41.
Il corso del nostro studio ha reso necessario introdur
l'illustrazione del sublime a questo punto, quando quella del bello
non era compiuta che a mezzo, sotto un solo dei suoi aspetti – il
soggettivo. Imperocché era appunto una particolare
modificazione di codesto aspetto soggettivo, che distingueva il
sublime dal bello. Invero, se lo stato del puro conoscere scevro di
volontà, presupposto e voluto da ogni contemplazione
estetica, sia sorto come spontaneamente, senza resistenza, per un
semplice dileguarsi della volontà dalla conscienza, quando un
oggetto l'ha a ciò invitato ed attratto; oppur se il medesimo
stato sia raggiunto attraverso un libero, conscio elevarsi sulla
volontà, con la quale l'oggetto contemplato aveva una
relazione sfavorevole ed ostile; – questa è la differenza tra
il bello e il sublime. Nell'oggetto non sono l'uno e l'altro
sostanzialmente distinti: poiché in ciascun caso è
oggetto della contemplazione estetica non già la singola
cosa, bensì l'idea, che in questa tende a palesarsi, ossia
l'adeguata oggettità della volontà in un dato grado:
il suo correlato necessario – sottratto, come lei medesima, al
principio di ragione, è il puro soggetto del conoscere; come
il correlato della cosa singola è l'individuo conoscente, e
questo e quella stanno entrambi in potere del principio di ragione.
Chiamando bella una cosa, veniamo con ciò a dire che ella
è oggetto della nostra contemplazione estetica; la qual cosa
implica due fatti: da un lato, che la vista di quella ci renda
obiettivi, ossia che noi nel contemplarla non siamo più
consapevoli di noi stessi in quanto individui, bensì in
quanto puro, libero da volontà soggetto del conoscere; e
dall'altro lato, che nell'oggetto non la singola cosa, bensì
conosciamo un'idea – il che può solo accadere fin quando la
nostra contemplazione dell'oggetto non sia asservita al principio di
ragione, non vada dietro al suo rapporto con qualcosa fuori di esso
(rapporto ch'è sempre collegato a rapporti con la nostra
volontà), bensì posi nell'oggetto medesimo.
Imperocché l'idea e il puro soggetto del conoscere si
presentano sempre insieme alla conscienza, come necessari correlati,
e col loro presentarsi svanisce anche ogni differenza temporale,
essendo entrambi affatto estranei al principio di ragione in tutte
le sue forme, e stando fuori delle relazioni da esso determinate:
paragonabili all'arcobaleno ed al sole, che nessuna parte hanno nel
continuo moto e nella successione delle cadenti gocce. Quindi, se io
a mo' d'esempio guardo un albero esteticamente, ossia con occhio
artistico, e quindi non esso conosco, bensì la sua idea;
perde subito ogni valore il saper se l'albero è questo o se
è un suo florido antenato di mille anni innanzi, e
così se chi l'osserva è questo o quell'individuo,
quando che sia e dove che sia vissuto. Tolto il principio di
ragione, son tolti anche l'oggetto singolo e il conoscente
individuo; nulla rimane se non l'idea e il puro soggetto del
conoscere, che insieme costituiscono l'adeguata oggettità
della volontà in questo grado. E non solo al tempo, ma anche
allo spazio è sottratta l'idea: poiché non la forma
spaziale, che mi sta davanti, ma la sua espressione, il suo
significato puro, la sua più intima essenza, che a me si apre
e mi parla, è propriamente l'idea; e rimane identica pur se
vi sia gran differenza nelle relazioni spaziali della forma.
Ora, poiché da un verso ogni cosa che esista può esser
considerata in modo puramente obiettivo e fuor d'ogni relazione;
poiché inoltre dall'altro verso, in ogni cosa la
volontà – qualunque sia il grado della sua oggettità –
si rileva, e la cosa stessa è quindi espressione di un'idea;
ne viene che ogni cosa è bella. Che anche le cose più
insignificanti possano essere oggetto d'una considerazione puramente
obiettiva e scevra di volontà, e come tali mostrarsi belle,
attesta l'esempio, già citato a questo riguardo (§ 38),
delle nature morte olandesi. Ma una cosa è più bella
d'un'altra pel fatto che ella agevola quella considerazione
puramente oggettiva, le muove incontro, quasi la costringe: e allora
noi diciamo ch'è molto bella. Questo in parte accade
perché, come cosa singola, mediante la chiarissima,
nettamente determinata, in tutto significativa relazione delle sue
parti, ella esprime nettamente l'idea della propria specie; e
mediante la compiutezza, in lei raccolta, di tutte le possibili
manifestazioni della specie stessa, quell'idea palesa in modo
compiuto; sì che allo spettatore è reso facilissimo il
passar dalla singola cosa all'idea, e facilissimo appunto
perciò anche lo stato della pura contemplazione. Per un'altra
parte, il privilegio della maggior bellezza d'un oggetto consiste
nell'esser l'idea medesima, che da quello ci parla, un alto grado
nell'oggettità della volontà, e quindi
significantissima e molto espressiva. Perciò è l'uomo
più bello d'ogni altra cosa, e la rivelazione della sua
essenza è il più alto fine dell'arte. Figura umana ed
umana espressione sono il più importante oggetto dell'arte
figurativa, come l'azione umana è oggetto più
importante della poesia. Ma tuttavia ogni cosa ha la sua speciale
bellezza: non soltanto ogni essere organico presentantesi
nell'unità del suo individuo, bensì anche ogni cosa
inorganica, priva di forma, e perfino ogni cosa fatta dalla mano
dell'uomo. Imperocché tutte palesano le idee, per mezzo delle
quali la volontà s'oggettiva nei gradi più bassi, e
formano come le più profonde, estinguentisi note di basso
della natura. Gravità, solidità, fluidità,
luce, etc., sono le idee che si esprimono in rocce, edilizi, acque.
La bella architettura dei giardini e delle costruzioni non altro
può se non aiutar tali idee a spiegare in modo limpido, vario
e compiuto quelle lor qualità, e dar loro modo di esprimersi
nettamente; sì che possano richiamare e rendere agevole la
contemplazione estetica. A ciò poco o punto riescono invece
brutti edifizi e paesi; ma nemmeno da questi posson dileguarsi del
tutto quelle generali idee elementari della natura. Quivi anche
parlano codeste idee al contemplatore che le cerca, anche edifizi
brutti e simili cose sono atti ad una considerazione estetica:
ancora sono quivi riconoscibili le più generali
qualità della loro materia, e soltanto la forma loro data
artificialmente, lungi dall'agevolare, è un impedimento, che
fa difficile la contemplazione estetica. Dunque, anche cose
artefatte servono alla espressione di idee: ma non è l'idea
della cosa artefatta, che in loro parla, bensì l'idea del
materiale a cui s'è data quella forma artificialmente. Questo
si può esprimere, in modo assai comodo, nel linguaggio degli
scolastici, con due parole: ossia nell'artefatto si esprime l'idea
della sua forma substantialis, non quella della sua forma
accidentalis; la quale ultima non fa capo a un'idea, bensì
semplicemente ad un concetto umano, dal quale ella è nata.
S'intende, che qui con la parola artefatto non si vuole indicare
nessun'opera dell'arte figurativa. D'altronde in realtà gli
scolastici intesero per forma substantialis quel ch'io chiamo grado
dell'oggettivazione della volontà in un oggetto. Nel trattar
della bella architettura, ritorneremo fra poco sull'espressione
dell'idea del materiale. Or dunque, dato questo nostro giudizio, non
possiamo convenir con Platone, quando afferma (De Rep,, x, pp.
284-285, e Parmen., p. 79, ed. Bip.), che tavola e sedia esprimono
le idee tavola e sedia; noi diciamo invece, che esprimono le idee
già rilevantisi nella semplice materia loro, in quanto tale.
Secondo Aristotele (Metaph,, xi, cap. 3) avrebbe tuttavia Platone
statuito solamente idee degli enti naturali: Πλατον εφη, ότι ειδη
εστιν όποσα φυσει. (Plato dixit, quod ideae eorum sunt, quae natura
sunt); e nel cap. 5 si dice non esister secondo i platonici idea
alcuna di casa o d'anello. In ogni modo già i discepoli
più prossimi di Platone, secondo c'informa Alcinoo
(introducilo in platonicam philosophiam, cap. 9), negarono potersi
dare idee di cose artificiali. Dice Alcinoo: Ὁριζονται δε την ιδεαν,
παραδειγμα των κατα φυσιν αιωνιον. Ουτε γαρ τοις πλειστοις των απο
Πλατωνος αρεσκει, των τεχνικων ειναι ιδεας, οίον ασπιδος η λυρας,
ουτε μην των παρα φυσιν, οίον πυρετου και χολερας, ουτε των κατα
μερος, οίον Σωκρατους καὶ Πλατωνος, αλλ’ουτε των ευτελων τινος,
οίον μειζονος και ύπερεχοντος ειυαι γαρ τας ιδεας νοησεις θεου
αιωνιους τε και αυτοτελεις (Definiunt autem ideam exemplar aeternum
éorum, quae secundum naturam existunt. Nam plurimis ex iis,
qui Platonem secuti sunt, minime placuit, arte factorum ideas esse,
ut clypei atque lyrae; neque rursus eorum, quae praeter naturam, ut
febris et cholerae; neque particularium, ceu Socratis et Platonis;
neque etiam rerum vilium, veluti sordium et festucae; neque
relationum, ut majoris et excedentis: esse namque ideas
intellectiones dei aeternas, ac seipsis perfectas). In
quest'occasione può essere toccato un altro punto, nel quale
la nostra dottrina delle idee molto s'allontana da quella di
Platone. Egli insegna (De Rep., X, p. 288), l'oggetto che l'arte
bella vuol rappresentare, il modello della pittura e della poesia,
non esser l'idea, bensì la cosa singola. Proprio il contrario
sostiene tutta la dimostrazione da noi fin qui fatta; e l'avviso di
Platone tanto meno ci svierà su questo punto, essendo la
causa d'un dei più grossi e riconosciuti errori commessi da
quell'uomo grande, ossia del suo disdegno e abominio per l'arte,
specialmente la poesia. Il suo falso giudizio su di questo ei lo
collega direttamente col luogo citato.
§ 42.
Ritorno alla nostra indagine dell'impressione estetica. La
conoscenza del bello richiede adunque sempre, contemporanei e
inseparabili, un oggetto puramente conoscente, e, come oggetto,
un'idea conosciuta. Quindi la fonte del godimento estetico
starà or più nella percezione dell'idea conosciuta, or
più nella beatitudine e serenità spirituale del puro
conoscere, liberatosi da ogni volere e per conseguenza da ogni
individualità, e della pena che questa produce: e codesto
prevalere dell'uno o dell'altro elemento del piacere estetico
dipenderà dall'esser l'idea intuitivamente percepita un
più alto o più basso grado nell'oggettità della
volontà. Ad esempio, con la contemplazione estetica della
bella natura (sia in realtà, sia attraverso il mezzo
dell'arte) nel campo inorganico e vegetale, e così con quella
delle opere di bella architettura, prevarrà il godimento del
puro conoscere scevro di volontà, essendo le idee qui
concepite sol bassi gradi nell'oggettità della
volontà, e non fenomeni di profonda significazione e molto
espressivo contenuto. Viceversa, quando animali e uomini sono
oggetto della contemplazione o rappresentazione estetica,
consisterà il godimento piuttosto nell'obiettivo percepir
tali idee, che sono le più chiare manifestazioni della
volontà, mostrandoci la massima varietà di forme,
ricchezza e profonda significanza dei fenomeni, e palesandoci nel
modo più compiuto l'essenza della volontà: sia nella
sua violenza, nella sua terribilità, nel suo appagamento, sia
nel suo infrangersi (quest'ultimo nella rappresentazione tragica), e
finalmente pur nel suo mutarsi o sopprimersi (ciò ch'è
particolarmente il tema della pittura cristiana; come in genere la
pittura storica e il dramma han per oggetto l'idea della
volontà illuminata dalla piena conoscenza). Esamineremo
adesso le arti ad una ad una: dal che la teoria del bello or ora
formulata acquisterà compiutezza ed evidenza.
§ 43.
La materia, in quanto tale, non può essere rappresentazione
di un'idea. Imperocché essa, come abbiamo trovato nel primo
libro, è in tutto e per tutto causalità: il suo essere
è un semplice agire. Ma causalità è forma del
principio di ragione: conoscenza dell'idea invece esclude
essenzialmente il contenuto di quel principio. Anche abbiamo trovato
nel secondo libro esser la materia il sostrato comune a tutti i
singoli fenomeni delle idee, e quindi l'anello di congiunzione tra
l'idea e il fenomeno o cosa singola. Dunque, tanto per l'uno quanto
per l'altro motivo, non può la materia di per sé
rappresentare idea alcuna. Ciò si conferma a posteriori pel
fatto che della materia come tale nessuna rappresentazione intuitiva
è possibile, bensì unicamente un concetto astratto:
non rappresentandosi in quella se non le forme e qualità,
delle quali è base la materia, e in tutte le quali si
palesano idee. Questo corrisponde pure al fatto, che
causalità (l'intera essenza della materia) per sé non
è rappresentabile intuitivamente: ma rappresentabile è
solo un determinato nesso causale. All'opposto deve ciascun fenomeno
di un'idea, essendo questa come tale spirata nella forma del
principio di ragione, o nel principia individuationis,
rappresentarsi nella materia, come qualità di questa. In
questo senso è adunque la materia, come s'è detto,
l'anello di congiunzione tra l'idea e il principium individuationis,
il quale è la forma della conoscenza individuale, ossia il
principio di ragione. Giustissimamente ha quindi Platone posto
accanto all'idea e al suo fenomeno, ch'è la cosa singola – i
quali entrambi comprendono le cose tutte del mondo – ancora la
materia, come un terzo elemento, da quelli diverso (Timaeus, p.
345). L'individuo, in quanto fenomeno dell'idea, è sempre
materia. Anche ciascuna qualità della materia è sempre
fenomeno di un'idea, e come tale pur capace d'una contemplazione
estetica, ossia conoscenza dell'idea che in lei si presenta. Questo
vale egualmente per le più generiche qualità della
materia, senza le quali essa non può esistere, e le cui idee
sono la più debole oggettità della volontà.
Tali sono: gravità, coesione, rigidità,
fluidità, reazione contro la luce, etc.
Se consideriamo ora l'architettura, soltanto come arte bella,
prescindendo dalla sua destinazione ai fini pratici, nei quali ella
serve non alla conoscenza pura ma alla volontà, e non
è adunque più arte come noi l'intendiamo, non ci
è possibile attribuirle altro intento se non quello di
rendere più chiare all'intuizione alcune delle idee, che sono
i gradi più bassi nell'oggettità della volontà,
quali gravità, coesione, solidità, durezza – le
proprietà generiche della pietra; le prime, più
semplici, più grosse manifestazioni visibili della
volontà; le note del basso fondamentale della natura; – e
poi, oltre quelle, la luce: che per molti rispetti è di
quelle un contrapposto. Già in codesto basso grado
dell'oggettità della volontà vediamo che la sua
essenza si palesa in un conflitto: poiché la lotta tra
gravità e solidità è propriamente l'unico
proposito estetico della bella architettura; metterlo variamente in
piena evidenza è il suo compito. Tale compito adempie,
togliendo a quelle indelebili forze la via più breve del loro
soddisfacimento, trattenendole col deviarle; la lotta viene
così prolungata, e si fa in vario modo palese l'inesauribile
tendenza di entrambe le forze. L'intera massa dell'edificio,
abbandonata alla sua originaria tendenza, presenterebbe nient'altro
che un cumulo il più possibile aderente alla terra: verso la
quale incessante sospinge la gravità (perché
così si manifesta quivi la volontà), mentre la
solidità, anch'essa oggettità della volontà, le
si oppone. Ma appunto codesta tendenza, codesta necessità
viene dall'architettura impedita nella sua immediata soddisfazione;
che sol mediatamente le vien concessa, per vie non dirette. Per
esempio, l'architrave può premer la terra sol per mezzo delle
colonne; la volta deve reggersi da sé, e appagar la sua
attrazione verso la massa terrestre solo attraverso i pilastri, etc.
Ma appunto in queste forzate vie indirette, appunto attraverso
questi impedimenti, si dispiegano nel modo più manifesto e
variato le forze inerenti al nudo masso di pietra; e più
lungi non può andare il fine puramente estetico
dell'architettura. Perciò senza dubbio la bellezza di un
edifizio consiste nell'adattamento, visibile a tutta prima, di
ciascuna parte al suo fine: e non al fine esteriore, arbitrario
dell'uomo (che sotto questo rispetto appartiene l'opera
all'architettura pratica), bensì direttamente alla
consistenza dell'insieme; nella quale la posizione, grandezza e
forma d'ogni parte ha con le altre una relazione tanto necessaria,
che, qualora fosse possibile, sottraendone una sola crollerebbe
l'edifizio intero. Imperocché solo col sostener ciascuna
parte quanto le conviene di sopportare, e con l'esser ciascuna
sorretta dove e come occorre, si sviluppa fino alla più
perfetta evidenza quel contrasto, quella lotta tra solidità e
gravità, onde son costituite nella pietra la vita, le
manifestazioni della volontà; e chiaramente si palesano
questi gradi infimi dell'oggettità della volontà. Non
altrimenti deve la forma di ciascuna parte esser determinata dal
proprio scopo e dalla propria relazione con l'insieme, non
già dall'arbitrio. La colonna è la più semplice
forma di sostegno, determinata soltanto dal suo fine: quindi la
colonna attorta è goffa. Il pilastro quadrato è in
realtà meno semplice, sebbene casualmente più facile a
farsi che non la tonda colonna. Similmente sono le forme della
cornice, dell'architrave, dell'arco e della cupola determinate in
tutto e per tutto dal loro scopo diretto, e si spiegano quindi da
sé. Le decorazioni dei capitelli etc., spettano alla
scultura, e non all'architettura; dalla quale essi, come ornati
aggiunti, non sono che tollerati, e potrebbero anche venir
tralasciati. In ragione di quanto s'è detto, per la
comprensione e il godimento estetico di un'opera d'architettura
è imprescindibilmente necessario aver conoscenza intuitiva
del suo materiale in quanto a peso, solidità e coesione. E la
gioia, che proviamo d'una tale opera, verrebbe subitamente molto
ridotta dallo scoprir che il materiale di costruzione fosse di
pietra pomice: che allora essa ci apparirebbe quasi come un edifizio
posticcio. Press'a poco il medesimo effetto produrrebbe saperla
fatta di legno, mentre noi la credevamo di pietra: appunto
perché ciò muterebbe e sposterebbe il significato, la
necessità di tutte le parti, molto più debolmente
rivelandosi quelle forze di natura nell'edilizio ligneo.
Perciò non può veramente farsi col legno opera alcuna
di bella architettura, per quanto possa il legno piegarsi a tutte le
forme: la qual cosa è spiegabile soltanto con la nostra
teoria. Se poi infine ci si dicesse, che l'edifizio, la cui vista ci
rallegra, è formato di materiali tra loro affatto diversi, di
molto dissimile gravità e consistenza, ma che l'occhio non sa
distinguere, l'intero edifizio ci apparirebbe perciò insipido
e incomprensibile, come una poesia in una lingua a noi ignota. Tutto
ciò prova appunto, che l'architettura non agisce solo
matematicamente, ma anche dinamicamente; e quel che per suo mezzo ci
parla, non è per avventura semplice forma e simmetria,
bensì sono piuttosto quelle elementari forze della natura,
quelle prime idee, quegl'infimi gradi dell'oggettità della
volontà. La regolarità dell'edifizio e delle sue parti
è per un verso generata dal diretto adattamento di ciascuna
parte alla consistenza dell'insieme; per l'altro serve ad agevolare
la visione generale e la comprensione del tutto; e infine le figure
regolari, mostrando la regolarità dello spazio come tale,
contribuiscono alla bellezza. Ma tutto ciò ha valore e
necessità subordinati, ed è lungi dal costituir
l'essenziale: che la simmetria stessa non è punto richiesta
assolutamente, potendo esser belle anche le rovine.
Una specialissima relazione hanno poi ancora le opere
dell'architettura con la luce: in pieno splendore di sole, col cielo
azzurro nello sfondo, sono due volte più belle; e tutt'altro
effetto producono inoltre nello splendore lunare. Perciò
anche nella costruzione di una bell'opera architettonica si ha
sempre particolare riguardo agli effetti di luce e alle regioni del
cielo. Tutto questo ha il suo motivo per massima parte nel fatto,
che chiara e netta luce occorre a render ben visibili tutte le parti
e le correlazioni loro; inoltre sono d'avviso, che l'architettura
sia rivolta a palesare, così come palesa gravità e
solidità, anche quest'opposta essenza della luce. Infatti,
col venir la luce accolta, impedita, riflessa dalle grandi masse non
trasparenti, nettamente delineate e variamente conformate, dispiega
la sua natura e le sue proprietà nel modo più limpido
ed evidente, con grande gioia dello spettatore: perché di
tutte le cose la luce è quella che più rallegra, come
condizione e correlato oggettivo del più perfetto modo di
conoscenza intuitiva.
Ora, essendo le idee, che l'architettura trae alla chiara
intuizione, i gradi infimi nell'oggettità della
volontà, e venendo per conseguenza a esser relativamente
scarsa la significanza oggettiva di ciò che l'architettura ci
svela; ne deriva, che il godimento estetico provato alla vista d'un
bell'edifizio in buona luce, non sta tanto nella percezione
dell'idea, quanto nel correlato soggettivo stabilito con codesta
percezione. Ossia consiste prevalentemente nel fatto, che in tal
vista il contemplatore si sente strappato al modo di conoscere
dell'individuo, e innalzato a quello del puro, scevro di
volontà soggetto del conoscere; ossia alla pura, da ogni pena
del volere e dell'individualità disciolta contemplazione.
Sotto questo rispetto il contrario dell'architettura, l'estremo
opposto nella serie delle arti belle, è il dramma: il quale
porta alla conoscenza le idee di più alta importanza,
sì che nel godimento estetico di esso il lato oggettivo
è del tutto prevalente.
L'architettura ha di fronte alle arti plastiche e alla poesia questo
carattere distintivo: non dà, come quelle, un'immagine della
cosa, bensì la cosa stessa; non riproduce, come quelle,
l'idea conosciuta, cedendo l'artista i proprii occhi allo
spettatore, ma invece l'artista presenta semplicemente allo
spettatore l'oggetto, e gli allevia la percezione dell'idea,
portando il vero oggetto individuale alla chiara e completa
espressione della sua essenza.
Molto raramente vengono le opere d'architettura – come le rimanenti
opere dell'arte bella – eseguite per puri fini estetici: più
spesso vengono subordinate ad altri fini pratici, all'arte
stranieri; ed il gran merito dell'architetto consiste nel tener
tuttavia di mira, e raggiungere, i fini puramente estetici anche in
quella lor subordinazione a fini estranei, adattandoli di volta in
volta, in vario modo, con abilità, allo scopo pratico, e
rettamente giudicando qual bellezza estetico-architettonica s'adatti
e si possa accordare con un tempio, quale con un palazzo, quale con
un arsenale, e così via. Quanto più un rude clima
accresce quelle esigenze del necessario e dell'utile, e più
rigidamente le determina e inesorabilmente prescrive, tanto meno
spazio rimane al bello nell'architettura. Nel mite clima dell'India,
d'Egitto, di Grecia e di Roma, dove le esigenze della
necessità erano imposte in minor numero e con meno rigore,
potè l'architettura più liberamente tener dietro ai
suoi fini estetici; sotto il nordico cielo questi le vennero molto
limitati. Qui, dove necessità voleva chiusure, tetti
acuminati e torri, dove l'architettura – potendo spiegar la propria
bellezza solo in ristretti confini – ornarsi in compenso con
decorazione tolta a prestito dalla scultura, come si può
veder nella bella architettura gotica.
Se deve in tal modo l'architettura, per le esigenze del necessario e
dell'utile, subir grandi limitazioni, ha appunto in ciò
d'altra parte un poderoso appoggio; non potendosi ella punto
reggere, per l'ampiezza ed il costo delle sue opere, come per la
circoscritta sfera della sua speciale azione estetica, se in pari
tempo non avesse, come arte utile e necessaria, un posto fermo e
onorevole tra le umane occupazioni. È appunto la mancanza
d'un tal posto, che impedisce a un'altra arte di starle accanto da
sorella, sebbene sotto il rispetto estetico sia propriamente da
porlesi vicino come a riscontro: intendo l'arte bella
dell'idraulica. Imperocché ciò che opera
l'architettura per l'idea della gravità, dove questa appare
congiunta con la solidità, opera quella per l'idea medesima,
dove a lei è associata la fluidità, ossia assenza di
forma, estrema mobilità, trasparenza. Su per le rocce
spumeggiando e mugghiando precipiti cascate, cataratte frangentisi
mute in polvere d'acqua, fontane sprizzanti in alte liquide colonne,
chiarospecchianti laghi svelano le idee della gravità fluida
nella materia, come le opere architettoniche dispiegano le idee
della materia solida. Nessun appoggio trova l'idraulica artistica
nell'idraulica pratica; non potendosi gli scopi di quest'ultima
accordare di regola co' suoi. Questo può accader soltanto per
eccezione, ad esempio nella Cascata di Trevi in Roma14.
§ 44.
Quel che le due arti ricordate fanno per i gradi minimi
dell'oggettità della volontà, fa in certo modo l'arte
bella dei giardini per il grado, più elevato, della natura
vegetale. La bellezza d'un limitato paesaggio consiste in gran parte
nella varietà degli oggetti naturali che vi si trovano; e poi
nel fatto che questi vi si distinguano nettamente, vi risaltino con
evidenza, e tuttavia si presentino in convenevole armonia e
varietà. Sono queste le condizioni, a cui l'arte bella dei
giardini contribuisce: nondimeno ella è lungi dall'esser
padrona della sua materia, come l'architettura è della
propria; e quindi la sua azione rimane limitata. Il bello, che essa
presenta, appartiene quasi per intero alla natura; essa v'ha poco
contribuito. E pochissimo può d'altra parte contro il
disfavore della natura: dove questa invece di preparare contrasta, i
suoi risultati sono scarsi.
Adunque, in quanto il mondo vegetale – che senza aver l'arte per
intermediaria si offre da per tutto al godimento estetico – è
oggetto dell'arte, appartiene principalmente alla pittura di paese.
Nel dominio di questa si trova, col mondo vegetale, anche tutta
l'altra natura priva di conoscenza. Nella natura morta, e nella
riproduzione di opere architettoniche, rovine, interni di chiese,
etc., prevale il lato soggettivo del godimento estetico: ossia il
piacere che ne abbiamo non sta principalmente e direttamente nella
percezione delle idee rappresentate, bensì di più nel
correlato soggettivo di questa percezione, nel puro conoscere scevro
di volere. Perché, mentre il pittore ci fa veder le cose co'
suoi occhi, sentiamo in pari tempo dentro di noi medesimi quasi
riflettersi la profonda serenità di spirito e il perfetto
silenzio della volontà, che sono stati necessari per
concentrar sì appieno la conoscenza in quegli oggetti
inanimati, e con tanto amore – ossia a tal grado di
obiettività – riprodurli. L'effetto della vera e propria
pittura di paesaggio è ancora, a dire il vero, dello stesso
genere; ma poi che le idee rappresentate, come gradi più alti
nell'oggettità della volontà, sono già
più significanti ed espressive, vien fuori in maggior misura
il lato obiettivo del piacere estetico, e sta a pari col soggettivo.
Il puro conoscere, come tale, non è più quel che solo
conta; ma con eguale potenza agisce l'idea conosciuta, il mondo come
rappresentazione, in un notevole grado di oggettivazione della
volontà.
Ma un grado ben più alto rivela la pittura e scultura
d'animali; della quale ultima abbiamo importanti avanzi antichi, per
esempio cavalli, a Venezia, a Monte Cavallo, sui rilievi di Elgin,
ed anche a Firenze, in bronzo o marmo (quivi pur l'antico cignale,
gli urlanti lupi); e i leoni dell'arsenale di Venezia, e in Vaticano
tutta una sala piena d'animali in massima parte antichi, e
così via. Ora, davanti a codeste rappresentazioni il lato
oggettivo del piacere estetico prende un aperto sopravvento sul
soggettivo. La serenità del soggetto, che tali idee
conoscendo ha placato la propria volontà, vi si ritrova,
è vero, come in ogni contemplazione estetica, ma la sua
azione non viene sentita: imperocché ci occupa la
inquietudine e la violenza della rappresentata volontà.
È quello stesso volere, ond'è pur costituita la nostra
essenza, che ci sta davanti agli occhi: in figure, nelle quali la
sua manifestazione non è come in noi dominata e mitigata
dalla riflessione, ma si presenta bensì in forti tratti, con
un'evidenza da rasentare il grottesco e il mostruoso; e in compenso
ostentantesi liberamente in piena luce, ingenua e aperta – ragione
per cui, appunto, il nostro interesse va agli animali. La nota
caratteristica delle specie già veniva fuori nella
rappresentazione delle piante, mostrandosi tuttavia solamente nelle
forme: qui acquista molto maggior rilievo, e si esprime non solo
nella forma, bensì nell'azione, posizione e movenza; sebbene
sia ancor sempre carattere della specie, e non dell'individuo.
Questa conoscenza delle idee di gradi più alti, che noi
acquistiamo nella pittura mediante un intermediario, possiamo
raggiungere anche in maniera diretta, con la intuizione puramente
contemplativa delle piante e l'osservazione degli animali; questi
nel loro stato libero, naturale, a loro agio. La considerazione
obiettiva delle lor svariate, mirabili forme e della loro
attività è un'istruttiva lezione del gran libro della
natura, una decifrazione della vera signatura rerum15: in lei
vediamo i molteplici gradi e modi della manifestazione della
volontà, la quale, in tutti gli esseri una e identica,
ovunque la stessa cosa vuole – vuole appunto ciò, che come
vita, come esistenza viene ad oggettivarsi, in sì infinita
varietà, in sì infinite forme; le quali tutte sono
accomodamenti alle diverse condizioni esteriori, paragonabili a
molte variazioni d'uno stesso tema. Ma se dovessimo al contemplatore
fornire, anche per la riflessione, e con una sola parola, un
chiarimento sull'intima essenza di codesti esseri, potremmo meglio
d'ogni altra usare quella formula sanscrita, la quale tanto spesso
ricorre nei libri sacri degli Indù e vien detta Mahavakya,
ossia la grande parola: «Tat tvam asi», che significa:
«questo vivente sei tu».
§ 45.
Rappresentare intuitivamente, in maniera diretta, l'idea nella quale
la volontà raggiunge il massimo grado della sua
oggettivazione, è finalmente il gran compito della pittura
storica e della scultura. Il lato obiettivo del piacere prodotto dal
bello è qui affatto prevalente, e il lato soggettivo è
rientrato nella penombra. Inoltre è da osservare, che ancor
nel grado immediatamente più prossimo sotto di questo, nella
pittura animale, il caratteristico è tutt'uno col bello: il
più caratteristico leone, lupo, cavallo, pecoro, toro
v'è anche ognora il più bello. La ragione di questo
è che gli animali hanno solo il carattere della specie, e
nessun carattere individuale. Ma nella rappresentazione dell'uomo si
distingue invece il carattere della specie dal carattere
dell'individuo: quello si chiama bellezza (in senso del tutto
oggettivo), mentre questo mantiene il nome di carattere o
espressione; e subentra la nuova difficoltà, di
rappresentarli entrambi in pari tempo nello stesso individuo.
Umana bellezza è un'espressione oggettiva, la quale indica la
più perfetta oggettivazione della volontà nel grado
più alto della sua conoscenza possibile, l'idea dell'uomo in
genere, pienamente espressa nella forma intuita. Ma per quanto
prevalga qui il lato oggettivo del bello, rimane tuttavia suo
perenne compagno il soggettivo. E appunto perché nessun
oggetto ci rapisce così presto nell'intuizione puramente
estetica, come fa il bellissimo aspetto e la forma dell'uomo, alla
cui vista subitamente un piacere inesprimibile ci coglie, e sopra
noi stessi e ogni nostro tormento ci eleva; appunto per questo
ciò è possibile solo in quanto cotale evidentissima e
purissima conoscibilità della volontà anche ci
trasporti nel modo più lieve e rapido in quello stato del
puro conoscere, in cui la nostra personalità, il nostro
volere, con la sua assidua pena, svanisce, fin quando persiste la
pura gioia estetica: perciò dice Goethe: «Chi scorge
l'umana bellezza, niente di male può spirargli contro: egli
si sente con se stesso e col mondo in accordo». Che alla
natura possa riuscir una bella figura d'uomo, si spiega col fatto
che la volontà, oggettivandosi a tale altissimo grado in un
individuo, vince appieno sia per favorevoli circostanze sia per
forza propria tutti gli ostacoli e la resistenza opposti a lei dalle
manifestazioni della volontà nei gradi inferiori: di codesta
sorte son le forze naturali, a cui ella deve ognora cominciar col
conquistare e strappare la materia, a tutte comune. Inoltre il
fenomeno della volontà nei gradi superiori ha sempre
varietà di forma: già l'albero non è che un
sistematico aggregato di germinanti fibre moltiplicate
indefinitamente: questa complessità s'accresce man mano che
si salga nei gradi, e il corpo umano è un complicatissimo
sistema di parti affatto diverse, ciascuna delle quali, al complesso
subordinata, ha tuttavia anche una vita propria. E l'esser tutte
codeste parti appunto nel giusto modo subordinate all'insieme, e il
contribuire armonicamente all'aspetto generale, nulla trovandovisi
di eccessivo, nulla di manchevole; tali son le rare condizioni, di
cui è risultato la bellezza, il carattere della specie
perfettamente improntato. Così fa la natura. Ma come fa
l'arte? Si crede, con l'imitar la natura. Ma a che cosa
riconoscerebbe un artista l'opera di natura ben riuscita e da
imitare, scegliendola tra le non riuscite, se egli non avesse del
bello una nozione anteriore all'esperienza? E poi, ha mai la natura
prodotto un essere umano perfettamente bello in ogni parte? Allora
s'è pensato che l'artista dovesse scegliere le parti belle
singolarmente distribuite in molte creature, per comporne un solo
essere perfetto: opinione assurda e insensata. Imperocché ci
si torna a chiedere: a qual segno deve conoscere, che proprio queste
forme sono le belle, e non le altre? E possiamo vedere che sorta di
bellezza hanno trovata gli antichi pittori tedeschi, con l'imitar la
natura! Basta guardare i loro nudi. No: a posteriori, e per semplice
esperienza, non si può aver cognizione del bello: questa
è sempre, almeno in parte, a priori, sebbene di tutt'altra
specie che i modi a noi noti a priori del principio di ragione.
Questi si riferiscono alla general forma del fenomeno come tale, in
quanto essa è base alla conoscenza in genere, al come –
universale e senza eccezione – del fenomeno (da tal conoscenza
nascono matematica e scienza naturale pura). Invece quell'altra
maniera di conoscenza a priori, che rende possibile la
rappresentazione del bello, non concerne la forma, bensì il
contenuto dei fenomeni: non il «come» del loro
manifestarsi, bensì il «che cosa». Noi tutti
conosciamo, vedendola, la beltà umana; ma nell'artista una
tal conoscenza avviene con tal chiarezza, ch'egli mostra quella
beltà, come non l'ha veduta mai, e sorpassa nella sua
rappresentazione la natura: questo è possibile sol
perché la volontà, la cui adeguata oggettivazione nel
suo massimo grado va qui giudicata e scoperta, è noi stessi.
Solo così possiamo avere in effetti una cognizione anticipata
di ciò che la natura (la quale è appunto la
volontà che costituisce il nostro proprio essere) si sforza
di rappresentare; e codesta cognizione anticipata nel vero genio
s'accompagna con tal grado di riflessione, che esso, mentre nel
singolo oggetto conosce l'idea rispettiva, quasi viene a comprender
la natura attraverso mezze parole; e così può esprimer
nettamente ciò ch'ella appena balbetta; tanto da imprimer nel
duro marmo la bellezza della forma che a lei in mille tentativi
fallisce, e quella bellezza contrappone alla natura, quasi
esclamando: «Questo era, ciò che tu volevi
esprimere!» – e, «Sì, questo era!» fa eco
l'intenditore. Solo così potè il greco geniale
scoprire il prototipo della forma umana, e porlo come canone nella
scuola della scultura; ed anche solo in grazia di tale anticipazione
è a noi tutti possibile di conoscere il bello, là dove
esso è alla natura in un singolo esemplare effettivamente
riuscito. Codesta anticipazione è l'ideale: è l'idea,
in quanto essa, almeno a metà, è conosciuta a priori,
e, come tale, venendo a completar quanto ci è offerto dalla
natura a posteriori, diventa pratica per l'arte. La
possibilità di simile anticipazione del bello a priori nello
scultore, come del suo riconoscimento a posteriori nell'intenditore,
sta in questo, che artista e conoscitore sono essi medesimi
l'in-sé della natura, l'oggettivantesi volontà.
Soltanto dal simile, come disse Empedocle, si conosce il simile:
soltanto natura può comprendere se stessa; soltanto natura da
fondo a se stessa: e similmente dal solo spirito è inteso lo
spirito16.
L'assurda opinione che i greci abbiano trovato l'ideale della umana
bellezza in modo affatto empirico, mediante scelta di singole parti
belle, qui un ginocchio, là un braccio denudando o notando,
ha del resto il suo riscontro in un'opinione analoga concernente la
poesia: l'opinione che, p. es., gl'infinitamente vari caratteri de'
suoi drammi, così veri, così sostenuti, così
ricavati dal profondo, abbia Shakespeare notati nella propria
personale esperienza della vita sociale, e poi riprodotti.
L'impossibilità e assurdità di tale opinione non ha
bisogno d'esser dimostrata: è evidente che il genio, come
produce le opere dell'arte plastica sol per mezzo di una presaga
anticipazione del bello, così produce le opere della poesia
solo mediante una consimile anticipazione del caratteristico; per
quanto l'una e l'altra richiedano l'esperienza come uno schema,
indispensabile, perché quanto era loro noto oscuramente a
priori venga innalzato alla piena chiarezza, e nasca così la
possibilità di una meditata rappresentazione.
Umana bellezza fu qui sopra spiegata come la più perfetta
oggettivazione della volontà nel più alto grado della
sua conoscibilità. Essa si esprime attraverso la forma:
questa è soltanto nello spazio, e non ha relazione necessaria
col tempo; come l'ha, per esempio, il moto. Possiamo dire adunque:
l'adeguata oggettivazione della volontà per mezzo d'un
fenomeno spaziale è bellezza, nel senso oggettivo. La pianta
non è altro che un tal fenomeno, puramente spaziale, della
volontà; imperocché nessun movimento e quindi nessuna
relazione col tempo (astraendo dal suo sviluppo) appartiene
all'espressione della sua essenza: la sua forma esprime da sola
tutta la sua essenza, e aperta la palesa. Ma uomo e animale per la
piena rivelazione della volontà in loro manifestantesi
abbisognano ancora d'una serie di atti, attraverso cui quel fenomeno
viene a prendere in essi un'immediata relazione col tempo. Tutto
ciò fu già spiegato nel libro che precede: alla nostra
indagine presente si riannoda per quanto segue. Come il fenomeno
puramente spaziale della volontà può oggettivar
quest'ultima in ciascun grado perfettamente o imperfettamente, il
che produce appunto bellezza o bruttezza: così può
anche la temporale oggettivazione della volontà, ossia
l'azione, e precisamente l'azione immediata, il movimento,
corrisponder in modo puro e perfetto alla volontà che in lei
si oggettiva; senza estranea mescolanza, senza superfluità,
senza manchevolezza, ma solo esprimendo per l'appunto ogni volta
quel determinato atto di volontà; – oppure può tutto
questo accadere a rovescio. Nel primo caso, il movimento è
compiuto con grazia; e nel secondo, senza. Come adunque bella
è la ben rispondente rappresentazione della volontà in
genere mediante il suo fenomeno puramente spaziale, così
è grazia la ben rispondente rappresentazione della
volontà mediante il suo fenomeno temporale; ossia
l'espressione in tutto giusta e commisurata di ciascun atto di
volontà, per mezzo del movimento e della posizione che
l'oggettiva. Poiché movimento e posizione già
presuppongono il corpo; quindi è giustissima e calzante la
definizione di Winckelmann, quando dice: «La grazia è
il particolare rapporto della persona agente con l'azione»
(Werke, vol. I, p. 258). Se ne ricava naturalmente, che a piante
può attribuirsi bellezza, ma non grazia, fuor che in senso
figurato; ad animali e uomini entrambe, bellezza e grazia. La grazia
consiste, adunque, in questo: che ogni movimento e atteggiamento
venga eseguito o preso nel modo più facile, più
conveniente e più comodo, e sia quindi l'espressione diretta
del proposito suo, ossia dell'atto di volontà, senza nulla di
superfluo (che il superfluo si presenta come agitazione disordinata,
priva di senso, o posizione assurda) né di manchevole (che
produce lignea rigidità). La grazia richiede, come
condizione, un giusto equilibrio di tutte le membra, una regolare,
armonica struttura del corpo; poiché sol per questo mezzo
è possibile il perfetto agio e la palese opportunità
in tutte le posizioni e movenze: e quindi la grazia non si dà
senza un certo grado di bellezza corporea. Questa e quella perfette
e congiunte sono il più limpido fenomeno della volontà
nel grado supremo della sua oggettivazione.
È uno de' contrassegni dell'umanità – l'abbiamo
osservato – il trovarsi in lei distinti il carattere della specie e
quel dell'individuo; sì che, com'è detto nel libro
precedente, ciascun essere umano rappresenta, in un certo senso,
un'idea tutta a sé. Quindi le arti il cui fine è posto
nel rappresentar l'idea dell'umanità, hanno per compito,
oltre la bellezza – carattere della specie – anche il carattere
individuale, che suol chiamarsi appunto carattere senz'altro.
Quest'ultimo tuttavia, alla sua volta, solo in quanto sia da
considerarsi non già come alcunché di casuale, come
una singolarità appartenente in proprio a un dato individuo;
bensì come un aspetto, specialmente rilevantesi in
quell'individuo, dell'idea dell'umanità: a palesare la quale
è perciò opportuna la rappresentazione dell'individuo
medesimo. Quindi il carattere, pur essendo individuale, deve
tuttavia esser colto e rappresentato idealmente, ossia mettendo in
rilievo la sua significanza in rapporto con l'idea
dell'umanità in genere (alla cui oggettivazione esso
contribuisce a sua guisa): e oltre a ciò poi la
rappresentazione è ritratto, riproduzione del singolo come
tale, con tutte le sue accidentalità. Ma il ritratto medesimo
dev'essere, come dice Winckelmann, l'immagine ideale dell'individuo.
Quel carattere, da cogliersi idealmente, che è il rilievo di
uno speciale aspetto dell'idea dell'umanità, si fa visibile
nei transitori affetti e passioni, nelle reciproche alterne
modificazioni del conoscere e del volere: cose tutte esprimentisi
nel volto e nel movimento.
Appartenendo ognora l'individuo all'umanità, e viceversa
rivelandosi ognora l'umanità nell'individuo, anzi rivelandosi
con la particolar significazione ideale di esso, non può
né la bellezza esser cancellata dal carattere, né
questo da quella: perché soppressione del carattere della
specie a tutto vantaggio di quello individuale darebbe caricatura; e
soppressione dell'individuale, per lasciare il solo carattere della
specie, darebbe insignificanza. Dovrà quindi la
rappresentazione, in quanto miri alla bellezza, – il che fa
soprattutto la scultura – sempre modificar tuttavia quella (ossia il
carattere della specie) in taluna cosa mediante il carattere
individuale; e l'idea dell'umanità sempre esprimere in
determinata, individuale maniera, rilevandone un particolare
aspetto; imperocché l'umano individuo come tale ha la
dignità di un'idea sua propria, ed all'idea
dell'umanità è appunto essenziale il manifestarsi in
individui di speciale significazione. Perciò nelle opere
degli antichi troviamo, che la bellezza da loro limpidamente intuita
non è espressa da una figura sola, ma da molte, aventi
carattere diverso, quasi fosse colta sempre sotto un nuovo aspetto,
e quindi altrimenti rappresentata in Apollo, altrimenti in Bacco,
altrimenti in Ercole, altrimenti in Antinoo: anzi, il caratteristico
può limitare il bello e addirittura arrivar fino alla
bruttezza, nel Sileno ebbro, nel Fauno, e così via. Ma se il
caratteristico perviene a sopprimer veramente il carattere della
specie, ossia a toccare l'innaturale, diventa caricatura. Tuttavia
molto meno ancora della bellezza deve la grazia venir sopraffatta
dal caratteristico: qualunque posizione e movimento richieda
l'espressione del carattere, devono tuttavia quelli esser presi o
compiuti nel modo più adatto alla persona, più
confacente allo scopo e più facile. Tale precetto
osserverà non soltanto lo scultore e pittore, ma pur ciascun
buon attore: in caso contrario, si ha anche qui caricatura, sotto
forma di contorcimento, distorsione.
Nella scultura rimangono bellezza e grazia la qualità
essenziale. Il vero carattere dello spirito, rilevantesi in affetto,
passione, giuoco alterno del conoscere e volere, rappresentabile
solo mediante l'espressione del volto ed il gesto, è
soprattutto privilegio della pittura. Perché sebbene occhi e
colorito, – i quali stanno fuor del dominio della scultura – molto
contribuiscano alla bellezza, ben più sono essenziali per il
carattere. Inoltre la bellezza si dispiega più completamente
a chi l'osservi da vari lati: mentre la espressione, il carattere,
possono anche da un sol punto di vista essere compresi appieno.
Essendo la bellezza precipuo fine della scultura, ha Lessing cercato
di spiegare il fatto che Laocoonte non grida, con l'addurre che il
gridare non sia compatibile con la bellezza. Poi che per Lessing
questo argomento divenne il tema, o per lo meno il punto di
partenza, d'un libro speciale, ed anche prima e dopo di lui tanto vi
si è scritto intorno, sia a me concesso di esporre qui per
incidenza la mia opinione a questo proposito; sebbene un'analisi
tanto particolare non entri propriamente nella trama di
un'argomentazione, che mira, in modo esclusivo, ai principi
generali.
§ 46.
Che Laocoonte, nel celebre gruppo, non gridi, è palese, e la
generale, sempre rinnovata sorpresa che se ne prova, deve provenir
dal fatto che noi tutti, al suo posto grideremmo. E ciò
richiede la natura stessa: che nel vivissimo dolor fisico e nella
massima, improvvisa angoscia corporea, ogni riflessione, la quale
potesse per avventura indurci a un tacito patire, è del tutto
bandita dalla conscienza; e la natura si sfoga nel gridare, con che
insieme esprime il dolore e il terrore, il salvatore invoca e
l'assalitore spaventa. Già Winckelmann sentì quindi
una mancanza, non trovando la espressione del gridare: ma
nell'intento di giustificar lo scultore, fece invero di Laocoonte
uno stoico, il quale non ritiene conforme alla propria
dignità il gridare secundum naturam, bensì al proprio
dolore aggiunge ancora l'inutile sforzo di comprimerne
l'espressione: Winckelmann vede quindi in lui «lo spirito
provato di un uomo grande, il quale lotta col martirio, e cerca di
soffocare e rinserrare in sé l'espressione di ciò che
prova: egli non prorompe in alte grida, come fa in Virgilio, ma
solamente gli sfuggono angosciosi sospiri», e così via
(Werke, vol. VII, p. 98. Lo stesso più ampiamente, vol. VI,
pp. 104 sg.). Ora, quest'opinione di Winckelmann criticò
Lessing nel suo Laocoonte, e la corresse nel modo sopra indicato; il
motivo psicologico sostituì col motivo, puramente estetico,
che la bellezza – principio fondamentale dell'arte antica – non
ammette la espressione del grido. Un altro argomento da lui addotto,
che cioè uno stato affatto passeggero e incapace di durata
non si possa esprimere in un'immobile opera d'arte, ha contro di
sé cento esempi di figure ammirabili le quali sono fissate in
movimenti più che fuggitivi, danzando, lottando, inseguendo.
Anzi, Goethe nel suo scritto sul Laocoonte, che inizia i Propilei
(p. 8), tiene la scelta d'un tal momento affatto fuggitivo per
addirittura indispensabile. A' nostri giorni Hirt (Horen, 1797, X),
tutto riducendo alla massima verità dell'espressione,
concluse nel senso che Laocoonte non grida, perché,
già in procinto di morir soffocato, non può più
gridare. Da ultimo Fernov (Römische Studien, vol. I, pp. 426
sg.) ha illustrato e pesato le tre opinioni precedenti, senza
tuttavia recarne alcuna nuova; ma quelle tre componendo e
unificando.
Non posso a meno di stupirmi, che sì riflessivi e acuti
uomini faticosamente vadano a cercar lontano ragioni inadeguate,
s'afferrino ad argomenti psicologici, o addirittura fisiologici, per
chiarire un fatto, la cui ragione è ben prossima e subito
palese ad uno spirito spregiudicato, – e stupirmi soprattutto che
Lessing, il quale tanto s'appressò alla giusta spiegazione,
non abbia poi colto per nulla nel segno.
Prima d'ogni indagine psicologica e fisiologica, se Laocoonte nella
sua situazione debba o no gridare – ciò che d'altronde io
affermerei senz'altro – riguardo a quel gruppo è da mettere
in chiaro, che non poteva il gridare esservi espresso, per il
semplice motivo che la rappresentazione del grido sta completamente
fuor del dominio della scultura. Non si poteva dal marmo trarre un
urlante Laocoonte, ma solo un che sgangheri la bocca e invano si
sforzi d'urlare: un Laocoonte a cui la voce s'è arrestata
nelle fauci, vox faucibus haesit. L'essenza, e quindi anche
l'effetto del gridare sullo spettatore, è tutto nel suono,
non nello spalancare la bocca. Quest'ultimo fenomeno, che di
necessità accompagna il gridare, deve venir motivato e
giustificato dal suono che per esso è prodotto: allora, come
caratteristico per l'azione, è ammissibile, anzi necessario,
quand'anche nuoccia alla bellezza. Ma nell'arte figurativa, a cui la
rappresentazione del gridare è del tutto estranea e negata,
effettivamente incomprensibile sarebbe il rappresentar la bocca
spalancata, violento mezzo nel grido, che altera tutti i lineamenti
e il resto dell'espressione; perché si porrebbe innanzi agli
occhi un mezzo, che esige molti sacrifizi del rimanente, mentre il
fine di esso, il grido, verrebbe a mancare insieme col relativo
effetto sul nostro animo. Anzi – e questo è peggio – si
produrrebbe con ciò lo spettacolo sempre ridicolo di uno
sforzo che rimane senz'effetto: spettacolo da paragonarsi a quel che
si procurò un burlone, riempiendo di cera il corno d'una
guardia notturna addormentata, per poi risvegliarla e godersi i suoi
vani tentativi di suonare. Là dove invece la rappresentazione
del gridare sta nel dominio dell'arte, essa è pienamente
ammissibile, perché serve alla verità, ossia alla
compiuta rappresentazione dell'idea. Così nella poesia, la
quale per la rappresentazione intuitiva si rivolge alla fantasia del
lettore: perciò mugghia Laocoonte presso Virgilio, come un
toro che si sia sciolto dai legami dopo che la scure l'ha colpito:
perciò fa Omero (Il, XX, 48-53) orrendamente urlare Marte e
Minerva, senza danno della lor dignità di dei, né
della divina bellezza. E così nell'arte scenica: Laocoonte
sulla scena doveva assolutamente gridare; anche Sofocle fa urlare
Filottete, e sull'antica scena questi avrà urlato per
davvero. Similmente ricordo d'aver visto in Londra il celebre attore
Kemble rappresentare, in un dramma tradotto dal tedesco, Pizarro, la
parte dell'americano Rolla, un mezzo selvaggio, ma di nobilissimo
carattere: questi, ferito, diede in un grido alto e veemente, che,
essendo oltremodo caratteristico, molto contribuiva alla
verità dell'azione. All'opposto sarebbe un gridare dipinto o
impietrato ancor più ridicolo, che una dipinta musica, quale
già vien condannata nei Propilei goethiani; imperocché
il gridare nuoce alla rimanente espressione e alla bellezza molto
più della musica, la quale di solito occupa soltanto mani e
braccia, e va considerata come un atto caratteristico della persona;
sì che sotto questo rispetto si può benissimo
rappresentare in pittura, fin quando non richieda moti impetuosi del
corpo o deformazione della bocca: come per esempio la Santa Cecilia
all'organo e il Violinista di Raffaello nella Galleria Sciarra in
Roma, e molti altri. Poiché adunque, a causa dei limiti
dell'arte, non poteva il dolore di Laocoonte venire espresso col
grido, dovè l'artista porre in uso ogni altra espressione del
dolore stesso: questo egli ha fatto con perfezione suprema, secondo
espone sì magistralmente Winckelmann (Werke, vol. VI, pp. 104
sg.), la cui mirabile descrizione acquista perciò valore e
verità pieni, quando se ne tolga soltanto l'attribuzione a
Laocoonte di un animo stoico.
§ 47.
Essendo bellezza e grazia il principale oggetto della scultura,
questa predilige il nudo, e tollera vestimento solo se esso non cela
le forme. Del drappeggiamento si serve non per nascondere, ma per
rappresentare in un modo indiretto la forma: maniera di
rappresentare, che molto occupa l'intelletto, il quale così
non perviene all'intuizione della causa, ossia della forma corporea,
se non attraverso il solo effetto datogli direttamente, ossia
attraverso la disposizione delle pieghe. Il drappeggiamento è
quindi nella scultura in certo modo quel che nella pittura è
lo scorcio.
L'uno e l'altro sono accenni: non già simbolici, ma tali, che
– quando siano ben riusciti – direttamente costringono l'intelletto
a intuir la cosa accennata come se fosse effettiva, rappresentata in
realtà.
Mi sia concesso d'intercalar qui per incidenza un paragone
riferentesi alle arti oratorie. Come la bella forma corporea
è nel modo più vantaggioso visibile con un
abbigliamento leggerissimo, o addirittura senza, e quindi un uomo
molto bello se avesse buon gusto e gli fosse lecito usarne, andrebbe
di preferenza quasi nudo, vestito appena a mo' degli antichi; –
così ciascuno spirito bello, ricco di pensiero, si
esprimerà sempre nella più naturale, schietta,
semplice maniera; cercando, ove sia possibile, di comunicare agli
altri i suoi pensieri, per alleviare così a se stesso la
solitudine che in un mondo come questo deve sentire.
All'opposto povertà di mente, confusione, stortezza si
vestiranno delle espressioni più ricercate e dei modi
più oscuri per avvolgere così, in frasi difficili e
pompose, piccoli, meschini, insipidi o comuni pensieri: come quegli
che, mancando a lui la maestà della bellezza, a tale mancanza
vuol riparare col vestito; e la meschinità o bruttezza della
persona cerca di nascondere sotto barbarico sfoggio, luccicanti
fronzoli, piume, gale, sboffi e mantello.
Imbarazzato come costui se dovesse andar nudo, sarebbe più
d'un autore, se fosse costretto a tradurre in forma chiara la povera
sostanza del suo libro sì pomposo ed oscuro.
§ 48.
La pittura storica ha, oltre la bellezza e la grazia, anche il
carattere per suo oggetto principale: con la qual parola s'intende
la rappresentazione della volontà nel massimo grado della sua
oggettivazione, dove l'individuo – nel quale ha rilievo uno speciale
aspetto dell'idea di umanità – acquista una sua particolare
significanza, e questa non con la forma sola da a conoscere, ma con
ogni maniera d'azione e con le modificazioni del conoscere e del
volere (visibili nel volto e nei gesti) onde quell'azione è
determinata e accompagnata. Poi che l'idea dell'umanità va
espressa in sì vasta cerchia occorre che i suoi molteplici
aspetti ci vengano offerti da individui ben significanti; e questi
alla lor volta possono esser fatti palesi nella lor significazione
solo mediante scene, eventi e atti svariati. Questo suo compito
infinito adempie la pittura storica col porre davanti agli occhi
ogni specie di scene della vita, di grande o piccolo significato.
Né un individuo qualsiasi, né una qualsiasi azione
possono essere senza significato: in ciascuno e con ciascuna si fa
sempre più manifesta l'idea dell'umanità.
Perciò nessunissimo fatto della vita umana va escluso dalla
pittura. E gran torto si fa agli eccellenti pittori della scuola
olandese, lodando esclusivamente la loro perizia tecnica, ma per il
resto disdegnandoli, perché essi rappresentano di solito
oggetti della vita comune: mentre invece si ritengono significanti
solo i grandi fatti della storia universale o quelli della Bibbia.
Si dovrebbe prima di tutto riflettere, che l'intimo significato di
un'azione è affatto diverso dal significato esteriore, e
l'uno spesso procede separato dall'altro. Il significato esterno
è l'importanza di un'azione in rapporto alle sue conseguenze
e nel mondo reale e pel mondo reale; ossia, in base al principio di
ragione. Il significato intimo è la più o meno
profonda penetrazione nell'idea dell'umanità, che
quell'azione può dare col mettere in luce i meno comuni
aspetti di tale idea; facendo che individualità nettamente e
apertamente rivelantisi dispieghino – per mezzo di opportune
circostanze – le loro caratteristiche. Solo il significato intimo
conta nell'arte: l'esteriore conta nella storia. Entrambi sono
affatto indipendenti l'uno dall'altro; possono presentarsi insieme,
ma anche isolati. Un'azione altamente significativa per la storia
può essere comune e banale nel suo senso interiore; e
viceversa può una scena della vita comune avere un senso
interiore grande, quando umani individui e umano agire e volere vi
appaiano, fino alle più riposte pieghe, in una luce limpida e
chiara. Anche può, in azioni di molto vario significato
esteriore, esser l'interiore uno e identico. Così, per
esempio, valgono rispetto a quest'ultimo in egual modo ministri, che
sulla carta geografica si contendono terre e popoli, o contadini,
che nella taverna vogliono l'un contro l'altro affermare il loro
diritto a proposito di carte da giuoco e di dadi: come è
indifferente se si giochi a scacchi con pezzi d'oro o di legno.
Inoltre le scene e gli eventi, ond'è fatta la vita di tanti
milioni d'uomini, e il loro agire e adoprarsi, la lor pena e la loro
gioia, sono già di per sé importanti abbastanza per
essere oggetto dell'arte; e devono, con la ricca varietà
loro, dare materia sufficiente a che si dispieghi la multifronte
idea dell'umanità. La fugacità stessa dell'attimo, che
l'arte ha fissato in un tal quadro (detto oggi quadretto di genere),
produce una lieve, particolare commozione: imperocché il
fermar con durevoli tratti l'effimero mondo, che incessantemente si
trasmuta, in singoli episodi, che pur danno immagine del Tutto,
è tal compito della pittura, che per esso ella sembra rendere
immobile il tempo, innalzando il singolo caso all'idea della sua
specie. Finalmente i soggetti storici, ed esteriormente
significativi, della pittura, hanno spesso lo svantaggio, che per
l'appunto ciò che in essi è più significante
non è rappresentabile per l'intuizione, bensì
dev'esservi sovrapposto col pensiero. Sotto questo rispetto il
significato nominale del quadro va di regola distinto dal reale:
quello è il significato esterno, che viene ad aggiungersi
soltanto come pensiero; questo è una faccia dell'idea
dell'umanità, dal quadro rivelata all'intuizione. Quello
sarà, per esempio, Mosè trovato dalla principessa
egiziana: momento essenzialissimo per la storia; il senso reale
invece, il vero dato dell'intuizione, è un trovatello che una
donna salva dalla sua culla natante – episodio che può essere
accaduto sovente. Solo il costume può qui far conoscere a un
uomo colto che si tratta di quel determinato fatto storico; ma il
costume, se ha valore per il senso nominale, è indifferente
per il reale: poi che quest'ultimo conosce soltanto l'uomo come
tale, e non le forme occasionali. Soggetti presi dalla storia non
hanno alcun vantaggio su quelli che, tolti dalla semplice
possibilità, non possono avere un titolo individuale,
bensì generale: imperocché ciò, che veramente
importa nei primi, non è l'individuale, non è il
singolo fatto per se stesso, bensì quanto vi si contiene
d'universale, l'aspetto dell'idea d'umanità, che per suo
mezzo si esprime. D'altronde non sono perciò punto da
rigettare anche determinati soggetti storici: ma in questo caso la
vera mira artistica, sia del pittore sia dello spettatore, non tende
a ciò che v'ha d'individuale, a ciò che propriamente
costituisce la nota storica, bensì all'universale, che vi si
esprime, all'idea. Inoltre vanno scelti solo quei soggetti storici,
in cui la sostanza sia davvero rappresentabile, e non vada invece
aggiunta col pensiero: che altrimenti il senso nominale troppo si
allontana dal reale; e ciò che innanzi al quadro non è
che pensato, diviene l'elemento più importante, a danno di
ciò che è intuito. Se già sul palcoscenico
è un difetto (come nella tragedia francese) che l'azione
principale si svolga dietro le quinte, evidentemente questo difetto
è di gran lunga maggiore nel quadro. Effetto decisamente
cattivo producono le scene storiche sol quando costringono il
pittore in un terreno arbitrario, e scelto con fini estranei
all'arte; ma soprattutto quando codesto terreno è povero di
soggetti pittorici e significanti, – come sarebbe, per esempio, la
storia d'un piccolo, segregato, caparbio popolastro, fatto segno al
disprezzo di tutti i grandi popoli dell'oriente e dell'occidente
suoi contemporanei, qual è quello dei giudei. Poi che tra noi
e tutti i popoli antichi sta come un termine la migrazione barbarica
– nel modo stesso in cui tra l'attuale superficie terrestre e
quella, di cui ci si mostrano pietrificati gli organismi, sta
l'avvenuto spostamento del letto marino – è da considerarsi
gran male che non siano per avventura gl'indiani o, i greci, o anche
i romani il popolo la cui passata civiltà serva di precipua
base alla nostra, bensì proprio codesti giudei. E fu
specialmente una cattiva stella pei geniali pittori d'Italia, nel XV
e XVI secolo, il doversi appigliare – nella breve cerchia in cui
erano arbitrariamente ridotti, per la scelta dei loro argomenti – a
ogni maniera di miseri soggetti: perché il Nuovo Testamento
è, nella parte storica, quasi ancor più sfavorevole
alla pittura che l'Antico non sia; e soggetto infelicissimo è
la susseguente storia dei martiri e dei Padri della Chiesa. Bisogna
tuttavia ben distinguere dai quadri, che hanno per soggetto la parte
storica o mitologica del giudaismo e del cristianesimo, quelli, nei
quali il verace ossia l'etico genio del cristianesimo viene offerto
all'intuizione, rappresentandovisi uomini che di quel genio son
pieni. Codeste rappresentazioni sono invero le più alte e
ammirabili opere della pittura: riuscite unicamente ai maestri
maggiori dell'arte, a Raffaello ed al Correggio – quest'ultimo
particolarmente ne' suoi primi quadri. Opere di tal natura non vanno
punto annoverate tra le pitture storiche, imperocché di
solito non rappresentano un fatto, un'azione: sono bensì
semplici gruppi di santi, o del Salvatore medesimo, spesso ancor
bambino, con sua madre, angeli, etc. Nei loro volti, e specialmente
negli occhi, vediamo l'espressione, il riflesso della più
perfetta conoscenza: di quella, che non a singole cose è
rivolta, bensì ha pienamente afferrato le idee, ossia
l'intero essere del mondo e della vita. La qual conoscenza operando
in essi, di ritorno, sulla volontà, non fornisce a questa,
come l'altra conoscenza, motivi; ma viceversa è divenuta un
quietivo d'ogni volontà, dal quale provengono la perfetta
rassegnazione – ch'è lo spirito intimo del cristianesimo come
dell'indiana saggezza – la rinunzia a tutte le brame, l'abdicazione,
la soppressione della volontà e con essa dell'intera essenza
di questo mondo: ossia, la redenzione. Così quei maestri
dell'arte in eterno laudati ci espressero intuitivamente con le
opere loro la saggezza suprema. E qui è la vetta dell'arte:
la quale, dopo aver perseguito la volontà, nella sua adeguata
oggettità – le idee – per tutti i gradi, dai più
bassi, ove la eccitano cause, ai meno bassi, ove la eccitano
stimoli, e finalmente ai superiori, in cui sì variamente la
muovono motivi e ne dispiegano l'essenza; alla fine termina col
rappresentarne la libera abolizione mediante quel solo grande
quietivo, che a lei viene dalla perfetta cognizione della sua
propria essenza17.
§ 49.
Tutte le nostre considerazioni sull'arte finora svolte hanno sempre
per base la verità, che suo oggetto – la cui rappresentazione
è scopo dell'artista, e la cui conoscenza deve quindi
preceder come germe e principio l'opera di lui – è un'idea,
nel senso platonico, e nient'altro: non la cosa singola, oggetto
della comune percezione; né meno il concetto, ch'è
oggetto del pensar razionale e della scienza. Sebbene idea e
concetto abbiano qualcosa in comune, rappresentando l'una e l'altro
come unità una pluralità di cose reali, dev'esser
tuttavia risultata chiara e luminosa la differenza loro, dopo quanto
nel primo libro si disse intorno al concetto; e intorno all'idea nel
libro presente. Che nondimeno già Platone avesse ben compresa
codesta differenza, non voglio punto affermare: che anzi taluni tra'
suoi esempi d'idee e tra' suoi chiarimenti in proposito sono
applicabili soltanto a concetti. Basti per ora di ciò, e
andiamo pel nostro cammino: rallegrandoci bensì ogni qual
volta ci accada d'incontrar la via segnata da un grande e nobile
spirito, ma ognora mirando alla nostra meta e non alle tracce di
quello. Il concetto è astratto, discorsivo, affatto
indeterminato entro la propria sfera, determinato solo nei confini
della medesima; raggiungibile e afferrabile da ciascuno con la sola
ragione; comunicabile in parole senz'altra mediazione, tutto
esaurito dalla propria definizione. L'idea invece, che al più
va definita come adeguata rappresentante del concetto, è del
tutto intuitiva, e, sebbene rappresenti un'infinità di
singole cose, è tuttavia ben determinata. Dall'individuo come
tale non è mai conosciuta, ma sol da quegli, che s'è
elevato sopra ogni volere e ogni individualità a puro
soggetto nel conoscere: quindi a lei perviene solamente il genio, e
in secondo luogo chi si trovi in una disposizione geniale, mediante
un innalzamento della sua pura forza conoscitiva, il più
delle volte dalle opere del genio prodotta. L'idea non è
quindi comunicabile senz'altro, ma solo condizionatamente, in quanto
l'idea percepita e riprodotta nell'opera d'arte parla a ciascuno
secondo la misura del suo valore intellettuale: perciò
proprio le più eccellenti opere di ogni arte, i più
nobili prodotti del genio, devono per l'ottusa maggioranza degli
uomini rimaner libri chiusi in eterno, ad essa inaccessibili,
separati da un largo abisso, sì come al volgo è
inaccessibile il commercio dei principi. È vero, che anche i
più ottusi ammettono per sentito dire le opere riconosciute
grandi: ma nell'ombra si tengono pronti ognora a criticarle, non
appena li si lasci sperare che possan farlo senza compromettersi –
nel che gioiosamente si sfoga il loro astio a lungo celato contro
tutte le cose grandi e belle, che per non averli mai toccati li
umiliavano, e contro i creatori di quelli. Imperocché di
regola, per riconoscere e ammettere spontaneamente, liberamente, il
valore altrui, bisogna averne di proprio. Su ciò poggia la
necessità della modestia malgrado qualsivoglia merito, ed
anche la lode sproporzionatamente alta di codesta virtù: la
quale, sola tra tutte le sue sorelle, da ciascuno, che ardisca
esaltare un uomo in qualche modo segnalato, è ogni volta
aggiunta alle altre lodi di lui, per conciliarsi gl'inetti e
placarne il livore. Che cos'è la modestia, se non finta
umiltà, con la quale, in un mondo turgido di bassa invidia,
si vuol mendicare per i propri vantaggi e meriti il perdono di
quelli che non ne hanno? Poiché colui il quale né
vantaggi né meriti s'attribuisce, perché
effettivamente non ne possiede, non è modesto, ma appena
onesto.
L'idea è l'unità infranta nella pluralità,
secondo la forma temporale e causale della nostra apprensione
intuitiva: invece il concetto è l'unità, dalla
pluralità novellamente ricostituita, mediante il procedere
astratto della nostra ragione. Questa si può chiamare unitas
post rem, quella unitas ante rem. Da ultimo la differenza tra
concetto e idea si può ancora indicare con un paragone,
dicendo: – II concetto somiglia a una inerte custodia, nella quale
effettivamente viene a giustapporsi ogni cosa che vi si ponga; ma da
cui nulla può esser tolto (mediante giudizi analitici)
più di quanto vi si sia posto (mediante sintetica
riflessione). L'idea invece sviluppa, in quegli che l'ha afferrata,
rappresentazioni che sono nuove in rapporto al concetto omonimo:
ella somiglia a un vivente, sviluppantesi organismo, dotato di forza
generativa, il quale produce quel che non conteneva incasellato
dentro di sé.
Da tutto ciò risulta che il concetto, per quanto sia
giovevole alla vita, per quanto utile, necessario e fecondo alla
scienza, è in eterno sterile per l'arte. Vera e unica
sorgente d'ogni genuina opera d'arte è la percepita idea.
Nella sua robusta originalità viene ella attinta unicamente
alla vita medesima, alla natura, al mondo; e unicamente anche per
mezzo del genio vero, o di chi sia per quell'attimo asceso fino a
raggiungere la genialità. Sol da questa diretta concezione
nascono capolavori, che recano in sé vita immortale. Appunto
perché l'idea è intuitiva, e tale rimane, non è
l'artista consapevole in abstracto dell'intenzione e della meta a
cui tende l'opera sua; non un concetto, ma un'idea gli fluttua
davanti: perciò non può render conto del suo operare.
Lavora, come si suol dire, di puro sentimento, e inconsapevole, anzi
per istinto. Viceversa imitatori, artefici di maniera, imitatores,
servum pecus, procedono nell'arte movendo dal concetto: prendon nota
di ciò che nelle vere opere d'arte piace e commuove, se lo
rendono chiaro, lo afferrano in forma di concetto, astrattamente, e
lo imitano infine, in modo aperto o palese, con avveduta intenzione.
Succhiano il lor nutrimento, simili a piante parassite, da opere
altrui; e, simili a polipi, prendono il colore di ciò che
mangiano. Anzi, andando innanzi coi paragoni, si potrebbe affermare,
che somigliano a macchine, le quali perfettamente tritino e
frammischino quanto vi si getta dentro, ma senza poterlo mai
digerire: sì che i diversi componenti si possan sempre
ritrovare, trar fuori della miscela ed isolare: mentre il genio
somiglierebbe invece all'organismo, che assimila, trasforma e
produce. Imperocché il genio viene bensì educato e
formato dai predecessori e dalle opere loro; ma la vita e il mondo
stesso, direttamente, lo fecondano con l'intuizione: perciò
anche una ricchissima cultura non può recar danno alla sua
originalità. Tutti gl'imitatori, tutti i manieristi
percepiscono in forma di concetto l'essenza dei capolavori altrui;
ma concetti non possono mai dar vita interna a un'opera. I
contemporanei – ossia l'opaca folla d'ogni generazione – non
conoscono anch'essi altro che concetti, e vi si attaccano, e
accolgono quindi le opere manierate con rapido e alto plauso: ma le
stesse opere sono dopo brevi anni già indigeste,
perché lo spirito del tempo – vale a dire, i concetti
dominanti – in cui quelle avevano la loro unica base, è
mutato. Soltanto le vere opere d'arte, le quali dalla natura, dalla
vita sono direttamente inspirate, rimangono, come queste
perennemente giovani, e poderose in eterno. Imperocché non
appartengono a una data epoca, ma all'umanità: e come
perciò appunto dal loro proprio tempo – a cui disdegnarono di
conformarsi – furono tiepidamente accolte, e, svelando in modo
indiretto e negativo gli errori di quello, furono tardi e contro
voglia riconosciute; così in compenso non possono
invecchiare, e ancor ne' tempi più lontani parlano con voce
fresca e sempre giovane: non più esposte a venir trascurate o
misconosciute, ma immutabilmente coronate e sanzionate dal plauso
delle poche teste capaci di giudicare, le quali compaiono isolate e
rare nei secoli18 e depongono i loro voti – la cui somma lentamente
crescendo serve di base a quell'autorità, che sola
costituisce il tribunale, a cui si allude quando diciamo di fare
appello alla posterità. Sole formano il tribunale queste
teste isolate, che successivamente appariscono: perché la
folla della posterità sarà e rimarrà in ogni
tempo stolta e ottusa come nel passato e come nel presente. Si
leggano i lamenti di grandi spiriti, in ogni secolo, intorno ai loro
contemporanei: sembrano di oggi, perché la razza è
sempre la medesima. In ciascun tempo ed in ciascuna arte la maniera
prende il posto del genio, che sempre è proprietà
esclusiva di pochi: ma la maniera è come il vecchio vestito
smesso della più recente, riconosciuta apparizione del genio.
In conseguenza di tutto ciò, il plauso dei posteri non
s'acquista di regola se non a costo del successo contemporaneo; e
viceversa19.
§ 50.
Se adunque è fine di tutte le arti il comunicar la percepita
idea, la quale appunto per l'interposizione dello spirito
dell'artista, in cui apparisce purificata e isolata, diventa alfine
accessibile anche a chi abbia ricettività più debole,
e nessuna produttività; se inoltre è nell'arte da
rigettarsi il muover dal concetto; non potremo per conseguenza
approvare, che un'opera d'arte sia intenzionalmente e palesemente
destinata all'espressione d'un concetto: com'è il caso
dell'allegoria. Un'allegoria è un'opera d'arte, la quale
significa alcunché di diverso da quel che rappresenta. Ma
ciò che è intuitivo, e quindi anche l'idea, si esprime
da sé in modo diretto e compiuto, né ha bisogno di
altro intermediario, dal quale esso venga significato velatamente.
Quel che in tal modo viene adunque significato e rappresentato
mediante alcunché di affatto diverso, non potendo esso
medesimo venire offerto all'intuizione, è sempre un concetto.
Con l'allegoria viene quindi ognora significato un concetto, e per
conseguenza la mente dello spettatore è condotta lungi
dall'offertale rappresentazione intuitiva verso un'altra astratta,
non intuitiva, che sta tutta fuori dell'opera d'arte: così il
quadro o la statua devono compiere quel che compie, solo in modo
più completo, la scrittura. Quel che per noi è il fine
dell'arte – rappresentazione dell'idea percepibile solo
intuitivamente – non è quivi più il fine. Per la mira,
a cui nell'allegoria si tende, non è neppur necessaria una
gran perfezione dell'opera d'arte: basta che si vegga che cosa sia
l'oggetto; perché, una volta trovato questo, lo scopo
è raggiunto, e lo spirito è condotto verso una
rappresentazione di tutt'altra natura, verso un concetto astratto
che era appunto il fine proposto. Allegorie nell'arte figurativa non
sono perciò altro che geroglifici: il pregio artistico, che
d'altronde possono avere come rappresentazioni intuitive, non
appartiene loro in quanto sono allegorie, ma per un altro verso. Che
la Notte del Correggio, il Genio della Fama di Annibale Carracci, le
Ore del Poussin siano bellissime pitture, è cosa affatto
indipendente dall'essere allegorie. Come allegorie non dicono
più di un'iscrizione – anzi piuttosto meno. Siamo qui
richiamati alla distinzione, fatta più sopra, tra il senso
reale e il nominale d'un quadro. Il nominale è qui appunto
l'allegorico, come, per esempio, il Genio della Fama; il reale
è ciò che in effetti vien rappresentato: nel caso
presente, un bel giovane alato, con bei fanciulli intorno. Questo
esprime un'idea: ma cotal senso reale agisce solo fin che sia posto
in oblio il senso nominale, allegorico; basta pensarvi,
perché l'intuizione si allontani e un concetto astratto
occupi lo spirito: ora il passaggio dall'idea al concetto è
sempre una caduta. Sì, quel senso nominale, quell'intenzione
allegorica fa spesso danno al senso reale, alla verità
intuitiva: come, per esempio, l'innaturale luce nella Notte del
Correggio, la quale, per quanto ben dipinta, tuttavia è
motivata solo dall'allegoria, ed in realtà impossibile. Se
quindi un quadro allegorico ha pregio d'arte, questo è del
tutto separato e indipendente dall'ufficio dell'allegoria: un'opera
siffatta serve insieme a due scopi, ossia all'espressione d'un
concetto e all'espressione di un'idea, ma esclusivamente il secondo
può essere un fine dell'arte, mentre l'altro è uno
scopo estraneo; è la piacevolezza scherzosa, di far che un
quadro serva in pari tempo come un'iscrizione, un geroglifico:
piacevolezza inventata a vantaggio di coloro per cui è muta
l'essenza vera dell'arte. Gli è allora come se un'opera
d'arte fosse in pari tempo un arnese d'utilità pratica, nel
qual caso anche serve a due scopi: per esempio una statua, che sia
insieme candelabro o cariatide, o un bassorilievo, che sia
contemporaneamente scudo d'Achille. Sinceri amici dell'arte non
gusteranno né l'una né l'altro. È vero, che
un'immagine allegorica può appunto in questa sua
qualità produrre un vivo effetto sull'animo: ma l'effetto
medesimo produrrebbe, in circostanze eguali, anche un'iscrizione.
Così, per esempio, se nell'animo d'un uomo sia fermamente e
fortemente radicata la brama della gloria, ed egli guardi alla
gloria come a sua legittima proprietà, a lui negata sol
finché ei non abbia prodotto i titoli del suo possesso; e
quest'uomo venga davanti al Genio della Fama coronato d'alloro;
tutto il suo animo ne sarà infervorato, e la sua energia
spronata all'azione. Ma non accadrebbe altrimenti, se d'un tratto e'
leggesse grande e chiara sulla parete la parola
«gloria». Oppure, se un uomo abbia svelata una
verità, la quale sia importante o come regola per la vita
pratica, o come cognizione per la scienza, ma non trovi fede;
agirà profondamente su di lui un'immagine allegorica del
Tempo, che alzi il velo e scopra la verità nuda. Ma non
altrimenti agirebbe il motto: «Le temps découvre la
vérité». Imperocché ciò che quivi
propriamente agisce è sempre il solo pensiero astratto, e non
la cosa intuita.
Ora se, come abbiamo visto, l'allegoria nell'arte figurativa
è una tendenza viziosa, asservita ad un fine, che all'arte
è affatto estraneo, codesta tendenza diviene addirittura
insopportabile, se è spinta a tal segno che la
rappresentazione di sottigliezze forzate e introdotte
arbitrariamente venga a cader nell'insulso. Di tal fatta è,
per esempio, una testuggine, che voglia indicar la ritrosia
femminile; la Nemesi, che si guardi in seno dentro al vestito, per
significar ch'ella vede anche l'ascoso; la dichiarazione del
Bellori, che Annibale Carracci abbia vestita di giallo la
voluttà, per esprimere che le sue gioie tosto appassiscono e
si fanno gialle come paglia. Se adunque tra la cosa rappresentata e
il concetto, per suo mezzo significato, non è alcun legame
che abbia per base la sussunzione sotto quel soggetto e
l'associazione delle idee; ma segno e cosa significata stanno in
connessione tutta convenzionale, mediante un ravvicinamento positivo
e provocato a caso: allora io chiamo simbolo questa varietà
dell'allegoria. Così la rosa è simbolo della
discrezione, l'alloro simbolo della gloria, la palma simbolo della
vittoria, la conchiglia simbolo del pellegrinaggio, la croce simbolo
della religione cristiana: e qui vengono anche tutte le
significazioni dirette attribuite ai semplici colori, per esempio,
il giallo come colore della falsità, l'azzurro della
fedeltà. Cotali simboli possono sovente giovar nella vita, ma
all'arte il lor pregio è straniero: sono da considerare in
tutto come geroglifici, o addirittura come caratteri cinesi, ed
appartengono in realtà alla stessa categoria degli stemmi,
della frasca posta a insegna di un'osteria, delle chiavi da cui si
riconoscono i ciambellani, o del cuoio da cui si conoscono i
minatori. Quando infine certi personaggi storici o mitici, oppure
certi personificati concetti vengono fatti conoscere mediante
simboli convenuti una volta per sempre, forse dovrebbero questi
chiamarsi propriamente emblemi: tali sono le bestie degli
Evangelisti, la civetta di Minerva, il pomo di Paride, l'ancora
della Speranza, e così via. Ma solitamente si da il nome
d'emblemi a quelle immagini parlanti, semplici, e illustrate da un
motto, che servono a raffigurare una verità morale, e di cui
si hanno grandi raccolte per opera di J. Camerarius, Alciatus e
altri: esse formano il trapasso verso l'allegoria poetica, della
quale sarà trattato in seguito. La scultura greca si rivolge
all'intuizione, e però ella è estetica; l'indostana si
rivolge al concetto, e però è solamente simbolica.
Questo giudizio dell'allegoria, poggiato sulle considerazioni fin
qui da noi fatte intorno all'intimo essere dell'arte, e con quelle
strettamente connesso, è proprio l'opposto dell'opinione di
Winckelmann; il quale lungi dal dichiarar l'allegoria affatto
estranea all'arte, e a lei spesso dannosa, costantemente ne sostiene
le parti, anzi (Werke, vol. I, pp. 55 sg.) pone il supremo fine
dell'arte nella «rappresentazione di concetti generali e di
cose non percettibili dai sensi». Sia libero ciascuno
d'accostarsi all'una o all'altra opinione. Ma a me, davanti a questa
ed a consimili opinioni di Winckelmann, concernenti la vera e
propria metafisica dell'arte, apparve limpida la persuasione, che si
possa aver la massima sensibilità e il più esatto
giudizio intorno al bello artistico, senza tuttavia essere in grado
di dar ragione astratta e propriamente filosofica dell'essenza del
bello e dell'arte: così come si può esser d'animo
nobilissimo e virtuoso, e avere una coscienza molto delicata, la
quale di caso in caso proceda con l'esattezza d'una bilancia di
precisione, senza perciò essere in grado di approfondir
filosoficamente e rappresentare in abstracto il valore etico delle
azioni.
Ma un tutt'altro rapporto ha l'allegoria con la poesia che non con
l'arte figurativa, e sebbene qui sia da respingere, colà
è volentieri ammessa e vantaggiosa. Imperocché
nell'arte figurativa ella conduce dal dato intuitivo, dal vero
oggetto di tutte le arti, al pensiero astratto; mentre nella poesia
è il rapporto inverso. Nella poesia quel ch'è dato
direttamente con le parole è il concetto, e scopo più
prossimo è sempre il condur da questo al dato intuitivo, la
cui rappresentazione dev'essere intrapresa dalla fantasia
dell'ascoltatore. Se nell'arte figurativa s'è condotti dal
dato immediato verso qualche altra cosa, questa dev'esser sempre un
concetto, perché qui soltanto l'astratto non può esser
dato immediatamente; ma un concetto non può mai esser
l'origine, né la sua comunicazione esser lo scopo di un'opera
d'arte. Viceversa nella poesia il concetto è il materiale, il
dato immediato, che si può quindi benissimo abbandonare, per
far nascere un'immagine intuitiva del tutto diversa, con la quale
vien raggiunto lo scopo. Nella connessione di una poesia può
qualche concetto, o pensiero astratto, essere indispensabile, pur
non potendo in sé e direttamente esser dato all'intuizione:
esso viene allora sovente reso intuibile per mezzo d'un qualunque
esempio che vi si possa sussumere. Questo si vede già in ogni
espressione figurata, e accade in ogni metafora, paragone, parabola
e allegoria, – tutte figure, che si distinguono solo per la
lunghezza e ampiezza della loro rappresentazione. Per tal motivo
sono d'eccellente effetto paragoni e allegorie nelle arti oratorie.
Come dice bene Cervantes del sonno, per significare ch'esso ci
sottrae a tutti i dolori morali e corporali, «essere un
mantello che copre l'uomo tutto quanto!». Come bene esprime
Kleist allegoricamente il pensiero, che filosofi e scienziati
rischiarano il genere umano, nel verso:
Quei, la cui lampa notturna la terra tutta rischiara!20
Come fortemente e limpidamente Omero indica Ate di mali
apportatrice, dicendo: «ella ha piedi delicati, poiché
non calpesta la dura terra, ma s'aggira soltanto sulle teste degli
uomini» (Il., XIX, 91)! Che effetto ebbe sul fuoruscito popolo
romano la favola, detta da Menenio Agrippa, dello stomaco e delle
membra! Come l'allegoria platonica della caverna, già
riferita, bellamente esprime all'inizio del settimo libro della
Repubblica un astrattissimo dogma filosofico! Similmente va
considerata come profonda allegoria di filosofica tendenza la favola
di Persefone, la quale, per avere gustato una melagrana nel mondo
sotterraneo, cade in potere di questo: e ciò appare
soprattutto luminosamente nella trattazione, superiore a ogni lode,
che di tal favola Goethe ha intrecciato come episodio nel Trionfo
della sensibilità. Tre ampie opere allegoriche io conosco:
allegorica è in modo aperto ed espresso l'incomparabile
Criticon di Baldassar Gracian, consistente in un vasto, ricco
tessuto d'allegorie profondissime intrecciate l'un con l'altra, le
quali servono qui a rivestir gaiamente verità morali, cui lo
scrittore dà appunto in tal modo la massima evidenza
intuitiva, stupefacendosi con la ricchezza delle sue invenzioni. Due
allegorie dissimulate sono invece il Don Chisciotte e Gulliver in
Lulliput. Quello rappresenta allegoricamente la vita di ciascuno, il
quale non voglia, come gli altri, pensare soltanto al suo interesse
personale, ma persegua un fine obiettivo, ideale, che s'è
impadronito del suo pensiero e della sua volontà, per la qual
cosa egli finisce, a dir vero, col comportarsi in questo mondo un
po' stranamente. Nel Gulliver basta dar senso morale a tutto
ciò ch'è materiale, per accorgersi a che abbia mirato
quel satirical rogue, come lo chiamerebbe Amleto. Essendo adunque
dato costante dell'allegoria poetica il concetto, che quella vuol
rendere intuitivo mediante un'immagine, potrà dessa talvolta
esprimersi o aiutarsi magari con un'immagine dipinta: ma questa non
s'ha però da considerare come opera dell'arte figurativa,
bensì unicamente qual parlante geroglifico; né
può pretendere d'aver valore artistico, bensì solo
poetico. Di tal natura è quella bella vignetta allegorica di
Lavater, che tanto deve rianimare il cuore a ciascun nobile
combattente per la verità: una mano, che sorreggendo una
fiaccola viene punta da una vespa, mentre alla fiamma si bruciano
dei moscerini; e in basso sta il motto:
S'arda pure le ali il moscerino,
Gli scoppi il capo e il piccolo cervello;
La luce riman sempre luce.
E s'anco la vespa più irosa mi punge,
Non lascio la luce cadere21.
Qui va ricordata inoltre quella pietra sepolcrale con un lume spento
dal soffio, e che fuma; col motto:
Quand'è spento, si rende allor palese
Se luce era di sego,
oppur di cera22.
Dello stesso genere è infine un antico albero genealogico
tedesco, nel quale l'ultimo rampollo della remotissima schiatta
espresse il suo proposito di menar la vita in tutta continenza e
castità, lasciando così perire la stirpe, col
rappresentar se stesso vicino alla radice dell'albero dai molti
rami, nell'atto di reciderlo con le forbici e abbatterlo su di
sé. E sempre di questo medesimo tipo sono tutte le immagini
parlanti più sopra ricordate, dette emblemi, che si
potrebbero anche definir brevi favole a colori, con la morale
formulata in parole. Cosiffatte allegorie vanno sempre annoverate
tra le poetiche, non tra le pittoriche, e appunto perciò sono
ammesse: la rappresentazione figurata vi sta ognora come un
accessorio, ed a lei non altro si domanda che di far conoscere la
cosa. Ma come nell'arte figurativa, così anche nella poesia
l'allegoria diventa simbolo, quando tra l'oggetto presentato
all'intuizione e l'astrazione per suo mezzo indicata non è
altro legame, se non arbitrario. Appunto perché ogni rapporto
simbolico poggia in sostanza sopra una convenzione, tra gli altri
svantaggi il simbolo ha pur quello che il suo significato si
dimentica col tempo, e finisce col perdersi del tutto: chi
indovinerebbe, se non lo sapesse, perché il pesce è
simbolo del Cristianesimo? Soltanto uno Champolion: essendo esso in
tutto e per tutto un geroglifico fonetico. E perciò
l'Apocalissi di Giovanni ci sta ora innanzi press'a poco come i
bassorilievi con l'iscrizione magnus Deus sol Mithra, intorno ai
quali ancor si fanno chiose23.
§ 51.
Se ora, armati delle nostre considerazioni precedenti sull'arte in
generale, ci volgiamo dalle arti figurative alla poesia, non
dubiteremo, che anch'essa si proponga di rivelar le idee – gradi
dell'oggettivazione della volontà – e con quella chiarezza e
vivacità, in cui le percepì l'animo del poeta,
comunicarle all'ascoltatore. Le idee sono essenzialmente intuitive:
se quindi ciò, che nella poesia vien comunicato direttamente
con parole, sono concetti astratti, è nondimeno palese
l'intenzione di far che il lettore intuisca, nei rappresentanti di
codesti concetti, le idee della vita; la qual cosa non può
aversi senza l'aiuto della fantasia di lui. Ma per scuoter
quest'ultima in conformità del fine, devono i concetti
astratti, che sono il diretto materiale della poesia come della
più arida prosa, esser riuniti in modo, che le loro sfere
s'intersechino, sì che nessuna possa permaner nella sua
astratta universalità; e in luogo di questa si presenti alla
fantasia un suo rappresentante intuitivo, che le parole del poeta
vengano sempre più a modificare secondo l'intento proposto.
Come il chimico da liquidi affatto chiari e trasparenti ricava,
mescolandoli, precipitazioni solide, così il poeta sa
dall'astratta, trasparente universalità dei concetti, secondo
la maniera con cui li collega, far precipitare il concreto,
l'individuale, la rappresentazione intuitiva. Imperocché solo
intuitivamente vien conosciuta l'idea: e conoscenza dell'idea
è lo scopo di tutte le arti. La maestria del poeta, come
quella del chimico, lo fa capace di raccoglier sempre quel
precipitato per l'appunto che si era proposto. A tal fine servono
nella poesia i molti epiteti, dai quali viene limitata
l'universalità di ciascun concetto, sempre più, fino a
renderlo intuibile. Omero accoppia quasi a ogni sostantivo un
aggettivo, il cui concetto taglia la sfera del concetto primo, e
tosto considerevolmente la riduce, sì che questo già
molto s'avvicina all'intuizione: per esempio
Εν δ’επεσ΄ Ωκεανω λαμπρον φαος ηελιοιο,
‘Ελκον νυκτα μελαιναν επι
ξειδωρον αρουραν.
(Occidit vero in Oceanum splendidum lumen solis,
Trahens noctem
nigram super almam terram).
E i versi:
Un lieve vento dal cielo azzurro spira,
Sta immoto il mirto ed alto
sta l'alloro24.
Da pochi concetti traggono innanzi alla fantasia sensibilmente tutta
l'ebbrezza del clima meridionale.
Ausiliarii tutti proprii della poesia sono ritmo e rima. Del loro
effetto, efficace in modo incredibile, non so dare altra spiegazione
se non questa: che le nostre forze rappresentative, essenzialmente
legate al tempo, ne abbiano derivata una proprietà, in grazia
della quale noi si segue internamente ogni suono ripetentesi a
regolari intervalli, e quasi facciamo coro. Perciò in parte
ritmo e rima diventano un vincolo per la nostra attenzione,
facendoci ascoltar più volentieri la recitazione; e in parte
sorge dentro di noi per loro mezzo quasi un intuitivo
accompagnamento musicale, anteriore a ogni giudizio, di ciò
che vien recitato: dal che questo prende un certo potere di
persuasione enfatico, indipendente da tutte le ragioni.
Per l'universalità della materia, di cui la poesia si vale a
comunicar le idee – ossia, de' concetti – molto vasta è la
cerchia del suo dominio. La natura tutta quanta, le idee in tutti i
gradi si posson per suo mezzo rappresentare, nel mentre ella, a
seconda dell'idea che vuol comunicarci, procede or descrivendo, ora
narrando, ora rappresentando direttamente in forma drammatica. Ma,
se nel rappresentare i gradi infimi dell'oggettità della
volontà, l'arte figurativa supera il più delle volte
la poesia, perché la natura inconsciente e anche quella
puramente animale tutta l'essenza loro rivelano in un unico momento
ben colto; viceversa è l'uomo – in quanto non con la semplice
sua forma o con l'espressione del volto rivela se stesso, ma con una
catena d'azioni e coi pensieri e affetti che l'accompagnano – il
principale oggetto della poesia: e nessun'altra arte può
gareggiare con lei, perché in questo alla poesia soccorre il
progressivo sviluppo dell'argomento, negato alle arti figurative.
Rivelazione di quella idea, che è il grado più alto
nell'oggettità della volontà, rappresentazione
dell'uomo nella serie coordinata delle sue tendenze e dei suoi atti,
questo è il grande soggetto della poesia. È vero
bensì che anche l'esperienza, anche la storia insegnano a
conoscere l'uomo; ma più spesso gli uomini che non l'uomo:
ossia danno notizie empiriche sul contegno degli uomini tra loro,
dalle quali emergono regole per la condotta individuale, piuttosto
che far penetrare lo sguardo addentro nell'intimo essere dell'uomo.
Non che questa penetrazione sia loro del tutto preclusa: ma ogni
qual volta veramente si apra a noi nella storia, o nella personale
esperienza, l'essenza dell'umanità, vuol dire che o da noi
l'esperienza, o dallo storico la storia sono state percepite
già con occhi d'artista, poeticamente, ossia nell'idea, e non
nel fenomeno, nell'intimo essere, e non nelle relazioni. Assoluta
condizione, per comprendere la poesia come la storia, è
l'esperienza propria: perché è quasi il dizionario
della lingua, che parlano entrambe. Ma la storia sta alla poesia
come il ritratto sta al quadro storico: quello rende il vero nel
particolare, questo il vero in generale: quello rende la
verità del fenomeno, e col fenomeno documenta la
verità; questo rende la verità dell'idea, che non si
trova in nessun fenomeno singolo ma da tutti parla. Il poeta
rappresenta con opportuna scelta e intenzione significanti caratteri
in significanti situazioni: lo storico prende queste e quelli come
vengono. Anzi, egli non ha da considerare e scegliere le circostanze
e le persone secondo la loro interna, genuina significazione,
esprimente l'idea; ma piuttosto secondo la significazione esterna,
apparente, relativa, importante rispetto ai loro nessi, alle loro
conseguenze. Nessuna cosa può guardare in sé e per
sé, nel carattere e nell'espressione essenziali, bensì
deve tutto considerare in rapporto alla relazione, alla
concatenazione, all'influsso e a ciò che ne consegue; in
rapporto, soprattutto, alla sua epoca. Non potrà quindi
trascurar l'azione di un re, anche se poco importante, anzi in se
stessa ordinaria: perché quest'azione ha conseguenze ed
effetto. Viceversa non dovrà far cenno di azioni per se
medesime significantissime, compiute da singoli, eminenti individui,
quando non abbiano avuto né conseguenze né effetto.
Imperocché la sua indagine procede secondo il principio di
ragione, e s'attacca al fenomeno, di cui quello è forma.
Coglie invece il poeta le idee, l'essenza dell'umanità, fuori
d'ogni relazione, fuor d'ogni tempo, adeguata oggettità della
cosa in sé nel suo grado più alto. Anche se in quella
maniera d'indagine ch'è necessaria allo storico non
può andar del tutto smarrita l'essenza intima, la
significanza dei fenomeni, il nocciolo di tutti quei gusci, o almeno
la si lascia ancora scoprire e riconoscere da chi la cerca; tuttavia
quel che per se stesso e non per le sue relazioni è
importante, ossia il vero sviluppo dell'idea, si ritroverà di
gran lunga più preciso e limpido nella poesia che non nella
storia. Ed alla poesia, per quanto suoni paradossale, sarà
quindi da attribuire molto più genuina, intima, vera
verità che alla storia. Imperocché lo storico è
obbligato a seguire con esattezza gli eventi individuali secondo il
corso della vita, quale si svolge nel tempo in concatenazioni
variamente intrecciate di cause e di effetti; ma gli è
impossibile di conoscer tutti i dati, tutto vedere, tutto
investigare: ad ogni istante l'originale del suo quadro si
allontana, oppure un originale falso si frappone innanzi al vero; e
questo accade tanto spesso, ch'io credo potermi convincere essere in
tutte le storie più di falso che di vero. Il poeta invece ha
colto l'idea dell'umanità in uno dei suoi aspetti, che vuol
rappresentare. Quel che per lui si oggettiva in quella, è
l'essenza del suo proprio io: la sua conoscenza è, secondo fu
sopra esposto a proposito della scultura, mezza a priori: il suo
modello gli sta davanti allo spirito, fermo, limpido, in piena luce,
e non può allontanarsi: perciò egli ci mostra pura e
chiara nello specchio del proprio spirito l'idea, e la
raffigurazione, ch'egli ne da, è, fino ai minimi particolari,
vera come la vita stessa25.
I grandi storici antichi sono perciò, quando pongono in
disparte gli elementi di fatto, per esempio, nei discorsi dei loro
eroi, poeti; ed anzi tutta la loro trattazione della materia tiene
dell'epico: ciò che per l'appunto dà unità ai
loro racconti, e fa che questi contengano la verità interna
pur là dove l'esterna non era agli storici accessibile, o
addirittura era falsata. E se dianzi paragonammo la storia al
ritratto, in opposizione alla poesia che corrisponderebbe alla
pittura storica, troviamo che la massima di Winckelmann, dovere il
ritratto esser l'ideale dell'individuo, fu seguita pur dagli antichi
storici, rappresentando essi il singolo in modo che ne risultasse
l'idea dell'umanità dentro esprimentevisi: mentre i moderni,
pochi eccettuati, non offrono di solito che «un cesto di
spazzatura e un ripostiglio d'oggetti fuori uso, e al più
affari capitali e di stato». A quegli adunque, che vuol
conoscere l'umanità nella sua intima essenza, identica in
tutti i fenomeni e svolgimenti, nella sua idea, offriranno le opere
dei grandi, immortali poeti un quadro ben più fedele e
limpido che non possano gli storici offrirgli: imperocché
anche i migliori tra questi sono lungi dall'esser come poeti i
primi, e inoltre non hanno la mano libera. Il loro reciproco
rapporto, sotto questo rispetto, può ancora esser chiarito
dal paragone che segue. Lo storico semplice, puro, che non lavora se
non sui dati, somiglia a taluno, che, senza conoscere punto la
matematica, da figure per caso ritrovate calcola, misurando, i
rapporti loro, venendo a un risultato empirico cui sono inerenti
tutti gli errori della disegnata figura: mentre il poeta somiglia al
matematico, che quelle relazioni costruisce a priori, in pura
intuizione, e li manifesta non quali sono effettivamente nella
figura disegnata, ma quali nell'idea ond'è immagine sensibile
il disegno. Perciò dice Schiller:
Quello che mai né in alcun luogo è stato,
Quello
soltanto non invecchia mai26.
Devo anzi, in riguardo alla cognizione dell'essenza
dell'umanità, attribuire maggior pregio alle biografie, e
soprattutto alle autobiografie, che non alla storia vera e propria –
almeno come di solito è trattata. Imperocché per un
verso sono in quelle raccolti i dati con più precisione e
compiutezza che in questa; per l'altro, nella storia vera e propria
non agiscono tanto uomini quanto popoli ed eserciti, e gl'individui,
che riescono ad entrarvi, appariscono a sì gran distanza, con
sì gran contorno e tale seguito, e coperti per di più
da rigidi abiti di gala, e grevi, non pieghevoli armature, che
davvero difficile si rende il riconoscere fra tutto questo il moto
umano. Invece la vita fedelmente esposta di un singolo individuo, in
una sfera limitata, ci mostra la condotta degli uomini in tutte le
loro sfumature e in tutti i loro aspetti: l'eccellenza, la
virtù, anzi la santità di alcuni, la
perversità, la miseria morale, la malizia dei più, la
scelleraggine di non pochi. In ciò, sotto il rispetto che qui
esclusivamente consideriamo, ossia in rapporto all'intimo
significato del fenomeno, è affatto indifferente, se gli
oggetti intorno a cui s'aggira l'azione siano, relativamente
considerati, piccolezze o cose di gran peso, masserie o regni:
imperocché tutte codeste cose, senza importanza di per
sé, ne acquistano solo in quanto la volontà è
da esse agitata; il motivo ha importanza solo per la sua relazione
con la volontà, mentre la relazione, che esso in quanto
oggetto può avere con altri oggetti, non entra punto in
gioco. Come un circolo d'un pollice di diametro e un altro con un
diametro di quaranta milioni di miglia hanno esattamente le stesse
proprietà geometriche, così sono gli avvenimenti e la
storia d'un villaggio o quelli d'un regno, in sostanza, i medesimi;
e si può negli uni come negli altri studiare e conoscere
l'umanità. Si ha anche torto di ritenere che le biografie
siano in tutto inganno e finzione. Anzi la menzogna (sebbene
possibile dappertutto) v'è forse più difficile che
altrove. La finzione è facilissima nel semplice conversare;
ma – per quanto sembri paradossale – è già più
difficile in una lettera, perché quivi l'uomo, abbandonato a
se stesso, guarda in sé e non fuori, stenta ad aver da presso
ciò che gli è estraneo e lontano, e non ha innanzi
agli occhi la misura dell'effetto sopra un altr'uomo. Quest'altro
invece, calmo, in una disposizione d'animo estranea a quella dello
scrittore, scorre la lettera, la rilegge a varie riprese ed in tempi
diversi, e così finisce con lo scoprirvi facilmente
l'intenzione riposta. Il miglior modo, di conoscere un autore anche
come uomo, è cercarlo nel suo libro, perché quivi
agiscono ancor più forte e durevolmente tutte quelle
condizioni: e farsi in una biografia diversi da quel che si
è, è tanto difficile, che non ve n'ha forse alcuna, la
quale non sia in complesso più vera di qualsivoglia altra
storia scritta. L'uomo, che ritrae la propria vita, la vede nelle
sue grandi linee: i singoli fatti s'impiccioliscono, le cose vicine
s'allontanano, mentre s'avvicinano le lontane, i riguardi
s'attenuano: egli sta con se medesimo in confessione, e vi si
è disposto liberamente. Lo spirito della menzogna non
l'afferra qui tanto facilmente: essendo in ogni uomo insita
un'inclinazione alla verità, che per ciascuna bugia dev'esser
prima rattenuta, e che all'atto del confessarsi acquista il
predominio. Il rapporto tra biografia e storia dei popoli si rende
manifesto con l'esempio che segue. La storia ci mostra
l'umanità, come la vista da un alto monte ci mostra la
natura: molto vediamo con un'occhiata, ampie distese, grandi masse;
ma nulla è distintamente riconoscibile in tutto il suo vero
essere. Viceversa la vita di un singolo individuo ci mostra l'uomo a
quel modo stesso, con cui apprendiamo a conoscer la natura
passeggiando tra i suoi alberi, piante, rocce e acque. Ma, come per
mezzo della pittura di paesaggi, nella quale l'artista ci fa veder
la natura con gli occhi suoi, vengono a noi resi molto più
facili la conoscenza delle idee di questa e lo stato del puro
conoscere, scevro di volontà, per tal conoscenza richiesto;
così ha l'arte poetica per la rappresentazione delle idee,
che noi potremmo cercar nella storia e nella biografia, grandi
vantaggi su queste ultime: perché anche quivi il genio regge
davanti a noi il chiarificante specchio, nel quale tutto ciò
ch'è essenziale e significativo si raccoglie, e, posto in
piena luce, ci si fa incontro, mentre ciò ch'è causale
ed estraneo, viene rimosso27.
La rappresentazione dell'idea dell'umanità, che al poeta
incombe, può da lui esser fatta o in modo che il
rappresentato sia anche colui che rappresenta: il che accade nella
poesia lirica, nella canzone in senso proprio, dove il poeta vede e
descrive vivacemente solo il suo stato personale, sì che
diviene essenziale in questo genere poetico una certa
soggettività, a causa dell'argomento; oppure quegli che
rappresenta è affatto distinto dalla cosa rappresentata, come
accade in tutti gli altri generi poetici, dove chi rappresenta
più o meno si cela dietro al rappresentato e finisce con lo
scomparire. Nella romanza lirico-drammatica, chi rappresenta esprime
ancora in qualche modo, mediante il tono e l'andatura dell'insieme,
il proprio stato: molto più oggettiva della canzone, la
romanza ha tuttavia ancor qualcosa di soggettivo, che impallidisce
già vieppiù nell'idillio, e più ancora nel
romanzo, e svanisce quasi del tutto nell'epopea, e, fino all'ultima
traccia, nel dramma, che è il più oggettivo, e per
vari riguardi più perfetto, ma anche più difficile
genere poetico. La lirica è per questo motivo il genere
più facile; e se l'arte in complesso è dominio
esclusivo del genio vero, che è tanto raro, tuttavia anche un
uomo il quale non sia nell'insieme molto eminente può, quando
in effetti siano le sue forze spirituali innalzate da una forte
eccitazione esteriore, da un qualche entusiasmo, mettere insieme una
bella canzone: perché a ciò occorre non altro che una
viva intuizione del proprio stato in un momento d'agitazione. Questo
provano molti canti isolati composti da individui altrimenti ignoti,
in ispecie i canti popolari tedeschi, dei quali noi abbiamo
un'ottima raccolta nel Wunderhorn, e così pure innumerabili
canti popolari d'amore o d'altro soggetto in tutte le lingue.
Imperocché il cogliere e fissare nella canzone la
disposizione del momento, è tutto il compito di questo genere
poetico. Tuttavia nella lirica dei poeti veri si riflette l'intimo
di tutta l'umanità; e tutto ciò, che milioni d'uomini
passati, presenti, futuri hanno sentito o sentiranno nelle medesime
situazioni sempre rinascenti, trova colà la sua voce. Quelle
situazioni, per il loro costante ritorno, appunto come
l'umanità rimangono perenni, e ognora producono i sentimenti
medesimi: e perciò le liriche dei veri poeti durano per
millenni giuste, efficaci e fresche. Il poeta, in sostanza, è
l'uomo universale: tutto ciò che ha scosso un cuore umano,
ciò che l'umana natura in qualsivoglia stato da se medesima
esprime, tutto ciò che in un petto umano può trovarsi
e covare, – è suo tema e sua materia; come, inoltre, tutta
quanta la rimanente natura. Può così il poeta cantare
la voluttà come il misticismo, essere Anacreonte o Angelus
Silesius, scrivere tragedie o commedie, rappresentare animi alti o
volgari, – secondo ha capriccio e vocazione. E a nessuno è
lecito prescrivere al poeta d'esser nobile ed elevato, morale, pio,
cristiano, essere questo o quello; e tanto meno rimproverarlo di non
essere questo e quello. Egli è lo specchio
dell'umanità, e la fa consapevole di ciò ch'ella sente
ed opera.
Consideriamo ora più da presso l'essenza della canzone vera e
propria, togliendo a esempio qualche modello eccellente e puro
insieme: non di quelli, che già in certo modo s'accostano a
un altro tipo, come sarebbe alla romanza, all'elegia, all'inno,
all'epigramma, e così via; troveremo così, che
l'essenza caratteristica della canzone in senso preciso è la
seguente. È il soggetto della volontà, ossia il
proprio volere, che empie la conscienza di chi canta; spesso come
sciolto, appagato volere (gioia), e più spesso come un volere
contrastato (dolore); sempre, tuttavia, come affetto, passione,
animo agitato. Ma nondimeno accanto a questo, e insieme con questo,
colui che canta diviene, alla vista della natura d'intorno, conscio
di sé qual soggetto del puro conoscere, scevro di
volontà: la cui incrollabile pace spirituale viene a trovarsi
in contrasto con l'urto del volere sempre costretto, ancor sempre
assetato. E la sensazione di tal contrasto, di tal giuoco alterno,
è proprio ciò che s'esprime nel complesso della
canzone, e costituisce in genere lo stato lirico. Si direbbe, che in
tal stato ci si faccia dappresso il puro conoscere, per liberarci
dal volere e dal suo impulso; noi lo seguiamo, ma sol per brevi
istanti: sempre di nuovo il volere, il ricordo dei nostri fini
personali, ci strappa alla pacata contemplazione; ma ogni volta ci
discioglie dai lacci del volere la bella natura circostante, nella
quale a noi si offre la pura conoscenza libera da volontà.
Perciò sono nella canzone e nella disposizione lirica il
volere (l'interesse personale per i propri fini) e la pura
intuizione del mondo circostante in singolar modo frammisti: tra
loro vengon cercate e immaginate relazioni; la disposizione
soggettiva, la commozione della volontà comunica i suoi
colori all'ambiente intuito, e questo a quella: di tutto questo
stato d'anima sì commisto e discorde è la vera canzone
un riflesso. Per rendere comprensibile con esempi questa analisi
astratta d'uno stato ben lontano da ogni astrazione, sì
può prender ciascuna delle immortali canzoni di Goethe; ma
come particolarmente chiare per il nostro scopo ne raccomando solo
alcune: Lamento d'un pastore, Il benvenuto e il commiato, Alla luna,
Sul lago, Sensazione d'autunno28 Sono anche ottimi esempi le canzoni
del Wunderhorn: soprattutto quella che comincia: O Brema, or ti
debbo lasciare29. Come parodia comica, e giustissima, del carattere
lirico, mi sembra notevole una canzone, in cui Voss descrive
ciò che prova un copritetti ubriaco, nell'atto di cader da
una torre; il quale, pur cadendo, fa l'osservazione, molto fuori
luogo nel suo stato presente, e quindi spettante alla conoscenza
scevra di volontà, che l'orologio della torre segna per
l'appunto le undici e mezza. Chi divide la mia opinione sullo stato
lirico, dovrà pur convenire che esso è propriamente la
conoscenza intuitiva e poetica di quella massima stabilita nel mio
scritto sul principio di ragione, e in quest'opera già
ricordata, che l'identità del soggetto del conoscere con
quello del volere può esser chiamata il miracolo κατ’εξοχην
sì che l'effetto poetico della canzone poggia da ultimo sulla
verità di quella massima. Nel corso della vita que' due
soggetti o, per esprimermi alla buona, testa e cuore, vengono sempre
più discostandosi l'uno dall'altro: sempre più
scindiamo il nostro sentimento soggettivo dalla conoscenza
oggettiva. Nel fanciullo sono entrambi ancor fusi del tutto: egli sa
a stento distinguer sé da ciò che lo circonda, e vi si
dissolve. Nel giovane, ogni percezione produce dapprima sentimento e
stato d'animo; e molto bene è ciò espresso da Byron:
I live not in myself, but I become
Portion of that around me; and to
me
High mountains are a feeling30.
Appunto perciò il giovine è tanto attaccato
all'intuitiva faccia esterna delle cose; appunto perciò egli
non è capace d'altra poesia che lirica, e soltanto l'uomo
maturo è capace della drammatica. Il vecchio possiamo
immaginarcelo al più come poeta epico, quali furono Ossian e
Omero: perché il narrare appartiene al carattere del vecchio.
Nei generi più oggettivi, specialmente nel romanzo,
nell'epopea e nel dramma, lo scopo, rivelazione dell'idea
dell'umanità, viene raggiunto soprattutto con due mezzi: con
esatta e profonda rappresentazione di significanti caratteri, e col
trovar significanti situazioni, in cui quelli si dispieghino.
Imperocché come al chimico tocca non solo presentar puri e
genuini i corpi semplici e le lor principali combinazioni; ma anche
esporli all'azione di reagenti tali, per cui le proprietà
loro si rendano chiare e visibili appieno; così tocca al
poeta non solo portarci innanzi con verità e fedeltà,
come fa la natura medesima, significanti caratteri; ma deve, per
farceli conoscere, metterli in situazioni, nelle quali le
proprietà loro si svolgano compiutamente e si presentino
nette con precisi contorni, situazioni che perciò appunto si
chiamano significanti. Nella vita reale e nella storia è raro
che il caso introduca situazioni di questa natura, e quelle poche
stanno isolate, smarrite e nascoste nella folla delle situazioni
insignificanti. La continuata importanza delle situazioni distingue
il romanzo, l'epopea, il dramma dalla vita reale, altrettanto come
li distingue l'accolta e la scelta di caratteri espressivi: ma
nell'una cosa e nell'altra è inesorabile condizione
dell'effetto la più rigida verità. E mancanza di
unità nei caratteri, contraddizioni interne in quelli, oppur
contrasti con l'essenza dell'umanità in genere, e
impossibilità, o inverosimiglianza (che
all'impossibilità è vicina) dei fatti, sia pur
soltanto in circostanze secondarie, offendono nella poesia quanto
figure mal disegnate, o falsa prospettiva, o luce difettosa
offendono in pittura: perché noi vogliamo, là come
qui, lo specchio fedele della vita, dell'umanità, del mondo,
sol reso più limpido dalla rappresentazione e più
significante della combinazione. Uno essendo lo scopo di tutte le
arti, rappresentazione delle idee, e consistendo la sostanzial
differenza di quelle solamente nel diverso grado di oggettivazione
della volontà toccato all'idea da rappresentare, dal qual
grado è a sua volta determinata la materia della
rappresentazione; ne consegue che anche le arti tra loro più
discoste si possono illustrare con reciproci confronti. Per esempio,
a ben comprendere le idee esprimentisi nell'acqua, non basta veder
l'acqua d'un placido stagno o corrente d'un corso regolare ed
eguale: quelle idee si rivelano appieno sol quando l'acqua si mostra
alle prese con tutte le situazioni e gli ostacoli che, operando su
lei, la spingono alla manifestazione piena di tutte le sue
proprietà. Perciò la troviamo bella quando precipita,
rumoreggia, spumeggia, si slancia in alto o ricadendo si fa polvere,
o alfine, ad arte costretta, come raggio sprizza verso il cielo. E
così in circostanze diverse variamente mostrandosi, sempre
afferma costante il carattere proprio. Altrettanto è a lei
naturale sprizzar nell'alto, quanto star quieta come specchio:
all'uno e all'altro stato è subito disposta, non appena se ne
presentino le circostanze. Ora, ciò che con la materia
liquida può fare un artefice del genere, fa con la solida
l'architetto, e non altrimenti fa il poeta epico o drammatico con
l'idea dell'umanità. Disvelamento e chiarimento dell'idea
esprimentesi nell'oggetto di ogni arte, della volontà
oggettivantesi in ogni grado, è di tutte le arti compito
comune. La vita dell'uomo, quale apparisce il più sovente
nella realtà, somiglia all'acqua come noi di solito la
vediamo, in fiume e stagno: ma nell'epopea, nel romanzo e nella
tragedia vengono eletti caratteri posti in circostanze, nelle quali
tutte le lor proprietà si dispiegano, gli abissi dell'animo
umano si dischiudono e fanno visibili in azioni straordinarie,
altamente significative. Così l'arte poetica oggettiva l'idea
dell'umanità, della quale è caratteristico il
presentarsi in caratteri fortissimamente individuali.
Come vetta dell'arte poetica, tanto riguardo alla grandezza
dell'effetto, quanto alla difficoltà dell'opera, è da
considerarsi ed è generalmente ritenuta la tragedia. Per il
complesso di tutta la nostra indagine è molto importante e da
tener bene in conto, che scopo di quest'altissima creazione poetica
è la rappresentazione della vita nel suo aspetto terribile;
che il dolore senza nome, l'affanno dell'umanità, il trionfo
della perfidia, la schernevole signoria del caso e il fatale
precipizio dei giusti e degl'innocenti vengono qui a noi presentati:
imperocché si ha in ciò un significante segno intorno
alla natura del mondo e dell'essere. È il contrasto della
volontà con se medesima, che qui, nel grado supremo della sua
oggettità, dispiegato in tutta la sua pienezza, tremendamente
balza alla luce. Nel dolore della umanità si fa visibile: e
quello è prodotto parte dal caso e dall'errore, che quali
dominatori del mondo intervengono, e per la loro malizia, che giunge
fino ad aver l'apparenza di consapevolezza, sono personificati nel
destino; parte proviene dall'umanità stessa, per le
incrociantesi voglie degli individui, per la malvagità e
perversità dei più. Una e identica volontà
è quella, che in tutti vive e si manifesta, ma le sue
manifestazioni si combattono e si dilaniano a vicenda. In un
individuo si rivela potente, in un altro più debole, qui
più, lì meno accordata con la riflessione e attenuata
dalla luce della conoscenza, fin quando alfine in taluno questa
conoscenza, purificata ed elevata mediante il dolore stesso, tocca
il punto in cui il fenomeno, il velo di Maja, non più
l'inganna. Allora la forma del fenomeno, il principium
individuationis, viene da lei visto bene addentro; e perciò
l'egoismo che su questo si fonda è spento, sì che i
motivi prima sì poderosi perdono la loro forza, e in luogo di
quelli la piena cognizione dell'essenza del mondo, agendo come
quietivo della volontà, fa nascer la rassegnazione, la
rinunzia non alla vita soltanto, ma all'intera volontà di
vivere. Così vediamo nella tragedia i più nobili
caratteri da ultimo rinunziar per sempre, dopo lungo combattere e
soffrire, agli scopi fino allora sì vivamente perseguiti, e a
tutti i piaceri della vita, o la vita stessa abbandonare volenterosi
e lieti. Così il principe costante di Calderón;
così Margherita nel Faust; così Amleto, cui il suo
Orazio volentieri seguirebbe, ma Amleto gl'impone di rimanere, e
ancora un poco respirare con dolore in questo duro mondo, per far
luce sul destino di lui e lavar da ogni macchia la sua memoria;
così ancora la Pulcella d'Orléans, la Fidanzata di
Messina: tutti muoiono purificati dal dolore, ossia quando in loro
la volontà di vivere è già morta. Questo
è significato alla lettera nelle ultime parole del Mohammed
di Voltaire, dove la Palmira grida a Mohammed: «Il mondo
è fatto pei tiranni: vivi!». Invece il pretender la
cosiddetta giustizia poetica poggia sopra un assoluto misconoscer
l'essenza della tragedia, anzi l'essenza del mondo. Sfacciatamente
questa pretesa si mostra in tutta la sua scipitaggine nei saggi
critici, che il dr. Samuel Johnson ha scritto su ciascun dramma di
Shakespeare, dov'egli in maniera proprio ingenua lamenta che la
giustizia poetica sia sempre trascurata. Ed è vero: che male
hanno commesso le Ofelie, le Desdemone, le Cordelie? Ma soltanto la
piatta, ottimista, protestante-razionalistica, o propriamente
giudaica concezione del mondo pretenderà la giustizia poetica
e troverà il proprio soddisfacimento nel soddisfacimento di
quella. Il vero senso della tragedia è la cognizione ben
più profonda, che l'eroe non sconta i suoi peccati personali,
ma il peccato universale, ossia la colpa stessa dell'essere:
Pues el delito mayor
Del hombre es haber nacido31,
come apertamente afferma Calderón.
Guardando più da presso il modo di compor la tragedia, voglio
permettermi ancora un'osservazione. Il rappresentare una grande
sventura è la sola cosa essenziale alla tragedia. Ma le molte
vie, per le quali la sventura può essere introdotta dal
poeta, sono di tre specie. Può accadere per la straordinaria
perfidia, spinta a toccar gli estremi limiti della
possibilità, d'un carattere, il quale diventa causa della
sventura: esempi di questo genere sono Riccardo III, Jago
nell'Otello, Shylok nel Mercante di Venezia, Franz Moor, la Fedra
d'Euripide, Creonte nell'Antigone e così via. Oppure
può accadere per un cieco destino, ossia caso ed errore: di
tale specie è un vero modello il re Edipo di Sofocle, ed
anche le Trachinie, e in genere la maggior parte delle tragedie
antiche; tra le moderne sono esempi Romeo e Giulietta, il Tancred di
Voltaire, la Fidanzata di Messina. La sventura può esser
cagionata in fine dalla semplice situazione rispettiva delle
persone, dai loro rapporti, sì che non v'ha bisogno né
d'un mostruoso errore o d'un caso inaudito, né d'un
carattere, che tocchi i confini umani del male: ma caratteri come
sotto il rispetto morale ve n'ha tanti, in circostanze quali
occorrono sovente, sono posti di fronte in modo, che la situazione
loro li costringe a farsi l'un l'altro, sapendo e vedendo, il
più gran male, senza che in ciò il torto sia tutto da
una parte sola. Quest'ultima specie sembra a me di molto preferibile
alle altre due: imperocché ci fa apparir la più grande
delle sventure non come un'eccezione, non come effetto di
circostanze rare o di mostruosi caratteri, ma come alcunché
venuto facilmente e spontaneamente, quasi per naturale
necessità, dall'azione e dai caratteri degli uomini; e
appunto perciò la rende in terribile modo vicina a noi
stessi. E se noi nelle altre due specie vediamo il mostruoso destino
e l'orrenda malvagità bensì come forze terribili, ma
che solo da gran distanza ci minacciano e alle quali possiamo
sfuggire, senza cercar ricovero nella completa rinunzia, l'ultima
invece presenta a noi quelle forze, onde felicità e vita son
travolte, come fatte di tal natura che anche contro di noi possono
aprirsi la via ad ogni istante; e il più gran dolore
può venirci da complicazioni, la cui essenza può
pesare anche sul nostro destino, e da azioni, che noi anche saremmo
capaci di commettere, sì che non potremmo lagnarci
d'ingiustizia. Allora rabbrividendo ci sentiamo già in mezzo
all'inferno. Ma la composizione d'una tragedia di quest'ultimo tipo
è pur la più difficile, dovendosi qui con un minimo
impiego di mezzi e di moventi produrre il massimo effetto, solo
mediante la situazione e la distribuzione di quelli: perciò
anche in nome delle migliori tragedie questa difficoltà
è girata. Qual perfetto modello del genere è tuttavia
da citare un dramma, che sotto altro riguardo è di molto
superato da altre opere del medesimo grande maestro: Clavigo. Della
stessa natura è in un certo senso Amleto, se non guardiamo
che alla situazione del protagonista davanti a Laerte e ad Ofelia;
anche il Wallenstein ha questo merito; tale è pure il Faust,
se si considera come azione principale soltanto ciò che
accade a Margherita ed a suo fratello; così il Cid di
Corneille, al quale manca nondimeno l'esito tragico, che invece si
trova nell'analoga situazione di Max rispetto a Teda nel
Wallenstein32.
§ 52.
Dopo aver fin qui considerato tutte le arti belle da quel punto di
vista generale, che a noi si conviene, principiando
dall'architettura, scopo della quale è render palese
l'oggettivazione della volontà nel grado più basso in
cui questa è visibile, ov'essa si mostra come oscuro,
inconsciente, meccanico impulso della massa, e pur tuttavia
già palesa interno dissidio e lotta; e il nostro esame
concludendo con la tragedia, che nel grado supremo
dell'oggettivazione della volontà appunto quell'interno
dissidio ci disvela in tremenda grandezza e chiarezza; troviamo che
nondimeno un'arte bella è rimasta e doveva rimanere esclusa
da questa indagine, non essendo per lei alcun luogo conveniente
nella trama della nostra esposizione: la musica. Ella è
staccata da tutte le altre. In lei non conosciamo l'immagine, la
riproduzione d'una qualsiasi idea degli esseri che sono al mondo;
eppure ell'è una sì grande e sublime arte, sì
potentemente agisce sull'intimo dell'uomo, sì appieno e a
fondo vien da questo compresa, quasi lingua universale più
limpida dello stesso mondo intuitivo; – che in lei di certo dobbiamo
cercar ben più dell'exercitium arithmeticae occultum
nescientis se numerare animi, qual fu dichiarata da Leibniz33. E
questi ebbe nondimeno ragione, in quanto ne guardò soltanto
l'immediata ed esterna significazione, la scorza. Ma se non fosse
nulla di più, dovrebbe la soddisfazione, ch'ella ci arreca,
somigliare a quella che noi troviamo nella giusta soluzione d'un
problema di calcolo; e non sarebbe punto quell'intima gioia, con la
quale noi vediamo fatto parlante il più segreto recesso del
nostro essere. Dal nostro punto di vista, adunque, dobbiamo
riconoscere alla musica un significato ben più grave e
profondo, riferentesi alla più interiore essenza del mondo e
del nostro io; rispetto alla quale le relazioni di numeri, in cui
quella si lascia scomporre, stanno non già come la cosa
significata, ma appena come il segno significante. Che la musica
debba stare al mondo, in un senso qualsiasi, come rappresentazione
sta al rappresentato, come immagine all'originale, possiamo dedurre
dall'analogia delle altre arti, alle quali tutte appartiene questo
carattere, e la cui azione su di noi ha la stessa natura di quella
della musica, ma solo è quest'ultima più forte,
più rapida, più necessaria, più infallibile.
Quella relazione d'immagine rispetto all'originale, ch'ella ha col
mondo, deve pur essere ben intima, infinitamente verace e sommamente
precisa, per esser da ciascuno compresa in un attimo; e dà a
conoscere una tal quale infallibilità, dal fatto che la sua
forma si lascia ricondurre a regole ben determinate, da esprimersi
in numeri; regole cui non può sottrarsi, senza cessare
interamente d'esser musica. Tuttavia il punto di paragone tra la
musica e il mondo, il modo onde quella sta con questo nel rapporto
d'imitazione o riproduzione, giace ben profondamente celato.
S'è fatto musica in tutti i tempi, senza rendersi conto di
ciò: paghi di comprenderla direttamente, s'è
rinunziato a una conscienza astratta di questa immediata
comprensione.
Nel mentre io abbandonavo tutto il mio spirito all'impressione della
musica, facendo poi in seguito ritorno alla riflessione e al corso
dei pensieri esposti nell'opera presente, venni a una conclusione
sulla sua intima essenza e sul modo della sua relazione col mondo,
la quale per necessaria analogia era da supporre fosse di natura
imitativa. Tale conclusione essendo per me stesso sufficiente
appieno, e per la mia indagine soddisfacente, sarà forse
egualmente luminosa per chi mi abbia seguito finora convenendo col
mio concetto del mondo. Ma di quella conclusione fornir la prova,
riconosco esser cosa sostanzialmente impossibile; perché essa
ammette e stabilisce un rapporto della musica, come
rappresentazione, con ciò che per essenza non può mai
essere rappresentazione; e la musica vuol considerata come immagine
di un modello, che non può direttamente venir rappresentato
esso medesimo. Non posso quindi fare altro, che qui, al termine del
terzo libro, principalmente consacrato all'esame delle arti, esporre
quel giudizio, ond'io m'appago, sulla mirabile arte dei suoni; e il
consenso o il dissenso dipenderà dall'effetto prodotto sul
lettore per una parte dalla musica, per l'altra da tutto l'unico
pensiero, ch'io comunico in quest'opera. Ritengo inoltre necessario,
perché si possa accogliere con piena persuasione l'indagine,
che ora farò, intorno al senso della musica, ascoltar musica
spesso, riflettendovi durevolmente. Ed anche a ciò occorre
esser già molto famigliare con tutto il mio pensiero.
L'adeguata oggettivazione della volontà sono le idee
(platoniche); provocar la conoscenza di queste (cosa possibile solo
con una corrispondente modificazione nel soggetto conoscitivo)
mediante rappresentazione di singoli oggetti (che non altro sono pur
sempre le opere d'arte), è il fine di tutte le altre arti.
Tutte oggettivano adunque la volontà in modo mediato, ossia
per mezzo delle idee: e il nostro mondo non essendo se non fenomeno
delle idee nella pluralità, per essere entrate nel principium
individuationis (forma della conoscenza possibile all'individuo come
tale), ne risulta che la musica, la quale va oltre le idee, anche
dal mondo fenomenico è del tutto indipendente, e lo ignora, e
potrebbe in certo modo sussistere quand'anche il mondo non fosse: il
che non può dirsi delle altre arti. La musica è
dell'intera volontà oggettivazione e immagine, tanto diretta
com'è il mondo; o anzi, come sono le idee: il cui fenomeno
moltiplicato costituisce il mondo dei singoli oggetti. La musica non
è quindi punto, come l'altre arti, l'immagine delle idee,
bensì immagine della volontà stessa, della quale sono
oggettità anche le idee. Perciò l'effetto della musica
è tanto più potente e insinuante di quel delle altre
arti: imperocché queste ci danno appena il riflesso, mentre
quella esprime l'essenza. Essendo adunque la medesima volontà
che si oggettiva, tanto nelle idee quanto nella musica, ma solo in
modo affatto diverso, deve trovarsi non proprio una diretta
somiglianza, ma tuttavia un parallelismo, un'analogia tra la musica
e le idee, delle quali è fenomeno molteplice e imperfetto il
mondo visibile. L'indicare una tale analogia sarà come un
chiarimento, che aiuti a comprendere questa dimostrazione difficile
per l'oscurità del soggetto.
Nei suoni più gravi dell'armonia, nel basso fondamentale, io
riconosco i gradi infimi dell'oggettivantesi volontà, la
natura inorganica, la massa del pianeta. Tutti i suoni acuti, agili
e rapidi, notoriamente sono da considerare sorti dalle vibrazioni
concomitanti del suono fondamentale profondo, e al risuonar di
questi risuonan tosto lievi anch'essi. È legge dell'armonia,
accordare con una nota bassa soltanto quei suoni acuti, che insieme
con lei già effettivamente risuonano nelle vibrazioni
concomitanti (i suoi sons harmoniques). È un fatto analogo a
quello, per cui tutti i corpi e organismi della natura devono esser
considerati come svoltisi gradatamente dalla massa del pianeta;
questa è il loro sostegno come la loro sorgente: e la
medesima relazione hanno i suoni acuti col basso fondamentale. La
profondità ha un termine, oltre il quale un suono non
è più percettibile: e ciò corrisponde al non
esservi materia percepibile senza forma e qualità, ossia
senza manifestazione d'una forza, che non può esser meglio
spiegata, e in cui un'idea si esprime; anzi corrisponde più
generalmente al non esservi materia in tutto scevra di
volontà. Come adunque dal suono, in quanto tale, è
inseparabile un certo grado di altezza, così lo è
dalla materia un certo grado di manifestazione della volontà.
Il basso fondamentale è quindi per noi nell'armonia quel che
il mondo nella natura inorganica: la massa più rude, su cui
tutto posa e da cui tutto s'innalza e si sviluppa. Procedendo, in
tutte le parti costituenti l'armonia, tra il basso e la voce guida
che canta la melodia, riconosco l'intera scala delle idee, in cui la
volontà si oggettiva. Quelle più vicine al basso
corrispondono ai gradi inferiori, ossia ai corpi ancora inorganici
ma già in più modi estrinsecantisi: le più alte
mi rappresentano il mondo vegetale ed animale. I determinati
intervalli della scala sono paralleli ai gradi determinati
nell'oggettivazione della volontà, alle determinate specie
della natura. Il discostarsi dall'aritmetica esattezza
degl'intervalli, o mediante una qualsiasi tempera, o indotto dalla
prescelta tonalità, è analogo al discostarsi
dell'individuo dal tipo della specie: e anzi le dissonanze impure,
che non danno un determinato intervallo, si posson paragonare ai
mostri venuti da due specie animali, o da uomo e animale. A tutte
codeste parti di basso e medie, che formano l'armonia, manca
nondimeno quell'organismo nella progressione, che soltanto ha la
parte superiore, ond'è cantata la melodia; la qual parte
è la sola a potersi muovere rapida e leggera nelle
modulazioni e digressioni, mentre tutte le altre hanno un andare
più lento, senz'avere in ciascuna per sé un organismo
costante. Più pesante di tutte si muove il basso
fondamentale, il rappresentante della massa bruta: il suo salire e
discendere si fa solo per grandi passaggi, in terze, quarte, quinte,
e non mai d'un tono solo; che allora sarebbe, per contrappunto
doppio, un basso trasportato. Questo tardo moto è a lui anche
fisicamente naturale: un rapido passaggio o un gorgheggio nelle note
gravi non si può neppure immaginare. Più svelte, ma
ancor senza nesso melodico e significante progressione si muovono le
parti più elevate, che corrono parallele al mondo animale. Il
movimento isolato e la destinazione regolata di tutte le parti sono
analoghi al fatto, che in tutto il mondo irrazionale, dal cristallo
all'animale più perfetto, nessun essere ha una conscienza
propriamente sistematica, che faccia della sua vita un complesso
sensato; e nessuno ha una successione di sviluppi mentali, nessuno
si perfeziona con la cultura; bensì tutti rimangono in ogni
tempo eguali, secondo la propria natura, determinati da rigida
legge. Finalmente nella melodia, nella voce principale, alta,
canora, che il tutto guida, e libera, spontanea procede dal
principio alla fine con l'organismo ininterrotto e significativo
d'un pensiero unico, formando un tutto ben delineato, riconosco il
grado supremo dell'oggettivazione della volontà, la conscia
vita e lotta dell'uomo. Come l'uomo ognora guarda, egli solo essendo
fornito di ragione, davanti o dietro a sé, sul cammino della
propria realtà e delle possibilità innumerabili,
compiendo un corso vitale consapevole, in cui tutto si collega e
forma un insieme: così ha la melodia sola una significativa,
voluta connessione da capo a fondo. Ella narra quindi la storia
della volontà illuminata dalla riflessione, volontà
che si manifesta nel reale con la serie degli atti suoi; ma dice di
più, narra della volontà la storia più segreta,
ne dipinge ogni emozione, ogni tendenza, ogni moto, tutto
ciò, che la ragione comprende sotto l'ampio e negativo
concetto di sentimento, né può meglio accogliere nelle
proprie astrazioni. Perciò fu sempre detto esser la musica il
linguaggio del sentimento e della passione, come le parole sono il
linguaggio della ragione. Già Platone la dichiara ή των μελων
κινησις μεμιμημενη, εν τοις παθημασιν όταν ψυχη γινηται (melodiarum
motus, animi affectus imitans), De leg. VII; e anche Aristotele
dice: δια τι οί ρυθμοι και τα μελη, φωνη ουσα, ηθεσιν εοικε; (cur
numeri musici et modi, qui voces sunt, moribus similes sese
exhibent?); Probl, c. 19.
Ora, come l'essenza dell'uomo sta nel fatto, che la sua
volontà aspira, viene appagata e torna ad aspirare, e sempre
così continua; anzi sua sola felicità, solo suo
benessere è che quel passar dal desiderio all'appagamento e
da questo a un nuovo desiderio proceda rapido, poi che il ritardo
dell'appagamento è dolore, e il ritardo del nuovo desiderio
è aspirazione vuota, languor, noia; così l'essenza
della melodia è un perenne discostarsi, peregrinar lontano
dal tono fondamentale per mille vie non solo verso i gradi armonici,
la terza e la dominante, ma verso ogni tono, fino alla dissonante
settima ed ai gradi eccedenti; eppur sempre succede da ultimo un
ritorno al tono fondamentale. Per tutte codeste vie esprime la
melodia il multiforme aspirar della volontà; ma col ritrovare
infine un grado armonico, o meglio ancora il tono fondamentale,
esprime l'appagamento. Trovar la melodia, scoprire in lei tutti i
segreti più profondi dell'umano volere e sentire, è
l'opera del genio: la cui azione è qui più facile a
vedersi che altrove, libera da ogni riflessione e meditato intento –
e potrebbe chiamarsi inspirazione. Qui, come ovunque nel dominio
dell'arte, il concetto è infruttifero: il compositore disvela
l'intima essenza del mondo, in un linguaggio che la ragione di lui
non intende: come una sonnambula magnetica da rivelazione di cose,
delle quali sveglia non ha concetto alcuno. In un compositore
quindi, meglio che in ogni altro artista, è l'uomo
dall'artista in tutto separato e distinto. Perfino
nell'illustrazione di quest'arte mirabile il concetto lascia
scorgere la propria povertà e i propri limiti: ma io voglio
nondimeno tentar d'esporre fino all'ultimo l'analogia da me
indicata. Come il rapido passaggio dal desiderio all'appagamento, e
da questo a un nuovo desiderio, è felicità e
benessere, così sono gioiose le melodie rapide, senza grandi
deviazioni: tristi sono invece se lente, deviate in penose
dissonanze, e solo attraverso molte battute facenti ritorno al tono
fondamentale; sì da paragonarsi a un tardivo, contrastato
appagamento del desiderio. Il ritardo della nuova eccitazione della
volontà, il languore, non potrebbe esprimersi altrimenti che
nel prolungato tono fondamentale, il cui effetto sarebbe ben presto
intollerabile: già di molto s'avvicinano a ciò le
monotone, inespressive melodie. I brevi, facili periodi d'una rapida
musica a danza sembrano parlar d'una gioia comune, agevole a
raggiungersi; mentre l'Allegro maestoso, in lunghi periodi, lenti
passaggi, ampie deviazioni, esprime una più alta, più
nobile aspirazione verso una meta lontana, e il suo finale
conseguimento. L'Adagio parla del dolore d'una grande e nobile
aspirazione, la quale disdegna ogni felicità meschina. Ma
come mirabile è l'effetto del Minore e Maggiore! Come
stupisce, che il mutar d'un semitono, il subentrar della terza
minore in luogo della maggiore, c'inspiri immediatamente e
inevitabilmente un senso d'angoscia e di pena, dal quale con la
stessa rapidità ci libera il modo maggiore! L'Adagio
raggiunge nel modo minore l'espressione del più alto spasimo,
diviene il più sconvolgente lamento. Musica a ballo in minore
sembra indicare la perdita d'una felicità mediocre, che
piuttosto si dovrebbe disdegnare; sembra parlar d'un fine basso,
conseguito con travagli e tribolazioni. L'inesauribile ricchezza di
possibili melodie corrisponde all'inesauribile ricchezza della
varietà d'individui, fisonomie e carriere vitali nella
natura. Il passaggio da una tonalità a un'altra affatto
diversa, venendo a toglier la connessione con ciò che
precede, somiglia alla morte, in quanto ella è fine
dell'individuo: ma la volontà, che in costui si palesava,
vive dopo come prima, in altri individui palesandosi, la cui
conscienza tuttavia non ha connessione di sorta con quella del
primo.
Nel mostrar tutte queste analogie, non si deve tuttavia mai
dimenticare che la musica non ha con esse una relazione diretta, ma
soltanto indiretta: non esprimendo ella il fenomeno, ma l'intimo
essere, l'in-sé d'ogni fenomeno, la volontà stessa.
Non esprime adunque questa o quella singola e determinata gioia,
questo o quel turbamento, o dolore, o terrore, o giubilo, o letizia,
o serenità; bensì la gioia, il turbamento, il dolore,
il terrore, il giubilo, la letizia, la serenità in se stessi,
e, potrebbe dirsi, in abstracto, dandone ciò che è
essenziale, senza accessori, quindi anche senza i loro motivi.
Perciò noi comprendiamo la musica perfettamente, in questa
purificata quintessenza. Di là procede che la nostra fantasia
venga dalla musica con tanta facilità eccitata, tenti allora
di dar forma a quel mondo di spiriti, che direttamente ci parla,
invisibile e pur sì vivamente mosso, e di vestirlo con carne
e ossa, cioè impersonarlo in un esempio analogo. Questa
è l'origine del canto accompagnato da parole, e finalmente
dell'opera, – la quale appunto perciò non dovrebbe mai
abbandonare questa situazione subordinata per salire al primo luogo,
e ridurre la musica a semplice mezzo della propria espressione; la
qual cosa è un grosso errore e una brutta stortura.
Imperocché sempre la musica esprime la quintessenza della
vita e dei suoi eventi, ma non mai questi medesimi; le cui
distinzioni quindi non hanno il minimo influsso sopra di lei.
Appunto tale universalità, che a lei esclusivamente
appartiene, malgrado la determinatezza più precisa, le
dà l'alto valore, ch'ella possiede come panacea di tutti i
nostri mali. Se quindi si vuol troppo adattar la musica alle parole,
e modellarla sui fatti, ella si sforza a parlare un linguaggio che
non è il suo. Da questo difetto nessuno s'è tenuto
lontano come Rossini: perciò la musica di lui parla sì
limpido e puro il linguaggio suo proprio, da non aver punto bisogno
di parole, ed esercitare quindi tutto il suo effetto, anche se
eseguita dai soli strumenti.
In conseguenza di tutto ciò possiamo considerare il mondo
fenomenico (o la natura) e la musica come due diverse espressioni
della cosa stessa; la quale è adunque il termine di unione
dell'analogia che passa fra loro, la cui conoscenza si richiede per
vedere addentro quell'analogia. La musica quindi è – guardata
come espressione del mondo – un linguaggio in altissimo grado
universale, che addirittura sta all'universalità dei concetti
press'a poco come i concetti stanno alle singole cose. Ma la sua
universalità non è punto quell'universalità
vuota dell'astrazione, bensì ha tutt'altro carattere, ed
è congiunta con una perenne, limpida determinatezza. Somiglia
in ciò alle figure geometriche ed ai numeri: che, quali forme
universali di tutti i possibili oggetti dell'esperienza ed a tutti
applicabili, non sono tuttavia astratti, ma intuitivi e sempre
determinati. Tutte le possibili aspirazioni, eccitazioni e
manifestazioni della volontà; tutti quei fatti interni
dell'uomo, che la ragione getta nell'ampio concetto negativo di
sentimento, sono da esprimere nelle infinite melodie possibili; ma
ognora nell'universalità di semplice forma, senza la materia;
ognora nell'in-sé, e non nel fenomeno: quasi la più
profonda anima di questo, senza il corpo. Da quest'intima relazione,
che la musica ha con la vera essenza di tutte le cose, si trae pur
la spiegazione del fatto che se a qualsivoglia scena, azione,
evento, ambiente s'accompagna una musica adatta, questa sembra
dischiudercene il senso più segreto, ed esserne il più
esatto, il più limpido commentario; e nello stesso tempo pare
a quegli, che intero s'abbandona all'effetto d'una sinfonia, di
vedere innanzi a sé passare le vicende tutte della vita e del
mondo: ma nondimeno non gli è possibile, quando vi rifletta,
trovare una somiglianza tra quella musica e le cose che ondeggiavano
a lui nella fantasia. Imperocché quivi la musica differisce,
come ho detto, da tutte le altre arti: nell'essere non già
una riflessa immagine del fenomeno o, meglio, l'adeguata
oggettità della volontà, bensì l'immediato
riflesso della volontà medesima; e per tutto ciò
ch'è fisico nel mondo rappresentare il metafisico, per ogni
fenomeno rappresentare la cosa in sé. Tanto si potrebbe
quindi chiamare il mondo musica materiata, quanto materiata
volontà. Così si spiega, perché la musica
faccia apparire in più forte rilievo ogni quadro, anzi ogni
scena della vita reale e del mondo: e tanto più, per quanto
più analoga è la melodia di lei all'intimo spirito del
dato fenomenico. Di qui viene che una poesia possa, come canto,
venir sottomessa alla musica: o una rappresentazione intuitiva come
pantomina; o questa e quella insieme, come opera. Tali scene isolate
dell'umana vita, fatte soggetto all'universale linguaggio della
musica, non sono mai con questa congiunte o a lei corrispondenti per
una fissa necessità; bensì v'hanno il rapporto che un
qualsivoglia esempio può avere col concetto generale:
rappresentano con la determinatezza della realtà quel che la
musica esprime nell'universalità della forma pura.
Perché le melodie sono, in un certo modo, così come i
concetti universali, un'astrazione della realtà.
Quest'ultima, invero, fornisce l'intuitivo, il particolare e
individuale, il caso singolo, in corrispondenza sia
all'universalità dei concetti, sia all'universalità
delle melodie; le quali universalità sono tuttavia, sotto un
certo rispetto, contrarie: poiché i concetti contengono
soltanto le forme primamente astratte dall'intuizione, quasi il
vuoto guscio esterno delle cose, e sono quindi astrazioni vere e
proprie; mentre la musica da invece il nocciolo più interno,
precedente a ogni formazione, ossia il cuore della cosa. Questo
rapporto si potrebbe esprimere benissimo nella lingua degli
scolastici, dicendo: i concetti sono gli universalia post rem,
mentre la musica dà gli universalia ante rem, e la
realtà gli universalia in re. Al senso universale della
melodia, posta ad accompagnare una poesia, potrebbero corrispondere
egualmente altri esempi, scelti a piacere, dell'universale in quella
espresso, nello stesso grado; perciò la stessa composizione
s'adatta a più strofe, e perciò si può avere il
vaudeville. Ma in genere l'esser possibile un rapporto tra una
composizione musicale e una rappresentazione intuitiva poggia, come
ho osservato, sul fatto che l'una e l'altra sono espressioni
differentissime della stessa intima essenza del mondo. Ora, quando
s'abbia davvero nel caso singolo un tal rapporto, e il compositore
abbia saputo esprimere nell'universale lingua della musica quei moti
della volontà, che formano il nocciolo di un evento, allora
la melodia della canzone o la musica dell'opera è altamente
espressiva. L'analogia, dal compositore trovata fra quel linguaggio
e quei moti, deve nondimeno procedere dall'immediata cognizione
dell'essenza del mondo, senza consapevolezza della ragione; non
dev'essere imitazione fatta consapevolmente, mediante concetti, che
allora non esprimerebbe la musica l'intima essenza, la
volontà medesima, e non farebbe che imitare
insufficientemente il fenomeno di quest'ultima, come ognor fa la
musica imitativa, qual è per esempio Le stagioni di Haydn e
anche la sua Creazione, in molti luoghi ove fenomeni del mondo
intuitivo sono direttamente imitati. E così anche in tutte le
descrizioni di battaglie: tutta roba da gettar via.
L'ineffabile senso intimo d'ogni musica, in grazia del quale ella ci
passa davanti come un paradiso a noi ben famigliare e pure
eternamente lontano, affatto comprensibile e pur tanto
incomprensibile, proviene dal riflettere tutti i moti del nostro
essere più segreto, ma senza la realtà loro, e
tenendosi lungi dal loro tormento. Similmente la gravità
essenziale alla musica, per cui è il ridicolo escluso affatto
dal suo diretto dominio, si spiega con l'esser suo oggetto immediato
non la rappresentazione, che sola può apparire illusoria e
ridicola, ma la volontà stessa. E questa è per sua
natura ciò che esiste di più grave, come ciò da
cui tutto dipende. Come ricco di contenuto e di significanza sia il
linguaggio musicale, provano perfino i segni di ripetizione, oltre
al da capo, che in opere letterarie sarebbero intollerabili, mentre
in quello appaiono opportuni e vantaggiosi, dovendosi udire due
volte per afferrarlo appieno. In tutta questa trattazione intorno
alla musica mi sono sforzato di render chiaro, come ella in un
linguaggio universalissimo esprima l'essenza intima, l'in-sé
del mondo, che noi, muovendo dalla sua manifestazione più
limpida, significhiamo sotto il concetto di volontà; e
l'esprima in una materia particolare, ossia con semplici suoni, con
la massima determinatezza e verità. E d'altra parte, secondo
io vedo e tendo, la filosofia non è se non compiuta, esatta
riproduzione ed espressione dell'essenza del mondo, in concetti
molto generali; sol con questi potendosi avere una visione, per ogni
verso sufficiente e servibile, di tutta quell'essenza. Chi adunque
m'ha seguito ed è penetrato nel mio pensiero, non mi
troverà tanto paradossale, quando dico che, posto si potesse
dare una spiegazione della musica, in tutto esatta, compiuta e
addentrantesi nei particolari, ossia riprodurre estesamente in
concetti ciò ch'ella esprime, questa sarebbe senz'altro una
sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo in concetti; oppur
le equivarrebbe in tutto, e sarebbe così la vera filosofia.
Né il motto di Leibniz sopra citato, giustissimo da un
inferior punto di vista, suonerebbe paradossale venendo a esser
parodiato nel senso della nostra superiore concezione della musica,
così: Musica est exercitium metaphysices occultum nescientis
se philosophari animi. Imperocché scire, sapere, significa
sempre aver deposto la conoscenza in concetti astratti. E poi che la
musica, per la verità da più parti confermata del
motto leibniziano, non è altro, astraendo dal suo significato
estetico, o interno, e guardandola in modo affatto esteriore ed
empirico, che il mezzo di afferrar direttamente, e in concreto,
numeri più grandi e relazioni numeriche più complesse,
quali di solito possiam conoscere solo indirettamente per mezzo di
concetti, ne viene che, riunendo quelle due sì diverse e pure
esatte concezioni della musica, possiamo farci un concetto sulla
possibilità d'una filosofia dei numeri, qual era quella di
Pitagora e anche dei Cinesi nel Y-King; e in questo senso
interpretare il detto di Pitagora riferito da Sesto Empirico (adv.
Math., 1. VII): τω αριθμω δε τα παντ’ επεοικεν (numero cuncta
assimilantur). Ma se infine applichiamo questo modo di vedere alla
nostra precedente dimostrazione dell'armonia e della melodia,
troveremo che una filosofia morale pura, senza spiegazione della
natura, come Socrate la voleva introdurre, è affatto analoga
a una melodia senz'armonia, come Rousseau in modo esclusivo la
voleva; e all'opposto, una fisica e metafisica pura, senza etica,
corrisponde a una pura armonia senza melodia. A queste osservazioni
incidentali mi sia lecito annodarne alcune altre, riferentisi ancora
all'analogia della musica col mondo fenomenico. Trovammo nel
precedente libro, che il grado supremo d'oggettivazione della
volontà, l'uomo, non può apparir solitario e
distaccato dagli altri gradi inferiori; ma li presuppone, come
questi presuppongono gl'infimi. Così pure la musica, la
quale, proprio come il mondo, oggettiva la volontà
direttamente, è perfetta soltanto nell'armonia completa. La
voce acuta, che fa da guida alla melodia, abbisogna, per produrre
tutto il suo effetto, dell'accompagnamento di tutte le altre voci,
fino al basso più profondo, il quale è da considerarsi
come principio di tutte; la melodia entra qual parte integrante
nell'armonia, come questa in quella. E come soltanto nell'insieme di
tutte le voci la musica esprime ciò che d'esprimer si
propone, così l'unica volontà, che sta fuori del
tempo, trova la sua perfetta oggettivazione soltanto nella completa
unione di tutti i gradi, che lungo un'infinita scala di progressiva
evidenza manifestano il suo essere. Molto notevole è ancora
l'analogia che segue. Abbiamo nel precedente libro veduto che,
malgrado il reciproco adattamento, rispetto alle specie, di tutti i
fenomeni della volontà (il che dà luogo alla
considerazione teleologica), rimane tuttavia un non eliminabile
contrasto tra quei fenomeni individualmente; il quale è in
tutti i lor gradi visibile, e riduce il mondo a un perenne campo di
battaglia tra i fenomeni tutti dell'una e identica volontà,
facendo palese così l'intimo dissidio di quest'ultima con se
medesima. A ciò pur si trova corrispondenza nella musica.
Invero un sistema armonico di suoni interamente puro è
impossibile non solo fisicamente, ma già perfino
aritmeticamente. I numeri stessi, co' quali si esprimono i toni,
hanno irrazionalità non riducibili: nessuna scala sarebbe mai
possibile a calcolare, entro la quale ogni quinta stesse al tono
fondamentale come 2 sta a 3, ogni terza maggiore come 4 a 5, ogni
terza minore come 5 a 6, e così via. Perché, se i toni
sono esatti rispetto al tono fondamentale, non lo son più
reciprocamente, che allora, per esempio, dovrebbe la quinta esser la
terza minore della terza, etc. I toni della scala rassomigliano ad
attori, che debbano rappresentare or questa or quella parte. Una
musica perfettamente esatta non si può adunque pensare,
nonché eseguire, e dalla purezza piena si discosta ogni
possibile musica. Questa può solamente celare le dissonanze
in lei essenziali, distribuendole fra tutti i toni, ossia per mezzo
di tempera. Si veda a questo proposito l'I di Chladni, § 30, e
del medesimo la Breve esposizione della teoria dei suoni e
dell'armonia, p. 1234. Avrei ancor parecchio da aggiungere sul modo
onde la musica vien percepita, ossia unicamente nel tempo e per il
tempo, con assoluta esclusione dello spazio, ed anche senz'influsso
della conoscenza di causalità, ossia dell'intelletto:
imperocché i suoni musicali già producono come effetto
l'impressione estetica, senza che si debba risalire alla loro causa,
come accade nell'intuizione. Ma non voglio prolungar questi
discorsi, che probabilmente già a taluno sono apparso nel mio
terzo libro troppo prolisso, o troppo mi sono addentrato nei
particolari. Ciò era tuttavia necessario per il mio scopo, e
tanto meno sarà biasimato, quanto più ci si
rappresenti l'importanza, di rado conosciuta abbastanza, e l'alto
valore dell'arte; riflettendo che se, a nostro modo di vedere, tutto
il mondo visibile non è se non oggettivazione, specchio della
volontà, e accompagna questa alla conoscenza di sé,
anzi, come tosto vedremo, alla sua possibile redenzione; e
riflettendo in pari tempo, che il mondo come rappresentazione,
quando lo si consideri a parte, ed essendo svincolati dal volere lo
si lasci occupare esso solo la conscienza, è il più
gioioso e l'unico innocente aspetto della vita; di tutto ciò
noi dobbiamo considerar l'arte come il più alto grado, il
più completo sviluppo, poi che ella sostanzialmente fa quel
medesimo che fa il mondo visibile, ma con più concentrazione,
compiutezza, consapevole intento; e può quindi nel pieno
significato della parola esser chiamata la fioritura della vita. Se
il mondo intero quale rappresentazione non è che la
visibilità della volontà, l'arte è quella, che
fa più limpida codesta visibilità, la camera oscura,
che gli oggetti fa apparire più puri e meglio vedere e
abbracciar con lo sguardo. È lo spettacolo nello spettacolo,
la scena sulla scena, come nell'Amleto.
Il godimento del bello, il conforto che l'arte può dare,
l'entusiasmo dell'artista, che gli fa dimenticare i travagli della
vita, unico privilegio del genio, il solo che lo compensi del dolore
cresciuto di pari passo con la chiarità della conscienza, e
della squallida solitudine fra una gente eterogenea, – tutto
ciò poggia sul fatto che, come ci si mostrerà in
seguito, l'in-sé della vita, la volontà, l'essere
medesimo sono un perenne soffrire, in parte miserabile, in parte
orrendo; mentre l'essere medesimo quale semplice rappresentazione,
puramente intuita, o riprodotta dall'arte, libera da dolore, offre
un significante spettacolo. Quest'aspetto del mondo puramente
conoscitivo, e la riproduzione sua in un'arte qualsiasi è
l'elemento dell'artista. Egli è incatenato dallo spettacolo
dell'oggettivata volontà: vi si indugia, non si stanca di
guardarlo e di riprodurlo, e talora ne fa egli medesimo le spese,
ossia egli medesimo è la volontà, che in quel modo
s'oggettiva e perdura in continuo dolore. Quella pura, vera e
profonda conoscenza dell'essere del mondo gli si fa scopo di per se
stessa: ed egli a lei si ferma. Non diviene ella adunque per lui,
come vedremo nel seguente libro accadere per il santo arrivato alla
redenzione, un quietivo della volontà; non lo redime per
sempre dalla vita, ma solo per brevi istanti, e non è ancor
una via a uscir dalla vita, ma solo a volte un conforto nella vita
stessa; fin che la sua forza, così accresciuta, stanca alfine
del giuoco, non si volga al serio. Come simbolo di questo passaggio
si può considerar la Santa Cecilia di Raffaello. Al serio ci
volgeremo adunque noi pure nel libro seguente.
LIBRO QUARTO
IL MONDO COME VOLONTÀ
SECONDA CONSIDERAZIONE
Affermazione e negazione della volontà di vivere, dopo
raggiunta la conoscenza di sé.
Tempore quo cognitio simul advenit, amor e medio supersurrexit.
Oupneck' hat, studio Anquetil Duperron,
vol. II, p. 216
§ 53.
L'ultima parte del nostro esame si annunzia come la più
grave, poi che tocca le azioni degli uomini: oggetto che a ciascuno
direttamente importa, e a nessuno può essere straniero o
indifferente. Anzi, tanto è conforme alla natura dell'uomo il
riferire a quello tutte le altre cose, che in ogni indagine di varie
parti contesta egli terrà sempre la parte riferentesi alle
azioni, almeno fin dove l'interessa, per il risultato ultimo di
tutto quanto in quell'indagine si contiene; ed a questa sola
porrà seria attenzione, anche se non bada a nessun'altra.
Sotto il rispetto indicato, la parte del nostro esame che ora segue
si potrebbe chiamare, secondo il comune modo d'esprimersi, filosofia
pratica; in opposizione alla filosofia teoretica finora trattata. Ma
ogni filosofia è a mio avviso teoretica sempre, essendo a lei
essenziale, qualunque sia l'oggetto immediato della ricerca, il
rimaner nel campo della considerazione pura e l'investigare, non
già il dar precetti. Invece il diventar pratica, il guidar la
condotta, il modificare il carattere, sono vecchie pretese cui ella,
con più maturo giudizio, dovrebbe alfine rinunciare.
Imperocché qui, dove si tratta del valore e del non valore
d'un'esistenza, di salvazione o di condanna, non sono i suoi morti
concetti a dare l'esito, bensì lo dà l'essenza
più intima dell'uomo medesimo, il demone che lo guida e che
non lo ha scelto, ma che da lui è stato scelto, come dice
Platone – il suo carattere intelligibile, come Kant si esprime. La
virtù non s'insegna, più che non s'insegni il genio:
per lei è il concetto tanto infruttifero, e solo valevole
come strumento, quanto è infruttifero per l'arte. Altrettanto
stolti saremmo nell'attenderci, che i nostri sistemi morali e le
nostre etiche suscitassero uomini virtuosi, nobili e santi, come nel
chiedere alle nostre estetiche di suscitare poeti, scultori, musici.
La filosofia non può in nessun caso fare altro, se non
chiarire e spiegare ciò che è dato; recare alla
limpida, astratta conoscenza della ragione, sotto ogni rispetto e da
ogni punto di vista, quell'essenza del mondo che a ciascuno si
esprime intelligibile in concreto, ossia come sentimento. Ora, come
nei tre libri precedenti s'è cercato d'operar questo
passaggio alla consapevolezza razionale nel modo generico proprio
della filosofia, e muovendo da altri principi; così nel
presente libro sarà in egual modo considerata la condotta
dell'uomo: il quale aspetto del mondo dovrebbe non solo, secondo
osservai, per giudizio soggettivo, ma anche oggettivo, essere
riguardato come di tutti il più importante. Mi terrò
in questo fedele al metodo finora seguito; mi fonderò su
quanto ho esposto innanzi, come necessaria premessa; anzi
propriamente quell'unico pensiero, che forma il contenuto di tutta
la mia opera, svolgerò in relazione con la condotta umana,
come l'ho svolto fin qui in relazione con tutti gli altri oggetti:
venendo così a far l'ultimo sforzo ch'io posso, per la
comunicazione il più possibile compiuta del pensiero
medesimo.
Il punto di vista indicato, e l'annunziato metodo d'indagine,
già lasciano capire che in questo libro di etica non bisogna
attendersi ad alcuna prescrizione, ad alcuna teoria dei doveri:
ancor meno vi sarà formulato un principio morale universale,
quasi universale ricetta per la produzione di tutte le virtù.
Né discorreremo di un «dovere assoluto»,
perché questo, secondo si espone nell'Appendice, contiene una
contraddizione; né di una «legge per la
libertà», che si trova nello stesso caso. In genere non
discorreremo punto di dovere: poiché si parla così a
bambini e a popoli in istato d'infanzia, ma non a coloro che han
resa propria tutta la cultura di un'età fatta maggiorenne.
Gli è pure una contraddizione che s'afferra con mano,
proclamar libera la volontà e tuttavia prescrivere a lei
leggi, in base alle quali ella deve volere: – «deve
volere!» – come chi dicesse: ferro fatto di legno! Invece,
come appare da tutto il nostro modo di vedere, è la
volontà non soltanto libera, bensì onnipotente: da lei
procede non pure la sua condotta, ma anche il suo mondo; e quale
ella è, tale appare la sua condotta, tale appare il suo
mondo: sua conscienza di sé sono quella e questo, e
null'altro: ella determina se stessa, e determina con ciò
condotta e mondo: perché nulla è fuori di lei, e
condotta e mondo sono lei medesima. Così soltanto ella
è veramente autonoma; eteronoma è invece secondo ogni
altra concezione. Il nostro sforzo filosofico può appena
pervenire a interpretare e spiegare la condotta dell'uomo, le
massime sì diverse, anzi contraddittorie, di cui quella
condotta è vivente espressione, in rapporto con le
considerazioni che abbiam fatte finora, nel modo stesso in cui
abbiam cercato d'interpretare gli altri fenomeni del mondo,
recandone l'essenza più intima nel dominio della limpida
conoscenza astratta. La nostra filosofia affermerà in
ciò quella stessa immanenza, affermata nelle considerazioni
precedenti: non userà, venendo meno alla grande dottrina
kantiana, le forme del fenomeno, di cui è espressione
universale il principio di ragione, come un bastone da salto, per
oltrepassare il fenomeno, che solo dà a quello un senso, e
approdare allo sconfinato dominio delle vuote finzioni. Questo reale
mondo della conoscibilità, nel quale noi stiamo e che sta in
noi, rimane non soltanto materia, ma limite del nostro studio: ed
è sì ricco di contenuto, che non potrebbe esaurirlo
neppur l'indagine più profonda, di cui fosse capace lo
spirito umano. Poiché adunque il mondo reale, conoscibile,
non lascerà mai argomento e realtà venir meno alle
nostre considerazioni etiche, come già non ne lasciò
mancare alle considerazioni precedenti; nulla ci sarà
più inutile che il far ricorso a vuoti, negativi concetti, e
poi far credere a noi stessi d'aver detto qualcosa, quando con
solenne cipiglio abbiam parlato d'«assoluto»,
d'«infinito», di «soprasensibile», e di
quant'altre pure negazioni consimili possan darsi ancora (ουδεν
εστι, η το της στερησεως ονομα, μετα αμυδρας επινοιας.— nihil est,
nisi negationis nomen, cum obscura notione. Jul. or. 5); in luogo
delle quali si potrebbe dir, più brevemente,
«nubicuculia» (νεφελοκοκκυγία). Piatti di tal fatta, ben
coperti ma vuoti, non avremo noi bisogno di mettere in tavola.
Insomma, anche qui come per il passato ci guarderemo dal raccontare
storie gabellandole per filosofia. Imperocché noi siamo
d'avviso, che da una filosofica cognizione del mondo sia oltre ogni
misura lontano chi pensi di poterne coglier l'essenza, e sia pur
sotto i più bei trucchi, storicamente. E questo è il
caso, non appena nel concetto, che colui ha del mondo in sé,
venga a trovarsi un qualsiasi divenire, o esser divenuto, o esser
per divenire; e un prima e poi acquisti la pur minima importanza, e
quindi in modo palese o nascosto si cerchi e trovi un principio e
una fine del mondo, e una via da quello a questa. Codesto isterico
filosofare da il più spesso una cosmogonia, la quale consente
molte varietà, ma può dare anche un sistema di
emanatismo, una dottrina della caduta; oppure, se disperando dei
vani tentativi per quelle strade si riduce a prenderne un'altra,
ultima, dà viceversa una teoria dell'eterno divenire, del
nascere, del sorgere, del balzar alla luce dalle tenebre,
dall'oscuro fondo, dal fondo dei fondi, dal fondo senza fondo, e
quanti sono vaniloqui di tal sorta. Tutte cose le quali si tolgono
di mezzo con l'osservare, che essendo un'eternità intera,
ossia un tempo infinito, già trascorsa fino all'attimo
presente, tutto quel che può e deve accadere deve anche
essere già accaduto. Poiché codesta filosofia storica,
per quante arie voglia darsi, prende, come se Kant non fosse mai
esistito, il tempo per una determinazione della cosa in sé: e
s'arresta quindi a ciò che Kant chiama fenomeno, in
opposizione alla cosa in sé, e Platone chiama il divenire che
mai non è, in opposizione all'essere che mai non diviene;
s'arresta a ciò, insomma, che gl'Indiani chiamano il velo di
Maja. E quest'è appunto la conoscenza vincolata al principio
di ragione, con la quale mai non si giunge all'essenza intima delle
cose, ma non si fa che perseguire all'infinito i fenomeni, muovendo
intorno senza fine e senza meta, come fa lo scoiattolo nella gabbia
a ruota; finché per avventura stanchi alla fine o sopra o
sotto in un punto qualsiasi ci si ferma, e si pretende di far
rispettare questo punto anche dagli altri. La vera considerazione
filosofica del mondo, ossia quella che c'insegna a conoscere
l'essenza intima, e ci conduce così di là dal
fenomeno, è appunto quella che non chiede il donde e il dove
e il perché, ma sempre e in tutto domanda esclusivamente il
che cosa del mondo: ossia quella, che le cose considera non
già in una lor qualunque relazione, non già nel loro
principiare e finire, non già insomma secondo una delle
quattro forme del principio di ragione; ma viceversa ha per oggetto
proprio quel che avanza, quando abbiamo tolto via tutta la
conoscenza sottomessa al principio medesimo, quel che in tutte le
relazioni si manifesta senza esser da loro dipendente, l'essenza del
mondo ognora eguale a se stessa, le idee del mondo. Da tal
conoscenza essenziale procede, come l'arte, anche la filosofia;
anzi, come vedremo in questo libro, ne procede pur quella
disposizione dell'animo, che sola conduce alla vera santità e
alla redenzione del mondo.
§ 54.
I tre primi libri avranno fatto veder chiaramente e sicuramente,
spero, che nel mondo quale rappresentazione la volontà ha il
proprio specchio, in cui se stessa conosce, per gradi progressivi di
limpidità e di compiutezza; de' quali il più alto
è l'uomo. Ma l'essere dell'uomo raggiunge la sua piena
espressione sol mediante la serie coerente delle sue azioni. E il
conscio nesso delle azioni è reso possibile dalla ragione,
che da mezzo all'uomo di dominarne con lo sguardo il complesso in
abstracto.
La volontà considerata in se stessa è inconsciente:
è un cieco, irresistibile impeto, qual noi già vediamo
apparire nella natura inorganica e vegetale, com'anche nella parte
vegetativa della nostra propria vita. Sopravvenendo il mondo della
rappresentazione, sviluppato per il suo servigio, ella acquista
conoscenza del proprio volere e di ciò ch'ella vuole, che
altro non è se non il mondo, la vita, così come si
presenta. Perciò il mondo fenomenico l'abbiam chiamato
specchio della volontà, e sua oggettità: e ciò
che la volontà sempre vuole è la vita, appunto
perché questa non è altro che il manifestarsi di quel
volere per la rappresentazione; perciò è tutt'uno, e
semplice pleonasmo, quando invece di «volontà»
senz'altro diciamo «volontà di vivere».
Essendo la volontà la cosa in sé, l'interna sostanza,
l'essenza del mondo, mentre la vita, il mondo visibile, il fenomeno
è solamente lo specchio della volontà; ne viene che il
fenomeno accompagna la volontà sì fedelmente, come
l'ombra il corpo; e dov'è volontà, sarà pur
vita, mondo. Alla volontà di vivere è adunque la vita
assicurata; e fin quando pieni siamo della volontà di vivere,
non dobbiamo trovarci in ansia per la nostra esistenza – neppure in
vista della morte. Vediamo bensì l'individuo nascere e
perire: ma l'individuo è soltanto fenomeno, non esiste se non
per la conoscenza irretita nel principio di ragione, nel principio
individuationis: in virtù di questo invero riceve la propria
vita come un dono, vien fuori dal nulla, soffre poi per morte la
perdita di quel dono, e al nulla fa ritorno. Ma noi vogliamo invece
considerar la vita filosoficamente, ossia nelle sue idee; e
troveremo allora che né la volontà, la cosa in
sé di tutti i fenomeni, né il soggetto del conoscere,
quegli che guarda tutti i fenomeni, da nascita e morte sono in alcun
modo toccati. Nascita e morte toccano per l'appunto al fenomeno
della volontà, ossia alla vita; e di questa è proprio
il manifestarsi in individui, i quali nascono e periscono come
effimere apparenze, palesantisi nella forma del tempo, di ciò
che in sé nessun tempo conosce, ma deve tuttavia nel modo
suddetto manifestarsi, per oggettivare il suo vero essere. Nascita e
morte toccano in egual maniera alla vita, e si fanno equilibrio come
reciproche condizioni l'una dell'altra: o, se si preferisce il
termine, come poli di tutto il fenomeno vitale. La più saggia
di tutte le mitologie, l'indiana, ciò esprime attribuendo a
quel medesimo Dio, che simboleggia la distruzione e la morte (come
Brama, il più peccaminoso e basso Dio della Trimurti,
simboleggia la generazione, la nascita, e Visnu la conservazione),
attribuendo a Shiva, dico, in pari tempo il collare di teschi ed il
Lingam, simbolo della generazione, la quale si presenta quivi
adunque come adeguamento della morte. La qual cosa significa, che
generazione e morte sono per natura correlati, che a vicenda si
neutralizzano e sopprimono. Ed è lo stesso pensiero, che
Greci e Romani indusse a ornare i preziosi sarcofagi come ancora li
vediamo, con feste, danze, nozze, cacce, lotte d'animali, baccanali,
ossia con rappresentazioni del più impetuoso ardore vitale:
ardore che non solo essi ci mostrano in codeste scene festive, ma
perfino in gruppi voluttuosi, arrivando fino all'accoppiamento di
satiri e di capre. Loro scopo era palesemente quello di rivolgere la
mente dalla morte dell'individuo compianto all'immortal vita della
natura, e con ciò indicare, sia pure senz'averne astratta
conscienza, che tutta la natura è fenomeno ed anche
adempimento della volontà di vivere. Forma di tal fenomeno
sono tempo, spazio e causalità, e quindi, per lor mezzo,
individuazione; la qual cosa fa sì, che l'individuo debba
nascere e morire; ma essa non tocca la volontà di vivere,
della cui manifestazione l'individuo non è che un singolo
esempio o saggio, più che il complesso della natura non venga
toccato dalla morte di un individuo. Poiché non l'individuo,
ma la specie sola importa alla natura, la quale per la conservazione
della specie si affatica con ogni sforzo, a quella provvedendo con
sì larga prodigalità, mediante la smisurata
sovrabbondanza dei germi e la gran forza della fecondità.
Invece l'individuo non ha per lei valore alcuno, perché tempo
infinito, infinito spazio, e, in tempo e spazio, infinito numero di
possibili individui, sono il regno della natura; quindi ella
è ognor pronta a lasciar cadere l'individuo, il quale non
solo in mille modi, per i più piccoli accidenti, è
esposto alla rovina, ma alla rovina è fin da principio
destinato e dalla natura stessa condotto, a partir dall'istante, in
cui esso è servito alla conservazione della specie.
Apertissimamente esprime in ciò la natura medesima quel
grande vero, che le idee soltanto, e non gli individui, hanno
effettiva realtà, cioè sono compiuta oggettità
della volontà. Ora, essendo l'uomo la natura stessa, nel
più alto grado della sua autoconscienza, e la natura non
essendo se non l'oggettivata volontà di vivere, può
l'uomo, che abbia bene afferrato questa concezione e vi si tenga
stretto, consolarsi a giusta ragione della morte sua e degli amici
suoi, contemplando l'immortal vita della natura, la quale è
lui stesso. Così va dunque inteso Shiva con il Lingam, e
così quegli antichi sarcofagi, i quali con le lor figure
della più fervida vita ammoniscono il dolorante
contemplatore: Natura non contristatur.
Che nascita e morte vadano considerate come alcunché
spettante alla vita, ed essenziale a codesto fenomeno della
volontà, risulta anche dal fatto, che l'una e l'altra ci si
presentano semplicemente come espressioni, elevate a più alta
potenza, di ciò, in cui pur tutta la rimanente vita consiste.
Questa invero è in tutto e per tutto nient'altro che un
perenne mutar della materia in un fisso permaner della forma: e non
altra è la caducità degli individui di fronte
all'eternità della specie. La continuata nutrizione e
riproduzione si distingue dalla nascita soltanto per il grado; e
soltanto per il grado si distingue la continuata escrezione dalla
morte.
La prima di codeste analogie si mostra, nel modo più semplice
e chiaro, nella pianta. Questa è unicamente la ripetizione
costante di uno stesso impulso, della sua più semplice fibra,
che si aggruppa in foglia e ramo; è un sistematico aggregato
di piante consimili, l'una con l'altra sostenentisi, la cui costante
riproduzione è il suo unico impulso: per soddisfarlo appieno
ella da ultimo ascende, attraverso la scala delle metamorfosi, fino
al fiore e al frutto, compendio del suo essere e della sua
aspirazione, nel quale per la via più breve consegue
ciò ch'era sua meta unica, e d'un tratto compie in mille
ciò ch'avea fino allora operato in un solo esemplare: la
riproduzione di se stessa. Il suo sviluppo prima di pervenire al
frutto sta a questo, come la scrittura alla stampa. Evidentemente il
medesimo accade pur tra gli animali. Il processo nutritivo è
un perenne generare, il processo generativo è una nutrizione
innalzata a più alta potenza: la voluttà nel generare
è il benessere, elevato a più alta potenza, del
sentimento vitale. E d'altra parte la escrezione, il continuo
esalare e rigettar materia, è il medesimo di quel ch'è
in più alta potenza la morte, l'opposto della generazione. E
come in ciò basta a noi conservar la forma, senza rimpianto
per la rigettata materia, così dobbiamo in egual maniera
contenerci, quando per morte accade in più alta potenza e
nella totalità, ciò che ciascun giorno e ciascuna ora
accade in parte con l'escrezione: come siamo indifferenti nel primo
caso, così non dovremmo sbigottirci davanti al secondo. Sotto
questo rispetto apparisce altrettanto stolto il pretender la durata
della propria individualità, la quale vien sostituita da
altri individui, quanto il pretendere che perduri intatta la materia
del nostro corpo, la quale da materia nuova è continuamente
sostituita. Imbalsamare i cadaveri non è meno stolto, che non
sia il conservare con cura i propri escrementi. Per ciò che
tocca la conscienza individuale congiunta con l'individuale corpo,
si avverta ch'essa viene quotidianamente interrotta in modo completo
dal sonno. Il sonno profondo non è, nel tempo della sua
durata, diverso dalla morte, in cui sovente va a finire, per
esempio, nei casi di assideramento; diverso n'è soltanto per
l'avvenire, ossia per la possibilità del risveglio. La morte
è un sonno, nel quale si dimentica l'individualità: ma
tutto il rimanente si risveglia, o piuttosto non s'è mai
addormentato35.
Prima d'ogni altra cosa dobbiamo ben persuaderci, che la forma del
fenomeno della volontà, ossia la forma della vita o della
realtà, è invero il solo presente, non l'avvenire,
né il passato: questi esistono unicamente nel concetto,
unicamente nella concatenazione della conoscenza, in quanto ella
segue il principio di ragione. Nel passato nessun uomo è
vissuto, e nell'avvenire nessuno vivrà: il presente solo
è forma d'ogni vita, ed è sicuro dominio, che alla
vita non può mai essere strappato. Il presente è
ognora qui, col suo contenuto: l'uno e l'altro tengon fermo, senza
vacillare; come l'arcobaleno sulla cascata. Imperocché alla
volontà è la vita, alla vita il presente sicuro e
certo. È vero, che se pensiamo ai trascorsi millennii, ai
milioni d'uomini che in quelli vissero, ci domandiamo: Che cosa
furono? che cosa ne è accaduto? Ma dobbiamo invece
richiamarci alla memoria il passato della nostra esistenza
personale, e vivacemente riprodurcene le scene nella fantasia, e poi
domandarci ancora: Che cosa è stato tutto ciò? che
cosa ne è accaduto? La stessa sorte è toccata al
nostro passato e alla vita di quei milioni. O dovremmo noi pensare,
che il passato acquisti un'esistenza nuova, per avere avuto il
suggello della morte? Il nostro individuale passato, anche il
più prossimo, quello di ieri, non è più che un
sogno della fantasia, fatto di nulla, e così è il
passato di tutti quei milioni d'esseri. Che cosa fu? che cosa
è? La volontà: di cui è specchio la vita; e il
conoscere scevro di volontà, che in quello specchio
limpidamente la volontà vede riflessa. Chi non ancora ha
ciò compreso, o non vuole comprenderlo, deve alla domanda
fatta più sopra, intorno al destino delle generazioni
trapassate, aggiungere quest'altra: perché proprio lui, lui
che interroga, ha la gioia di posseder questo prezioso, fuggitivo
presente, che solo è reale, mentre quelle centinaia di
generazioni, e perfino gli eroi e i sapienti delle età
trascorse, sono caduti nella notte del passato e perciò
ridotti a nulla, quand'egli, col suo insignificante io, esiste di
fatto? O più brevemente, ma senza diminuir la stranezza della
cosa: perché questo presente, il suo presente, si ha proprio
ora e non fu invece già da tempo? Con queste domande strane,
vede il suo essere e il suo tempo come indipendenti l'uno
dall'altro, e quello come gettato in questo; egli ammette in
verità due presenti, l'uno dei quali appartiene all'oggetto,
l'altro al soggetto, e si stupisce per il caso felice della loro
coincidenza. Ma in verità (come si vede nel mio scritto sopra
il principio di ragione), il presente è formato soltanto dal
punto d'incontro dell'oggetto, la cui forma è il tempo, col
soggetto, che non ha per forma nessun modo del principio di ragione.
Ora, ogni oggetto è volontà, in quanto questa è
divenuta rappresentazione, e il soggetto è il necessario
correlato dell'oggetto; ma oggetti reali si danno soltanto nel
presente; passato e futuro contengon semplici concetti e fantasmi,
sì che il presente è l'essenzial forma del fenomeno
della volontà, e da questa inseparabile. Il presente solo
è ciò che sempre esiste, e incrollabile perdura.
Mentre, guardato empiricamente, esso è quanto v'ha di
più soggettivo, all'occhio metafisico, il quale guarda oltre
le forme dell'intuizione empirica, si mostra come l'unico
Permanente, il Nunc stans degli scolastici. Principio e fondamento
del suo contenuto è la volontà di vivere, o la cosa in
sé, – che siamo noi stessi. Ciò che sempre nasce e
perisce, mentre o è già stato o sarà in futuro,
appartiene al fenomeno come tale, in virtù delle forme di
questo, che rendono possibile il cominciare e il finire. Bisogna
dunque pensare: Quid fuit? Quod est. Quid erit? Quod fuit. E si
prenda l'espressione nel senso preciso della parola, intendendo non
già simile bensì idem. Imperocché alla
volontà è certa la vita, alla vita il presente. Quindi
può anche dire ognuno: «Io sono una volta per tutte
signore del presente, e per tutta l'eternità questo mi
accompagnerà come la mia ombra: perciò non mi
maraviglia il come esso sia venuto fino a me, e come accada che ora
ap punto sia qui». Possiamo paragonare il tempo a un cerchio
che gira senza fine: la parte ognora discendente sarebbe il passato,
quella sempre ascendente, il futuro: il punto in alto, indivisibile,
che la tangente tocca, sarebbe il presente, che non ha estensione:
come la tangente non ruota col cerchio, così non ruota il
presente, il punto di contatto dell'oggetto, di cui è forma
il tempo, col soggetto, che non ha forma, perché non
appartiene al dominio conoscibile, bensì d'ogni conoscibile
è condizione. Oppure: il tempo somiglia a un'infrenabile
corrente, e il presente a una roccia, contro cui quella si frange,
senza pervenire a trascinarla con sé. La volontà, come
cosa in sé, non è sottomessa al principio di ragione
più che non vi sia sottomesso il soggetto della conoscenza,
il quale poi finalmente in un certo senso è la volontà
medesima, o la sua manifestazione. E come alla volontà
è certa la vita, suo proprio fenomeno, così è
certo anche il presente, unica forma della vita reale. Non abbiamo
dunque da indagar né il passato innanzi la vita, né il
futuro dopo la morte: invece come unica forma in cui la
volontà si svela dobbiamo conoscere il presente36. Tale forma
non verrà mai meno alla volontà, ma neppur questa a
quella. Chi s'appaga quindi della vita qual è, chi in tutte
guise la vita afferma, può fiducioso considerarla come
infinita, e il timor della morte bandire come un inganno, che a lui
inspiri lo stolto timore di poter un giorno perdere il presente, e
gli ponga innanzi agli occhi la prospettiva di un tempo senza
presente: inganno che nel rispetto del tempo corrisponde all'altro
nel rispetto dello spazio, per cui ciascuno nella propria fantasia
ritiene il posto della sfera terrestre da lui occupato essere il
punto superiore della sfera stessa, e tutto il rimanente vede al
disotto. Proprio così collega ciascuno il presente con la
propria individualità, e ritiene abbia con questa ogni
presente a cessare; e passato ed avvenire siano senza presente. Ma,
come sulla sfera terrestre ogni dove sta disopra, così pure
è presente la forma d'ogni vita; e il temer la morte,
perché questa ci strappa il presente, non è più
saggio che il temer si possa scivolare giù dal globo della
Terra, sul quale per fortuna ci si trovi ora proprio al punto
superiore. All'oggettivazione della volontà è
essenziale la forma del presente, che qual punto senza estensione
divide il tempo di qua e di là infinito, e immobilmente sta
fermo, pari a un eterno meriggio, senza la rinfrescante sera;
così come il sole in realtà arde senza interruzione,
mentre in apparenza cade nel seno della notte. Perciò, quando
un uomo teme la morte come annientamento di sé, gli è
come se altri pensasse poter il sole alla sera lamentarsi:
«Ahimè! io sprofondo nell'eterna notte»37. E
viceversa: chi è oppresso dai pesi della vita, chi la vita
bensì vorrebbe, e la vita afferma, ma ne ha in orrore i
tormenti, e soprattutto più non sa tollerare il duro destino,
che a lui proprio è toccato, questi non ha da sperar
liberazione nella morte, né si può salvare col
suicidio: sol con falsa illusione lo trae a sé l'oscuro,
freddo Orco qual porto di riposo. La terra si volge dal giorno verso
la notte; l'individuo muore; ma il sole brilla senza posa in eterno
meriggio. Alla volontà di vivere è certa la vita: la
forma della vita è un presente senza fine; né importa
il come nascano e periscano nel tempo gl'individui, fenomeni
dell'idea, comparabili a sogni fugaci. Il suicidio ci apparisce
già da questo un'azione vana e quindi stolta: e quando saremo
progrediti più oltre nella nostra indagine, ci si
presenterà in una luce ancor più sfavorevole.
I dogmi mutano, e il nostro sapere è illusorio, ma la natura
non sbaglia: il suo corso è sicuro, ed ella non lo cela. Ogni
cosa è tutta in lei, ed ella è tutta in ogni cosa. In
ciascun animale ha ella il suo centro: ogni animale ha trovato
sicuramente la propria via dell'essere, come sicuramente la
troverà per uscirne: frattanto vive senza tema di
annientamento e libero da preoccupazioni, sorretto dalla conscienza
di essere egli la natura medesima, e come lei eterno. Soltanto
l'uomo trae seco in concetti astratti la certezza della propria
morte: tuttavia questa, ed è molto strano, può
angustiarlo solo per momenti isolati, quando una circostanza la
richiama alla fantasia. Contro la poderosa voce della natura
può la riflessione ben poco. Anche in lui, come nell'animale
che non pensa, impera come durevole stato quella certezza,
proveniente dalla più intima conscienza, ch'egli è la
natura, è il mondo medesimo; per la qual certezza il pensiero
della morte sicura e mai lontana nessun uomo inquieta visibilmente,
che ciascuno invece vive come dovesse vivere in eterno. E questa
condizione di cose va tanto lontano, da potersi dire che nessuno
abbia una vera, vivente persuasione della certezza della propria
morte, perché altrimenti non potrebb'essere una sì
gran differenza tra la sua disposizione d'animo e quella d'un
condannato a morte; ma che l'uomo, pur riconoscendo quella certezza
in abstracto e teoricamente, la mette in disparte come altre
verità teoriche, inservibili nella pratica, senza punto
accoglierla nella sua vivente conscienza. Chi ben consideri questa
particolarità dello spirito umano, vedrà che le sue
spiegazioni psicologiche, fondate sull'abitudine o sull'adattamento
all'inevitabile, non sono in nessun modo sufficienti, e che la
ragione è quella, più profonda, indicata. Con quella
va pur spiegato, perché in tutti i tempi, presso tutti i
popoli si trovino e stiano in onore dogmi d'un qualsivoglia perdurar
dell'individuo dopo la morte, sebbene le prove dovessero sempre
esserne insoddisfacenti, mentre forti e numerose son le prove del
contrario; anzi, il contrario veramente non ha bisogno di prove,
bensì da un intelletto sano vien riconosciuto come un fatto,
e come tale confermato dalla fiducia, che la natura né
smentisce né erra, ma la sua azione e il suo essere
apertamente manifesta, o addirittura ingenuamente esprime: mentre
siamo noi stessi che col nostro vaneggiare l'intorbidiamo, per
ricavarne arzigogolando ciò che ai nostri occhi miopi per
l'appunto si confà.
Ma la verità, che ora abbiamo recata a chiara conscienza,
che, per quanto il singolo fenomeno della volontà abbia nel
tempo principio e nel tempo fine, la volontà stessa come cosa
in sé non viene da ciò punto toccata, e neppure il
correlato d'ogni oggetto, il conoscente e mai conosciuto soggetto; e
similmente il fatto che alla volontà di vivere è
sempre certa la vita: tutto ciò non va confuso con quelle
dottrine della persistenza individuale. Imperocché alla
volontà, considerata come cosa in sé, com'anche al
puro soggetto del conoscere, all'eterno occhio del mondo, non tocca
un perdurare più che non tocchi un perire, queste essendo
determinazioni che valgono solamente nel tempo, mentre quelli stanno
fuori del tempo. Perciò l'egoismo dell'individuo (di questo
singolo fenomeno della volontà illuminato dal soggetto del
conoscere) può dalla nostra concezione suesposta tanto poco
alimento e conforto ricavare per il suo desiderio di esistere in un
tempo infinito, quanto poco ne ricava dal conoscer che dopo la sua
morte il rimanente mondo esterno seguiterà nondimeno a
esistere nel tempo; il che esprime proprio la stessa concezione di
sopra, ma da un punto di vista oggettivo e quindi temporale.
Imperocché è bensì vero, che ogni individuo
è effimero solo in quanto fenomeno, mentre come cosa in
sé è fuori del tempo, e perciò non ha fine; ma
pur soltanto come fenomeno è distinto dalle altre cose del
mondo, mentre come cosa in sé esso è la
volontà, che in tutto si palesa, e la morte cancella
l'illusione che separa la sua conscienza dall'universale: questa
è la vera eternità. Il suo non esser toccato dalla
morte è proprietà di lui in quanto cosa in sé,
mentre per il fenomeno coincide col permanere del rimanente mondo
esteriore38. Da ciò procede che l'intima conscienza, non
altro che sentita, di quanto abbiamo or ora elevato a chiara
cognizione, impedisce bensì, come s'è detto, che il
pensiero della morte avveleni la vita al consapevole essere
razionale, essendo tale conscienza la base di quell'ardore vitale,
che sorregge ciascun vivente, e lo fa procedere animoso
nell'esistenza, quasi morte non fosse, almeno fin tanto ch'egli ha
la vita innanzi agli occhi e alla vita è rivolto; ma non
impedisce tuttavia che quando la morte si presenta all'individuo o
nella realtà o anche soltanto nella fantasia, e questo deve
guardarla in faccia, un tremendo terrore lo colga, ed esso cerchi in
tutte le maniere di sfuggire. Perché al modo che quando la
sua conoscenza era rivolta alla vita come tale, doveva di questa
riconoscer l'eternità, così, quando la morte gli si fa
innanzi, deve riconoscerla per quel ch'essa è, la temoral
fine del singolo fenomeno temporale. Ciò che temiamo nella
morte, non è punto il dolore: in parte, perché questo
sta di qua dalla morte; in parte, perché sovente dal dolore
ci rifugiamo nella morte, come d'altronde all'opposto affrontiamo
talvolta il più atroce dolore, sol per isfuggire un momento
alla morte, fosse pur rapida e lieve. Distinguiamo adunque dolore e
morte come due mali affatto diversi; ciò, che nella morte
temiamo, è in realtà la fine dell'individuo, che tale
apertamente ci si palesa la morte; e poi che l'individuo è la
volontà di vivere medesima, in una singola oggettivazione,
tutto l'esser suo contro la morte si ribella. Ma, dove in siffatta
maniera il sentimento ci lascia senza difesa, può nondimeno
subentrare la ragione, e per massima parte vincere le ripugnanze di
quello, elevandoci ad una considerazione più alta, dove noi,
invece del singolo, abbiamo davanti agli occhi il tutto.
Perciò una cognizione filosofica dell'essenza del mondo, la
quale fosse pervenuta fino al punto in cui ci troviamo nella nostra
indagine, ma non andasse più oltre, già potrebbe
superare i terrori della morte: nella misura, in cui la riflessione
avesse per un dato individuo il sopravvento sul diretto sentire.
Immaginiamo un uomo, che le verità finora esposte abbia ben
fissate nella mente, ma non sia insieme arrivato, né per
esperienza propria, né per visione larga delle cose, a
riconoscer come essenziali in ogni vita un diuturno dolore,
bensì nella vita trovi soddisfazione, e ci si senta a suo
pieno agio, e con tranquilla riflessione desideri veder continuata
indefinitamente la sua vita, quale fu in passato, o aver sempre
nuovo principio. E sia il suo ardor vitale sì grande, che per
le gioie del vivere egli accetti volenteroso tutti i fastidi e le
pene, a cui il vivere è soggetto. Un tale uomo starebbe
«con salde ben midollate ossa sulla bene arrotondata, durabile
terra», e non avrebbe nulla da temere: armato della
conoscenza, che noi gli diamo, indifferente guarderebbe la morte
sulle ali del tempo rapida appressantesi, contemplandola come una
falsa apparenza, un impotente fantasma, che può far paura ai
deboli, ma nessuna forza ha su quegli, che sa d'esser egli medesimo
quella volontà, la cui oggettivazione o immagine è il
mondo intero; quegli, cui rimangono perciò sicuri sempre la
vita ed il presente, la vera, l'unica forma del fenomeno della
volontà; quegli, cui nessun passato o avvenire infinito, nel
quale e' non si trovasse, può sbigottire, poiché li
considera come il vano miraggio ed il velo di Maja; quegli, che non
dovrebbe quindi temer la morte, più che il sole non tema la
notte. A questa concezione innalza Krishna nella Bhagavat Gita il
suo principiante discepolo Arjuna, allorché questi alla vista
dell'esercito pronto per la battaglia (circa nella stessa guisa di
Serse) colto da pensosa tristezza sbigottisce e vorrebbe desister
dalla lotta, per iscongiurar la distruzione di tante migliaia di
vite: a quella concezione lo innalza Krishna, e la morte delle
migliaia non val più a trattenerlo: egli dà il segnale
della battaglia. La stessa concezione esprime il Prometeo di Goethe,
soprattutto quando dice:
Qui io sto, uomini formo
A immagine di me,
Una razza, che eguale mi
sia
Nel soffrire, nel piangere,
Nel godere e rallegrarsi,
E di te
non curarsi,
Come me!39.
Ed alla stessa concezione ancora potrebbero la filosofia di Bruno e
quella di Spinoza condurre chi non si sentisse disturbato o scosso
nella persuasione dai loro errori e difetti. La filosofia di Bruno
non contiene una vera etica, e quella ch'è nella filosofia di
Spinoza non nasce punto dall'essenza della sua dottrina,
bensì, pur essendo in sé apprezzabile e bella,
v'è collegata sol con deboli e troppo visibili sofismi. Alla
concezione suddetta finalmente perverrebbero forse molti uomini, se
la loro conoscenza andasse di pari passo con il loro volere, ossia
se liberi d'ogni falso miraggio, fossero in grado d'aver chiara e
limpida conscienza di sé. Imperocché qui sta, per la
conoscenza, la base dell'intera affermazione della volontà di
vivere.
La volontà afferma se stessa, s'è detto: mentre nella
sua oggettità, ossia nel mondo e nella vita, la sua propria
essenza viene a lei data compiutamente e limpidamente, codesta
conoscenza non impedisce punto il suo volere; anzi appunto quella
vita in siffatto modo conosciuta viene anche come tale dalla
volontà voluta, con cognizione, in maniera consapevole e
meditata, come prima era voluta senza cognizione, quale cieco
impulso. Il contrario, la negazione della volontà di vivere,
si mostra quando, raggiunta quella cognizione, la volontà
finisce; allor che i singoli fenomeni conosciuti non agiscono
più come motivi della volontà, ma invece tutta intera
la cognizione, maturata con l'afferrar le idee, dell'essenza del
mondo, il quale rispecchia la volontà, diventa un quietivo
della volontà stessa, e così la volontà
liberamente si sopprime. Questi concetti affatto sconosciuti, e
difficilmente comprensibili in questa forma generica, diventeranno
chiari, spero, con l'esposizione, che tosto seguirà, dei
fenomeni, o, nel caso nostro, modi di agire, ne' quali da un lato
s'esprime l'affermazione, nei suoi diversi gradi, e dall'altro la
negazione. Imperocché entrambe procedono bensì dalla
conoscenza, ma non da quella astratta, che si rivela in parole,
bensì da una conoscenza vivente, la quale unicamente si
rivela nei fatti e nel tenore di vita; e rimane indipendente dai
dogmi, che in proposito, come conoscenza astratta, occupano la
ragione. Semplicemente l'una e l'altra esporre, e recare a limpida
conoscenza della ragione, può essere mio scopo: e non
prescrivere o raccomandar questa o quella; il che sarebbe stolto non
meno che inutile, perché la volontà è in
sé assolutamente libera, da sola determina se stessa,
né sono leggi per lei. Questa libertà e la sua
relazione con la necessità dobbiamo nondimeno in primo luogo,
e prima di procedere alla suindicata esposizione, illustrare e in
maniera precisa determinare; e inoltre sulla vita, la cui
affermazione o negazione forma il nostro problema, avanzare alcuni
pensieri generici, riferentisi alla volontà e ai suoi
oggetti. Da tutto tutto ciò verrà a noi alleviata la
conoscenza, che ci proponiamo, del valore etico delle azioni, a
seconda della loro più intima essenza.
Poiché, come s'è detto, tutta quest'opera non è
se non lo sviluppo di un pensiero unico, ne deriva, che tutte le sue
parti hanno la più stretta connessione tra loro, e non solo
ciascuna sta in necessaria relazione con quella, che immediatamente
precede, e quindi quella sola vuol presente al lettore come
immediata premessa, secondo accade in tutte le filosofie, le quali
consistono in una serie di deduzioni; ma ogni parte dell'opera
intera è con tutte le altre connessa, e le presuppone. Si
richiede adunque, che dal lettore sia ricordato non soltanto
ciò che immediatamente precede, ma tutta la trattazione
anteriore: sì che di volta in volta egli possa sempre
riannodarne ogni parte alla pagina che ha davanti, stianvi pur
molt'altre cose frammezzo. Ammonimento, che anche Platone ha fatto
al suo lettore, per i tortuosi avvolgimenti dei suoi dialoghi, che
il pensiero fondamentale riprendon sol dopo lunghi episodi, ma da
ciò appunto fatto più limpido. Da parte nostra
è tale ammonimento necessario, perché il frazionar
l'unico nostro pensiero in molte considerazioni è
bensì il solo modo che abbiamo di comunicarlo, ma è un
dar forma artificiosa e non naturale al pensiero stesso. A render
più facile l'esposizione e l'intendimento giova l'aver
distinto, in quattro libri, quattro principali punti di vista, come
giova l'attentissimo ravvicinar ciò che è affine e
omogeneo: tuttavia la materia non permette assolutamente un andare
in linea retta, come fa il procedimento storico, ma invece rende
necessaria un'esposizione più complicata. E questa, a sua
volta, richiede un ripetuto studio dell'opera; soltanto così
diviene chiaro il nesso d'ogni parte con ciascun'altra, e alla fine
tutte insieme s'illuminano a vicenda e splendono in piena
chiarità40.
§ 55.
Che la volontà come tale sia libera, già risulta dal
fatto che a nostro modo di vedere ella è la cosa in
sé, la sostanza di tutti i fenomeni. Questi li sappiamo
invece in tutto soggetti al principio di ragione, nei suoi quattro
modi: e conoscendo noi, che necessità ed effetto di una data
causa sono concetti identici, e convertibili, tutto ciò che
è fenomeno, ossia oggetto per il soggetto conoscente in
quanto individuo, è per un verso causa, e per l'altro
effetto; e in quest'ultima qualità è determinato
necessariamente, né può quindi esser diverso da quel
che è. Tutto il contenuto della natura, il complesso dei suoi
fenomeni, è adunque assolutamente necessario, e la
necessità di ogni parte, di ogni fenomeno, di ogni fatto si
può ciascuna volta scoprire, dovendosi trovar la causa, da
cui quelli come effetti provengono. Ed a ciò non v'ha
eccezione: consegue dall'illimitato potere del principio di ragione.
Ma d'altra parte questo mondo medesimo, in tutti i suoi fenomeni,
è per noi anche oggettità della volontà; la
quale, non essendo né fenomeno né rappresentazione o
oggetto, bensì cosa in sé, non è al principio
di ragione, forma d'ogni oggetto, sottomessa: e quindi non è
determinata come effetto da una causa, e non conosce
necessità, ossia è libera. Il concetto di
libertà è dunque propriamente concetto negativo,
essendo il suo contenuto nient'altro che negazione della
necessità, ovvero del rapporto di causa ed effetto, conforme
al principio di ragione. Ora, qui ci sta innanzi nel modo più
palese il punto d'eliminazione d'un grande contrasto, l'unione di
libertà e necessità, onde sovente s'è in questi
tempi parlato, ma, per quanto io mi sappia, non mai con chiarezza e
proprietà. Ciascuna cosa è in quanto fenomeno, in
quanto oggetto, assolutamente necessaria: ma la stessa cosa è
in sé volontà, e questa è del tutto libera in
eterno. Il fenomeno, l'oggetto, è necessariamente e
immutabilmente determinato nella catena delle cause e degli effetti,
la quale non può avere interruzione alcuna. Ma l'essere in
genere di questo oggetto, e la maniera del suo essere, ossia l'idea
che vi si palesa, o, con altre parole, il suo carattere, è
fenomeno immediato della volontà. Per la libertà
ch'è propria, di codesta volontà, esso potrebbe non
essere, o anche essere originariamente e sostanzialmente affatto
diverso; nel qual caso l'intera catena, della quale esso è un
anello, ma che a sua volta è fenomeno della medesima
volontà, sarebbe tutt'altra. Ma da che ha preso ad esistere,
l'oggetto è entrato nella serie delle cause e degli effetti,
vi è determinato con necessità, né può
quindi più diventare un altro, ovvero modificarsi, né
uscir dalla serie, ovvero sparire. L'uomo è, come ogni altra
parte della natura, oggettità della volontà:
perciò quanto s'è detto vale anche per lui. Come
ciascuna cosa nella natura ha le sue forze e qualità, che a
un dato stimolo reagiscono in un dato modo, e costituiscono il suo
carattere, così l'uomo ha pure il carattere suo, secondo il
quale i motivi provocano le sue azioni con necessità. Ed
è in questo modo d'agire, che si palesa il suo carattere
empirico; mentre in questo poi si palesa il suo carattere
intelligibile, la volontà in sé, della quale egli
è fenomeno determinato. Ma l'uomo è della
volontà il fenomeno più perfetto; il quale, per
sussistere, com'è dimostrato nel secondo libro, dovè
essere illuminato da un sì alto grado di conoscenza, che in
questa si rese possibile addirittura, come abbiam veduto nel libro
terzo, una riproduzione in tutto adeguata dell'essenza del mondo,
sotto la forma della rappresentazione; il che si ha mediante la
percezione delle idee, ed è il vero specchio del mondo.
Nell'uomo adunque può la volontà pervenire alla piena
conscienza di sé, alla chiara ed esauriente cognizione del
suo proprio essere, quale nel mondo intero si rispecchia.
Dall'effettiva presenza di codesto grado di cognizione procede
l'arte, come abbiam visto nel libro che precede. Ma alla fine di
tutto il nostro studio risulterà, che mediante la cognizione
medesima, quando la volontà la riferisce a se stessa, diventa
possibile una soppressione e autonegazione della volontà, nel
suo fenomeno più perfetto: sì che la libertà,
la quale altrimenti, spettando solo alla cosa in sé, non
può mai mostrarsi nel fenomeno, stavolta anche nel fenomeno
si rivela; e sopprimendo l'essenza che del fenomeno è base,
mentr'esso pur continua a durare nel tempo, genera un dissidio del
fenomeno con se medesimo, e perciò appunto ci offre i casi di
santità e di abnegazione. Tutto questo si potrà
intendere appieno soltanto alla fine del presente libro. Per ora non
si fa che accennare genericamente, come l'uomo da tutti gli altri
fenomeni della volontà si distingua, pel fatto che la
libertà, ossia indipendenza dal principio di ragione, la
quale spetta unicamente alla volontà come cosa in sé e
sta col fenomeno in contrasto, in lui può nondimeno apparire
anche nel fenomeno, dov'ella tuttavia di necessità si
presenta come un dissidio del fenomeno da se medesimo. In questo
senso non può non solo la volontà in sé, ma
perfino l'uomo esser chiamato libero, e distinto così da
tutti gli altri esseri. Ma, come ciò sia da intendere,
apparirà chiaro nel seguito; e per adesso ancora dobbiamo
lasciare del tutto in disparte questo argomento. Imperocché
preme piuttosto mettere in guardia contro l'errore, che le
operazioni dell'uomo singolo, determinato, non siano soggette a
necessità di sorta, ossia la forza del motivo sia meno certa
che la forza della causa, ovvero la conseguenza dedotta dalle
premesse. La libertà della volontà come cosa in
sé non si trasmette punto in modo diretto al suo fenomeno,
prescindendo, come s'è detto, dal caso accennato più
sopra, che fa eccezione; neppur là dove essa raggiunge il
grado massimo di visibilità, ossia neppure all'animale
ragionevole, che abbia carattere individuale, cioè alla
persona. Questa non è mai libera, per quanto sia fenomeno di
una libera volontà; perché appunto di tal libero
volere ella è già il fenomeno determinato; e con
l'entrar, che questo fa nella forma di tutti gli oggetti, nel
principio di ragione, frange l'unità di quella volontà
in una pluralità di azioni, la quale non di meno a causa
dell'unità, sita fuor del tempo, di quel volere in sé,
si presenta regolare come una forza di natura. Ma poiché
tuttavia quel libero volere è, che si rende visibile nella
persona e in tutta la sua condotta, stando a questa come il concetto
sta alla definizione, così va pure ogni singolo atto della
persona medesima attribuito alla libera volontà, e come tale
s'annunzia immediatamente alla conscienza: perciò,
com'è detto nel libro secondo, si ritiene ognuno libero a
priori (ossia, nel caso attuale, in virtù del suo sentimento
originario) in tutte le azioni sue; nel senso che a lui, in ciascun
dato caso, ogni azione sia possibile. E solo a posteriori, per
esperienza e per meditazione dell'esperienza, riconosce che la sua
condotta risulta determinata con necessità dell'incontro del
carattere coi motivi. Di là proviene, che i più rozzi
uomini, seguendo i loro sentimenti, sostengano nel modo più
vivo la piena libertà delle singole azioni, mentre i grandi
pensatori di tutti i tempi, anzi perfino le dottrine religiose
più profonde, l'abbiano negata. Tuttavia a quegli, cui
s'è reso chiaro che l'intera essenza dell'uomo è
volontà, e ch'egli medesimo non è che fenomeno di
questa volontà, fenomeno avente il principio di ragione per
forma necessaria, conoscibile già dal soggetto stesso, la
quale in questo caso si presenta come legge della motivazione, a
quegli un dubbio circa la possibilità di non compiere una
certa azione, dato un certo carattere e un certo motivo, farà
lo stesso effetto che un dubbio sull'eguaglianza fra i tre angoli
d'un triangolo e due retti. La necessità di ciascuna singola
azione ha con sufficienza illustrato Priestley nella sua Doctrine of
philosophical necessity; ma il coesistere di questa necessità
con la libertà del volere in sé, ossia fuori del
fenomeno, l'ha per il primo dimostrato Kant41, il cui merito
è in ciò particolarmente grande, facendo la
distinzione tra carattere intelligibile ed empirico. Distinzione,
che io in tutto e per tutto mantengo, essendo il primo la
volontà come cosa in sé, in quanto si manifesta in un
determinato individuo, e in un determinato grado; ed essendo l'altro
questa manifestazione medesima, qual ella si presenta con la
condotta, nel tempo, e già con la propria forma corporea,
nello spazio. Perché s'intenda bene la relazione loro,
nessuna espressione val meglio di quella usata nel mio scritto
introduttivo: il carattere intelligibile di un uomo doversi
considerare come un atto di volontà, che sta fuori del tempo,
ed è quindi indivisibile e immutabile; mentre il fenomeno di
quello, sviluppato e frazionato nel tempo e nello spazio e in tutte
le forme del principio di ragione, è il carattere empirico,
quale si palesa sperimentalmente in tutta la condotta e in tutta la
vita dell'uomo medesimo. Come tutto l'albero non è che il
fenomeno sempre ripetuto dell'unico e identico impulso, il quale nel
modo più semplice si presenta nella fibra e si ripete
nell'aggregamento di fibre, onde risultano foglia, picciuolo, ramo,
tronco, essendovi facilmente riconoscibile: così tutte le
azioni dell'uomo non sono che la manifestazione ripetuta ognora, al
quanto diversa sol nella forma, del suo carattere intelligibile; e
l'induzione risultante dalla somma di quegli atti ci dà il
carattere empirico di lui. Ma non mi metterò qui a
riprodurre, rimaneggiandola, l'esposizione magistrale di Kant,
bensì faccio conto che sia già conosciuta.
Nel 1840 ho trattato a fondo e distesamente l'importante capitolo
sulla libertà del volere, nella mia premiata memoria per
concorso su quel tempo; ed ho soprattutto scoperta la cagione
dell'inganno, per cui si crede di trovar nell'autoconscienza, come
fatto reale, un'assoluta libertà del volere data
empiricamente, ovvero un liberum arbitrium indifferentiae: che
proprio a ciò mirava, acutamente, il problema messo a
concorso. Nel mentre io rinvio adunque il lettore a quello scritto,
e così pure al cap. 10 della memoria sui problemi
fondamentali dell'etica, pubblicata insieme con l'altra sotto il
titolo I due problemi fondamentali dell'etica, tralascio qui
l'imperfetta argomentazione sulla necessità degli atti
volitivi, data nella prima edizione; e voglio invece chiarire ancora
con una breve spiegazione l'inganno esposto più sopra, che ha
come premessa il 19° capitolo del nostro secondo volume e non
poteva quindi trovarsi nella memoria citata.
Se prescindiamo dal fatto, che essendo la volontà, come vera
cosa in sé, per sua natura alcunché di originario e di
indipendente, deve anche nell'autoconscienza il sentimento di quella
originarietà e indipendenza accompagnare i suoi atti, sebbene
essi quivi siano già determinati – l'illusione d'una
libertà empirica del volere (in luogo della libertà
transcendentale, che solo gli si può attribuire), proviene
dalla situazione isolata e subordinata dell'intelletto di fronte
alla volontà: situazione esposta nel capitolo 19° del
secondo volume, specialmente al numero 3. Perché l'intelletto
apprende le risoluzioni della volontà solo a posteriori, ed
in maniera empirica. Quindi non ha, al momento di scegliere, nessun
dato per saper ciò che la volontà deciderebbe. Non
entra nella conoscenza dell'intelletto il carattere intelligibile,
in virtù del quale, dati questi o quei motivi, una sola
decisione è possibile, e perciò necessaria; ma
soltanto il carattere empirico gli divien noto a grado a grado, per
i suoi singoli atti. Sembra perciò alla conoscente conscienza
(all'intelletto) che, in un dato caso, siano alla volontà due
opposte risoluzioni in pari modo possibili. Invece è come se
davanti a una sbarra fissata verticalmente ma scossa nel suo
equilibrio e oscillante si dicesse che «può abbattersi
a destra o a sinistra»; il qual «può» non
ha tuttavia che un valore soggettivo, e in verità vuol dire:
«secondo i dati che a noi constano»; mentre
oggettivamente è la caduta già in modo necessario
determinata, non appena ha principio l'oscillazione. Similmente
è la decisione della propria volontà sol per il suo
osservatore, ossia il proprio intelletto, indeterminata, e quindi
relativa e soggettiva; mentre in se stessa e oggettivamente, ad ogni
scelta che si offra, la decisione è già determinata e
necessaria. Ma codesta determinazione non sale alla coscienza, se
non con la decisione che ne deriva. Ne abbiamo perfino una prova
empirica, quando ci sta davanti una scelta difficile e importante, e
tuttavia soggetta a una condizione che noi speriamo, ma che non
s'è ancora avverata; sì che lì per lì
non possiamo far nulla, e dobbiamo attender passivamente. Allora
prendiamo a riflettere qual sarà la nostra decisione, quando
si saranno presentate le circostanze, che ci permettano libera
azione e scelta d'un partito. Il più sovente a favor dell'uno
parla più forte la lungi veggente, ragionevole riflessione;
ed a favor dell'altro la spontanea inclinazione. Fino a quando noi,
costretti, restiamo passivi, sembra che la parte della ragione abbia
il sopravvento; ma già prevediamo con qual violenza l'altra
parte ci tirerà, non appena sarà venuto il momento
d'agire. Fino allora ci siamo affaticati, con fredda meditazione del
pro e contro, a porre nella miglior luce i motivi dell'una e
dell'altra parte, affinchè ciascuno possa agire con tutta la
sua forza sulla volontà, quando sarà il momento, e un
errore da parte dell'intelletto non abbia per avventura a disviare
la volontà, facendo ch'ella si risolva altrimenti da come si
risolverebbe quando tutto vi avesse egualmente influito. Ma questo
limpido prospettare i contrastanti motivi è tutto ciò
che l'intelletto può far per la scelta. La scelta vera esso
l'attende con la medesima passività, con la medesima
curiosità intenta, come se attendesse quella d'una
volontà estranea. Ben possono a lui, dal suo punto di vista,
entrambe le risoluzioni apparire come egualmente possibili: questa
è appunto l'illusione dell'empirica libertà del
volere. Che in modo affatto empirico entra la risoluzione, come un
tratto finale, nella sfera dell'intelletto; tuttavia essa proviene
dalla natura intima, dal carattere intelligibile della
volontà individuale nel suo conflitto con certi dati motivi;
e quindi ha forza d'assoluta necessità. In ciò
l'intelletto non può altro fare, che lumeggiar da ogni parte
e ben chiaro la natura dei motivi, ma non già determinare la
volontà medesima; essendo questa a lui inaccessibile, anzi,
come abbiamo veduto, insondabile.
Se un uomo potesse, in pari circostanze, agire una volta in un modo
e una volta in modo diverso, ciò significherebbe essersi la
sua volontà frattanto mutata; e la volontà starebbe
adunque nel tempo, che sol nel tempo può aversi mutazione.
Sarebbe, così, o la volontà un semplice fenomeno,
oppure il tempo una determinazione della cosa in sé. Quindi
la contesa intorno alla libertà dell'azione individuale,
intorno al liberum arbitrium indifferentiae, rientra propriamente
nella quistione se la volontà stia o no nel tempo. Se ella,
come appar dimostrato dalla dottrina kantiana e da tutta la mia
esposizione, è la cosa in sé, fuori del tempo e d'ogni
altra forma del principio di ragione, non soltanto deve l'individuo
agire in egual modo in casi eguali, non soltanto ogni sua mala
azione sarà sicura garanzia d'altre innumerevoli, che egli
deve compiere e non può tralasciare: ma ben si potrebbe
anche, come dice Kant, sol che fossero conosciuti appieno il
carattere empirico e i motivi, prevedere il futuro, come si
prevedono eclissi di sole o di luna. Come è conseguente la
natura, così è il carattere: ciascuna singola azione
deve essergli conforme, come ogni fenomeno accade secondo la legge
naturale: la causa, nel fenomeno, e il motivo, nell'azione, sono
semplicemente gli impulsi occasionali, com'è dimostrato nel
secondo libro. La volontà, di cui è fenomeno l'intero
essere e l'intera vita dell'uomo, non può in un caso
particolare venir meno a se stessa, e ciò che l'uomo vuole in
complesso, vorrà pur sempre di volta in volta.
L'affermazione d'una libertà empirica del volere, d'un liberi
arbitrii indifferentiae, è strettissimamente connessa col
fatto d'aver posto l'essenza dell'uomo in un'anima, la quale in
origine sarebbe un essere conoscente, anzi proprio astrattamente
pensante, e solo in seguito anche un essere volitivo: attribuendo
così alla volontà natura secondaria, mentre secondaria
è invece la conoscenza. La volontà fu perfino
considerata come un atto di pensiero e identificata col giudizio;
particolarmente per opera di Cartesio e Spinoza. Ciascun uomo
sarebbe adunque diventato quel ch'egli è, solo per effetto
della sua conoscenza. Al mondo e' verrebbe come una nullità
morale; quivi conoscerebbe le cose, e si risolverebbe allora a esser
questo o quello, ad agire così o così; potrebbe, anche
in seguito a nuova conoscenza, scegliere una nuova linea di
condotta, ossia diventare affatto un altro. Inoltre, quando
così fosse, ei dovrebbe un oggetto riconoscer per buono, e
come tale volerlo, invece che prima volerlo, e sol per effetto di
codesto suo volere, chiamarlo buono. Secondo la mia concezione
fondamentale, tutto ciò è un capovolger lo stato vero
delle cose. La volontà è l'elemento primo e
originario; la conoscenza non sopraggiunge che più tardi,
appartenendo al fenomeno della volontà, come strumento di
questa. Ciascun uomo è quindi quel ch'egli è, per la
sua volontà, e il suo carattere è originario; essendo
il volere la base del suo essere. Dalla sopravveniente conoscenza
apprende, nel corso dell'esperienza, ciò ch'egli è;
ossia, apprende a conoscere il proprio carattere. Se stesso conosce
adunque per effetto e in conformità della natura del suo
volere: e non già vuole, secondo l'antica concezione, per
effetto e in conformità del suo conoscere. Se questa fosse
vera, basterebbe ch'egli riflettesse sul come più gli
piacerebbe essere, e così sarebbe: tale è la
libertà del volere, secondo la concezione suddetta. La quale
adunque consiste propriamente nel ritener che l'uomo si faccia da
sé, nella luce della conoscenza. Io viceversa dico: l'uomo si
fa da sé prima d'ogni conoscenza, e questa interviene per dar
lume a quel ch'è già fatto. Quindi non può
l'uomo decider d'esser fatto in un modo piuttosto che altrimenti,
né può diventare un altro: bensì egli è,
una volta per sempre; e quel che sia, conosce successivamente. Pei
seguaci della vecchia dottrina, egli vuole ciò che conosce;
per me, conosce quel che vuole.
I Greci chiamarono il carattere ηθος, ed ηθος le manifestazioni del
carattere, ossia i costumi; ma questa parola deriva da εθος,
abitudine: la scelsero quindi per indicare metaforicamente la
costanza del carattere con la costanza dell'abitudine. Το γαρ ηθος
απο του εθους εχει την επωνυμιαν. ηθικη γαρ καλειται δια το
εθιζεσθαι (a voce εθος, i. e. consuetudo, ή̃θος est appellatum:
ethica ergo dicta est απο του εθιζεσθαι, sive ab assuescendo), dice
Aristotele (Eth. magna, i, 6, p. 1186, e Eth. End., p. 1220, e Eth.
Nic., p. 1103, ed. berlinese). Stobeo attesta: οί δε κατα Ζηνωνα
τροπικως˙ ηθος εστι πηγη βιου, αφ’ ής αί κατα μερος πραξεις ρεουσι
(Stoici autem, Zenonis castra sequentes, metaphorice ethos definiunt
vitae fontem, e quo singulae manant actiones). II, cap. 7. Nella
dottrina cristiana troviamo il dogma della predestinazione,
riferentesi alla scelta della grazia o della dannazione (San Paolo,
Epist. ai Romani, 9, 11-24); dogma nato evidentemente dal concetto
che l'uomo non muti, e la sua condotta nella vita, ossia il suo
carattere empirico, non sia che la manifestazione del carattere
intelligibile, lo sviluppo di ben definite tendenze, già nel
bambino evidenti e immutabili: sì che all'uomo già
dalla nascita sia la sua condotta precisamente determinata, ed in
sostanza rimanga la medesima fino all'ultimo. Questo è pure
il concetto nostro, ma non m'assumo certo di sostenere le
conseguenze, che vennero dall'unione di tal concetto giustissimo coi
dogmi, che lo avevan preceduto nella dottrina ebraica, e che
generarono la difficoltà massima, l'eternamente
indistricabile nodo gordiano, intorno a cui s'aggira la più
gran parte delle dispute ecclesiastiche. Una tal difesa è
assai male riuscita perfino all'apostolo Paolo, col suo apologo del
vasaio, introdotto per questo fine: il risultato sarebbe quello
espresso nei versi che seguono:
Tema gl'Iddii
L'umana razza!
Han nelle eterne
Mani il
potere:
Possono usarlo
Come a lor piace42.
Ma siffatte considerazioni sono in verità estranee al nostro
soggetto. Più appropriati saranno alcuni chiarimenti sul
rapporto tra il carattere e la conoscenza, nella quale stanno tutti
i motivi di quello.
I motivi, che determinano la manifestazione del carattere, ossia
l'azione, sul carattere medesimo agiscono pel tramite della
conoscenza. Ma la conoscenza è mutevole, sovente oscilla tra
errore e verità, sebbene di regola venga sempre più a
rettificarsi, se pure in grado assai diverso, col proceder della
vita. Perciò è possibile, che la condotta di un uomo
venga osservabilmente cambiata, senza che si possa inferirne un
cambiamento del suo carattere. Quel che l'uomo veramente e
genericamente vuole, l'aspirazione del suo più intimo essere
e la meta, a cui seguendo quell'aspirazione egli è diretto,
tutto ciò non possiamo mai modificare né con influenze
esteriori né con ammonimenti: per riuscirvi, dovremmo rifarlo
di pianta. Seneca dice benissimo: vette non discitur, mostrando con
ciò di anteporre la verità ai suoi cari Stoici, che
ammonivano διδακτην ειναι την αρετην (doceri posse virtutem).
Dall'esterno si può influir sulla volontà solo
mediante motivi. Ma questi non posson mai mutare la volontà
medesima, che su lei hanno potere solo a condizione ch'ella sia qual
è. Il lor potere si riduce adunque a modificare la strada
della sua aspirazione; ossia a far ch'ella cerchi per un'altra via
quel che immutabilmente s'è proposto. Ammonimenti, o
più retta conoscenza, insomma tutti gl'influssi esteriori,
possono bensì avvertirla d'aver sbagliato nei mezzi, e far
ch'ella persegua per tutt'altra via, o addirittura in tutt'altro
oggetto, il medesimo scopo, a cui già mirava secondo la
propria intima natura: ma non posson mai fare ch'ella voglia davvero
cosa diversa da quella fino allora voluta; la quale rimane
immutabile, essendo per l'appunto tutt'uno con quella volontà
medesima, che altrimenti dovrebbe esser soppressa. Invece la
mutevolezza della conoscenza, e quindi della condotta, va
tant'oltre, che la volontà si sforza di raggiungere il suo
scopo immutabile, per esempio il paradiso di Maometto, or nella vita
reale, ora in un mondo immaginario; disponendo a ciò i mezzi
opportuni, e quindi nel primo caso adoprando astuzia, violenza e
inganno, nel secondo astinenza, giustizia, elemosina, pellegrinaggio
alla Mecca. Ma per questo non è mutata la sua aspirazione, e
tanto meno egli stesso. Quindi, anche se il suo operare può
esser molto diverso in diverse epoche, è il suo volere
tuttavia rimasto il medesimo. Velle non discitur.
Perché i motivi agiscano, si richiede non soltanto la loro
esistenza, ma anche l'esser conosciuti: perché, come dice
l'eccellente espressione degli scolastici, già ricordata,
causa finalis movet non secundum suum esse reale, sed secundum esse
cognitum. Perché, ad esempio, si palesi il rapporto, che
reciprocamente hanno in un dato uomo egoismo e compassione, non
basta che costui possegga delle ricchezze e vegga la miseria di
altri; egli deve anche sapere, che cosa può farsi con la
ricchezza, sia per sé, sia per altri; e non solo
rappresentarglisi l'altrui pena, ma deve anch'egli sapere che cosa
sia pena, e pur che cosa sia gioia. Tutto ciò non saprebbe
egli forse tanto bene in un primo incontro, quanto in un secondo; e
se in occasione simile agisce differentemente, questo dipende solo
dall'esser diverse, in realtà, le circostanze: soprattutto
nella parte che dipende dal suo conoscimento; anche se paiano esser
le medesime. Come l'esser ignorate toglie a circostanze
effettivamente esistenti ogni maniera d'azione, così posson
d'altra parte circostanze affatto immaginarie agire al modo delle
reali; non solo per effetto d'una illusione isolata, ma anche nel
loro complesso, e durevolmente. Se per esempio un uomo viene
fermamente convinto che ogni buona azione gli sarà a cento
doppi ripagata nella vita futura, codesta persuasione vale e vige
come una sicura cambiale a lunghissima scadenza, ed egli per egoismo
può dare, come, sotto altri riguardi, per egoismo
prenderebbe. Né con ciò è cambiato: velle non
discitur. In virtù di questo grande influsso della conoscenza
sulla condotta, pur rimanendo immutata la volontà, accade che
solo a poco a poco si sviluppi il carattere e vengano in luce i suoi
vari tratti. Perciò apparisce esso in ogni età della
vita diverso: ed alla vivace, impetuosa giovinezza può
seguire una posata, misurata, virile maturità. Specialmente
il lato cattivo del carattere si manifesta col tempo sempre
più; ma talora invece le passioni, a cui ci abbandonammo
nella giovinezza, vengono più tardi spontaneamente frenate,
sol perché si sono allora mostrati alla conoscenza i motivi
che possono far loro ostacolo. Ed è perciò che noi
tutti siamo, in sulle prime, innocenti: la qual cosa significa che
noi non conosciamo, né altri conosce, il lato cattivo della
nostra propria natura: solo incontrandosi coi motivi questo si
palesa, e solo col tempo entrano i motivi nella nostra conoscenza.
Alla fine impariamo a conoscere noi stessi, come affatto diversi da
quel che ritenevamo a priori; e sovente abbiamo di noi medesimi
orrore.
Rimorso non proviene mai dall'essersi mutata la volontà (cosa
impossibile), bensì la conoscenza. Ciò che v'ha
d'essenziale e di proprio in quanto io ho potuto per l'innanzi
volere, debbo volere oggi ancora; perché io medesimo sono
codesta volontà, la quale sta fuor del tempo e fuor del
mutamento. Non posso quindi pentirmi mai di ciò che ho
voluto, ma posso bensì di ciò che ho fatto;
perché, da falsi concetti guidato, ho fatto cose non conformi
alla mia volontà. L'accorgersene, in grazia di più
esatta conoscenza, costituisce il rimorso. Ciò non s'estende
per avventura soltanto al saper vivere, alla scelta dei mezzi e al
giudizio se un dato scopo convenga alla mia propria volontà,
ma anche al dominio etico in senso vero e proprio. Posso per esempio
aver agito con più egoismo di quanto sia conforme al mio
carattere, fuorviato da esagerate rappresentazioni della
necessità in cui mi trovavo, o anche dall'astuzia,
falsità, malvagità altrui, o anche dalla mia
precipitazione; ovvero mancanza di riflessione; determinato da
motivi non già chiaramente conosciuti in abstracto, ma
semplicemente intuiti, sotto l'influenza del presente e della
commozione che ne risultò: così forte, che a dir vero
non possedevo più l'uso della mia ragione. In questo caso, il
ritorno della riflessione non è se non rettificata
conoscenza, dalla quale può sorgere rimorso, che poi si
manifesta ognora nel rimediare al mal fatto, fin dove sia possibile.
Va tuttavia osservato, che per illuder noi stessi ci predisponiamo
apparenti precipitazioni, le quali in realtà sono atti
meditati in segreto. Perché nessuno inganniamo e lusinghiamo
con sì fini artificii quali usiamo per noi medesimi.
Può darsi anche il caso opposto: un eccesso di fiducia verso
altri, o ignoranza del valore relativo da attribuire ai diversi beni
della vita, o un qualsiasi dogma astratto, al quale io cessi poi di
prestar fede, possono avermi indotto ad agire con meno egoismo di
quanto il mio carattere richieda; preparandomi così rimorso
d'altra natura. Sempre è adunque il rimorso rettificata
conoscenza del rapporto tra l'azione e il vero e proprio intento.
Come alla volontà manifestantesi nel solo spazio, ossia con
la semplice figura, resiste la materia già da altre idee, in
questo caso le forze naturali, dominata, e di rado lascia apparire
in tutta la sua purezza e limpidità la figura che qui tendeva
a farsi visibile; così la volontà, che si rivela solo
nel tempo, ossia con azioni, trova analogo ostacolo nella
conoscenza, che a lei di rado fornisce esatti i dati, per modo che
l'azione non riesce ben corrispondente alla volontà, e quindi
ci prepara il rimorso. Il rimorso proviene perciò sempre da
conoscenza fattasi più retta, e non da mutazione della
volontà, che è impossibile. Il tormento della
coscienza per un atto commesso è tutt'altro che rimorso:
è dolore per l'aver conosciuti noi stessi nel nostro vero
essere, ossia nella nostra volontà. Si fonda sulla certezza
d'aver tuttora la medesima volontà. Fosse questa mutata, e
fosse quindi semplice rimorso il tormento della coscienza, questo
cadrebbe da sé: imperocché l'accaduto non potrebbe
più dare inquietudine, riflettendo le manifestazioni d'una
volontà, la quale non è più quella dell'uomo
che si è pentito. Chiariremo più oltre ampiamente il
valore del tormento di coscienza.
L'influsso che la conoscenza, in quanto mezzo dei motivi, esercita
non proprio sulla volontà medesima, ma sul suo manifestarsi
nelle azioni, è anche base del principale divario tra
l'azione dell'uomo e quella dell'animale, essendo in entrambi
diverso il modo di conoscere. L'animale ha soltanto rappresentazioni
intuitive; l'uomo, per via della ragione, possiede anche
rappresentazioni, astratte, o concetti. Ora, sebbene animale e uomo
vengano con pari necessità determinati dai motivi, l'uomo ha
nondimeno in più dell'animale una completa facoltà di
scelta; la quale spesso venne anche presa per una libertà del
volere nei singoli atti, mentre non è se non la
possibilità di un conflitto combattuto fino in fondo tra
più motivi, de' quali il più forte determina alla fine
con necessità il volere. Occorre a ciò, che i motivi
abbian preso la forma di pensieri astratti; perché sol per
mezzo di questa è possibile una vera e propria deliberazione,
ossia il pesare gli opposti motivi d'agire. Nell'animale può
la scelta aver luogo soltanto tra motivi presenti all'intuizione,
sì che essa è limitata alla stretta sfera della sua
attuale, intuitiva apprensione. Perciò la necessità,
onde il volere è determinato dal motivo, necessità
eguale a quella dell'effetto, data la causa, può solo presso
gli animali esser mostrata intuitivamente e immediatamente, avendo
qui anche lo spettatore davanti agli occhi nella stessa immediatezza
i motivi e l'effetto loro; mentre nell'uomo quasi sempre i motivi
sono rappresentazioni astratte, delle quali non è partecipe
lo spettatore; e perfino a colui, che agisce, il conflitto dei
motivi nasconde la necessità dell'azione. Imperocché
solamente in abstracto possono più rappresentazioni, in forma
di giudizi o catene d'illazioni, coesistere nella conscienza, e poi,
libere da ogni determinazione temporale, l'una contro l'altra agire,
finché la più forte predomini sulle rimanenti e
determini la volontà. Questa è la perfetta
facoltà di scelta, o capacità di deliberazione,
privilegio dell'uomo di fronte all'animale; per essa fu all'uomo
attribuita libertà del volere, ritenendosi che il suo volere
sia un semplice risultato delle operazioni intellettive, senza che
un determinato impulso serva all'intelletto di base; mentre, in
verità, la motivazione non fa che agir sulla base ed a
condizione del determinato impulso di lui, che è individuale,
ossia è un carattere. Una più ampia esposizione di
quella capacità deliberativa, e della derivante
varietà dell'arbitrio umano e animale, si trova nell'opera I
due problemi fondamentali dell'etica (1a ed., pp. 35 sgg.), alla
quale rinvio dunque per tale soggetto. D'altronde codesta
capacità deliberativa dell'uomo appartiene anch'essa alle
cose, che fanno la sua vita tanto più tormentosa di quella
degli animali; perché i nostri maggiori dolori in genere non
stanno nel presente, come rappresentazioni intuitive o sentimento
immediato, bensì nella ragione, come concetti astratti,
torturanti pensieri, da cui è affatto libero l'animale, che
vive soltanto nel presente, e quindi in invidiabile assenza di
pensiero.
La suesposta dipendenza dell'umana capacità deliberativa
della facoltà del pensare in abstracto, e quindi del
giudicare e dedurre, sembra esser quella che ha traviato tanto
Cartesio quanto Spinoza, facendo loro identificar le decisioni della
volontà con la facoltà di affermare e negare (che
è il giudizio), dal che Cartesio dedusse esser la
volontà, secondo lui indifferentemente libera, responsabile
anche di ogni errore teorico. Spinoza ne dedusse invece esser la
volontà determinata necessariamente dai motivi, come il
giudizio dalle ragioni43; il che ha del resto il suo valore, ma
tuttavia si presenta come una conclusione esatta da false premesse.
La dimostrata varietà del modo onde l'animale e l'uomo
vengono mossi da motivi, estende di molto la sua influenza
sull'essere d'entrambi, ed è causa precipua del profondo e
visibilissimo divario nella loro esistenza. Che mentre l'animale
vien sempre mosso da una rappresentazione esclusivamente intuitiva,
s'affatica l'uomo ad escludere del tutto questo genere di
motivazione, e farsi condurre soltanto da rappresentazioni astratte;
traendo in ciò tutto il possibile vantaggio dal suo
privilegio della ragione, e, senza dipender dal presente, non
già l'effimero godimento o dolore scegliendo o fuggendo, ma
considerando dell'uno e dell'altro le conseguenze. Nella più
parte dei casi, all'infuori delle azioni affatto insignificanti, ci
determinano motivi astratti, pensati, e non già impressioni
momentanee. Quindi è per noi ogni singola privazione
abbastanza lieve a sopportare nel momento, ma orribilmente grave
ogni rinunzia: perché quella tocca soltanto l'attimo che
fugge, questa invece tocca l'avvenire, e chiude in sé
privazioni innumerevoli, delle quali è l'equivalente. La
causa del nostro dolore, come della nostra gioia, per lo più
non sta adunque nel reale presente, ma sol negli astratti pensieri:
sono questi, che spesso ci gravano insopportabilmente, e creano
pene, di fronte alle quali assai piccole sono tutte le sofferenze
dell'animalità, poi che il nostro stesso dolore fisico non
viene spesso neppur sentito vicino a quelle; ed anzi, soffrendo di
violenti dolori morali, noi ci produciamo dolori fisici solo per
distogliere con ciò dai primi l'attenzione: tale è il
motivo per cui, nel massimo dolore morale, ci strappiamo i capelli,
battiamo il petto, laceriamo il volto, rotoliamo per terra; tutte
cose che propriamente non sono se non violente distrazioni da un
pensiero che pare intollerabile. Appunto perché il dolore
morale, essendo di gran lunga il maggiore, ci rende insensibili al
dolore fisico, diventa facilissimo il suicidio al disperato, o a chi
è consumato da un morboso travaglio, anche se costui per
l'innanzi, in condizioni tranquille, davanti al pensiero del
suicidio s'arretrava sbigottito. Similmente la pena e la passione,
ossia il travaglio del pensiero, consumano il corpo più
spesso e più a fondo che le sofferenze fisiche. Perciò
dice a ragione Epitteto: Ταρασσει τους ανθρωπους ου τα πραγματα,
αλλα τα περι των πραγματων δογματα (Perturbant homines non res
ipsae, sed de rebus decreta) (V), e Seneca: «Plura sunt, quae
nos terrent, quam quae premunt, et saepius opinione quam re
laboramus» (Ep. 5). Anche Eulenspiegel satireggiava benissimo
la natura umana, quando in salita rideva, in discesa piangeva.
Perfino bimbi, che si son fatti del male, non piangono per il
dolore, ma piangono quando li si compiange, per il pensiero, in tal
maniera suscitato, del dolore. Così gran divarii nell'agire e
nel soffrire provengono dalla varietà nel modo di conoscenza
animale ed umano. Inoltre il presentarsi del limpido e deciso
carattere individuale, che soprattutto distingue l'uomo
dall'animale, avendo quest'ultimo quasi unicamente il carattere
della specie, è in egual modo determinato dalla scelta tra
più motivi, possibile solo mediante i concetti astratti. Che
solo dopo precedente scelta sono le risoluzioni diverse nei diversi
individui un segno del carattere individuale di questi, in ciascuno
variato; mentre l'azione dell'animale dipende solo dalla presenza, o
assenza, dell'impressione, premesso poi che questa sia per la sua
specie un motivo. Perciò finalmente nell'uomo soltanto
è la decisione, e non il semplice desiderio, un valido segno
del suo carattere, per lui stesso e per gli altri. Ma la risoluzione
diventa certa, per lui stesso come per gli altri, solamente con
l'azione. Il desiderio è semplice effetto necessario
dell'impressione presente, sia per uno stimolo esterno, sia per una
passeggera disposizione interiore; ed è quindi così
immediatamente necessario e privo di riflessione come l'agir delle
bestie: perciò esprime, a mo' di questo, il carattere della
specie, e non l'individuale. Ossia mostra ciò che l'uomo in
genere, e non l'individuo, che prova quel desiderio, sarebbe capace
di fare. L'azione soltanto, come quella che già per essere un
atto umano richiede sempre una certa riflessione, e perché
l'uomo di regola è signore della propria ragione, e quindi
è riflessivo, ossia si risolve secondo motivi astratti
pensati, è l'espressione della massima intelligibile della
sua condotta, il risultato del suo interno volere; e sta come una
consonante della parola, che indica il suo carattere empirico, il
quale a sua volta non è che l'espressione temporale del suo
carattere intelligibile. Perciò in uno spirito sano gravano
la coscienza solamente azioni, e non desiderii e pensieri.
Imperocché solamente le nostre azioni ci tengono innanzi lo
specchio della nostra volontà. L'azione più sopra
accennata, punto meditata, ed effettivamente commessa nel cieco
impeto, è in un certo modo un che di mezzo tra il semplice
desiderio e la decisione: quindi essa mediante vero pentimento, ma
che si mostri anche in azione, può come una linea mal
disegnata venir soppressa nell'immagine della nostra volontà;
la quale immagine è la nostra vita. Del resto può qui,
come un singolare raffronto, trovar luogo l'osservazione, che il
rapporto tra desiderio e atto ha un'analogia affatto fortuita, ma
precisa, con quello che passa tra distribuzione elettrica ed
elettrica comunicazione.
In virtù di tutta codesta indagine sulla libertà del
volere e su quanto vi si riferisce, troviamo che, sebbene la
volontà in sé e fuor del fenomeno si possa chiamar
libera, anzi onnipotente, vien poi nei suoi singoli fenomeni
illuminati dalla conoscenza, ossia negli uomini e negli animali,
determinata da motivi, contro i quali ciascun carattere reagisce
sempre nello stesso modo, regolarmente e necessariamente. Vediamo
l'uomo, in grazia della sopraggiuntagli conoscenza astratta, o di
ragione, avere in più dell'animale una facoltà di
scelta, la quale tuttavia fa di lui un campo di battaglia per il
conflitto dei motivi, senza sottrarlo al loro dominio; essa è
condizione quindi, perché il carattere individuale si
manifesti appieno, ma non va punto considerata come libertà
del volere singolo, ossia indipendenza dalla legge di
causalità; la cui necessità si estende all'uomo come
ad ogni altro fenomeno. Fino al punto indicato, adunque, e non
oltre, va il divario che la ragione, o conoscenza mediante concetti,
fa nascere tra il volere umano e l'animale. Ma qual tutt'altro
fenomeno della volontà umana, all'animalità affatto
estraneo, possa prodursi, quando l'uomo abbandona l'intera, al
principio di ragione sottomessa conoscenza delle singole cose in
quanto tali, e mediante conoscenza delle idee egli va oltre il
principium individuationis, ove un effettivo palesarsi della vera e
propria libertà della volontà come cosa in sé
diventa possibile, sì che il fenomeno finisce col trovarsi in
un certo dissidio con se medesimo, espresso con la parola
abnegazione, ed anzi alla fine l'in-sé del suo essere viene
soppresso: questa verace ed unica immediata manifestazione della
libertà della volontà in se stessa, anche nel
fenomeno, non ancora può qui venire esposta chiaramente,
bensì formerà da ultimo l'oggetto della nostra
indagine.
Intanto, dopo che ci si è fatta chiara, attraverso le
presenti dimostrazioni, l'immutabilità del carattere
empirico, in quanto essa è semplice manifestazione del
carattere intelligibile posto fuori del tempo; e così pure la
necessità, con cui le azioni procedono dall'incontro del
carattere coi motivi: dobbiamo ora in primo luogo rimuovere una
deduzione che molto facilmente se ne potrebbe trarre a favore delle
nostre tendenze riprovevoli. Dovendosi considerare il nostro
carattere come estrinsecazione temporale d'un atto di volontà
posto fuori del tempo, e quindi indivisibile e immutabile, ossia di
un carattere intelligibile, da cui immutabilmente è
determinato e conformemente a cui s'esprime nel suo fenomeno (il
carattere empirico) quanto v'ha d'essenziale nella nostra condotta,
ossia il contenuto empirico di essa; mentre l'inessenziale di
codesto fenomeno, l'esterno atteggiamento della nostra vita, dipende
dalle forme in cui si presentano i motivi; si potrebbe concluderne,
che sia fatica vana il lavorare a un miglioramento del proprio
carattere, o il resistere alla forza delle cattive tendenze: tal che
meglio sarebbe sottomettersi all'ineluttabile, e immediatamente
cedere a ogni inclinazione, sia pur malvagia. Ma le cose stanno a
questo proposito come stanno per la teoria dell'ineluttabile destino
e della conseguenza derivatane, detta αργος λογος, e a' nostri
giorni fatalismo musulmano: la cui refutazione, quale si attribuisce
a Crisippo, è esposta da Cicerone nel libro de fato, capp.
12, 13.
Che sebbene tutto si possa considerar come irrevocabilmente
predeterminato dal destino, ciò non accade se non mediante la
concatenazione delle cause. In nessun caso può esser
destinato, che si abbia un effetto senza la sua causa. Non è
già predeterminato, adunque, un fatto qualsiasi senz'altro:
ma come effetto di cause preesistenti; non l'effetto solo,
cioè, ma anche i mezzi, cui esso dovrà succedere come
risultato, per disposizione del destino. Mancando i mezzi, manca
sicuramente anche il risultato: questo e quelli sempre secondo la
determinazione del destino, che tuttavia noi veniamo a conoscere
solo dopo l'evento. Come gli eventi saranno sempre conformi al
destino, ossia all'infinita concatenazione delle cause, così
saranno le nostre azioni conformi sempre al nostro carattere
intelligibile; ma, come non abbiamo cognizione anticipata di quello,
così non ci è dato di guardare a priori dentro di
questo; bensì unicamente a posteriori, con l'esperienza,
veniamo a conoscere tanto gli altri quanto noi stessi. Se il nostro
carattere intelligibile comporta, che noi prendiamo una buona
risoluzione solo dopo lunga lotta contro un'inclinazione cattiva,
bisogna che questa lotta preceda e che se ne attenda la fine. La
riflessione sull'immutabilità del carattere,
sull'unità della sorgente, da cui derivano tutte le nostre
azioni, non ha potere d'indurci a precorrere, a favor dell'una o
dell'altra parte, la decisione voluta dal carattere: solo a
decisione presa, potremo vedere di qual fatta noi siamo, e
specchiarci nelle nostre azioni. Da ciò appunto è
spiegata la soddisfazione oppure l'angoscia, con cui guardiamo
indietro al cammino percorso nella nostra vita: soddisfazione e
angoscia non procedono dall'esistere tuttora quelle azioni
trapassate; che esse sono svanite, furono e non sono più; ma
la lor grande importanza per noi proviene dal loro significato,
proviene dall'esser codeste azioni l'immagine del carattere, lo
specchio della volontà, contemplando il quale noi conosciamo
il nostro più intimo io, il nocciolo della nostra
volontà. Poiché questo non ci è noto in
antecedenza, ma soltanto dopo, ci tocca affaticarci e combattere nel
tempo, affinchè l'immagine, che veniamo a creare con le
nostre azioni, riesca tale, che la sua vista ci rassereni il
più possibile, e non ci travagli. Ma il valore di questa
serenità o angoscia sarà, come dicemmo, indagato in
appresso. A questo luogo spetta invece ancora la seguente, per
sé stante, considerazione.
Accanto al carattere intelligibile e all'empirico ne va ricordato un
terzo, da entrambi diverso, il carattere acquisito, che si acquista
vivendo, con l'uso del mondo; e di questo si parla, quando un uomo
è lodato per aver carattere, o biasimato per mancarne. Si
potrebbe in verità ritenere, che il carattere empirico, come
fenomeno del carattere intelligibile, essendo immutabile, e, come
ogni fenomeno naturale, in sé conseguente, anche l'uomo
dovrebbe similmente apparir sempre eguale a se stesso e conseguente;
né aver quindi necessità di acquistare artificialmente
un carattere mediante esperienza e riflessione. Ma altro è il
caso dell'uomo: e, pur essendo ognora il medesimo, non sempre
tuttavia comprende se stesso, bensì sovente si misconosce,
fin quando non abbia in un certo grado acquistata la vera e propria
conoscenza di sé. Il carattere empirico è, come
semplice istinto naturale, in sé irragionevole: anzi, le sue
manifestazioni vengono per di più dalla ragione turbate; e
maggiormente turbate, per quanta maggior riflessione e forza di
pensiero ha l'uomo. Imperocché queste gli tengono ognora
davanti ciò che all'uomo in genere, in quanto carattere della
specie, s'appartiene, e sì nel volere, sì nell'oprare
è a lui possibile. In tal modo gli è resa più
difficile la comprensione di quel che veramente egli vuole e
può per effetto della individualità propria. Trova in
sé le disposizioni per tutte, siano pur diverse, le umane
tendenze e forze; ma il vario grado di quelle nella sua
individualità non gli si fa chiaro senza esperienza; e
quand'egli invero ha dato opera a soddisfar le aspirazioni, che sole
al suo carattere sembrano conformi, sente tuttavia, soprattutto in
qualche momento e in talune disposizioni, la spinta verso
aspirazioni addirittura opposte e inconciliabili con le prime; e
quelle, se le prime vuol seguire indisturbato, devono essere
soffocate appieno. Poiché, come il nostro fisico andare sulla
terra è sempre una linea, e giammai una superficie,
così dobbiamo nella vita, quando afferriamo qualcosa e
vogliamo possederla, innumerevoli altre lasciarne, rinunziandovi, a
destra e sinistra. Non ci possiamo risolvere a ciò, e invece
andiamo afferrando, come bimbi al mercato, tutto quanto ci seduce al
passaggio; allora gli è lo sforzo insensato, di trasformare
in una superficie la linea della nostra via; andiamo correndo a
zig-zag, vagolando come fuochi fatui qua e là, e non
perveniamo a nulla. O, per usare un'altra immagine, come, secondo la
teoria hobbesiana del diritto, originariamente ciascuno ha un
diritto sopra ciascuna cosa, ma su nessuna esclusivo; e quest'ultima
si può pervenire ad avere tuttavia su talune cose, col
rinunziare al proprio diritto su tutte le rimanenti, mentre gli
altri fanno lo stesso per ciò che noi abbiamo scelto;
così proprio accade nella vita, dove noi una qualunque
aspirazione determinata, sia essa verso godimento, onore, ricchezza,
scienza, arte o virtù, possiamo allora soltanto seguire con
serietà e con fortuna, quando abbiam fatto getto d'ogni
aspirazione estranea a quella, e rinunziato a tutto il resto. A
tanto non basta né il semplice volere, né, in
sé, il potere: un uomo deve anche sapere ciò che
vuole, e sapere ciò che può: solo così
mostrerà carattere, e riuscirà a qualcosa di buono.
Prima di giungere a questa consapevolezza, egli, malgrado la natural
conseguenza del carattere empirico, è nondimeno privo di
carattere; e, sebbene trascinato dal suo demone debba restar fedele
a se stesso e percorrer la sua via, non seguirà una linea
diretta, bensì oscillante e disuguale; esiterà,
devierà, tornerà sui propri passi, preparando a
sé pentimento e dolore. Tutto questo, perché nel
grande e nel piccolo tante cose vede come possibili e raggiungibili
dall'uomo, e tuttavia non sa quanto di ciò a lui solo
s'adatti, e possa da lui venir compiuto o anche semplicemente
goduto. Invidierà quindi taluno per una situazione e per
condizioni, che sono bensì adatte al carattere di quegli, ma
non al suo, e nelle quali si sentirebbe infelice, o addirittura non
potrebbe reggere. Imperocché come il pesce solamente
nell'acqua, l'uccello solamente nell'aria, la talpa solamente sotto
la terra sta bene, così ogni uomo sta bene solamente
nell'atmosfera a lui propizia; per esempio, l'aria della corte non
è respirabile per tutti. Per mancanza di sufficiente giudizio
a questo proposito molti compiranno ogni sorta di tentativi
destinati a fallire, faranno in caso particolare violenza al proprio
carattere, mentre in generale dovranno pure seguirlo; e quanto
avranno in tal modo, contro la natura propria, faticosamente
raggiunto, non darà loro alcun piacere; quanto avranno in tal
maniera appreso, resterà cosa morta; perfino sotto il
rispetto morale un'azione troppo nobile per il loro carattere,
venuta non da un puro, immediato impulso, ma da un concetto, da un
dogma, perderà ogni valore, ai loro stessi occhi, per
l'egoistico pentimento che le succederà. Velle non discitur.
Come dell'irremovibilità dei caratteri altrui ci rendiamo
persuasi sol con l'esperienza, e prima di persuadercene crediamo
infantilmente di poter con ragionevoli argomentazioni, con preghiere
e suppliche, con esempio e generosità, indurre altri a
smuoversi dalla sua natura, a cambiare il suo modo d'agire, a
discostarsi dal suo modo di pensare, o addirittura d'allargare le
sue capacità; così ci accade anche di fronte a noi
medesimi. Solo per esperienza possiamo apprendere ciò che
vogliamo e ciò che possiamo; prima, non lo sappiamo, non
abbiamo carattere e dobbiamo sovente venir rigettati, da duri urti
esteriori, sulla nostra via. E quando alla fine l'abbiamo appreso,
allora s'è conseguito quel che nel mondo si chiama carattere,
ossia il carattere acquisito. Il quale non è altro che la
conoscenza il più possibile compiuta della propria
individualità: è l'astratta, e quindi limpida
consapevolezza del proprio carattere empirico, e della misura e
direzione delle sue capacità intellettuali e corporee, ovvero
di tutte le forze e debolezze della propria individualità.
Questo ci mette in grado di adempiere con riflessione e metodo il
compito individuale, in sé immutabile, che per l'innanzi
sregolatamente abbandonavamo alla natura; e le lacune, che capricci
o debolezze nostre producevano, riempire con l'aiuto di saldi
concetti. La condotta, resa assolutamente necessaria dalla nostra
natura individuale, veniamo a formularla in massime chiaramente
conosciute, a noi ognora presenti, secondo le quali noi quella
pratichiamo sì consapevolmente, come fosse una condotta
appresa, senza mai venir confusi da una passeggera disposizione o da
un'impressione momentanea, senza venire inceppati dall'amaro o dal
dolce di un singolo incidente occorso per via, senza incertezza,
senza esitazione, senza inconseguenze. Non più, come novizi,
aspetteremo, proveremo, andremo a tentoni, per vedere ciò che
propriamente vogliamo e ciò che possiamo; questo ci è
noto una volta per sempre, in ogni scelta abbiamo principii generali
da applicare ai casi singoli, e subito veniamo alla decisione.
Conosciamo la nostra volontà in genere, e non ci lasciamo
sviare né da disposizioni fugaci né da pressioni
esterne, a prendere in un caso particolare una decisione che sia
contraria alla nostra volontà generica. Conosciamo egualmente
la natura e la misura delle nostre forze e delle nostre debolezze, e
ci risparmieremo così molti dolori. Che in verità non
esiste godimento se non nell'uso e sentimento delle proprie forze, e
il maggior dolore è la riconosciuta mancanza di forze,
là dove se n'avrebbe bisogno. Avendo bene indagato dove le
nostre forze stiano, e dove le nostre debolezze, svilupperemo,
useremo, cercheremo di adoprare in tutti i modi le nostre spiccate
naturali attitudini, sempre volgendoci dalla parte ove queste
giovano e hanno valore; ma rigidamente e con dominio di noi stessi
evitiamo gli sforzi, a cui da natura abbiamo poche disposizioni: ci
guarderemo dal tentar ciò che in nessun modo ci riuscirebbe.
Solo chi è giunto a questo, sarà sempre con piena
consapevolezza tutto intero se stesso, né mai da se stesso
sarà lasciato in asso, poi che sempre ha saputo di che fosse
capace. Proverà dunque sovente la gioia di sentire le proprie
forze, e raramente avrà il dolore d'esser richiamato alle
proprie debolezze: umiliazione che forse produce il peggior dolore
morale. Molto meglio si può sopportare di veder limpidamente
la propria sfortuna, che la propria inettitudine. Una volta che noi
siamo resi consapevoli appieno delle nostre forze e debolezze, non
tenteremo più di mostrare capacità che non abbiamo,
non giocheremo con falsa moneta, perché alla fine codesta
ciurmeria vien pure a fallire. Essendo l'uomo intero un semplice
fenomeno della sua volontà, nulla può darsi di
più stolto che, rimuovendosi dalla riflessione, voler esser
altro da quel che si è: poi che gli è una diretta
contraddizione della volontà da se medesima. Imitare
qualità e caratteristiche altrui è molto più
vile che portare altrui vesti: che il giudizio sulla nostra
insignificanza viene così pronunziato da noi stessi.
Conoscenza della propria natura e delle sue capacità d'ogni
maniera e dei suoi inalterabili confini è sotto questo
rispetto la più sicura via, per arrivare alla maggior
possibile soddisfazione di se medesimo. Imperocché vale per
le circostanze interne, quel che vale per le esterne, non essere a
noi nessun conforto più efficace che la piena certezza
dell'immutabile necessità. Non tanto ci strazia un male, che
ci abbia colti, quanto il pensiero delle circostanze, le quali
avrebbero potuto stornarlo; nulla quindi conferisce a tranquillarci,
come il considerar l'accaduto dal punto di vista della
necessità, secondo cui tutti gli eventi accidentali
appariscono strumenti d'un sovrano destino, sì che noi
riconosciamo il male occorsoci come prodotto ineluttabilmente dal
conflitto di circostanze interne ed esterne. Il fatalismo, adunque.
In verità noi ci lamentiamo e infuriamo sol fin quando
abbiamo speranza con ciò o di influire su altri, o di
eccitare noi stessi ad uno sforzo inaudito. Ma ragazzi e adulti
sanno benissimo rassegnarsi, non appena vedano chiaramente che il
male è irreparabile:
θυμόν ὲνὶ στὴθεσσι φίλον δαμάσαντες ὰνάγκη
(Animo in
pectoribus nostro domito necessitate).
Noi somigliamo agli elefanti presi prigionieri, i quali per molti
giorni orrendamente infuriano e lottano, fin quando scorgono che
tutto è vano, e quindi d'un tratto calmi offrono il collo al
giogo, per sempre domati. Siamo come il re David, il quale, mentre
ancora viveva suo figlio, incessantemente investiva Jehovah con
suppliche, e disperatamente si dimenava: ma, non appena il figlio fu
morto, non ci pensò più. Di qui proviene, che
innumerevoli mali permanenti, come deformità, miseria, bassa
condizione, bruttezza, spiacevole luogo di residenza, siano da
innumerevoli uomini sopportati affatto indifferentemente, né
vengano più sentiti, come cicatrizzate ferite, sol
perché questi uomini sanno che interna o esterna
necessità non lascia quivi adito a mutamento; mentre i felici
non comprendono come si possan sopportare quei mali. Ora, come con
l'esterna, così con l'interna necessità nulla ci
riconcilia tanto bene, quanto l'averne chiara contezza. Quando
abbiamo una volta per sempre conosciuto chiaramente sì le
nostre buone qualità e forze, sì i nostri difetti e
debolezze, e conformemente a tal conoscenza abbiam segnata a noi la
nostra meta, e ci siam rassegnati all'irraggiungibile, sfuggiamo con
ciò nel più sicuro modo, finché la nostra
individualità lo consente, all'amarissimo tra tutti i mali,
al malcontento di noi stessi, inevitabile conseguenza del non
conoscer la propria individualità, della falsa opinione e
della presunzione che ne deriva. Agli amari capitoli, in cui
è raccomandata la cognizione di sé, si applica
eccellentemente il distico ovidiano:
Optimus ille animi vindex laedentia pectus
Vincula qui rupit,
dedoluitque semel.
E ciò basti intorno al carattere acquisito, il quale invero
non tanto importa per l'etica propriamente detta, quanto per la vita
sociale; ma la cui illustrazione andava qui posta presso quella del
carattere intelligibile e dell'empirico, come terza specie
coordinata. Sulle prime abbiamo dovuto indugiare con un esame
alquanto più esteso, per renderci chiaro come la
volontà sia in tutti i suoi fenomeni soggetta alla
necessità, pur potendo nondimeno esser chiamata in se stessa
libera, anzi onnipotente.
§ 56.
Questa libertà, questa onnipotenza, di cui l'intero mondo
visibile, suo fenomeno, è manifestazione ed immagine, e
progressivamente si svolge secondo le leggi che porta seco la forma
della conoscenza – può anche, e propriamente là ove a
lei, nel suo più perfetto fenomeno, è venuta la
conoscenza in tutto adeguata del suo proprio essere, novellamente
manifestarsi: o nel volere ancor qui, al vertice della riflessione e
della consapevolezza di sé, quel che già da cieca e di
sé inconscia voleva, e in tal caso la conoscenza, sia
particolare, sia generale, rimane per lei sempre motivo; oppur,
viceversa, codesta conoscenza diventa a lei un quietivo, il quale
ogni volere sopisce e cancella. Si ha così l'affermazione o
negazione, già più sopra genericamente stabilita,
della volontà di vivere; la quale, essendo rispetto alla
condotta dell'individuo una generica, non particolare manifestazione
della volontà, non altera con modificazioni lo sviluppo del
carattere, né trova la sua espressione in singoli atti;
bensì o con un sempre più forte rilievo di tutta la
condotta precedente, o all'opposto con la soppressione di quella,
esprime in forma vivente la massima che, dietro conoscenza alfine
raggiunta, la volontà liberamente ha fatto sua. Il più
chiaro svolgimento di tutto ciò, principal soggetto di
quest'ultimo libro, ci è ora alquanto alleviato e preparato
dalle considerazioni sulla libertà, sulla necessità e
sul carattere, che sono venute qui a intercalarsi; ma più
sarà, se, discostandosi ancora una volta dal soggetto primo,
avremo innanzi rivolta la nostra attenzione alla vita medesima,
volere o non voler la quale è la grande quistione. E
ciò in maniera, da cercar di conoscere in generale, che cosa
propriamente venga alla volontà medesima, la quale in tutto
è di questa vita la più intima essenza, dalla propria
affermazione, e come e fino a che punto tale affermazione l'appaghi,
anzi possa appagarla; in breve, che cosa genericamente e
sostanzialmente sia da considerare come suo stato in questo mondo
che è suo, ed a lei sotto ogni rispetto appartiene.
In primo luogo desidero, che si richiami qui la considerazione con
cui abbiamo chiuso il secondo libro, indottivi dalla domanda
colà formulata, intorno alla meta e allo scopo della
volontà. Invece di trovar risposta, ci risultò
evidente che la volontà, in tutti i gradi del suo fenomeno,
dai più bassi ai più alti, manca affatto d'un fine
ultimo e d'uno scopo; continuamente aspira, perché aspirare
è la sua unica essenza, a cui non pone termine alcun fine
raggiunto; non è quindi capace d'alcun appagamento finale, e
solo per una costrizione può esser trattenuta, ma in
sé si estende nell'infinito. Questo vedemmo nel più
semplice di tutti i fenomeni naturali, nella gravità, che non
ha posa nel tendere e non cessa di premere verso un punto centrale
senza estensione, il cui raggiungimento segnerebbe l'annientarsi di
essa e della materia: non cessa, foss'anche l'universo tutto
concentrato in una densa sfera. Questo vediamo ancora negli altri
fenomeni semplici della natura: il solido tende, sia liquefacendosi
o dissolvendosi, alla fluidità, dove tutte le sue forze
chimiche diventano libere; mentre la solidità è come
una loro prigione, in cui vengono chiuse dal freddo. Il liquido
tende allo stato gassoso, nel quale tosto passa, non appena sia
libero da ogni pressione. Nessun corpo è senza
affinità, ossia senza un suo tendere; ovvero senza desiderio
e bramosia, come direbbe Jakob Böhm. L'elettricità
propaga nell'infinito la sua interna scissione, pur se la massa
terrestre ne assorbe l'effetto. Il galvanismo è egualmente,
finché la pila vive, un atto incessantemente senza scopo
rinnovato di scissione e di riconciliazione. Appunto un consimile
diuturno tendere, non mai soddisfatto, è la vita della
pianta, un incessante svilupparsi, attraverso forme sempre
più elevate, finché il punto ultimo, il seme, diventi
alla sua volta principio. E questo si ripete all'infinito: mai un
termine, mai definitivo appagamento, mai un riposo. In pari tempo
rammenteremo, dal secondo libro, che ovunque le svariate forze
naturali e forme organiche si contrastano la materia in cui vogliono
spiccare, ciascuno possedendo solo quel che all'altro ha rapito; e
così viene alimentato un perenne battagliar per la vita e la
morte, dal quale appunto sgorga precipuamente la resistenza, che
ognora tien frenata quell'aspirazione, ond'è costituita
l'essenza più intima di tutte le cose. E questa preme invano,
ma tuttavia non può venir meno alla propria natura, e si
tormenta, fin quando il suo fenomeno perisce, mentre tosto altri ne
afferrano avidi il posto e la materia.
Da tempo conoscemmo quest'aspirazione, costituente l'in-sé di
ogni cosa, come identica e tutt'una con ciò che in noi,
dov'essa si manifesta con la maggior chiarezza, alla luce della
più piena conscienza, si chiama volontà. La sua
compressione mediante un ostacolo, che si mette fra lei e una sua
mira, chiamiamo quindi dolore; viceversa il suo conseguir la mira
chiamiamo appagamento, benessere, felicità. Cotali
denominazioni possiamo pur riferire ai fenomeni del mondo privo di
conoscenza, più deboli di grado, ma nell'essenza identici.
Questi vedremo allora presi da perenne soffrire, senza durabile
felicità. Perché ogni aspirare proviene da mancanza,
da insoddisfazione del proprio stato: è quindi dolore,
finché non sia appagato; ma nessun appagamento è
durevole, anzi non è che il principio di una nuova
aspirazione. L'aspirazione vediamo ovunque in più forme
compressa, diuturnamente pugnando; quindi sempre come dolore. Non ha
termine l'aspirare, non ha dunque misura e termine il soffrire.
Ma quel che così sol con più acuta attenzione ed a
fatica scopriamo nella natura priva di conoscenza, limpido ci appare
nella conoscente, nella vita animale; il cui perenne soffrire
è facile a dimostrarsi. E, senza indugiare in codesto grado
intermedio, ci volgeremo là, dove, dalla più luminosa
conoscenza rischiarato, tutto nel modo più chiaro si disvela:
nella vita dell'uomo. Imperocché come il fenomeno della
volontà diventa più compiuto, così diventa
anche più e più palese il dolore. Nella pianta non
è ancora sensibilità, e quindi punto dolore: un grado
certamente tenue di sofferenza è insito negli animali infimi,
infusori e radiari; perfino negl'insetti è la capacità
di sentire e di soffrire ancor limitata: solo col perfetto sistema
nervoso dei vertebrati la si presenta in alto grado, e sempre
più alto, quanto più l'intelligenza si sviluppa. Nella
stessa misura dunque, onde la conoscenza perviene alla chiarezza, e
la conscienza si eleva, cresce anche il tormento, che raggiunge
perciò il suo massimo grado nell'uomo; e anche qui tanto
più, quanto più l'uomo distintamente conosce ed
è più intelligente. Quegli, in cui vive il genio,
soffre più di tutti. In questo senso, ossia rispetto alla
conoscenza in genere, e non già al semplice sapere astratto,
io intendo e adopro qui quel detto del Kohelet: Qui auget scientiam,
auget et dolorem. Tal preciso rapporto tra il grado della conscienza
e quel dolore ha oltremodo bellamente espresso in un disegno quel
filosofo pittore, o dipingente filosofo, che fu Tischbein. La
superior metà del suo foglio rappresenta donne, alle quali
vengono rapiti i figli, e che in diversi gruppi e atteggiamenti
manifestano il profondo materno dolore, angoscia, disperazione,
variamente; l'inferior metà del foglio mostra, in affatto
pari disposizione e aggruppamento, pecore, a cui si portano via gli
agnellini: sì che a ogni umana testa, a ogni umano
atteggiamento sulla metà superiore del foglio, corrisponde
là sotto un'animalesca analogia. E quivi si vede chiaramente,
come il dolore possibile all'ottusa conscienza animale si comporti
di fronte al possente strazio, che solo fu reso possibile dalla
limpidità del conoscere, dalla chiarità della
conscienza.
Studieremo perciò nell'umana esistenza l'intimo ed essenziale
destino della volontà. Ciascuno ritroverà facilmente
nella vita dell'animale le stesse condizioni, soltanto più
deboli, espresse in gradi diversi; e, guardando anche la sofferente
animalità, avrà di che convincersi abbastanza che
sostanzialmente ogni vita è dolore.
§ 57.
In ogni grado, che la conoscenza illumina, apparisce a sé la
volontà come individuo. Nell'infinito spazio e infinito tempo
vede l'umano individuo se stesso come finito, e per conseguenza,
come una quantità evanescente di fronte a quelli, in essi
gettata; e, per la loro sconfinatezza, ha sempre un relativo quando
e dove della sua esistenza, non mai assoluto: perché il suo
luogo e la sua durata sono parti finite di un infinito e di un
illimitato. Il suo vero e proprio essere è soltanto nel
presente, la cui non trattenuta fuga verso il passato è un
perenne passar nella morte, un perenne morire; che la sua vita
trascorsa, prescindendo dalle sue eventuali conseguenze nel
presente, com'anche dalla testimonianza che dà della
volontà di lui, la quale v'è dentro impressa, è
già del tutto chiusa, morta, e ridotta a nulla: quindi ragion
vuole che gli sia indifferente, se angosce o gioie fossero il
contenuto del suo passato. Il presente sfugge ognora dalle sue mani
diventando passato: l'avvenire è affatto incerto e sempre
corto. È dunque la sua esistenza, anche se guardata soltanto
sotto l'aspetto formale, un perenne precipitar del presente nel
morto passato, un perenne morire. Ma ora guardiamola anche sotto
l'aspetto fisico; è chiaro che, come il nostro camminare si
sa essere nient'altro che un costantemente trattenuto cadere,
così la vita del nostro corpo è un costantemente
trattenuto morire, una morte sempre rinviata: e nello stesso modo,
per concludere, l'attività del nostro spirito è un
costante allontanare la noia. Ciascun respiro rimuove la morte
ognora premente, con la quale noi veniamo così a combattere
in tutti i minuti; come la combattiamo, a maggiori intervalli, con
ciascun pasto, ciascun sonno, ciascun riscaldamento, e così
via. Alla fine la morte deve vincere: perché a lei
apparteniamo già pel fatto d'essere nati, ed ella non fa che
giocare alcun tempo con la sua preda, prima d'inghiottirla.
Frattanto continuiamo la nostra vita con grande interesse e gran
cura, fin quando è possibile, come si gonfia più a
lungo e più voluminosamente che si può una bolla di
sapone, pur con la ferma certezza che scoppierà.
Già vedemmo la natura priva di conoscenza avere per suo
intimo essere un continuo aspirare, senza meta e senza posa; ben
più evidente ci apparisce quest'aspirazione considerando
l'animale e l'uomo. Volere e aspirare è tutta l'essenza loro,
affatto simile a inestinguibile sete. Ma la base d'ogni volere
è bisogno, mancanza, ossia dolore, a cui l'uomo è
vincolato dall'origine, per natura. Venendogli invece a mancare
oggetti del desiderio, quando questo è tolto via da un troppo
facile appagamento, tremendo vuoto e noia l'opprimono: cioè
la sua natura e il suo essere medesimo gli diventano intollerabile
peso. La sua vita oscilla quindi come un pendolo, di qua e di
là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi
veri elementi costitutivi. Tal condizione s'è dovuta
singolarmente esprimere anche col fatto, che quando l'uomo ebbe
posti nell'inferno tutti i dolori e gli strazi, per il cielo non
rimase disponibile se non appunto la noia.
Ma il permanente aspirare, ond'è costituita l'essenza d'ogni
fenomeno della volontà, ha nei gradi superiori
dell'oggettivazione il suo primo e più general fondamento,
pel fatto che quivi la volontà a se stessa appare come un
corpo vivo, con l'obbligo ferreo di nutrirlo: e ciò che
dà impero a quest'obbligo, gli è appunto l'esser
codesto corpo nient'altro se non la stessa oggettivata
volontà di vivere. L'uomo, come la più compiuta
oggettivazione di quella volontà, è per conseguenza
anche il più bisognoso di tutti gli esseri: è in tutto
e per tutto un volere, un abbisognare reso concreto, è il
concremento di mille bisogni. Con questi egli sta sulla terra,
abbandonato a se stesso, incerto di tutto fuor che della propria
penuria e delle proprie necessità: l'ansia per la
conservazione di quell'esistenza, fra tante sì gravi e ogni
giorno rinnovantisi esigenze, riempie di regola l'intera vita umana.
Vi si collega immediatamente la seconda imperiosa brama, quella di
continuare la specie. In pari tempo minacciano l'uomo da ogni parte
i più svariati pericoli, per isfuggire ai quali occorre
permanente vigilanza. Con cauto passo, e ansiosamente spiando
intorno, va egli per la sua via, perché mille accidenti e
mille nemici lo insidiano. Così camminava nelle foreste, e
così cammina nella vita civilizzata: non v'ha per lui
sicurezza di sorta:
Qualibus in tenebris vitae, quantisque periclis
Degitur hocc'aevi,
quodcunque est!
Lucr., II, 15.
La vita dei più non è che una diuturna battaglia per
l'esistenza, con la certezza della sconfitta finale. Ma ciò
che li fa perdurare in questa sì travagliata battaglia non
è tanto l'amore della vita, quanto la paura della morte, la
quale nondimeno sta inevitabile nello sfondo, e può a ogni
minuto sopravvenire. La vita stessa è un mare pieno di scogli
e di vortici, cui l'uomo cerca di sfuggire con la massima prudenza e
cura; pur sapendo, che quand'anche gli riesca, con ogni sforzo e
arte, di scamparne, perciò appunto si accosta con ogni suo
passo, ed anzi vi drizza in linea retta il timone, al totale,
inevitabile e irreparabile naufragio: alla morte. Questo è il
termine ultimo del faticoso viaggio, e per lui peggiore di tutti gli
scogli, ai quali è scampato.
Ma qui ci si presenta subito come molto notabile, che da un lato i
dolori e strazi dell'esistenza possono facilmente accumularsi a tal
segno che la morte stessa, nel fuggir la quale consiste l'intera
vita, diviene desiderata, e spontaneamente le si corre incontro;
dall'altro, che non appena miseria e dolore concedono all'uomo una
tregua, la noia è subito vicino tanto, che quegli per
necessità ha bisogno d'un passatempo. Quel che tutti i
viventi occupa e tiene in molto, è la fatica per l'esistenza.
Ma dell'esistenza, una volta che sia loro assicurata, non sanno che
cosa fare: perciò il secondo impulso, che li fa muovere,
è lo sforzo di alleggerirsi dal peso dell'essere, di renderlo
insensibile, di «ammazzare il tempo», ossia di sfuggire
alla noia. Quindi vediamo, che quasi tutti gli uomini al riparo dei
bisogni e delle cure, quand'abbiano alla fine rimosso da sé
tutti gli altri pesi, si trovano esser di peso a se stessi, e hanno
per tanto di guadagnato ogni ora che passi, ossia ogni sottrazione
fatta a quella vita appunto, per la cui conservazione il più
possibile lunga avevano fino allora impiegate tutte le forze. E la
noia è tutt'altro che un male di poco conto: che finisce con
l'imprimere vera disperazione sul volto. Essa fa sì che
esseri, i quali tanto poco s'amano a vicenda, come gli uomini,
tuttavia si cerchino avidamente, e diviene in tal modo il principio
della socievolezza. Anche contro di essa, come contro altre
universali calamità, vengono prese pubbliche precauzioni, e
già per ragion di stato; perché questo male, non meno
del suo estremo opposto, la fame, può spingere gli uomini
alle maggiori sfrenatezze: panem et circenses vuole il popolo. Il
severo sistema penitenziario di Filadelfia fa strumento di punizione
la semplice noia, per mezzo di solitudine e inazione: ed è
sì terribile, che già ha condotto i reclusi al
suicidio. Come il bisogno è il perpetuo flagello del popolo,
così è flagello la noia per le classi elevate. Nella
vita borghese è rappresentata dalla domenica, come il bisogno
dai sei giorni di lavoro.
Tra il volere e il conseguire trascorre dunque intera ogni vita
umana. Il desiderio è, per sua natura, dolore: il
conseguimento genera tosto sazietà: la mèta era solo
apparente: il possesso disperde l'attrazione: in nuova forma si
ripresenta il desiderio, il dolore: altrimenti, segue monotonia,
vuoto, noia, contro cui è la battaglia altrettanto tormentosa
quanto contro il bisogno. Quando desiderio e appagamento si
susseguono senza troppo brevi e senza troppo lunghi intervalli,
n'è ridotto il soffrire, ch'entrambi producono, ai minimi
termini, e se n'ha la più felice vita. Imperocché quel
che fuori di ciò si potrebbe chiamar la parte più
bella, la più pura gioia della vita, appunto perché ci
solleva sull'esistenza reale e ci trasmuta in sereni spettatori di
questa: ossia il puro conoscere, cui ogni volere è estraneo,
il godimento del bello, il genuino piacere dell'arte, richiedendo
attitudini già rare, è dato solo a pochissimi, ed
anche a' pochissimi soltanto come un effimero sogno. E la più
elevata forza intellettuale fa proprio costoro capaci di ben
maggiori sofferenze, di quante non possano mai sentire i più
ottusi, e inoltre solitarii li lascia tra esseri molto da loro
diversi: sì che pur quel vantaggio si compensa. Ma alla
più parte degli uomini sono le gioie puramente intellettuali
inaccessibili; del piacere, che consiste nel puro conoscere, sono
quasi affatto incapaci: in tutto sono confinati nel volere. Quindi,
se cosa alcuna vuol destar la loro attenzione, esser per loro
interessante, deve (e ciò è insito nel valore stesso
della parola) stimolare in qualche modo la loro volontà, sia
pur soltanto per un remoto e anche meramente possibile rapporto con
lei; la volontà non può mai restare affatto fuori del
gioco, perché l'esser loro sta di gran lunga più nel
volere che nel conoscere: azione e reazione è il loro unico
elemento. Le ingenue manifestazioni di questa lor natura si possono
cogliere anche in piccolezze e in fatti ordinari: per esempio,
scrivono nei luoghi notabili, che vanno a visitare, il loro nome,
per così reagire, per agire sul luogo, poi che il luogo non
ha agito su di loro; inoltre non sanno facilmente contentarsi di
contemplare un esotico, raro animale, ma devono stuzzicarlo,
provocarlo, scherzare con esso, per sentire nient'altro che azione e
reazione. Quel bisogno d'eccitazione della volontà si mostra
soprattutto nell'invenzione e nella pratica del giocare alle carte,
che benissimo esprime l'aspetto lamentevole dell'umanità.
Ma per quanto la natura, per quanto la fortuna abbia operato;
chiunque noi siamo, e qualunque cosa possediamo; il dolore
ch'è essenza della vita non si lascia rimuovere:
Πηλειδης δ’ω̣μωξεν, ιδων ουρανον ευρον
(Pelides autem ejulavit, intuitus in coelum latum).
E ancora:
Ζηνος μεν παις ηα Κρονιονος, αυταρ οιζυν
Ειχον απειρεσιην
(Jovis quidem filius eram Saturni!, verum aerumnam
Habebam
infinitam).
Gl'incessanti sforzi di bandire il dolore non servono che a mutarne
l'aspetto. Questo è dapprima mancanza, bisogno, ansia per la
conservazione della vita. Quando sia riuscito, il che è assai
difficile, lo scacciare il dolore in questa sua forma, ecco che
tosto si ripresenta in mille altre, variando secondo età e
circostanze, come istinto sessuale, appassionato amore, gelosia,
invidia, odio, paura, ambizione, avarizia, infermità, ecc.
ecc. E se finalmente non riesca a trovar via in nessun'altra forma,
viene sotto la malinconica, grigia veste del tedio e della noia,
contro cui si tentano rimedii variati. Quando poi si pervenga da
ultimo a discacciare anche quelli, sarà difficile che accada
senza riaprir con ciò la via al dolore in una delle
precedenti forme, e ricominciar così il ballo da principio;
imperocché tra dolore e noia viene ogni vita umana di qua e
di là rimbalzata. Per disanimante che sia questa
considerazione, voglio tuttavia richiamare accessoriamente
l'attenzione sopra un suo lato, dal quale si può attingere
conforto, o anzi addirittura trarre forse una stoica indifferenza
per il proprio male. Che la nostra intolleranza di esso procede
massimamente dal fatto, che noi lo riteniamo venuto per caso,
provocato da una catena di cause, la quale potrebbe agevolmente
essere diversa. Per il male immediatamente necessario e affatto
universale, come è per esempio la necessità della
vecchiaia e della morte e di molti quotidiani disagi, non usiamo
rattristarci. È piuttosto il considerar
l'accidentalità delle circostanze, le quali ci produssero un
dolore, che dà a questo il pungolo. Se invece abbiamo
conosciuto, che il dolore come tale è inerente all'essenza
della vita, od è inevitabile, ed unicamente la sua figura, la
forma in cui si presenta, dipende dal caso; che insomma il nostro
dolore attuale riempie uno spazio, nel quale, se quello non fosse,
immediatamente un altro subentrerebbe, per ora impedito dal primo;
che quindi, in sostanza, ben poco potere ha su noi il destino;
allora potrebbe una cotal riflessione, facendosi persuasione
vivente, portar seco un notevole grado di stoica
imperturbabilità, e diminuir l'angosciosa inquietudine per il
nostro bene. Ma in realtà una sì efficace signoria
della ragione sopra il dolore direttamente sentito, la si trova di
rado, o mai.
D'altronde codesta considerazione sull'inevitabilità del
dolore, e sul fatto che un dolore scaccia l'altro, e che il dolore
nuovo interviene con lo sparir dell'antico, potrebbe condurci alla
paradossale, ma non stolta ipotesi, che in ciascun individuo la
misura del dolore in lui sostanziale venga una volta per sempre
determinata dalla sua natura: la qual misura né potrebbe
rimaner vuota, né superata, per varia che fosse la forma del
dolore. Il suo soffrire o godere non sarebbe quindi determinato
punto dal di fuori, ma solo da quella misura, da quella
disposizione, la quale bensì potrebbe, per lo stato fisico,
aver qualche diminuzione o accrescimento secondo le epoche, ma in
complesso resterebbe la medesima e non altro sarebbe, se non
ciò che si chiama il temperamento dell'individuo, o, meglio,
il grado in cui questi, secondo s'esprime Platone nel primo libro
della Repubblica, è εΰκολος oppure δύσκολος, ossia d'animo
leggero o grave. In favor di questa ipotesi non soltanto parla la
ben nota esperienza, secondo cui i grandi dolori ci rendono affatto
insensibili ai minori, e, viceversa, nella assenza di dolori grandi,
anche le minime molestie ci tormentano e contristano; ma
l'esperienza ci ammonisce ancora, che se una grande sventura, la
quale ci faceva rabbrividire solo a pensarla, è
effettivamente sopravvenuta, il nostro animo resta nondimeno, tosto
superato il primo schianto, pressoché immutato; e
così, all'opposto, dopo l'avvento d'una felicità a
lungo sognata, non ci sentiamo in complesso e alla lunga
notevolmente meglio e più soddisfatti di prima. Il momento
solo in cui quelle mutazioni si presentano ci scuote con particolar
forza, sia come profondo dolore, sia come alta gioia; ma questa e
quello rapidamente svaniscono, perché si fondavano sopra
un'illusione. Sorgono invero non già dall'immediatamente
attuale godere o patire, ma dall'aprirci un nuovo avvenire, che
viene in essi anticipato. Sol prendendo a prestito dall'avvenire
hanno potuto essere sì anormalmente intensi: e quindi non
durano. In favor dell'ipotesi formulata, per cui, come nel
conoscere, così anche nel sentimento del soffrire o del
godere una grandissima parte è soggettiva e determinata a
priori, possono ancora essere addotte come prove le osservazioni,
secondo le quali l'umana gaiezza, o tristezza, palesemente non da
circostanze esteriori è determinata, da ricchezza o
condizione sociale; poiché noi incontriamo altrettante facce
liete tra' poveri, quanto tra' ricchi: e inoltre, i motivi pe' quali
accadono i suicidii sono così profondamente diversi; non
potendo noi indicare nessuna sventura grande abbastanza da dover
provocare con molta verosimiglianza in ciascun carattere il
suicidio, e poche tanto piccole, che nessun'altra di egual peso non
l'abbia già altra volta provocato. Se dunque il grado della
nostra letizia o malinconia non è tuttodì il medesimo,
ciò attribuiremo, in virtù di quest'opinione, non al
mutar delle circostanze esterne, ma a quello dello stato interno,
delle condizioni fisiche. Che quando si produce una vera, se pur
sempre temporanea, elevazione della nostra gaiezza, sia pur fino
alla gioia, questo suol essere senz'alcuna ragione esteriore.
Sì, sovente vediamo il nostro dolore provenir solo da un
determinato fatto esterno, e solo da questo siamo visibilmente
oppressi e turbati: allora crediamo che, se esso venisse meno, ne
seguirebbe la massima contentezza. Ma è un'illusione. La
misura del nostro dolore e benessere è in complesso, secondo
la nostra ipotesi, determinata soggettivamente per ogni istante, e
in rapporto ad essa è ogni esterna cagione di turbamento
appena ciò ch'è pel corpo un vescicante, verso il
quale traggono tutti gli umori cattivi, che altrimenti restan
dispersi pel corpo. Il dolore nel nostro essere, prodotto da un dato
motivo per questo spazio di tempo, e quindi non rimovibile, sarebbe
senza quella determinata causa esteriore di sofferenza distribuito
in cento punti, e comparirebbe in forma di cento piccole molestie e
fastidi a proposito di cose, che invece allora trascuriamo del
tutto, perché la nostra capacità di soffrire è
già riempita da quella pena centrale, che tutta la sofferenza
altrimenti dispersa ha concentrata in un punto. A ciò
corrisponde anche l'osservazione, che se alla fine una grande,
conturbante angoscia ci vien tolta dal petto mediante un esito
felice, tosto subentra un'altra al suo posto, la cui materia
già c'era tutta, ma non poteva entrar come angoscia nella
conscienza, perché questa non aveva capacità
disponibile per lei, sì che quella materia d'angoscia
rimaneva appena come oscura, inosservata parvenza nebbiosa
all'estremo limite del suo orizzonte. Ma tosto che lo spazio
è libero, ecco questa materia pronta farsi subito innanzi, e
occupare il trono della dominante (πρυτανευουσα) angoscia del
momento: pur se, nella sua sostanza, è molto più
leggera che la materia di quell'angoscia svanita; nondimeno sa tanto
gonfiarsi, da farlesi eguale in apparente grandezza, e in tal modo,
come precipua angoscia del momento, rimpie appieno il trono.
Smisurata gioia e molto vivo dolore si ritrovano sempre soltanto
nella stessa persona: imperocché l'una è condizione
dell'altro, ed entrambi poi han per condizione una vivacità
grande dello spirito. Entrambi sono prodotti, come or ora vedemmo,
non dal puro presente, ma da anticipazione dell'avvenire. Ed essendo
il dolore alla vita essenziale, ed anche, nel suo grado, determinato
dalla natura del soggetto, sì che subitanee modificazioni non
possono, essendo sempre esteriori, mutare veramente quel grado; ne
viene, che all'eccessivo giubilo o dolore sempre è base un
errore e vaneggiamento: onde quelle due sovreccitazioni dell'animo
si potrebbero evitar con l'intendimento. Ogni immoderato giubilo
(exultatio, insolens laetitia) poggia sempre sull'illusione d'aver
trovato alcunché nella vita, che non vi si può punto
trovare, ossia durevole riposo dei torturanti, ognora rinascenti
desideri o affanni. Da ogni singola illusione di tal fatta bisogna
più tardi inevitabilmente far ritorno, e poi, quando
scompare, pagarla con dolori altrettanto amari, per quanto gioia
aveva recato il suo apparire. Somiglia sotto questo rispetto
interamente ad un'altura, dalla quale si possa venir giù solo
cadendo; perciò la si dovrebbe evitare: ed ogni improvviso,
immoderato dolore è proprio nient'altro che la caduta da una
cotale altezza, lo svanire d'una tale illusione: e quindi questa
è condizione di quello. Si potrebbero perciò evitare
entrambi, qualora si avesse sopra di sé il potere di veder
con tutta chiarezza le cose, sempre nel loro complesso e nella lor
connessione, e fermamente guardarsi dall'attribuir loro in effetti
il colore, che si vorrebbe avessero. L'etica stoica mirava
soprattutto a liberar l'animo da tutta codesta illusione e dalle sue
conseguenze, e dargli invece incrollabile imperturbabilità.
Di quest'intendimento è pieno Orazio, nella celebre ode:
Aequam memento rebus in arduis
Servare mentem, non secus in bonis
Ab insolenti temperatam
Laetitia.
Ma il più delle volte vogliamo sottrarci alla conoscenza,
simile ad amara medicina, che il dolore è essenziale alla
vita, e quindi non dal di fuori fluisce in noi: bensì
ciascuno ne porta nel suo proprio interno l'inesauribile sorgente.
Noi cerchiamo piuttosto ognora una singola causa esterna, quasi un
pretesto, al dolore che mai da noi si rimuove; come l'uomo libero si
forma un idolo, per avere un signore. Imperocché
infaticabilmente andiamo di desiderio in desiderio, e sebbene ogni
soddisfazione raggiunta, per quanto ci promettesse, tuttavia non ci
appaga, anzi il più sovente non tarda a mostrarci come un
mortificante errore, non vediamo, ciò malgrado, che
attingiamo con la botte delle Danaidi, e invece corriamo incontro a
desiderii sempre nuovi:
Sed, dum abest quod avemus, id exsuperare videtur
Caetera; post
aliud, quum contigit illud, avemus;
Et sitis aequa tenet vitai
semper hiantes.
Lucr., III, 1095
E così o continua all'infinito, oppure, il che è
più raro, e presuppone già una certa forza di
carattere, continua fin quando capitiamo in un desiderio, che non
può essere appagato, ed a cui tuttavia non si rinunzia:
allora gli è come se avessimo quel che cercavamo, cioè
qualcosa che in ogni istante possiamo accusar come sorgente dei
nostri mali, invece d'accusarne la nostra propria natura, e per cui
noi, in dissidio col nostro destino, veniamo in compenso
riconciliati con la nostra esistenza, allontanandosi di nuovo la
cognizione, che a codesta esistenza sia essenziale il dolore, e
impossibile un vero appagamento. La conseguenza di quest'ultima
maniera di sviluppo è una cotal disposizione malinconica, il
perpetuo portar con sé un unico, grande dolore, e il
derivantene disdegno di tutti i minori dolori o godimenti; quindi
una condizione già più degna, che non sia il continuo
correre in caccia di sempre nuovi fantasmi, il che è molto
più comune.
§ 58.
Qualsiasi soddisfacimento, o ciò che in genere suol chiamarsi
felicità, è propriamente e sostanzialmente sempre
negativo, e mai positivo. Non è una sensazione di gioia
spontanea, e di per sé entrata in noi, ma sempre bisogna che
sia l'appagamento d'un desiderio. Imperocché desiderio, ossia
mancanza, è la condizione preliminare d'ogni piacere. Ma con
l'appagamento cessa il desiderio, e quindi anche il piacere. Quindi
l'appagamento o la gioia non può essere altro se non la
liberazione da un dolore, da un bisogno: e con ciò s'intende
non solo ogni vero, aperto soffrire, ma anche ogni desiderio, la cui
importunità disturbi la nostra calma, e perfino la mortale
noia, che a noi rende un peso l'esistenza. Ora, è
difficilissimo raggiungere e menare a compimento alcunché: a
ogni nostro proposito contrastano difficoltà e fatiche senza
fine, e a ogni passo si accumulano gli ostacoli. Quando poi
finalmente tutto è superato e raggiunto, nient'altro ci si
può guadagnare, se non d'essere liberati da una sofferenza, o
da un desiderio: quindi ci si trova come prima del loro inizio, e
non meglio. Direttamente dato è a noi sempre il solo bisogno,
ossia il dolore. Invece l'appagamento e il piacere non li possiamo
conoscere che mediatamente, per ricordar la passata sofferenza e
privazione, venuta meno all'apparire di quelli. Da ciò
proviene, che dei beni e vantaggi, che possediamo in effetti, non
siamo punto ben persuasi, né li apprezziamo, bensì ci
sembra naturale l'averli; che essi ci letiziano solo indirettamente,
con l'impedir sofferenze. Bisogna averli perduti, per sentirne il
pregio: perché il bisogno, la privazione, il soffrire
è la sensazione positiva, che si manifesta direttamente.
Perciò anche ci rallegra il ricordo di angustia, malattia,
bisogni superati, che tal ricordo è l'unico mezzo per godere
dei beni presenti. Nemmeno è da negare, che sotto questo
rispetto e dal punto di vista dell'egoismo, il quale è la
forma della volontà di vivere, lo spettacolo o la descrizione
di mali altrui ci dà soddisfazione e piacere appunto per
quella via, secondo esprime in bel modo e sincero Lucrezio, al
principio del secondo libro:
Soave, mari magno, turbantibus æquora ventis,
E terra magnum
alterius spectare laborem:
Non, quia vexari quemquam est jucunda
voluptas;
Sed, quibus ipse malis careas, quia cernere suave est.
Tuttavia ci si mostrerà in seguito, che questa maniera di
gioia, proveniente da siffatta mediata conoscenza del nostro
benessere, sta molto vicina alla sorgente della vera e propria
malvagità positiva.
Che ogni felicità sia di natura soltanto negativa, e non
positiva; che non possa quindi esser mai durevole appagamento o
letificazione, ma sia sempre nient'altro che liberazione da un
dolore o bisogno, al quale o un nuovo dolore oppur languore, vuota
nostalgia e noia deve seguire; è provato anche in quel fedele
specchio dell'essenza del mondo e della vita, che è l'arte, e
soprattutto nella poesia. Che ogni poesia epica o drammatica ha
soltanto capacità di rappresentare uno sforzo, un'aspirazione
attiva, una lotta per la conquista della felicità, e non mai
la felicità stessa durevole e compiuta. Conduce il suo eroe
attraverso mille traversie e pericoli fino alla mèta: appena
questa è raggiunta, lascia tosto cadere il sipario. Che altro
non le resterebbe, se non mostrare che la luminosa mèta, in
cui l'eroe sognava di trovare la felicità, era una beffa; e
quando l'ha toccata, egli non si trova meglio di prima.
Poiché una vera, durevole felicità non è
possibile, non può nemmeno essere oggetto dell'arte. È
vero, che l'idillio precisamente si propone di rappresentarla: ma si
vede, appunto, che l'idillio come tale non si può reggere.
Sempre, nelle mani del poeta, o diventa epico, ed è allora
semplicemente un epos di poco rilievo, intessuto di piccoli dolori,
piccole gioie, e piccoli sforzi: e questo è il caso
più frequente; o si riduce a poesia descrittiva, descrive la
bellezza della natura, cioè propriamente il puro conoscere
fuor della volontà, che invero è in effetti il solo
bene reale, cui né sofferenza né bisogno precede,
né rimorso, né dolore, né vuoto, né
tedio necessariamente segue. Ma un tal bene non può riempir
tutta la vita, bensì appena qualche istante. Quel che vediamo
nella poesia, ritroviamo nella musica, nella cui melodia già
riconoscemmo, genericamente espressa, la più intima storia
della volontà resa consapevole di sé, la più
segreta vita, aspirazione, sofferenza, gioia, il flusso e riflusso
dell'umano cuore. La melodia è sempre una deviazione dal tono
fondamentale, con mille strani andirivieni, fino alla più
dolorosa dissonanza, indi ritorna da ultimo al tono fondamentale,
che esprime l'appagamento e il rasserenarsi della volontà, ma
col quale non c'è più in seguito altro da fare, e
prolungato a lungo genererebbe solo una pesante e inespressiva
monotonia, analoga alla noia.
Tutto quanto dovevano chiarire queste considerazioni,
l'irraggiungibilità di durevole soddisfazione e il valore
negativo d'ogni felicità, trova spiegazione in ciò
ch'è mostrato alla fine del secondo libro; che cioè la
volontà, di cui è oggettivazione la vita umana come
ogni fenomeno, è un aspirar senza mèta e senza fine.
L'impronta di questa infinità troviamo stampata anche in
tutte le parti del suo intero fenomeno, dalla forma più
generale di questo, spazio e tempo senza fine, al più
perfetto di tutti i fenomeni, alla vita e all'ansia degli uomini. Si
possono teoricamente ammettere tre estremi della vita umana, e
considerarli come elementi della vita realmente umana. In primo
luogo, il poderoso volere, le grandi passioni (Ragia-Cuna).
Apparisce nei grandi caratteri storici; è rappresentato
nell'epos e nel dramma: ma può mostrarsi anche in una piccola
sfera, perché la grandezza degli oggetti si misura qui solo
secondo il grado, in cui quelli muovono la volontà, e non
secondo i loro rapporti esterni. Indi, in secondo luogo, il puro
conoscere, il percepir le idee, che ha per condizione una conoscenza
emancipata dal servigio della volontà: la vita del genio
(Sattva-Guna). Finalmente, in terzo luogo, la massima letargia della
volontà, e quindi della conoscenza che ne dipende: vuota
aspirazione, paralizzante noia (Tama-Guna). La vita individuale,
lungi dal permanere in uno di codesti estremi, appena raramente li
tocca, ed il più spesso non è che fiacco e vacillante
appressarsi ora a questa ora a quella parte, un povero volere
oggetti meschini, che ognora si rinnova e così ci sottrae
alla noia. È davvero incredibile, come insignificante e priva
di senso, vista dal di fuori, e come opaca e irriflessiva, sentita
dal di dentro, trascorra la vita di quasi tutta l'umanità.
È un languido aspirare e soffrire, un sognante traballare
attraverso le quattro età della vita fino alla morte, con
accompagnamento d'una fila di pensieri triviali. Gli uomini
somigliano a orologi, che vengono caricati e camminano, senza sapere
il perché; ed ogni volta, che un uomo viene generato e
partorito, è l'orologio della vita umana di nuovo caricato,
per ancora una volta ripetere, frase per frase, battuta per battuta,
con variazioni insignificanti, la stessa musica già infinite
volte suonata. Ciascun individuo, ciascun volto umano e ciascuna
vita non è che un nuovo breve sogno dell'infinito spirito
naturale, della permanente volontà di vivere; non è
che una nuova immagine fuggitiva, che la volontà traccia per
gioco sul foglio infinito dello spazio e del tempo, lasciandola
durare un attimo appena percettibile di fronte all'immensità
di quelli, e poi cancellandola, per dar luogo ad altre. Nondimeno, e
in ciò è l'aspetto grave della vita, ognuna di tali
immagini fugaci, ognuno di tali insipidi capricci dev'essere pagato
dalla intera volontà di vivere, in tutta la sua violenza, con
molti e profondi dolori, e in ultimo con un'amara morte, a lungo
temuta, finalmente venuta. Per questo ci fa così subitamente
malinconici la vista d'un cadavere.
La vita d'ogni singolo, se la si guarda nel suo complesso,
rilevandone solo i tratti significanti, è sempre invero una
tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha il carattere della
commedia. Imperocché l'agitazione e il tormento della
giornata, l'incessante ironia dell'attimo, il volere e il temere
della settimana, gli accidenti sgradevoli d'ogni ora, per
virtù del caso ognora intento a brutti tiri, sono vere scene
di commedia. Ma i desideri sempre inappagati, il vano aspirare, le
speranze calpestate senza pietà dal destino, i funesti errori
di tutta la vita, con accrescimento di dolore e con morte alla fine,
costituiscono ognora una tragedia. Così, quasi il destino
avesse voluto aggiungere lo scherno al travaglio della nostra
esistenza, deve la vita nostra contenere tutti i mali della
tragedia, mentre noi non riusciamo neppure a conservar la
gravità di personaggi tragici, e siamo invece
inevitabilmente, nei molti casi particolari della vita, goffi tipi
da commedia.
Ma per quanto i grossi e piccoli tormenti riempiano ogni vita umana,
tenendola in perenne inquietudine e moto, non possono tuttavia
coprir l'insufficienza della vita rispetto alla soddisfazione dello
spirito, e il vuoto e l'insulsaggine dell'esistenza, né
bandire la noia, ch'è sempre pronta a empire ogni pausa
lasciata dall'angoscia. Di là è venuto, che lo spirito
umano, non ancora contento delle angosce, amarezze e occupazioni
impostegli dal mondo reale, si crea per di più, in forma di
mille variate superstizioni, un mondo immaginario, col quale si
affatica in tutti i modi, dissipandovi e tempo e forze, non appena
il mondo reale gli lasci un riposo ch'egli non sa gustare. Codesto
è anche spessissimo, in origine, il caso di quei popoli, cui
la dolcezza del clima e del suolo fa agevole la vita; soprattutto
degli Indù, e poi dei Greci, dei Romani, e più tardi
degl'Italiani, Spagnuoli e così via. Demoni, Dei e santi si
crea l'uomo a propria immagine; a essi devono incessantemente venire
tributati sacrifizi, preci, adornamento di templi, voti e
conseguenti offerte, pellegrinaggi, saluti, addobbo delle loro
immagini, etc. Il loro culto s'intreccia dappertutto con la
realtà, anzi l'oscura: ogni avvenimento della vita vien preso
allora come un effetto dell'azione di quegli esseri: i rapporti con
loro riempiono metà della vita, alimentano diuturnamente la
speranza e diventano spesso, pel fascino dell'illusione, più
interessanti dei rapporti con la vita reale. Sono l'espressione e il
sintomo del doppio bisogno, che spinge l'uomo da una parte verso
aiuto e sostegno, dall'altra verso occupazione e passatempo: e
quand'anche operino spesso all'opposto contro il primo di codesti
bisogni, facendo sì che, in caso di sventure e pericoli,
vengano e tempo prezioso e forze non già usati a
difendersene, bensì vanamente sciupati in preghiere e
sacrifizi, appunto per questo servono ancor meglio al secondo
bisogno, mediante quella fantastica comunicazione con un sognato
mondo di spiriti. E questo è il frutto, tutt'altro che
disprezzabile, d'ogni superstizione.
§ 59.
Siamo ormai persuasi a priori, per le generalissime considerazioni
fatte, per avere investigato i primi fondamenti elementari della
vita umana, che questa già per sua generica disposizione
è incapace d'ogni vera felicità, anzi è
essenzialmente un dolore in molteplici forme, e uno stato al tutto
infelice. Potremmo adesso suscitare questa persuasione molto
più vivacemente in noi, se, procedendo più a
posteriori, venissimo a esaminare casi meglio determinati,
presentassimo immagini alla fantasia, e volessimo con esempi
raffigurare il martirio senza nome, che esperienza e storia ci
offrono, da qualunque parte si guardi, e sotto qualsivoglia aspetto
s'investighi. Ma il capitolo non avrebbe mai fine, e ci
allontanerebbe dal punto di vista della generalità, che
è essenziale alla filosofia. Inoltre una cotale analisi
potrebb'esser forse tenuta per semplice declamazione sull'umana
miseria, come se ne son fatte tante, e come tale accusata d'essere
unilaterale, perché procederebbe da fatti singoli. Da codesto
rimprovero e sospetto va perciò esente la nostra affatto
fredda e filosofica dimostrazione, procedente dall'universale, e
condotta a priori, dell'inevitabile dolore radicato nell'essenza
della vita. La conferma a posteriori è facile averla
dovunque. Ciascuno, che si sia svegliato dai primi sogni di
giovinezza, e abbia osservato la propria e l'altrui esperienza, e
guardato intorno nella vita, nella storia del passato e del tempo
suo, come infine nelle opere dei grandi poeti, troverà per
risultanza, quando un pregiudizio incancellabilmente impresso non
paralizzi il suo giudizio, che quest'umano mondo è il regno
del caso e dell'errore, i quali senza pietà vi imperano,
nelle grandi come nelle piccole cose; e accanto a quelli agitano
inoltre follia e malvagità la sferza. Di là deriva,
che ogni cosa buona si faccia strada solo a fatica, e
alcunché di nobile e di saggio ben raramente venga alla luce,
raggiungendo efficacia o attenzione; mentre l'assurdo e lo stolto
nel dominio del pensiero, il triviale e lo scipito nel dominio
dell'arte, il malvagio e l'insidioso nel dominio delle azioni, soli
tengono il campo, appena turbati da brevi interruzioni. E viceversa
l'eccellenza in ogni genere è sempre un'eccezione, un caso
tra milioni; sì che, quando s'è manifestata in
un'opera durevole, questa, dopo esser sopravvissuta al rancore dei
suoi contemporanei, rimane isolata, e la si conserva come un
aerolite, caduto da un ordine di cose diverso da quello che qui
regna. Per ciò che tocca poi la vita individuale, ogni storia
di vita è una storia di dolore; che ogni corso vitale
è, di regola, una prolungata serie di grandi e piccole
sventure, che ciascuno cela del suo meglio, perché sa come
altri raramente ne proverebbero simpatia o compassione, bensì
quasi sempre soddisfazione, vedendo un'immagine delle pene da cui
sono essi in quel momento immuni. E forse non si darà mai il
caso che un uomo, al termine della sua vita, se capace di
riflessione e in pari tempo sincero, desideri di ricominciarla; ma
invece ben più volentieri sceglierà il completo non
essere. Il contenuto essenziale del celeberrimo monologo nell'Amleto
è, ridotto in breve, questo: il nostro stato è
così miserabile, che un completo non essere dovrebbe
senz'altro essergli preferito. Ora, se il suicidio ci portasse
veramente al non essere, sì che l'alternativa «essere o
non essere» ci stesse innanzi nel pieno significato della
parola, sarebbe assolutamente da scegliere, come una
desiderabilissima conclusione (a consummation devoutly to be
wish'd). Ma in noi è qualcosa, che ci dice, non stare il
fatto così; tutto non sarebbe finito, la morte non è
un assoluto annientamento. Corrisponde a ciò quanto attesta
il padre della storia44, né mai fu contraddetto da allora,
non essere esistito uomo alcuno, il quale più d'una volta non
abbia desiderato di non vedere il dì seguente. Quindi la
brevità della vita, tanto spesso lamentata, potrebbe forse
essere quel che la vita ha di meglio. Se finalmente a ciascuno si
volessero porre sottocchio gli orrendi dolori e strazi, a cui
è la sua vita perennemente esposta, lo coglierebbe
raccapriccio: e se si conducesse il più ostinato ottimista
attraverso gli ospedali, i lazzaretti, le camere di martirio
chirurgiche, attraverso le prigioni, le stanze di tortura, i recinti
degli schiavi, pei campi di battaglia e i tribunali, aprendogli poi
tutti i sinistri covi della miseria, ove ci si appiatta per
nascondersi agli sguardi della fredda curiosità, e da ultimo
facendogli ficcar l'occhio nella torre della fame di Ugolino,
certamente finirebbe anch'egli con l'intendere di qual sorte sia
questo meilleur des mondes possibles. Donde ha preso Dante la
materia del suo Inferno, se non da questo nostro mondo reale? E
nondimeno n'è venuto un inferno bell'e buono. Quando invece
gli toccò di descrivere il cielo e le sue gioie, si
trovò davanti a una difficoltà insuperabile: appunto
perché il nostro mondo non offre materiale per un'impresa
siffatta. Perciò non gli rimase se non trasmetterci, in luogo
delle gioie paradisiache, gli ammaestramenti, che a lui furono
colà impartiti dal suo antenato, dalla sua Beatrice, e da
differenti santi. Da ciò apparisce abbastanza chiaro, di qual
natura sia questo mondo. È vero bensì che nella vita
umana, come in ogni cattiva mercanzia, il lato esterno è
mascherato con falso splendore: sempre si cela ciò che
soffre; mentre quanto può ciascuno procacciarsi di pompa e di
lustro porta in evidenza, e quanto più interna contentezza
gli manca, tanto più desidera nell'opinione altrui passare
per felice. A tanto giunge la stoltezza: e l'opinione altrui
è una mira essenziale per le fatiche di tutti, sebbene la sua
completa insignificanza sia già di per sé espressa dal
fatto che in quasi tutte le lingue la parola vanità, vanitas,
significa in origine il vuoto e il nulla. Ma anche sotto codesto
orpello possono gli affanni della vita crescere in tal modo (e
ciò accade tutti i giorni), che la morte, d'ordinario temuta
soprattutto, viene ghermita con avidità. O addirittura, se il
destino vuol mostrare tutta la sua malizia, anche quel rifugio
può esser chiuso a chi soffre; e questi, nelle mani di nemici
infelloniti, rimanere esposto a lunghi, lenti martiri senza scampo.
Invano il tormentato chiede allora aiuto a' suoi Dei: rimane
implacabilmente in preda al suo destino. Ma codesta
impossibilità di scampo è appunto lo specchio
dell'indomabilità del suo volere, di cui è
oggettità la sua persona. Come non può una forza
esterna mutare o sopprimere questo volere, così non
può alcuna forza estranea liberarlo dai tormenti, che produce
la vita, la quale è fenomeno di quel volere. Sempre l'uomo
è ridotto a contar su se stesso, e in ogni cosa e nella
sostanza delle cose. Invano si forma Dei, per mendicare e carpire
con adulazioni ciò che solo può dargli la sua forza di
volontà. Se il Vecchio Testamento aveva fatto del mondo e
dell'uomo l'opera d'un Dio, si vide il Nuovo Testamento costretto,
per insegnar che salvezza e redenzione dal dolore di questo mondo
può solo dal mondo stesso partire, a far di quel Dio un uomo.
La volontà dell'uomo è, e rimane, ciò da cui
tutto per l'uomo dipende. Saniassi, martiri, santi d'ogni fede e
nome, hanno spontaneamente e volentieri sofferti quei martiri,
perché era in loro soppressa la volontà di vivere; fin
la lenta distruzione del suo fenomeno fu quindi a loro gradita. Ma
non voglio anticipare il discorso che dovrà venire in
seguito. Non posso però tenermi dal dichiarare, che a me
l'ottimismo, quando non sia per avventura il vuoto cianciar di
cotali sotto la cui piatta fronte non altro alberga se non parole,
sembra non pure un pensare assurdo, ma anche iniquo davvero, un
amaro scherno dei mali senza nome patiti dall'umanità.
Né si pensi, poi, che la fede cristiana sia favorevole
all'ottimismo; che per contro negli Evangeli le parole mondo e male
sono usate quasi come sinonimi45.
§ 60.
Or che abbiamo terminate entrambe le spiegazioni, ch'era necessario
intercalare, intorno alla libertà della volontà in
sé, insieme con la necessità del suo fenomeno, e
intorno alla sorte di lei nel mondo, che ne rispecchia l'essenza
(mondo nella cognizion del quale ella deve affermarsi o negarsi); or
possiamo portare a maggior chiarezza quest'affermazione o negazione,
che più indietro esaminammo e spiegammo sol genericamente,
con l'esporre le maniere di condotta, in cui quelle trovano la loro
espressione, e considerarle nel loro intimo significato.
L'affermazione della volontà è il volere stesso
permanente, non turbato da nessuna conoscenza, qual suol riempire la
vita dell'uomo in generale. Essendo già il corpo dell'uomo
l'oggettità della volontà, quale questa appare in un
dato grado e in un dato individuo; così il suo volere
svolgentesi nel tempo è quasi la parafrasi del corpo, il
commento che illustra il senso del tutto e delle sue parti; è
un altro modo di presentarsi della stessa cosa in sé, di cui
è già fenomeno anche il corpo. Potremmo quindi, invece
che affermazione della volontà, dire affermazione del corpo.
Il tema fondamentale di tutti gli svariati atti di volontà
è il soddisfacimento dei bisogni, che dall'esistenza
corporale nella sua salute sono inseparabili, e già nel corpo
hanno la loro espressione e si riducono alla conservazione
dell'individuo, alla continuazione della specie. Ma mediatamente,
per questo mezzo, i più molteplici motivi acquistano impero
sulla volontà, e producono i più diversi atti di
volontà. Ognuno di questi è solo un saggio, un
esempio, della volontà generica qui manifestantesi: di qual
natura sia tal saggio, qual parvenza abbia il motivo e quale
comunichi ad esso, non è distinzione essenziale; essenziale
è soltanto, che alcunché si voglia, e
l'intensità del volere. La volontà può diventar
visibile solo in relazione coi motivi, come l'occhio soltanto nella
luce mostra la sua forza visiva. Il motivo sta davanti alla
volontà come un multiforme Proteo: promette ognora piena
soddisfazione, estinzione della sete della volontà; ma una
volta raggiunto, eccolo tosto riapparire in altra forma, ed in essa
eccitar daccapo la volontà, sempre secondo il grado di
vivezza che questa possiede, e la sua relazione con la conoscenza;
grado e relazione, che appunto mediante codesti saggi ed esempii
diventano palesi come carattere empirico.
Fin dall'inizio della sua conscienza, l'uomo si trova in atto di
volere, e la sua conoscenza rimane di regola in costante relazione
con la sua volontà. Egli cerca dapprima di conoscere appieno
gli oggetti del volere, quindi i mezzi per raggiungerli. Fatto
questo, sa quel che gli tocca di fare, e d'ordinario non tende ad
altro sapere. Attivamente agisce: la conscienza di lavorar sempre
per lo scopo della sua volontà lo regge e mantiene operoso:
il suo pensiero va soltanto alla scelta dei mezzi. Tale è la
vita di quasi tutti gli uomini: vogliono, sanno ciò che
vogliono, vi tendono con tanto successo, quanto basta a proteggerli
dalla disperazione, e con tanto insuccesso, quanto occorre a
proteggerli dalla noia e dalle sue conseguenze. Di là viene
una certa letizia, o almeno tranquillità, a cui né
ricchezza né povertà nulla propriamente tolgono: che
il ricco e il povero godono non ciò ch'essi hanno, che, come
s'è mostrato, agisce sol negativamente; ma ciò che con
la loro attività sperano di conseguire. Vanno innanzi dandosi
da fare, con molta gravità, e anzi con aria d'importanza: non
altrimenti fanno i loro giuochi i ragazzi. È sempre
un'eccezione, quando il corso d'una tal vita è deviato per
effetto d'un conoscere indipendente dal servigio della
volontà, e rivolto all'essenza del mondo in genere: sia che
se ne produca il bisogno estetico della contemplazione, o il bisogno
morale della rinunzia. I più incalza attraverso l'esistenza
il travaglio, senza lasciare loro tempo a riflessione. Sovente,
all'opposto, la volontà s'infiamma ad un grado, che di gran
lunga trascende l'affermazione del corpo: grado che poi vivaci
slanci e poderose passioni rivelano, nelle quali l'individuo non
pure afferma il suo proprio essere, ma quel degli altri nega, e
cerca di sopprimere, dove gl'intralcia la via.
La conservazione del corpo mediante le sue stesse forze è un
così minimo grado dell'affermazione della volontà, che
se ci si fermasse volontariamente a questo, noi potremmo ritener
cessata, con la morte del corpo, anche la volontà che in esso
si manifestava. Ma già la soddisfazione dell'istinto sessuale
va oltre l'affermazione della nostra esistenza, la quale empie un
sì breve spazio di tempo, e afferma la vita oltre la morte
individuale, per un tempo indefinito. La natura, sempre vera e
conseguente, e in questo punto addirittura ingenua, ci disvela
apertamente l'intimo significato dell'atto generativo. La nostra
conscienza, la vivacità dell'istinto, c'insegna che in
codesto atto s'esprime la più risoluta affermazione della
volontà di vivere, pura e senza ulteriore aggiunta (come per
avventura sarebbe la negazione d'altri individui); e così nel
tempo e nella serie causale, ossia nella natura, appare quale
effetto dell'atto una nuova vita: di contro al generatore viene a
porsi il generato, diverso da quello nel fenomeno, ma in sé,
nell'idea, identico ad esso. È quindi per codesto atto, che
le generazioni dei viventi si collegano l'una con l'altra in un
tutto, e si perpetuano. La generazione è, per ciò che
tocca il generante, semplice espressione e simbolo della sua
risoluta affermazione della volontà di vivere; per ciò
che tocca invece il generato, essa non è punto la cagione
della volontà che in lui si manifesta, non conoscendo la
volontà in sé né vera causa sostanziale,
né effetto; bensì è, come ogni causa, soltanto
l'occasione pel manifestarsi di codesta volontà in un dato
tempo e in un dato luogo. In quanto cosa in sé, non è
la volontà del generante diversa da quella del generato: che
unicamente il fenomeno, e non la cosa in sé, è
soggetto al principio individuationis. Con quell'affermazione che va
oltre il nostro corpo, fino alla produzione fenomenica di un corpo
nuovo, sono anche dolore e morte, in quanto appartenenti al fenomeno
della vita, novellamente affermati; e la possibilità della
redenzione, che può venir da una più perfetta
capacità di conoscere, è in tal caso proclamata
infeconda. Qui sta la profonda ragione della vergogna onde si cela
il traffico generativo. Questo concetto è rappresentato
miticamente nel dogma della dottrina cristiana, secondo il quale noi
tutti siamo partecipi del peccato di Adamo (che evidentemente non
era se non la soddisfazione della voglia sessuale), e per esso
andiamo soggetti a soffrire e morire. Con ciò quella dottrina
va oltre il modo di vedere fondato sul principio di ragione, e
penetra l'idea dell'uomo; l'unità della quale viene
ricostituita dal suo frazionamento negl'innumerevoli individui,
mediante il vincolo della generazione che tutti li riunisce. Vede
così da un lato ogni individuo come identico ad Adamo, al
rappresentante dell'affermazione della vita, e in questa
qualità destinato al peccato (peccato originale), al dolore,
e alla morte: dall'altro lato, la conoscenza dell'idea le fa
apparire ogni uomo come identico al Redentore, a quegli che
rappresenta la negazione della volontà di vivere, e sotto
questo rispetto partecipe del sacrificio di Lui, per merito di Lui
redento, e salvato dai vincoli del peccato e della morte, ossia del
mondo (Epist. ai Romani, 5, 12-21).
Un'altra mitica rappresentazione del nostro concetto intorno
all'appagamento sessuale, visto come affermazione della
volontà di vivere di là dalla vita individuale, come
un lasciarsi cader preda della vita con quell'atto, o quasi come un
rinnovato impegno verso la vita stessa, è il mito greco di
Proserpina; alla quale era ancor possibile il ritorno dal mondo
sotterraneo, fintanto che ella non ne avesse gustati i frutti: ma
che a quel mondo appartenne intera, non appena ebbe gustata la
melagrana. Dall'incomparabile narrazione, che Goethe fa di questo
mito, ne risulta ben chiaro il significato, soprattutto quando,
immediatamente dopo l'assaggio della melagrana, improvviso irrompe
l'invisibile coro delle Parche:
Tu sei nostra!
Digiuna dovevi ritornare:
Ed il morso nel pomo ti fa nostra46.
È notevole che Clemente Alessandrino (Strom., ni, e. 15)
esprima la cosa con la stessa immagine e gli stessi termini: Οί μεν
ευνουχισαντες ὲαυτους απο πασης αμαρτιας, δια την βασιλειαν των
ουρανων, μακαριοι ούτοι εισιν, οι̃ του κοσμου νηστευοντες (Qui se
castrarunt ab omni peccato, propter regnum coelorum, ii sunt beati,
a mundo jejunantes).
L'istinto sessuale si conferma essere la risoluta, la più
forte affermazione della vita, anche pel fatto che per l'uomo
naturale, come per l'animale, esso è il fine ultimo, il
supremo scopo della vita sua. Sua prima aspirazione è
conservar se stesso: e non appena v'ha provveduto, non tende
più ad altro che alla continuazione della specie: più
in là di questo non può, in quanto semplice essere
naturale, aspirare. Anche la natura, la cui essenza intima è
appunto la volontà di vivere, trascina con ogni sua possa
l'uomo, come l'animale, alla continuazione della specie. Ella ha con
ciò raggiunto lo scopo, a cui l'individuo poteva servirle, ed
è oramai affatto indifferente al suo perire; che a lei, come
alla volontà di vivere, soltanto la conservazione della
specie importa, e l'individuo è un nulla. Poiché
nell'istinto sessuale l'intima essenza della natura, la
volontà di vivere, nel modo più forte si palesa,
dissero gli antichi poeti e filosofi – Esiodo e Parmenide – con
molto senso, che Eros è il Primo, il Creatore, il Principio,
dal quale ebbero origine tutte le cose. (Si vegga Arist. Metaph., i,
4). Ferecide ha detto: Εις ερωτα μεταβεβλησθαι τον Δια, μελλοντα
δημιουργειν (Jovem, cum mundum fabricare vellet, in cupidinem sese
transformasse). Proclus ad Plat. Tim. 1. III. Un'estesa trattazione
di questo soggetto abbiamo avuta di recente da G. F. Schoemann, De
cupidine cosmogonica, 1852. Anche la Maja degl'Indiani, della quale
è opera e tessuto l'intero mondo apparente, viene parafrasata
con la parola amor.
I genitali sono, molto più di qualsivoglia altra parte del
corpo, alla semplice volontà e non alla conoscenza soggetti:
anzi, la volontà vi si mostra pressoché altrettanto
indipendente dalla conoscenza, quanto nelle parti che, dietro
semplici stimoli, servono alla vita vegetativa, alla riproduzione;
parti in cui la volontà agisce cieca, come nella natura priva
di conoscenza. Imperocché il generare non è che una
riproduzione trapassata in un nuovo individuo, quasi riproduzione in
seconda potenza, come la morte non è che escrezione in
seconda potenza. In conseguenza di tutto ciò i genitali sono
il vero e proprio fuoco della volontà, e quindi il polo
opposto al cervello, al rappresentante della conoscenza, ossia
all'altra parte del mondo, al mondo come rappresentazione. Quelli
sono il principio conservatore della vita, che vita senza fine
assicura al tempo; e in tal qualità furon dai Greci venerati
nel Phallus, dagl'Indiani nel Lingam, i quali sono adunque il
simbolo dell'affermazione della volontà. La conoscenza invece
rende possibile la soppressione del volere, la redenzione mediante
libertà, il superamento e l'annientamento del mondo.
Già al principio di questo quarto libro abbiamo estesamente
studiato, come la volontà di vivere abbia da guardare nella
sua affermazione il proprio rapporto con la morte: questa non la
tocca, perché sta nella vita come alcunché d'implicito
in lei, e che a lei spetta. Alla morte fa da eguale contrappeso il
suo opposto, la generazione; la quale, malgrado la morte
dell'individuo, assicura e garantisce per sempre la vita alla
volontà di vivere. Per ciò esprimere, diedero
gl'Indiani il Lingam come attributo al Dio della morte Shiva.
Colà abbiamo pure dimostrato come chi stia con piena
consapevolezza fermo nella risoluta affermazione della vita, guarda
senza paura la morte.
Su ciò adunque non altre parole. Senza chiara consapevolezza,
la maggior parte degli uomini è di questo sentimento, e
afferma costantemente la vita. Come specchio di tale affermazione
sussiste il mondo, con individui innumerabili, in tempo infinito e
infinito spazio, e infinito dolore, tra generazione e morte senza
fine. Ma di ciò da nessuna parte è lecito alzare altri
lamenti: perché la volontà esegue a sue spese la
grande tragedia e commedia, ed è anche il suo proprio
spettatore. Il mondo è per l'appunto quello che è,
perché la volontà, di cui esso è fenomeno,
è quella che è; perché la volontà
così vuole. Per i dolori la giustificazione è che la
volontà anche quivi afferma se stessa; e quest'affermazione
è giustificata e compensata dal fatto, che la volontà
quei dolori patisce. Ci si apre già qui un'occhiata sulla
eterna giustizia, in complesso; in seguito la conosceremo più
da vicino e più chiaramente anche nel particolare. Tuttavia
occorre prima parlare della giustizia temporale o umana47.
§ 61.
Ci sovviene, dal secondo libro, che nella natura intera, in ogni
grado dell'oggettivazione della volontà, necessariamente era
una lotta perenne tra gli individui di tutte le specie, e con
ciò appunto si esprimeva un intimo contrasto della
volontà di vivere con se medesima. Nel grado supremo
dell'oggettivazione anche quel fenomeno si presenterà, come
ogni altro, con maggiore chiarezza, e si lascerà quindi
indagare più addentro. A tal fine andremo in primo luogo a
rintracciar nella sua sorgente l'egoismo, quale origine di tutte le
lotte.
Tempo e spazio chiamammo principium individuationis, perché
sol per loro mezzo, ed in loro, è possibile pluralità
dell'identico. Sono le forme essenziali della conoscenza naturale,
ossia procedente della volontà. La volontà deve quindi
manifestarsi ovunque in pluralità d'individui. Ma questa
pluralità non tocca la volontà in sé,
bensì i suoi fenomeni: è intera e indivisa in ciascuno
di essi, e si vede intorno innumerabili volte ripetuta l'immagine
della sua propria essenza. Ma codesta, ch'è la vera
realtà, ella non trova tuttavia direttamente se non dentro di
sé. Perciò vuole ciascuno aver tutto per sé,
vuol tutto possedere, o almeno dominare, ed ogni cosa, che gli si
opponga, vorrebbe distruggere. A ciò s'aggiunge, negli esseri
conoscenti, che l'individuo rappresenta il soggetto conoscente,
contiene cioè il mondo intero; ossia, che tutta la natura
all'infuori di lui, e quindi anche tutti i rimanenti individui,
esistono soltanto nella sua rappresentazione; soltanto come di sua
rappresentazione egli n'è consapevole, ossia sol
mediatamente, e come d'alcunché dipendente dal suo proprio
essere individuale; che venendogli meno la conscienza, per
necessità gli vien meno anche il mondo; vale a dire,
l'esistere o non esistere di questo diventano per lui termini
equivalenti e non distinguibili. Ogni individuo conoscente è
adunque in verità, e si riconosce per tale, tutta intera la
volontà di vivere, ovvero l'in-sé del mondo medesimo;
ed è anche la condizione integrante del mondo quale
rappresentazione. È per conseguenza un microcosmo, che s'ha
da valutare egualmente come il macrocosmo. La natura stessa, sempre
e ovunque veritiera, fin dall'origine e all'infuori d'ogni
riflessione gli fa semplicemente e direttamente sicura tale
conoscenza. Ora, con entrambe le necessarie determinazioni
surriferite si spiega come ogni individuo, per quanto infinitamente
piccolo nello sterminato mondo e quasi evanescente nel nulla, si
faccia nondimeno centro dell'universo, la propria esistenza e il
proprio benessere consideri innanzi a ogni altra cosa, anzi, dal
punto di vista naturale, ogni altra cosa sia pronto a sacrificare a
codesta esistenza; pronto a distruggere il mondo, sol per conservare
un po' più a lungo il suo proprio io, che è appena una
goccia nel mare. Tale disposizione è l'egoismo, proprio
d'ogni cosa nella natura. Ma esso è pure la via, per cui
l'interno contrasto della volontà con se medesima perviene
alla più terribile manifestazione. Imperocché questo
egoismo si fonda per essenza sul riferito antagonismo tra microcosmo
e macrocosmo: cioè sul fatto che l'oggettivazione della
volontà ha per forma il principium individuationis, sì
che la volontà in egual modo si riflette in numero infinito
d'individui; intera e compiuta sotto i due aspetti (volontà e
rappresentazione) in ciascuno di essi. Mentre adunque ogni individuo
è dato a se medesimo, direttamente, come tutta quanta la
volontà e tutta quanta la capacità rappresentativa, i
rimanenti individui gli son dati sol come rappresentazioni sue;
perciò importa a lui il proprio essere e la propria
conservazione più di tutto l'altro insieme. Alla propria
morte guarda ciascuno come alla fine del mondo, e invece accoglie
come una cosa abbastanza indifferente quella dei suoi conoscenti,
s'egli non v'è per avventura interessato di persona. Nella
conscienza salita al suo più alto grado, la conscienza umana,
deve anche l'egoismo, come la conoscenza, il dolore, la gioia, aver
toccato il vertice più alto, e deve nel modo più
terribile palesarsi il contrasto degli individui, da esso
determinato. Ciò vediamo dappertutto, nel piccolo come nel
grande; ciò vediamo ora sotto l'aspetto terrificante, nella
vita di grandi tiranni e uomini scellerati, e nelle guerre che
devastano il mondo, ora sotto l'aspetto ridicolo, dov'è fatto
tema di commedia; e in particolar modo si rivela nella presunzione e
nella vanità, le quali Rochefoucault ha come nessun altro
colto e rappresentato in abstracto: tale ci appare nella storia del
mondo e nella nostra propria esperienza. Ma nel modo più
evidente balza fuori, non appena una qualche turba di uomini sia
sciolta da ogni legge e ordinamento: allora si mostra subitamente
con tutta evidenza il bellum omnium contra omnes, che Hobbes, nel
primo capitolo De cive, mirabilmente ha descritto. Appare, che non
soltanto ciascuno cerca di rapire all'altro ciò ch'egli
stesso vuol avere, ma spesso addirittura v'ha chi, per accrescere
d'un trascurabile incremento il proprio benessere, tutto il bene o
la vita dell'altro distrugge. Questa è l'espressione suprema
dell'egoismo, i cui fenomeni, sotto tale rispetto, possono venir
superati soltanto da quelli della malvagità vera e propria,
la quale affatto disinteressatamente, senz'alcun proprio vantaggio,
cerca il danno e il dolore altrui. Ma di ciò in seguito. Con
questo scoprimento della fonte dell'egoismo si ponga a riscontro la
descrizione di esso, fatta nella mia memoria per concorso a premio,
intorno al fondamento della morale, § 14.
Una tra le principali sorgenti del dolore, il quale abbiamo veduto
essenzialmente ed inevitabilmente connaturato a tutta la vita, non
appena questa in realtà e con determinata figura si mostri,
è quella Eris, la lotta fra gl'individui tutti, l'espressione
del dissidio interiore, da cui è travagliata la
volontà di vivere, e che per mezzo del principii
individuationis viene alla luce: mezzo barbaro di render visibile
direttamente e crudamente tale dissidio sono le lotte tra gli
animali. In questo originario contrasto risiede una sorgente
inesauribile di dolore, malgrado le misure che si son prese per
combatterlo, e che ora esamineremo da vicino.
§ 62.
Fu già spiegato, che la prima e semplice affermazione della
volontà di vivere non è se non l'affermazione del
proprio corpo, ossia esplicazione della volontà mediante atti
nel tempo, fin dove il corpo, nella sua forma e natura disposta a'
suoi fini, rappresenta la stessa volontà spazialmente – e non
oltre. Codesta affermazione si dimostra sotto specie di
conservazione del corpo, usando a ciò tutte le forze di esso.
A lei si collega direttamente la soddisfazione dello stimolo
sessuale; anzi, questa appartiene a quella, in quanto i genitali al
corpo appartengono. Perciò la volontaria, da nessun motivo
determinata rinunzia alla soddisfazione di quello stimolo, è
già un rinnegar la volontà di vivere, è una
spontanea autosoppressione di esso stimolo in seguito a sopravvenuta
conoscenza che agisce come quietivo: perciò tal rinnegamento
del proprio corpo si presenta già come un'opposizione della
volontà contro il suo proprio fenomeno. Imperocché
sebbene qui il corpo oggettivi nei genitali la volontà della
propagazione, questa non viene tuttavia voluta. Appunto
perciò, ossia per essere rinnegamento o soppressione della
volontà di vivere, tale rinunzia è una grave e
dolorosa vittoria su noi stessi; ma di questo sarà detto in
seguito. Ora, mentre la volontà presenta
quell'autoaffermazione del proprio corpo in un numero infinito
d'individui coesistenti, può, in grazia dell'egoismo
connaturato in ciascuno, molto facilmente in un individuo andar
oltre codesta affermazione, fino alla negazione della stessa
volontà, manifestantesi in un altro individuo. La
volontà del primo irrompe nei confini dell'altrui
affermazione di volontà, sia in quanto l'individuo l'altrui
corpo distrugge o ferisce, sia in quanto costringe le forze
dell'altrui corpo a servir la volontà propria, invece della
volontà che in quello stesso altrui corpo si palesa; come,
per esempio, quando alla volontà, palesantesi in forma
d'altrui corpo, le forze di codesto corpo sottrae, e con ciò
accresce la forza a servizio della volontà propria oltre i
termini naturali di questa; sì che afferma la volontà
propria oltre il suo proprio corpo, mediante negazione della
volontà manifestantesi in un corpo estraneo. Quest'irrompere
nei confini dell'altrui affermazione di volontà fu
chiaramente conosciuto dai più remoti tempi, e il suo
concetto espresso con la parola ingiustizia. Imperocché le
due parti interessate riconoscono istantaneamente la cosa; non
già, invero, come l'abbiamo qui esposta in limpida
astrazione, bensì come sentimento. Chi subisce l'ingiustizia
sente l'irromper nella sfera dell'affermazione del suo proprio
corpo, mediante negazione di essa da parte di un individuo estraneo,
sotto forma d'un dolore diretto e morale, affatto distinto e diverso
dal male fisico, provato in pari tempo per l'azione stessa, o dal
rammarico del danno. D'altra parte, a quegli che commette
l'ingiustizia si affaccia la cognizione ch'egli è, in
sé, la volontà medesima, la quale anche in quell'altro
corpo si manifesta, e nell'un fenomeno s'afferma con tale veemenza,
da farsi negazione appunto della volontà stessa nell'altro
fenomeno, oltrepassando i confini del proprio corpo e delle sue
forze; quindi egli, considerato come volontà in sé,
combatte per l'appunto con la sua veemenza contro se medesimo, se
medesimo dilania; anche a lui s'affaccia questa cognizione
istantaneamente, non già in astratto, ma come oscuro
sentimento: e questo è chiamato rimorso, ossia, più
precisamente nel caso sopraddetto, sentimento della commessa
ingiustizia.
L'ingiustizia, il cui concetto abbiamo così analizzato nella
più generica astrazione, si esprime in concreto nel modo
più compiuto, più caratteristico e più
tangibile col cannibalismo: questo è il suo tipo più
chiaro ed evidente, l'orrenda immagine del massimo contrasto della
volontà con se medesima, nel grado supremo della sua
oggettivazione, che è l'uomo. Subito dopo viene l'assassinio:
al cui compimento segue perciò il rimorso, del quale abbiamo
indicata or ora in maniera astratta e arida la significazione,
immediatamente, con terribile evidenza; ed alla pace dello spirito
reca un colpo insanabile per la vita intera; essendo il nostro
orrore per l'assassinio commesso, com'anche il nostro arretrarci
davanti all'assassinio da commettere, prodotto dallo sconfinato
attaccamento alla vita, che penetra ogni essere vivente, appunto in
quanto è fenomeno della volontà di vivere (del resto,
quel sentimento che accompagna l'atto dell'ingiustizia e del male
analizzeremo in seguito più distesamente, e innalzeremo alla
limpidità del concetto). Sostanzialmente identica
all'assassinio, e sol per grado diversa, è da considerarsi la
consapevole mutilazione, o anche semplice lesione del corpo altrui,
o addirittura ogni colpo infertogli. Inoltre si manifesta
l'ingiustizia nella sottomissione dell'altrui individuo, nel
costringerlo a schiavitù; e finalmente nell'attacco contro
l'altrui proprietà; il quale, ove la proprietà stessa
si consideri come frutto del lavoro dell'aggredito, è in
sostanza identico al ridurre a schiavitù. La spoliazione sta
alla schiavitù, come la semplice ferita sta all'assassinio.
Imperocché proprietà, la quale non si strappi all'uomo
senza ingiustizia, può, secondo la nostra spiegazione
dell'ingiustizia, esser soltanto quella che l'uomo ha conquistata
con le proprie forze: strappandogliela, veniamo a sottrarre le forze
del suo corpo alla volontà in codesto corpo oggettivata, per
farle servire alla volontà oggettivata in un altro corpo.
Invero l'autor dell'ingiustizia, mediante assalto non dell'altrui
corpo, ma di una cosa inanimata, da quel corpo affatto diversa,
irrompe tuttavia nella sfera dell'altrui affermazione di
volontà, solo in quanto con la cosa sono quasi confuse e
identificate le forze e l'attività del corpo stesso. Ne segue
che ogni genuino, ossia ogni morale diritto di proprietà,
poggia in origine unicamente sull'acquisto mediante il lavoro; come
già s'ammetteva press'a poco generalmente anche prima di
Kant, e addirittura come già esprime chiaramente e bellamente
il più antico di tutti i codici: «I saggi, cui è
nota l'antica età, dichiarano che un campo coltivato
appartiene a colui il quale ne rimosse gli sterpi, lo nettò
ed arò; come un'antilope appartiene al primo cacciatore che
l'abbia ferita a morte» – Leggi Manu, IX, 44. Solo con
l'affievolimento senile di Kant posso spiegarmi tutta la sua
dottrina del diritto, singolare intreccio di errori germinati l'un
dall'altro, ed il fatto ch'egli voglia fondare il diritto di
proprietà sulla presa di possesso. Come mai potrebbe la
semplice affermazione della mia volontà, d'escluder altri dal
possesso d'una cosa, costituire a ciò un immediato diritto?
È chiaro, che quest'affermazione abbisogna alla sua volta
d'una base di diritto; mentre invece Kant ammette ch'ella sia un
diritto di per sé. E in qual modo allora agirebbe con
ingiustizia, nel significato morale, colui il quale non rispettasse
quelle pretese all'esclusivo possesso di un oggetto, fondate
unicamente sulla lor propria dichiarazione? Perché dovrebbe
turbarlo in tal caso la sua coscienza? essendo tanto chiaro, e
facile a comprendere, che non vi può essere alcuna legittima
presa violenta di possesso, ma semplicemente una legittima
approvazione, conseguimento dell'oggetto, con l'impiegarvi forze che
originariamente ci appartengono. Quando, per esempio, un oggetto
viene mediante un qualsivoglia sforzo altrui, sia pur minimo,
coltivato, migliorato, protetto contro i rischi, conservato, e si
riducesse pur codesto sforzo a coglier dal ramo o sollevar dal suolo
un frutto selvatico, è palese che chi s'attacca secondo a
tale oggetto toglie al primo il risultato del lavoro ch'egli vi ha
speso, e fa che il corpo di questi serva alla propria
volontà, invece che a quella di lui, afferma la sua propria
volontà oltre la sfera del fenomeno a lei spettante, e nega
la volontà dell'altro: ossia, commette ingiustizia48.
Viceversa il semplice godimento d'un oggetto, senz'alcun lavoro o
difesa del medesimo contro la distruzione, non costituisce diritto
su di esso più che non costituisca diritto al possesso
esclusivo l'affermazione della propria volontà. Se quindi una
famiglia ha essa sola esercitata la caccia in una riserva, sia pure
durante un secolo, ma senz'avervi introdotto alcun miglioramento,
non può senza morale ingiustizia contrastarla a un intruso
straniero, che voglia per l'appunto colà andare a caccia. Il
cosiddetto diritto del primo occupante, secondo il quale per il
semplice godimento avuto di un oggetto si pretende di avere in
più anche una ricompensa, ossia un esclusivo diritto al
godimento futuro, è moralmente del tutto infondato. A chi su
esso unicamente s'appoggia potrebbe il nuovo venuto opporre con
molto miglior diritto: «Appunto perché tu già
sì a lungo ne hai goduto, è giusto che ora anche altri
ne godano». Di ogni cosa, che non si presti a lavoro alcuno,
sia per miglioramento, sia per difesa contro i rischi, non
può aversi esclusivo possesso moralmente fondato, se non
mediante volontaria cessione da parte di tutti gli altri, o come
ricompensa di servigi altrimenti prestati; il che già
presuppone una comunità governata da convenzioni, ossia lo
Stato. Il diritto di possesso moralmente fondato, quale s'è
dedotto più sopra, dà per sua natura al possessore un
diritto sulla cosa posseduta altrettanto illimitato, quanto è
quello ch'egli ha sul proprio corpo; ne viene, ch'egli può
trasmettere il suo possesso, per mezzo di cambio o donazione, ad
altri; i quali allora posseggono l'oggetto col suo medesimo diritto
morale.
Venendo a ciò che concerne in genere l'attuazione
dell'ingiustizia, questa può farsi mediante violenza, o
mediante insidia; che, dal punto di vista morale, sostanzialmente
sono la stessa cosa. In primo luogo è nell'assassinio
moralmente tutt'uno, se io mi servo del pugnale o del veleno; e
così in ogni lesione corporale. I rimanenti casi di
ingiustizia si posson tutti ridurre al fatto che io, con l'attuar
l'ingiustizia, obbligo l'individuo estraneo a servir la mia
volontà, in luogo della sua; ad agir secondo la mia, e non
secondo la sua. Tenendo la via della violenza, conseguo questo
risultato mediante causalità fisica; tenendo la via
dell'insidia, lo conseguo invece mediante motivazione, ossia
causalità procurata dalla conoscenza; col porre innanzi alla
volontà altrui motivi illusori, in virtù dei quali
l'individuo ingannato, credendo di seguir la volontà sua,
segue la mia. Poiché il terreno in cui stanno i motivi
è la conoscenza, io posso arrivare a quel risultato solo
falsando l'altrui conoscenza, e questa falsificazione è la
menzogna. Essa tende ognora a influire sull'altrui volontà; e
non sull'altrui conoscenza sola, in sé e in quanto tale, ma
sulla conoscenza come mezzo, ossia in quanto determina la
volontà. Imperocché il mio stesso mentire, procedendo
dalla mia volontà, ha bisogno d'un motivo: ma tale può
esser soltanto la volontà altrui, non l'altrui conoscenza in
sé e per sé; poi che questa come tale non può
aver mai un influsso sulla volontà mia, né, per
conseguenza, muoverla, né essere un motivo dei suoi fini:
bensì tale può essere unicamente l'altrui volere ed
agire; e l'altrui conoscenza invece non è tale se non
mediatamente. Ciò vale non solo per tutte le menzogne
sgorgate da un palese vantaggio personale, ma anche per quelle
prodotte da pura malvagità, la quale voglia pascersi delle
dolorose conseguenze d'un errore altrui da lei generato. Perfino la
semplice fanfaronata mira, mediante l'aumento di stima che ne viene,
o una più favorevole opinione da parte degli altri, ad
esercitare un'influenza più o meno grande sul loro volere ed
agire. Il rifiutarsi a dire una verità, ossia, in genere, a
un'asserzione, in sé non costituisce un torto; mentre invece
è tale ogni credito aggiunto a una menzogna. Chi allo
smarrito viandante si rifiuta d'additar la buona via, non gli fa
alcun torto; glielo fa quegli che lo mette sulla via falsa. Da
quanto s'è detto risulta che ogni menzogna, al pari d'ogni
violenza è, in quanto tale, torto; avendo in quanto tale per
fine di allargare il dominio della mia volontà su altri
individui, cioè di affermar la volontà mia negando la
loro, proprio come fa la violenza. Ma la più compiuta
menzogna è il patto infranto; perché quivi tutte le
determinazioni suriferite sono raccolte compiutamente e
limpidamente. Invero, quando io stringo un patto, la prestazione che
altri mi promette è, direttamente ed esplicitamente, il
motivo della mia, che dovrà tosto seguire. Le promesse
vengono scambiate consapevolmente, e in tutta forma. La
verità della dichiarazione fatta con quelle da ciascuno si
intende che stia in suo potere. Se l'altra parte rompe il patto,
essa m'ha ingannato e, insinuando nella mia conoscenza motivi solo
illusori, ha diretto la mia volontà secondo i propri fini, ha
esteso il dominio della volontà propria sopra un altro
individuo, e quindi ha compiuto una vera e propria ingiustizia. Su
ciò si fondano la legittimità morale e la
validità dei contratti. Ingiustizia mediante violenza non
è per chi la commette tanto obbrobriosa, quanto è
l'ingiustizia mediante insidia; perché quella attesta forza
fisica, la quale, in ogni circostanza, fa grande effetto sugli
uomini; mentre questa, andando per via obliqua, è prova di
debolezza, ed abbassa chi la compie, sì come individuo fisico
che come individuo morale; ancor più lo abbassa, in quanto
menzogna e inganno possono riuscire solo a condizione, che chi li
adopra manifesti in pari tempo ripugnanza e disprezzo verso tali
armi, per guadagnarsi fiducia, e la sua vittoria sta nel farsi
attribuire la lealtà che non possiede. La profonda
ripugnanza, che malizia infedeltà e tradimento destano
ognora, viene dall'esser fedeltà e lealtà il vincolo,
che ricongiunge esteriormente in unità la volontà
sparpagliata nella folla degli individui, ponendo così un
limite alle conseguenze dell'egoismo prodotto da quel frazionamento.
Infedeltà e tradimento spezzano quest'ultimo vincolo esterno,
e aprono con ciò alle conseguenze dell'egoismo un campo senza
confini.
Nella concatenazione del nostro pensiero abbiamo trovato il
contenuto del concetto d'ingiustizia nella particolar natura
dell'azione, con cui un individuo tanto allarga l'affermazione della
volontà manifestantesi nel suo corpo, da farne la negazione
della volontà manifestantesi nei corpi altrui. Abbiamo anche
mostrato con esempi affatto generici i limiti ove ha principio il
dominio dell'ingiusto, determinandone insieme le gradazioni, dalle
massime alle minime, con pochi concetti fondamentali. Da ciò
risulta, che originario e positivo è il concetto
dell'ingiusto: mentre l'opposto concetto del giusto è
derivato, negativo. Imperocché non alle parole dobbiamo
tenerci, ma ai concetti. In verità, non si sarebbe mai fatta
parola del giusto, se non vi fosse l'ingiusto. Il concetto di
giustizia contiene semplicemente la negazione dell'ingiustizia, e in
esso viene compresa ogni azione, che non sia trasgressione del
confine su esposto, ossia negazione dell'altrui volontà per
maggiore affermazione della propria. Quel confine partisce adunque,
rispetto a una determinazione puramente e semplicemente morale,
l'intero campo delle azioni possibili in azioni ingiuste o giuste.
Un'azione che non vada a ficcarsi, al modo spiegato più
sopra, nella sfera dell'affermazione della volontà altrui,
tale affermazione negando, non è ingiusta. Perciò il
negare aiuto in caso di stringente necessità altrui,
l'indifferente contemplar chi muore di fame, mentre noi stiamo
nell'abbondanza, è bensì crudele e perverso, ma non
è un far torto: soltanto si può dir con tutta
certezza, che colui il quale è capace di spingere a tal punto
la sua insensibilità e durezza, sicuramente saprà
compiere anche ogni ingiustizia, non appena le sue voglie lo
chiedano e nessuna costrizione l'impedisca.
Il concetto di diritto, come negazione dell'ingiusto, ha nondimeno
trovato la sua principale applicazione, e senza dubbio anche la sua
prima origine, nei casi in cui tentata ingiustizia viene impedita
con violenza: il quale impedimento alla sua volta non può
essere ingiustizia, bensì è diritto: anche se la
violenza impiegatavi, considerata in se stessa e isolatamente,
sarebbe ingiustizia, e qui venga giustificata sol dal suo motivo,
diventando diritto. Se un individuo nell'affermazione della sua
volontà va tanto lontano, da irrompere nella sfera
dell'affermazione di volontà inerente alla mia persona in
quanto tale, e viene con ciò a negar l'affermazione mia, il
mio difendermi da tale violenza è solo un negar quella
negazione; e quindi, da parte mia, non altro è che l'affermar
la volontà per essenza e originariamente manifestantesi nel
mio corpo, e già implicite esprimentesi col semplice fenomeno
del corpo stesso: non è quindi ingiustizia, bensì
diritto. Il che vai quanto dire: io ho allora un diritto, di negar
quella negazione con ogni forza atta a toglierla di mezzo; diritto
che, si vede facilmente, può arrivare fino all'uccisione
dell'individuo estraneo, il cui atto a mio danno, quale premente
violenza esteriore, può essere impedito mediante una reazione
alquanto più forte di esso, senza commettere ingiustizia di
sorta, e quindi con diritto; imperocché tutto quanto vien
fatto da parte mia sta sempre esclusivamente nella sfera
dell'affermazione di volontà inerente alla mia persona come
tale, e già in lei espressa (sfera che è il teatro
della battaglia); né irrompe nella sfera altrui: sì
che è solo negazione della negazione, ossia affermazione e
non negazione. Io posso adunque, senza ingiustizia, costringer la
volontà estranea che nega la volontà mia quale si
manifesta nel mio corpo e nell'uso delle forze di esso per la
propria conservazione, senza negare io perciò un'altrui
volontà contenuta in eguali confini, a desister da codesta
negazione: ossia ho, in siffatta misura, un diritto di coercizione.
In tutti i casi nei quali io ho un diritto di coercizione, un pieno
diritto di usar violenza contro gli altri, posso egualmente, secondo
le circostanze, opporre all'altrui violenza anche l'astuzia, senza
commettere ingiustizia; ed ho quindi un vero e proprio diritto alla
menzogna, nella stessa misura in cui ho diritto alla coercizione
violenta. Perciò, chi assicuri al malandrino che lo sta
frugando, di non aver null'altro su di sé, agisce con pieno
diritto; così anche colui, il quale attiri con una menzogna
in cantina il ladro entratogli di notte in casa, e ve lo rinchiuda.
Chi sia trascinato prigione da malfattori, per esempio, da pirati
barbareschi, ha il diritto, per liberarsi, di ucciderli non soltanto
con aperta violenza, ma anche con inganno. Similmente una promessa
strappata con diretta violenza corporale non lega in nulla;
perché quegli, che subisce una tal costrizione, può
con pieno diritto liberarsi di chi gli usa violenza, con
l'uccisione, nonché con l'insidia. Chi non può
riprender con la forza il bene rubatogli, non commette ingiustizia
se lo riacquista con inganno. Perfino, se taluno dissipa al gioco il
denaro che m'ha involato, ho diritto di barare a suo danno:
perché quanto io gli tolgo, già mi appartiene. Chi
ciò volesse negare, dovrebbe ancor più negar la
legittimità dell'insidia guerresca, la quale è
addirittura una menzogna in azione, e conferma il motto della regina
Cristina di Svezia: «Le parole degli uomini non vanno
calcolate per nulla: grazia se si può credere ai loro
atti». Così da presso il limite del giusto sfiora
quello dell'ingiusto! Del resto, credo superfluo dimostrare, che
tutto ciò concorda appieno con quanto è detto
più sopra intorno all'illegittimità della menzogna
come della violenza: può anche servir d'illustrazione alle
singolari teorie sopra la menzogna necessaria49.
In virtù di tutto quanto ho esposto finora, torto e diritto
sono semplicemente determinazioni morali; tali, cioè, che
abbian valore rispetto alla considerazione dell'umana
attività in se stessa, e in rapporto all'intimo significato
di codesta attività in sé. Questo valore si rivela
direttamente nella conscienza, in primo luogo, per il fatto che
l'agire contro giustizia è accompagnato da un interno
rammarico, il quale in chi commette l'ingiustizia è la
conscienza, semplicemente sentita, dell'eccessiva forza onde
s'afferma in lui la volontà, arrivando fino al punto di
negare il fenomeno della volontà altrui. E l'autor
dell'ingiustizia, essendo bensì distinto come fenomeno della
sua vittima, le è nondimeno identico nell'essenza.
L'ulteriore esplicazione di codesto intimo significato d'ogni
fenomeno potrà seguire solo più tardi. Per un altro
verso, chi patisce l'ingiustizia è dolorosamente consapevole
della negazione della propria volontà, quale essa
volontà è già espressa mediante il corpo di
lui, ed i suoi naturali bisogni, pel cui appagamento la natura lo fa
contar sulle forze di questo corpo medesimo. Anche è
consapevole, in pari tempo, che senza commettere ingiustizia
potrebbe opporsi in tutti i modi a quella negazione, se non gliene
mancasse la forza. Cotal valore puramente morale è l'unico,
che diritto e ingiustizia abbiano per l'uomo come uomo (non come
cittadino nello Stato); l'unico, quindi, che sussisterebbe anche
nello stato di natura, senz'alcuna legge positiva; l'unico, che
costituisce la base e il contenuto di tutto quanto s'è
perciò chiamato diritto naturale, ma meglio si chiamerebbe
diritto morale: estendendosi il suo valore non già al subire,
alla realtà esterna, ma solo all'agire e alla consapevolezza
del proprio volere individuale, che l'agire fa nascere nell'uomo;
consapevolezza, che si chiama coscienza. La quale nello stato di
natura non in tutti i casi può farsi valere anche al di
fuori, sopra altri individui, ed impedire che violenza regni in
luogo del diritto. Nello stato di natura dipende invero
semplicemente da ciascuno, di non agire in nessun caso con
ingiustizia, ma non già di non subire in nessun caso
ingiustizia, poiché ciò dipende da quella forza
esteriore che ci è toccata. Perciò sono i concetti di
giusto e ingiusto bensì validi anche per lo stato di natura,
e punto convenzionali; ma quivi valgono sol come concetti morali,
per l'autoconscienza che ciascuno ha della propria volontà.
Ovvero sono, sulla scala dei differentissimi gradi
d'intensità, con cui la volontà di vivere s'afferma
negli individui umani, un punto fermo, simile al punto di
congelazione nel termometro: il punto, ove l'affermazione della
volontà propria diventa negazione dell'altrui, ossia con
l'agire ingiustamente indica il grado della sua vivacità
congiunto col grado dell'irretimento della conoscenza nel principio
individuationìs (il quale è la forma della conoscenza
posta per intero al servigio della volontà). Chi voglia ora
porre da canto la considerazione puramente morale degli atti umani,
o negarla, e gli atti stessi guardar soltanto sotto il rispetto del
loro effetto esteriore e del loro successo, potrà invero
chiamar con Hobbes giustizia e ingiustizia convenzionali
determinazioni, arbitrariamente assunte, e punto esistenti
all'infuori della legge positiva; né mai potremmo noi fargli
intendere per esteriore esperienza ciò che non all'esteriore
esperienza s'appartiene. Così al medesimo Hobbes, il quale
caratterizza in modo singolarissimo quel suo pensiero affatto
empirico, negando nel suo libro De principiis geometrarum tutta la
matematica pura vera e propria, e ostinato affermando avere il punto
estensione, e aver larghezza una linea, non potremo metter mai sotto
gli occhi un punto senza estensione e una linea senza larghezza, per
provargli l'a priori della matematica, più di quanto possiamo
fargli intendere l'a priori del diritto: perché egli si
è asserragliato contro ogni conoscenza non empirica.
La pura filosofia del diritto è dunque un capitolo della
morale, e si riferisce in modo diretto soltanto all'azione che si
compie, non già a quella che si subisce. Che solo la prima
è esplicazione della volontà, e la morale non
considera se non la volontà. Il subire è un semplice
accidente: solo in via indiretta la morale può considerarlo,
ed esclusivamente per dimostrare, che quanto si fa con l'unico fine
di non patire un'ingiustizia, non è atto ingiusto. Quel
capitolo della morale, sviluppato, avrebbe come contenuto la precisa
determinazione del limite, fino al quale un individuo può
arrivare nell'affermazione della volontà già
oggettivata nel suo corpo, senza che codesta affermazione diventi
negazione di quella volontà medesima, rilevantesi in un altro
individuo; ed inoltre dovrebbe determinar le azioni, che andando
oltre il limite sopraddetto sono ingiuste, e tali quindi da poter
essere impedite senza commettere ingiustizia. Sempre rimarrebbe
così oggetto dell'indagine l'azione sola.
Ma nell'esperienza esteriore, come accidente, si presenta il fatto
dell'ingiustizia patita: e vi si manifesta più limpido che
altrove, come già fu detto, il fenomeno dell'opposizione
della volontà di vivere contro se stessa, risultante dalla
pluralità degli individui e dall'egoismo; l'una e l'altro
determinati dal principio individuationis, che è la forma del
mondo quale rappresentazione per la conoscenza individuale. Abbiamo
anche visto più sopra, che un'assai gran parte del dolore
inerente all'umana vita ha in quel contrasto degl'individui la sua
perenne sorgente.
Ma la ragione, a tutti codesti individui comune, la quale fa
sì ch'essi non conoscano, come gli animali, soltanto il caso
singolo, ma anche la connessione dell'insieme, in astratto, ha
presto insegnato loro a conoscer la sorgente di quel male, e li ha
richiamati a considerare i mezzi di farlo minore, o, quando fosse
possibile, di sopprimerlo, mediante un sacrificio comune, che
tuttavia vien vantaggiosamente compensato dal profitto che a tutti
ne deriva. Per quanto gradevole sia invero all'egoismo individuale,
capitandone il caso, il commettere un'ingiustizia, tale atto ha
nondimeno un correlato necessario nel patir che altri fa
l'ingiustizia medesima, avendone un grande dolore. E quando la
ragione, considerando genericamente, si innalzò sul punto di
vista unilaterale dell'individuo a cui appartiene, sciogliendosi per
un istante dal vincolo che a lui la lega, vide che il godimento,
provato da ciascuno individuo per l'atto ingiusto commesso, è
superato ognora da un dolore relativamente più grande, che
prova chi quell'atto subisce. E vide, inoltre, come tutto essendo in
ciò affidato al caso, ciascuno avrebbe avuto da temere, che a
sé il dolore dell'ingiustizia sofferta toccasse ben
più frequente del piacere per un'eventuale ingiustizia
commessa. E la ragione ne ricavò che, tanto per diminuire il
male su tutti disteso, quanto per distribuirlo quanto più
fosse possibile uniformemente, il migliore e unico mezzo fosse
risparmiare a tutti il dolore di subire l'ingiustizia, per questa
via: rinunziar tutti anche al piacere di commetterla. Questo mezzo
adunque, che l'egoismo per mezzo della ragione facilmente
trovò, e gradatamente perfezionò, procedendo con
metodo e abbandonando il proprio unilaterale punto di vista,
è il contratto sociale o la legge.
L'origine, ch'io qui gli assegno, esponeva già Platone nella
Repubblica. In verità è tale origine essenzialmente
l'unica, e posta dalla natura della cosa. Né può lo
Stato averne avuta altra, in nessun paese, che gli è appunto
codesta maniera di nascita, codesta finalità, a farne uno
Stato; ed è poi indifferente se in questo o in quel popolo
l'abbia preceduto la condizione d'una moltitudine di selvaggi
indipendenti (anarchia), o di schiavi dominati per arbitrio dal
più forte (dispotismo). Nell'un caso e nell'altro non s'aveva
Stato: lo Stato sorge solo mediante quel comune accordo; ed a
seconda che tale accordo sia più o meno puro da anarchia o
dispotismo, è anche lo Stato più o meno perfetto. Le
repubbliche tendono all'anarchia, le monarchie al dispotismo, e la
via intermedia della monarchia costituzionale, che per ovviare a
quei mali s'è escogitata, tende al predominio delle fazioni.
Per fondare uno Stato perfetto, si deve incominciar dal creare
esseri, cui Natura consenta di sacrificare il bene proprio al bene
pubblico. Ma frattanto qualcosa già s'ottiene, dall'esservi
una famiglia, il cui bene sia da quello del paese affatto
inseparabile: sì che ella, almeno nelle cose essenziali, non
possa mai vantaggiar l'uno senza l'altro. Qui sta la forza e il
pregio della monarchia ereditaria.
Se la morale mira esclusivamente all'azione giusta o ingiusta, e
può, a quegli il quale sia per avventura risoluto di non fare
atto ingiusto, stabilir nettamente i confini delle sue operazioni;
la dottrina dello Stato, invece, la scienza della legislazione, mira
soltanto all'ingiustizia patita, né mai si occuperebbe
dell'ingiustizia commessa, se non fosse per l'ognor necessario
correlato di questa, ossia la patita: la quale è l'oggetto
della sua attenzione, quasi il nemico contro cui ella si affatica.
Ove si potesse concepire un atto ingiusto, col quale non fosse
d'altra parte congiunta un'ingiustizia sofferta, lo Stato
conseguentemente non lo punirebbe in nessun modo. Inoltre,
poiché nella morale è oggetto di considerazione ed
unica realtà l'animo, l'intenzione, per essa la
volontà risoluta di commettere ingiustizia, quando pur sia
arrestata e resa impotente da una forza estranea, equivale in tutto
all'ingiustizia effettivamente commessa; e la morale condanna nel
suo tribunale, come ingiusto, chi quell'intenzione aveva. Viceversa
lo Stato non toccano animo e intendimento, sol come tali, né
punto né poco; bensì solamente l'atto (sia esso poi
tentato o compiuto), in ragione del suo correlato, del patire, che
ne viene dall'altra parte: per lo Stato è una realtà
l'azione, il fatto accaduto; l'intendimento, il volere non s'indaga
se non in quanto da esso vien reso manifesto il significato
dell'atto. Quindi lo Stato non vieterà ad alcuno di meditar
permanentemente violenza omicida o veleno a danno altrui, non appena
sia persuaso che il timore della pena capitale e della tortura
arresteranno sempre gli effetti di quell'intenzione. E lo Stato non
ha pur minimamente il folle proposito di distruggere l'inclinazione
all'ingiustizia, la malvagia intenzione; bensì ad ogni
possibile impulso verso il compimento di un torto vuol porre accanto
una prevalente ragione di non commetterlo, la qual consiste
nell'ineluttabile punizione: perciò è il codice penale
un elenco, il più possibile completo, di contromotivi opposti
a tutte le azioni delittuose presupposte come possibili. La scienza
statale, o legislazione, per questo suo fine torrà a prestito
dalla morale il capitolo, che costituisce la filosofia del diritto,
e che oltre a dar l'intimo significato del giusto e dell'ingiusto ne
determina i netti confini; ma esclusivamente per adoprarne il
rovescio, e tutti quei termini, che la morale pone come
insormontabili da chi non voglia commettere ingiustizia, considerar
sotto l'aspetto opposto: come termini, il cui valicamento da parte
d'altri non va tollerato, se non si vuol patire ingiustizia, e da
cui s'ha il diritto di respingere altrui. Tali termini vengono
così sotto codesto rispetto, fin dove si può passivo,
barricati dalle leggi. Ne risulta che, come molto argutamente lo
storico fu definito un profeta a rovescio, così è un
moralista a rovescio il giurista; e quindi anche la scienza del
diritto in senso proprio, ossia la dottrina dei diritti, che si
possono affermare, è una morale a rovescio nel capitolo, in
cui questa insegna i diritti che non si possono violare. Il concetto
dell'ingiustizia e della sua negazione, della giustizia, il quale
è in origine concetto morale, diventa giuridico trasportando
il punto di partenza dall'aspetto attivo al passivo, ossia mediante
un capovolgimento. Ciò, aggiunto alla dottrina giuridica di
Kant, il quale molto falsamente deriva dal suo imperativo categorico
l'istituzione dello Stato come un dovere morale, ha prodotto anche
nell'età più moderna di tanto in tanto il
singolarissimo errore, che lo Stato sia un istituto per l'incremento
della moralità, nasca da un tendere verso di essa e sia
quindi rivolto contro l'egoismo. Come se l'interno animo,
l'eternamente libero volere, al quale soltanto si riferiscono
moralità o immoralità, si potesse dal di fuori
modificare, e per influsso esterno mutare! Ancor più stolto
è il teorema, secondo il quale lo Stato è condizione
della libertà nel senso morale e quindi della
moralità: mentre invece la libertà risiede di
là dal fenomeno, altro che di là dalle umane
istituzioni! Lo Stato, come ho detto, è sì poco
rivolto contro l'egoismo in genere e in quanto tale, che viceversa
per l'appunto dall'egoismo è originato: da quell'egoismo bene
inteso, metodicamente procedente, salito dal punto di vista
individuale al generale, e assommante in sé l'egoismo di
tutti. A servizio di questo è lo Stato: poggiando sulla retta
premessa, che non sia da attendersi moralità pura, ossia un
giusto agire per principi morali; che se così non fosse, esso
diventerebbe superfluo. Non punto, adunque, contro l'egoismo,
bensì esclusivamente contro gli effetti dannosi dell'egoismo,
che dalla folla degli individui egoisti si producono a svantaggio
reciproco di tutti, e ne turbano il benessere, è lo Stato
rivolto: il quale a tal benessere mira. Perciò diceva
già Aristotele (De Rep., III): Τελος μεν ουν πολεων το ευ
ζη̣ν˙ τουτο δε εστιν το ζη̣ν˙ ευδαιμονως και καλως (Finis civitatis
est bene vivere, hoc autem est beate et pulchre vivere). Anche
Hobbes ha giustissimamente e in modo eccellente esposto
quest'origine e finalità dello Stato, quali vengono
d'altronde espresse dall'antico principio di tutti i gli ordinamenti
statali, salus publica suprema lex esto. Se lo Stato raggiungesse
appieno il suo fine, produrrebbe lo stesso effetto come se
universalmente regnasse perfetta giustizia d'intenzioni. Ma l'intima
essenza, l'origine di codeste due condizioni di cose sarebbero l'una
l'opposto dell'altra. Imperocché nel secondo caso s'avrebbe,
che nessuno voglia compiere ingiustizia; nel primo, invece, che
nessuno voglia patire ingiustizia; e a tal fine sarebbero appieno
adoprati i mezzi opportuni. Così può la medesima linea
venir tracciata da opposte direzioni, e un animale da preda con la
museruola è innocuo come un erbivoro. Ma più in
là di questo punto lo Stato non può andare: non
può quindi mostrarci un aspetto pari a quello, che
risulterebbe da generale, reciproca benevolenza ed amore.
Poiché, come abbiamo or ora notato che esso, per propria
natura, non vieterebbe un atto ingiusto, dal quale non risultasse
dall'altra parte alcun patimento d'ingiustizia, ed ogni ingiustizia
vieta sol perché tale condizione sarebbe impossibile;
così viceversa assai volentieri farebbe sì,
conformemente alla propria tendenza rivolta al benessere generale,
che ciascuno ricevesse benevolenza e ogni maniera d'atti d'amor del
prossimo; se nondimeno anche questi atti ricevuti non avessero un
correlato inevitabile nella prestazione di benefizi e di opere
altruistiche. Ma invece ogni cittadino dello Stato vorrebbe in
ciò assumere la parte passiva, e nessuno l'attiva; e
quest'ultima per nessun motivo si potrebbe pretenderla dall'uno
piuttosto che dagli altri. Perciò si può imporre il
negativo soltanto, che appunto costituisce il diritto, e non il
positivo, che va sotto il nome di doveri d'amore, o doveri
imperfetti.
La legislazione toglie a prestito, come s'è detto, la
dottrina pura del diritto, ossia dottrina intorno all'essenza ed ai
limiti del diritto e del torto, dalla morale, per adoprarla
capovolta secondo i fini proprii, che alla morale sono estranei, e
su questa base stabilire la legislazione positiva coi mezzi per
sostenerla, ossia lo Stato. La legislazione positiva è
adunque la dottrina morale del diritto puro, applicata a rovescio.
Quest'applicazione può accadere con riguardo alle speciali
condizioni e circostanze di un determinato popolo. Ma sol quando la
legislazione positiva nella sostanza è costantemente guidata
dal principio del diritto puro, ed ogni sua sanzione ha nella
dottrina del diritto puro la propria base, può dirsi che
codesta legislazione siffattamente formata sia davvero un diritto
positivo, e lo Stato un'associazione giuridica: Stato nel vero senso
della parola, istituzione moralmente ammissibile, e non immorale. In
caso contrario la legislazione positiva è viceversa il
fondamento di una positiva ingiustizia, è essa medesima
un'ingiustizia imposta, pubblicamente ammessa. Di tal fatta è
ogni dispotismo, e la costituzione della più parte degli
Stati musulmani; di tal natura sono perfino talune parti di molte
costituzioni, come per esempio la schiavitù, il lavoro
obbligato, e così via. La dottrina pura del diritto, o
diritto naturale, anzi meglio diritto morale, sta, neppur sempre a
rovescio, a base d'ogni legislazione giuridica positiva, come la
matematica pura sta a base d'ogni ramo dell'applicata. I punti
più importanti della dottrina pura del diritto, quali la
filosofia deve trasmetterli, pei fini suddetti, alla legislazione,
sono i seguenti: 1. Spiegazione dell'intimo e proprio valore
nonché dell'origine dei concetti di giusto e d'ingiusto, e
della loro applicazione e del loro posto nella morale. 2. Deduzione
del diritto di proprietà. 3. Deduzione del valore morale dei
contratti: essendo questo il fondamento morale del contratto
sociale. 4. Spiegazione dell'origine e finalità dello Stato,
della relazione di codesta finalità con la morale, e della
conseguente trasposizione della dottrina morale del diritto,
invertita, alla legislazione. 5. Deduzione del diritto penale. Il
rimanente contenuto della teoria del diritto non è se non
l'applicazione di quei principii, più precisa determinazione
dei confini del giusto e dell'ingiusto per tutte le possibili
contingenze della vita, le quali vengono perciò riunite e
suddivise sotto speciali riguardi e titoli. In queste dottrine
particolari s'accordano quasi del tutto i manuali del diritto puro:
sol nei principii suonano assai diversi; imperocché i
principii sono sempre in relazione con qualche sistema filosofico.
Ora che noi, in conformità del sistema nostro, abbiamo
esposto in forma breve e generica sì, ma tuttavia netta e
chiara, i primi quattro di quei punti essenziali, ci tocca ancora di
parlar nello stesso modo del diritto penale.
Kant gettò la falsissima affermazione, che fuori dello Stato
non esista alcun diritto perfetto di proprietà. Secondo la
deduzione fatta più sopra, esiste invece proprietà
anche nello stato di natura, con pieni diritti naturali, ossia
morali; la quale non può senza ingiustizia venire offesa, e
senza ingiustizia può esser difesa fino all'estremo. Invece
è certo, che fuori dello Stato non c'è diritto di
pena. Ogni diritto di punire è fondato unicamente sulla legge
positiva, la quale prima dell'atto compiuto ha sancito per questo
una pena; la cui minaccia, come contromotivo, dovrebbe prevaler su
tutti gli eventuali motivi di quell'atto. Codesta legge positiva si
deve considerare come sanzionata e riconosciuta da tutti i cittadini
dello Stato. Si fonda dunque sopra un patto comune, al cui
adempimento in ogni circostanza, ossia all'esecuzione della pena da
una parte e al sofferimento di essa dall'altra, i membri dello Stato
sono vincolati: perciò la pena può con diritto venire
imposta. Conseguentemente l'immediato fine della pena nel singolo
caso è adempimento della legge come d'un contratto. Ma scopo
unico della legge è il trattenere, col timore, dalla
violazione degli altrui diritti: poi che appunto, perché
ciascuno sia protetto contro l'ingiustizia, ci si è riuniti
nello Stato, i pesi del suo mantenimento assumendo su di sé.
La legge adunque e la sua esecuzione, la pena, sono essenzialmente
rivolte al futuro, non al passato. Ciò distingue pena da
vendetta, la quale ultima è motivata esclusivamente dal fatto
accaduto, ossia dal passato, in quanto tale. Ogni imposizione di
dolore fatta, senza mirare al futuro, per un'ingiustizia commessa,
è vendetta, e non può avere altro fine, se non
confortare se stesso del male sofferto, mediante la vista di un male
altrui, da noi cagionato. Ciò costituisce cattiveria e
crudeltà, né si può eticamente giustificare.
L'ingiustizia, che altri compie verso me, non mi dà
minimamente il diritto di commettere ingiustizia a suo riguardo.
Pagar male con male, senz'altra mira, non è cosa da
giustificarsi moralmente né in altro modo in virtù di
qualsivoglia principio ragionevole; ed il jus talionis, eretto a
principio indipendente ed a finalità ultima del diritto
penale, è vuoto di senso. Perciò è in tutto
priva di base e assurda la teoria di Kant intorno alla pena,
concepita qual semplice compensazione per la compensazione. E
nondimeno la viene ancor fuori negli scritti di molti giuristi, in
mezzo a ogni maniera di frasi pompose, che si riducono a una vuota
filastrocca, come ad esempio: venire il delitto per mezzo della pena
espiato, neutralizzato, cancellato, e così via. Ma nessun
uomo ha la facoltà di stabilirsi giudice e compensatore in
senso puramente morale, ed i misfatti di un altro punire con dolori
da sé causati, ed a quegli imporre così espiazione per
ciò che ha fatto. Questa sarebbe arrogantissima presunzione;
onde il detto biblico: «Mia è la vendetta, esclama il
Signore, e voglio io compensare». Ha bensì l'uomo il
diritto di provvedere alla sicurezza della società; ma
ciò può accadere solo mediante interdizione di tutti
quegli atti che indica la parola «criminale», per
impedirli col mezzo dei contromotivi, che sono le minacciate pene;
la qual minaccia può avere efficacia sol con l'esecuzione,
quando il caso sia, malgrado l'interdizione, avvenuto. Che
perciò scopo della punizione o più precisamente della
legge punitiva, sia il trattenere altrui col timore dal compiere un
reato, è una verità così universalmente
riconosciuta, anzi di per se stessa luminosa, che in Inghilterra fu
perfino già espressa nell'antica formula d'accusa
(indictment), di cui oggi ancora si serve nei processi criminali
l'avvocato della corona; la quale termina: «if this be proved,
you, the said N. N., ought to be punished with pains of law, to
deter others from the like crimes, in ali time coming» 50.
Servire al futuro è ciò che distingue la pena dalla
vendetta; e la pena ha questa finalità sol quando viene
applicata come esecuzione di una legge; la quale esecuzione, solo
siffattamente annunziandosi come inevitabile in ogni altro caso
futuro, dà alla legge la forza d'intimidazione in cui sta
appunto la sua finalità. Qui un kantiano immancabilmente
osserverebbe, che secondo questo modo di vedere il delinquente
punito viene adoprato «sol come mezzo». Ma questo
principio, così infaticabilmente ripetuto da tutti i
kantiani, «che si debba sempre trattar l'uomo sol come fine,
mai come mezzo», è bensì un principio che suona
con aria d'importanza, e quindi appropriatissimo per tutti coloro, i
quali amano d'avere una formula, che tolga loro la fatica di
continuare a pensare; tuttavia guardato alla luce è una
sentenza oltremodo vaga, indeterminata, la quale per ciascun caso,
in cui debba essere applicata, richiede dapprima particolare
spiegazione, determinazione e modificazione, mentre, presa
così in maniera generica, è insufficiente, poco
concludente, e per di più problematica. L'assassino, che per
virtù di legge è consacrato alla pena capitale, deve
invero ed a buon diritto essere usato come semplice mezzo.
Perché la sicurezza pubblica, scopo principale dello Stato,
è da lui turbata anzi soppressa, se la legge rimane
ineseguita: lui, la sua vita, la sua persona devono essere ora il
mezzo per l'esecuzione della legge, e quindi per la restaurazione
della pubblica sicurezza; e un mezzo egli diviene a pieno diritto,
per l'adempimento del contratto sociale, che da lui medesimo, in
quanto egli era cittadino dello Stato, aveva avuto sanzione, e per
effetto del quale, col fine d'aver sicurtà di godere la
propria vita, la propria libertà, i propri possessi, aveva
questa vita, questa libertà, questi possessi dati in pegno.
Ed il pegno è ora scaduto. La teoria della pena qui esposta,
che balza evidente per ogni sana ragione, è in verità
sostanzialmente un pensiero tutt'altro che nuovo; bensì un
pensiero quasi messo al bando da nuovi errori, sì ch'era
necessario chiarirlo limpidissimamente. La sua spiegazione è,
nella sostanza, già contenuta in ciò che a tal
proposito dice Puffendorf, De officio hominis et civis, 1. 2, cap.
13. Vi si accorda egualmente Hobbes, Leviathan, capp. 15 e 28. Ai
nostri giorni l'ha sostenuta, come si sa, Feuerbach. La si trova
d'altronde già nei detti dei filosofi antichi: Platone
l'espone chiaramente nel Protagora (p. 114, ed. Bip.), e anche nel
Gorgia (p. 168), e finalmente nell'undecimo libro delle Leggi.
Seneca esprime appieno il pensiero di Platone e la teoria di tutte
le pene nelle brevi parole: «Nemo prudens punit, quia peccatum
est; sed ne peccetur» (De Ira, I, 16).
Abbiamo dunque conosciuto nello Stato il mezzo, mediante cui
l'egoismo armato di ragione cerca di sfuggire ai suoi proprii
perniciosi effetti rivolgentisi contro se medesimo; ciascuno
favorisce il bene di tutti, perché vi vede compreso il bene
suo proprio. Ove lo Stato raggiungesse appieno il suo fine, potrebbe
aversi da ultimo, poiché esso mediante le forze umane in
sé congiunte sa ognor più trarre a suo servigio anche
la rimanente natura, con la rimozione d'ogni maniera di mali
alcunché d'analogo al paese di Cuccagna. Ma per un verso esso
è tuttora sempre lontano da questo termine; per l'altro
innumerevoli mali, alla vita necessariamente inerenti, manterrebbero
come prima la vita in dolore; tra i quali, fossero pur tutti gli
altri eliminati, da ultimo la noia occuperebbe ogni posto da quelli
lasciato; per un altro verso ancora la discordia degli individui non
può mai dallo Stato esser tolta in tutto di mezzo, che essa
stuzzica nel piccolo, dov'è interdetta nel grande, ed infine
Eris, felicemente cacciata dall'interno, si volge ancora al di
fuori: bandita per mezzo dell'ordinamento civile dalle contese degli
individui, ritorna dall'esterno in forma di guerra dei popoli, e
pretende allora in grosso e tutto in una volta, come debito
accumulato, le sanguinose vittime, che mediante saggia provvidenza
le si erano sottratte singolarmente. E ammesso finalmente, che tutto
ciò si potesse superare e toglier di mezzo, con una saggezza
fondata sull'esperienza di millennii, il risultato ultimo sarebbe
l'eccesso di popolazione sull'intero pianeta; terribile male, che
oggi solo un'audace fantasia riesce a rappresentarsi51.
§ 63.
Abbiamo conosciuta la giustizia temporale, che ha sua sede nello
Stato, quale compensatrice o punitrice; e abbiam visto, ch'essa
divien giustizia solo riguardo al futuro; imperocché senza
tale riguardo ogni punizione e compensazione d'un delitto sarebbe
ingiustificata, anzi sarebbe non altro che l'aggiunta di un secondo
male al male accaduto, senza ragione e significato. Tutt'altra
condizione si ha con la giustizia eterna, già innanzi
ricordata; la quale regge non lo Stato, bensì il mondo, non
dipende da umani ordinamenti, non è soggetta al caso ed
all'errore, mai insicura, oscillante ed errante, bensì
infallibile, ferma e sicura. Il concetto della compensazione
racchiude già il tempo in sé: quindi non può
l'eterna giustizia punire con determinata misura; non può,
come la giustizia penale, concedere dilazioni e fissar termini, e,
sol per mezzo del tempo sanando il misfatto con le cattive
conseguenze di esso, del tempo aver bisogno per sussistere. La pena
dev'esser qui col misfatto siffattamente congiunta, da formare
tutt'uno.
Δοκειτε πηδα̣ν τ’αδικηματ’ εις θεους
Πτεροισι, κα̉πειτ’ εν Διος δελτου πτυχαις
Θνητοις δικάζειν: Ουδ’ ό πας ουρανος,
Διος γραφοντος τας βροτων άμαρτιας,
Εξαρκεσειεν, ουδ’ εκεινος αν σκοπων
Πεμπειν έκαστω̣ ζημιαν˙ αλλ’ή Δικη
Ενταυθα που 'στιν εγγυς, ει βουλεσθ’ όρα̣ν.
Eurip., ap. Stob. Ed. i, e. 4
(Volare penis scelera ad aetherias domus
Putatis, illic in Jovis tabularia
Scripto referri: tum Jovem lectis super
Sententiam proferre? – sed mortalium
Facinora cœli, quantaquanta est, regia
Nequit tenere; nec legendis Juppiter
Et puniendis par est. Est tamen ultio,
Et, intuemur, illa nos habitat prope).
Ora, che una tal divina giustizia veramente esista nell'essenza del
mondo, risulterà presto luminosamente appieno, da tutto il
nostro pensiero finora svolto, a chi lo abbia afferrato.
Il fenomeno, l'oggettità dell'unica volontà di vivere
è il mondo, in tutta la molteplicità delle sue parti e
figure. L'essere, e il modo dell'essere, nel tutto come in ciascuna
parte, è costituito solo dalla volontà. Essa è
libera, essa è onnipotente. In ogni cosa appare la
volontà, quale essa medesima in sé e fuori del tempo
si determina. Il mondo non è che lo specchio di questo
volere; ed ogni limitazione, ogni male, ogni tormento, che il mondo
contiene, appartengono all'espressione di ciò che la
volontà vuole: sono quali sono, perché essa
così vuole. È rigorosa giustizia, quindi, che ogni
creatura sopporti l'essere in genere, e quindi l'essere della sua
specie e della sua particolare individualità, interamente
com'essa è, e in condizioni quali esse sono, in un mondo
quale esso è, governato dal caso e dall'errore, temporaneo,
effimero, ognora sofferente: e qualunque sorte le tocchi, qualunque
le possa toccare, sarà sempre giustizia. La
responsabilità dell'essere e della costituzione del mondo
può essa solamente, e nessun altro, portare: poiché
come potrebbe un altro assumerla per sé? Se si vuol vedere
ciò che gli uomini, moralmente considerati, sono in tutto e
per tutto, si consideri in tutto e per tutto il loro destino. Esso
è penuria, miseria, strazio, tormento e morte. L'eterna
giustizia impera: s'essi non fossero, presi collettivamente,
così dappoco, non sarebbe neppure il lor destino,
collettivamente preso, così triste. In questo senso possiamo
dire: il mondo stesso è il giudizio universale. Se si potesse
mettere in un piatto di bilancia tutto il dolore del mondo, e tutta
la colpa del mondo nell'altra, la bilancia starebbe sicuramente in
bilico.
Certo che alla conoscenza, quale essa, dalla volontà in
proprio servizio generata, si forma nell'individuo in quanto tale,
il mondo non appare come da ultimo si disvela all'osservatore, ossia
come oggettità dell'una e unica volontà di vivere, che
è l'individuo medesimo; invece il velo di Maja, come dicono
gl'Indiani, turba lo sguardo dell'inconscio individuo: a lui, in
luogo della cosa in sé, apparisce solo il fenomeno nel tempo
e nello spazio, nel principio individuationis, e nelle rimanenti
forme del principio di ragione. In questa limitata cognizione non
vede l'essenza delle cose, che è unica, bensì i suoi
fenomeni, distinti, disgiunti, innumerevoli, contraddittori. Gli
apparisce allora il piacere come alcunché di affatto diverso
dal dolore; in un uomo vede l'aguzzino e l'assassino, in un altro il
paziente e la vittima, distinte come due unità indipendenti
sono per lui la cattiveria e la sofferenza. Vede taluno vivere nella
gioia, nella sovrabbondanza, nei piaceri, e contemporaneamente altri
morire di penuria e di freddo innanzi alla sua porta. Allora si
domanda: dov'è la compensazione? Ed egli medesimo, nel
violento impulso della volontà, che è sua origine e
sua essenza, si aggrappa ai piaceri e ai godimenti della vita, vi si
tiene fortemente stretto, non sapendo, che appunto per questo atto
della sua volontà egli afferra e stringe a sé tutti
quei dolori e tormenti della vita, alla cui vista rabbrividisce.
Vede la sofferenza, vede la malvagità nel mondo: ma lungi dal
riconoscere, che entrambe non sono se non diverse facce del fenomeno
dell'unica volontà di vivere, le crede molto diverse, anzi
addirittura opposte, e cerca spesso mediante la malvagità,
ossia cagionando il male altrui, di sfuggire al dolore, alla
sofferenza del proprio individuo, circoscritto nel principio
individuationis, ingannato dal velo di Maja. Imperocché, come
sull'infuriante mare che, per tutti i lati infinito, ululando
montagne d'acqua innalza e precipita, siede in barca il navigante e
sé affida al debole naviglio; così siede tranquillo,
in mezzo a un mondo pieno di tormenti, il singolo uomo, poggiandosi
fidente sul principio individuationis, ossia sul modo onde
l'individuo conosce le cose, in quanto fenomeno. Lo scofinato mondo,
pieno di mali ovunque, nell'infinito passato, nell'infinito futuro,
è a lui straniero, anzi è a lui come una fiaba: la sua
infinitesima persona, il suo presente privo d'estensione, il suo
momentaneo benessere hanno soli realtà ai suoi occhi; e per
conservarli fa di tutto, fin quando una miglior conoscenza non
gl'illumini la vista. Fino allora vive appena nella più
intima profondità della sua conscienza l'oscurissimo sentore,
che quel mondo non gli sia poi veramente tanto straniero,
bensì abbia con lui una relazione, dalla quale il principium
individuationis non può proteggerlo. Da codesto presentimento
viene quell'invincibile terrore, comune a tutti gli uomini (e
fors'anche agli animali più intelligenti) che li coglie
all'improvviso, quando per un caso purchessia smarriscono la guida
del principii individuationis, allorché il principio di
ragione in una qualunque delle sue forme sembra avere un'eccezione:
per esempio, quando pare che si produca una mutazione senza causa, o
un morto ritorni, o in qualsiasi maniera il passato o il futuro si
faccian presenti, o il lontano vicino. L'orribile sbigottimento per
tali cose si fonda sul fatto, che essi si smarriscono rispetto alle
forme conoscitive del fenomeno, le quali sole tengono distinto il
lor proprio individuo dal resto del mondo. Ma tale distinzione sta
semplicemente nel fenomeno, e non nella cosa in sé: su
ciò appunto poggia l'eterna giustizia. In effetti ogni
godimento temporale si basa ed ogni saggezza si muove sopra un
terreno minato. Godimento e saggezza proteggono l'uomo dalle
sventure e gli procacciano piaceri; ma la personalità
è semplice fenomeno, e la sua varietà dagli altri
individui, nonché l'esser priva dei dolori che questi
sopportano, dipendono dalla forma del fenomeno, dal principio
individuationis. Secondo la vera essenza delle cose, ciascuno ha da
considerar come propri tutti i dolori del mondo, anzi tutti i dolori
possibili avere come reali per sé, fin quando egli è
deliberata volontà di vivere, ossia afferma con ogni forza la
vita. Per la conoscenza, che vede più lontano del principii
individuationis, una vita temporale felice, donata dal caso, o a lui
strappata con saggezza, fra dolori innumerevoli altrui, è
nient'altro che il sogno d'un mendico, in cui questi si vegga re, ma
per apprendere al risveglio, che solo una fuggitiva illusione
l'aveva separato dai dolori della sua vita.
Allo sguardo circoscritto nella conoscenza che segue il principio di
ragione, nel principio individuationis, si sottrae l'eterna
giustizia: quello non ha punto cognizione di lei, a men che non la
consegua mediante finzioni. Vede il malvagio, che ha commesso
misfatti e crudeltà d'ogni maniera, vivere nei piaceri e
uscirsene indisturbato dal mondo. Vede l'oppresso trascinare una
vita piena fino all'ultimo di dolori, senza che si mostri un
vendicatore, un compensatore. Ma l'eterna giustizia sarà
compresa sol da colui, che si eleva su quella conoscenza procedente
sulla traccia del principio di ragione e legata ai singoli oggetti:
da colui, che conosce le idee, penetra con l'occhio oltre il
principium individuationis, e comprende che alla cosa in sé
non toccano le forme del fenomeno. Questi solamente, in grazia della
stessa conoscenza, può comprendere la vera essenza della
virtù, secondo ci verrà presto chiarito in rapporto
con la presente trattazione; sebbene per la pratica della
virtù non sia punto domandata codesta conoscenza in
abstracto. Chi adunque è pervenuto alla suddetta conoscenza,
intende chiaramente che, essendo la volontà l'in-sé di
tutti i fenomeni, l'affanno inflitto altrui o personalmente
sofferto, la malvagità e il dolore colpiscono pur sempre
l'una e identica essenza; anche se i fenomeni, in cui questa e
quella condizione si manifestano, esistono come individui distinti e
addirittura separati da tempi e spazii lontani. Intende, che la
differenza da ciò che produce il dolore a ciò che deve
sopportarla è semplice fenomeno e non tocca la cosa in
sé, ossia è la volontà in entrambi vivente; la
quale, ingannata dalla conoscenza avvinta al suo servigio, se stessa
disconosce, in uno dei propri fenomeni cercando accresciuto
benessere, mentre nell'altro produce gran dolore; e così con
violento impulso, ficca i denti nella sua carne medesima, non
sapendo che ognora se stessa unicamente ferisce, palesando in tal
modo, per il mezzo dell'individuazione, il contrasto interiore
ch'ella trae nel suo intimo. Il tormentatore e il tormentato sono
tutt'uno. Quegli erra nel non ritenersi partecipe del tormento, erra
questi nel non ritenersi partecipe della colpa. Ove si aprissero a
entrambi gli occhi, quegli, che infligge dolore, conoscerebbe di
vivere in tutto quanto sul vasto mondo patisce tormento e invano si
chiede, se dotato di ragione, perché sia stato chiamato a
esistere in sì grandi dolori, che non sa d'aver meritati; e
il tormentato conoscerebbe, che ogni malvagità, la quale
viene commessa o fu un giorno commessa sulla terra, procede da
quella volontà, che costituisce anche l'essere suo, che anche
in lui si manifesta. Mediante codesto fenomeno e per la sua
affermazione egli ha preso su di sé tutti i dolori, che da
tale volontà promanano; e giustamente li soffre fin quando
egli è quella volontà. Da questa conoscenza muove il
veggente poeta Calderón in La vita è sogno:
Pues el delito mayor
Del hombre es haber nacido52.
Come non dovrebbe essere una colpa, poi che per una eterna legge
sopra v'incombe la morte? Calderón non fece che esprimere in
quel versetto il dogma cristiano del peccato originale.
La vivente conoscenza dell'eterna giustizia, del bilanciere, che
inseparabilmente congiunge il malum culpae col malo poenae, richiede
completa elevazione sulla individualità e sul principio che
la fa possibile: essa rimarrà quindi alla più parte
degli uomini ognora inaccessibile, com'anche l'affine cognizione
pura e limpida dell'essenza di tutte le virtù, la quale
verrà tosto chiarita. Perciò i sapienti primi padri
del popolo indiano l'espressero, sì, nei Veda, i quali eran
permessi soltanto alle tre caste rigenerate, ossia nella dottrina
esoterica, direttamente, fin dove concetto e lingua l'afferrano e la
loro maniera d'esposizione, ancora immaginativa e anche rapsodica,
consente; ma nella religione popolare, o dottrina exoterica, l'hanno
comunicata sol miticamente. La rappresentazione diretta la troviamo
in varie guise espressa nei Veda, il frutto della più alta
conoscenza e sapienza umana, il cui nocciolo è finalmente
pervenuto a noi nelle Upanishad; espressa particolarmente nel fatto,
che davanti allo sguardo del discepolo si fanno sfilare per ordine
tutti quanti gli esseri del mondo, viventi e inanimati, e per
ciascuno viene ripetuto quel detto ch'è divenuto una formula
e si chiama, come tale, mahavakya: Tatoumes, o, più
esattamente tat tvam asi, che significa: questo tu sei53. Ma al
popolo questa grande verità venne tradotta, fin dove esso
poteva afferrarla con la propria limitazione, nel modo di conoscenza
retto dal principio di ragione; il qual modo, per sua natura, non
può punto accoglier tale verità pura ed in sé,
che anzi sta con essa in diretta opposizione, bensì ne ha
ricevuto un surrogato nella forma del mito. Il surrogato era
sufficiente come regola per l'azione, rendendo afferrabile mediante
rappresentazione figurata il valore etico di quella, pur nella forma
di conoscenza regolata dal principio di ragione, che a tal valore
rimane eternamente straniera. E codesto è lo scopo di tutte
le dottrine religiose, essendo esse in genere rivestimenti mitici
delle verità impenetrabili dalla rozza mente umana. Quel mito
si potrebbe in questo senso chiamare, nel linguaggio di Kant, un
postulato della ragion pratica: ma come tale considerato ha il
grande vantaggio di non contenere nessun elemento, che non ci stia
davanti agli occhi nel dominio della realtà, e quindi
può tutti i suoi concetti documentare con intuizioni. Il
mito, a cui alludo, è quello della migrazione delle anime.
Esso insegna, come tutti i dolori, che nella vita s'infliggono ad
altri esseri, in una vita successiva su questo stesso mondo devono
essere scontati precisamente coi medesimi dolori; e ciò va
tanto lontano, che chi uccide anche un semplice animale,
rinascerà un giorno nel tempo infinito con la forma di
codesto animale e subirà la stessa morte. Insegna, che
cattiva condotta trae con sé una futura vita, in questo
mondo, in forma d'esseri miseri e spregiati; che si rinascerà
quindi in caste inferiori, o donna, o animale, o Paria, o Ciandala,
o lebbroso, o coccodrillo e così via. Tutti gli affanni che
il mito minaccia, documenta con intuizioni tratte dalla vita reale,
mediante creature dolorose, le quali neppur sanno come abbiano
meritata la lor pena; e non gli abbisogna di prender per appoggio
nessun altro inferno. Come ricompensa invece promette rinascita in
forme migliori e più nobili, quale bramano, quale sapiente,
quale santo. La più alta ricompensa, che attende gli animi
più nobili e la più compiuta rassegnazione, ricompensa
concessa anche alla donna, che in sette vite successive
volontariamente sia morta sul rogo del marito, come all'uomo la cui
bocca pura non abbia mai pronunziato una sola menzogna, può
il mito esprimerla solo negativamente nel linguaggio terreno,
mediante la promessa tanto spesso ripetuta, di non più
rinascere: «non adsumes iterum existentiam apparentem».
Oppure come l'esprimono i Buddhisti, che non ammettono né i
Veda né le caste: «Tu raggiungerai il Nirvana, ossia
uno stato, in cui non sono quattro cose: nascita, età,
malattia e morte».
Non mai un mito s'è accostato più strettamente, non
mai s'accosterà alla verità filosofica, cui sì
pochi uomini possono salire, come fa questa remotissima dottrina del
più nobile e più antico popolo; nel quale essa, per
quanto in molte parti tralignata, regna nondimeno tuttora come fede
generale ed ha sulla vita un effettivo influsso, oggi come quattro
millenni or sono. Questo non plus ultra di rappresentazione mitica
hanno quindi di già Pitagora e Platone accolto con
ammirazione, e tratto dall'India, o dall'Egitto, e onorato, e
applicato, e, non sappiamo fino a qual punto, essi stessi creduto.
Noi invece spediamo oramai ai bramani, clergymen inglesi e fratelli
moravi esercenti la tessitura, per ammonirli compassionevolmente
d'una verità superiore e spiegar loro, che son creati dal
nulla, e che di ciò devono con gratitudine rallegrarsi. Ma ci
succede come a chi tira una palla contro una roccia. In India non
potranno metter mai radice le nostre religioni: la sapienza
originaria dell'uman genere non sarà soppiantata dagli
accidenti successi in Galilea. Viceversa torna l'indiana sapienza a
fluire verso l'Europa, e produrrà una fondamentale mutazione
nel nostro sapere e pensare.
§ 64.
Ma ora procediamo dalla nostra posizione non mitica, bensì
filosofica, dell'eterna giustizia, alle connesse considerazioni sul
valore etico dell'azione e della coscienza, la quale è il
conoscimento sentito di quel valore. Voglio solo, in questo luogo,
richiamar dapprima l'attenzione su due particolarità
dell'umana natura, le quali posson contribuire a render chiaro come
ciascun uomo abbia la consapevolezza, almeno come sentimento oscuro,
dell'essenza di quella eterna giustizia, e del suo fondamento,
ch'è l'unità e l'identità della volontà
in tutti i suoi fenomeni. Affatto indipendentemente dallo scopo, che
dimostrammo aver lo Stato nell'infliggere la pena, scopo su cui
poggia il diritto punitivo, quando una cattiva azione è stata
commessa dà soddisfazione non solo all'offeso (il quale di
solito è acceso da sete di vendetta), ma anche allo
spettatore più indifferente, il vedere che quegli, il quale
cagionò altrui un dolore, patisca a sua volta dolore in egual
misura. A me pare che qui si esprima nient'altro se non la
conscienza di quella eterna giustizia; conscienza che tuttavia da
una mente non purificata vien tosto malcompresa e falsata;
perché questa, irretita nel principio individuationis, cade
in un'anfibolia di concetti, e pretende dal fenomeno ciò che
spetta solo alla cosa in sé. Né comprende, come in
sé l'offensore e l'offeso siano tutt'uno, e sia una medesima
essenza la quale, non riconoscendo se stessa nel suo proprio
fenomeno, porta tanto l'affanno quanto la colpa. Invece, domanda di
riveder anche l'affanno in quello stesso individuo a cui tocca la
colpa. Quindi vorrebbero i più pretendere ancora, che un uomo
fornito d'un alto grado di malvagità, grado che può
trovarsi in molti uomini, ma non congiunto come in costui con altre
qualità, il quale per non comune forza d'ingegno fosse agli
altri di gran lunga superiore e quindi indicibili dolori procurasse
a milioni d'uomini, per esempio come conquistatore; vorrebbero
pretendere, dico, che un tal uomo espiasse quando che sia e comunque
tutti quei dolori con una misura di dolori eguale. Imperocché
non sanno, che in sé il tormentatore e i tormentati sono
tutt'uno, e la medesima volontà, mediante la quale questi
esistono e vivono, è pur quella, che nel tormentatore
apparisce, e che appunto per mezzo di lui perviene alla più
chiara manifestazione della propria essenza, e che soffre negli
oppressi come nell'oppressore, anzi soffre in quest'ultimo tanto
più, quanto più alta chiarezza e limpidità ha
la conscienza di lui, e più grande veemenza ha la sua
volontà. Che tuttavia codesta disposizione a chiedere tal
forma di giustizia cessi d'ottenebrare la conoscenza più
approfondita, non più imprigionata nel principio
individuationis, conoscenza da cui viene ogni virtù e
nobiltà d'animo, dimostra già l'etica cristiana, la
quale vieta senz'altro di render male per male e fa operare l'eterna
giustizia come fosse nel dominio della cosa in sé, diverso
dal fenomeno («Mia è la vendetta, io voglio punire,
dice il Signore»: Rom., 12, 19).
Un carattere molto più sorprendente, ma anche molto
più raro nell'umana natura, esprime quell'aspirazione a
trarre l'eterna giustizia nel dominio dell'esperienza, ossia
dell'individuazione; e in pari tempo è indice d'una
consapevolezza sentita, ma non ancora limpida, del fatto che, come
ho detto più sopra, la volontà di vivere recita a
proprie spese la grande tragedia e commedia, e che la medesima ed
unica volontà vive in tutti i fenomeni. Tale carattere
è il seguente. Vediamo talvolta un uomo per una grande
iniquità subita, o di cui forse è stato semplice
testimone, infuriarsi a tal segno, che impegna la sua propria vita,
consapevolmente e senza possibile salvezza, per prendere vendetta di
chi quell'iniquità ha commessa. Lo vediamo per esempio
ricercare durante anni un potente oppressore, ucciderlo alfine e
quindi morire egli medesimo sul patibolo, come aveva preveduto, e
che anzi spesso non aveva punto cercato d'evitare; avendo la sua
vita conservato valore per lui soltanto come mezzo per la vendetta.
Specialmente fra gli spagnoli si trovano questi esempi54. Se noi
adunque osserviamo attentamente lo spirito di quella sete di
compensazione, la troviamo assai differente dalla vendetta comune,
che vuole mitigare il male sofferto mediante la vista del male
provocato. Troviamo, anzi, che il suo scopo merita d'esser chiamato
non tanto vendetta quanto punizione: poi che in lei si ritrova
propriamente l'intento di un'azione sul futuro, mediante l'esempio,
e senza alcun fine di proprio vantaggio, né per l'individuo
vendicatore, perché esso vi soccombe, né per una
società, la quale foggia a sé con leggi la sicurezza;
che essendo quella pena inflitta da un singolo, non dallo Stato, e
neppure in esecuzione d'una legge, colpisce invece sempre un'azione,
che lo Stato non voleva e non poteva punire, e di cui disapprova la
pena. Mi sembra che lo sdegno, il quale spinge un siffatto uomo
sì lungi oltre i confini d'ogni egoismo, balzi dalla
più profonda con scienza, che esso sia la volontà
stessa di vivere, la quale in tutti gli esseri, in tutti i tempi si
rivela; che ad esso il più lontano avvenire appartenga in
egual maniera che il presente, e non possa essere indifferente.
Affermando questa volontà, pretende che nello spettacolo, in
cui è rappresentata l'essenza di lei, non riapparisca una
così mostruosa iniquità, e vuole, con l'esempio d'una
vendetta contro la quale non esiste difesa, che il timor della morte
non trattiene il vendicatore, sbigottire ogni malfattore futuro. La
volontà di vivere, pure affermandosi ancora, non si lega qui
più al singolo fenomeno, all'individuo, bensì
abbraccia l'idea dell'uomo e vuol conservarne il fenomeno puro da
codesta mostruosa, rivoltante iniquità. È un raro,
significante, anzi elevatissimo tratto di carattere, mediante il
quale il singolo si sacrifica, aspirando a farsi braccio dell'eterna
giustizia, di cui ancora disconosce la vera essenza.
§ 65.
Con tutte le considerazioni fatte finora sulle azioni umane abbiamo
preparata l'ultima, e molto alleviato il compito che ci rimane:
elevare a chiarezza filosofia e concatenare nel nostro sistema il
vero significato etico dell'azione, che nella vita si indica con le
parole buono e cattivo, con le quali ci s'intende perfettamente.
Ma voglio dapprima ricondurre al lor senso verace quei concetti di
buono e cattivo, che dagli scrittori filosofici dei nostri giorni
vengono trattati, cosa singolarissima, come concetti semplici, e
quindi non atti ad analisi alcuna. Questo farò,
affinchè non s'abbia per avventura a restare nella nebbiosa
illusione, ch'essi contengano più di quanto contengono in
effetti, e già esprimano in sé e per sé quanto
occorre al nostro argomento. E posso farlo, perché io stesso
son così lontano dal cercarmi nell'etica un riparo dietro la
parola buono, quanto lontano fui dal cercarlo finora dietro le
parole bello e vero; per poi far credere mediante l'appiccicamento
di un – tà – che oggi si pretende ch'abbia una speciale
σεμνότης e quindi in molti casi può servire, e mediante
un'aria solenne, d'aver con la formulazione di codeste tre parole
fatto più che indicar tre concetti assai ampi ed astratti, e
quindi punto ricchi di contenuto, i quali hanno ben diversa origine
e diverso valore. A quale uomo invero, cui sian noti gli scritti dei
dì nostri, non son venute finalmente a nausea quelle tre
parole, per quanto riferentisi in origine a sì nobili cose,
allor ch'egli ha dovuto mille volte vedere, come i più inetti
all'esercizio del pensare credano che basti averle emesse, a bocca
spalancata e con l'aria d'una pecora inspirata, per aver rivelato
una solenne saggezza?
L'esplicazione del concetto di vero è già data nello
scritto sul principio di ragione, cap. 5, §§ 29 sgg. Il
contenuto del concetto di bello ha per la prima volta trovato la sua
giusta illustrazione in tutto il nostro terzo libro. Ora
ricondurremo al suo significato il concetto di buono, cosa che
può farsi con molto poco. Questo concetto è
essenzialmente relativo, e indica la conformità di un oggetto
con una qualsivoglia determinata aspirazione della volontà.
Quindi tutto ciò che conviene alla volontà in
qualunque delle sue manifestazioni, e soddisfa la sua mira, vien
pensato sotto il concetto di buono, per quanta varietà vi
possa essere nel rimanente. Perciò noi diciamo buon cibo,
buone strade, tempo buono, buone armi, buon presagio, etc.: in
breve, chiamiamo buono tutto ciò che è come noi
vogliamo che sia; quindi per l'uno può esser buono ciò
che per l'altro è addirittura l'opposto. Il concetto di buono
si suddivide in due sottospecie: quella cioè della
soddisfazione immediata e quella della mediata, vale a dire la
soddisfazione della volontà nel futuro: e sono il piacevole e
l'utile. Il concetto opposto viene espresso con la parola cattivo, e
più raramente e astrattamente con la parola male, che indica
così tutto quanto non si confaccia a ciascuna aspirazione
della volontà. Come tutti gli altri esseri, che posson venire
in relazione con la volontà, si son poi detti buoni anche
uomini, ai desiderati fini favorevoli, servizievoli, amicamente
disposti, benefici; buoni adunque nel medesimo senso, e sempre con
la riserva della relatività di codesto senso, quale si mostra
per esempio nella frase: «Costui è buono verso di me, e
non verso di te». Coloro invece, il cui carattere comportava
di non porre ostacolo in genere alle altrui aspirazioni, e
costantemente erano servizievoli, benevoli, amichevoli, benefici,
furon chiamati uomini buoni per cotale relazione della loro condotta
con la volontà degli altri. Il concetto opposto s'indica in
tedesco, e da forse cent'anni anche in francese, riferendosi ad
esseri conoscenti (animali e uomini) con parola diversa da quella
usata per gli esseri privi di conoscenza – ossia la parola böse
(malvagio), méchant, mentre in quasi tutte le altre lingue
codesto divario non esiste, e κακος, malus, cattivo, bad vengono
usati sì per gli uomini sì per le cose inanimate,
quando si oppongano ai fini di una determinata, individuale
volontà. Partita adunque in tutto e per tutto dal lato
passivo del buono, l'indagine poteva solo più tardi volgersi
all'attivo, e studiar la condotta dell'uomo chiamato buono non
più in rapporto ad altri, bensì a lui medesimo,
proponendosi in particolar modo la spiegazione sì della stima
puramente obiettiva, che quella condotta visibilmente produceva in
altri, sì della singolar contentezza di sé prodotta in
lui stesso; come, al contrario, dell'intimo dolore, che accompagna
la cattiva intenzione, per quanti vantaggi esteriori produca a chi
la nutre. Ora, di qui ebbero origine i sistemi etici, tanto
filosofici quanto religiosi. Gli uni e gli altri cercan sempre di
collegare in qualche modo la felicità con la virtù; i
primi, o in virtù del principio di contraddizione, o anche in
virtù del principio di ragione, ma sempre sofisticamente; gli
ultimi invece affermando l'esistenza d'altri mondi da quello che
può esser conosciuto dall'esperienza55.
Viceversa per l'indagine nostra l'intima essenza della virtù
si rivelerà come una tendenza in direzione affatto opposta a
quella che conduce alla felicità, ossia al benessere e alla
vita.
In virtù di quanto fu detto più sopra, il buono
è, considerato nel suo concetto, των προς τι,sia è
ogni cosa buona essenzialmente relativa, avendo la sua essenza sol
nel suo rapporto con una volontà in atto. Bene assoluto
è quindi una contraddizione: sommo bene, summum bonum,
significa ancora lo stesso, cioè propriamente il finale
appagarsi della volontà, dopo il quale nessun volere nuovo
subentri: un ultimo motivo, il cui raggiungimento produca una
indistruttibile soddisfazione della volontà. Per le
considerazioni fatte finora in questo quarto libro, un tal bene non
si può concepire. La volontà non può per
qualsivoglia appagamento cessar di ricominciare ognora a volere,
più di quanto possa il tempo cominciare o finire: una
durevole soddisfazione, che appaghi appieno e per sempre la sua
sete, non esiste per lei. Ella è la botte delle Danaidi: non
v'ha per lei alcun sommo bene, alcun bene assoluto, bensì
ognora appena un bene provvisorio. Ma se frattanto piacesse
mantenere un posto onorifico a un'antica espressione, la quale per
abitudine non si vorrebbe del tutto sopprimere, come a un
funzionario emerito, allora si potrebbe chiamar bene assoluto,
summum bonum in modo tropico e figurato, la completa soppressione e
negazione della volontà, la vera assenza di volontà,
che unica per sempre placa e sopprime la sete del volere, unica da
quella pace la quale non può più esser turbata, unica
ci redime dal mondo. Di lei tratteremo alla fine di tutta la nostra
opera, considerandola come unico radicale rimedio della malattia, di
fronte alla quale tutti gli altri beni non sono che palliativi
anodini. In tal senso il greco τελος, com'anche il latino finis
bonorum, corrisponde ancor meglio alla verità. E questo basti
intorno alle parole buono e cattivo; veniamo ora al sodo.
Se un uomo, non appena ne abbia l'occasione e nessun potere esterno
lo trattenga, è sempre inclinato a commettere ingiustizia, lo
chiamiamo cattivo. Secondo la nostra spiegazione dell'ingiustizia,
ciò significa che costui non solo afferma la volontà
di vivere, quale essa si manifesta nel suo corpo, ma in codesta
affermazione va tanto oltre, da negare la volontà
manifestantesi in altri individui. Egli pretende con ciò le
forze loro pel servigio della volontà propria, e l'esistenza
loro cerca di sopprimere, quando della volontà di lui essi
contrariano le aspirazioni. Di ciò è sorgente prima un
alto grado di egoismo, la cui essenza fu esposta più sopra.
Due cose son qui subito palesi: primo, che in un tale uomo si
esprime una volontà di vivere estremamente impetuosa,
oltrepassante di gran lunga l'affermazione del suo proprio corpo;
secondo, che la conoscenza di lui, tutta presa dal principio di
ragione e prigioniera nel principio individuationis, rimane
attaccata alla distinzione completa messa da quello tra la sua
persona e tutte le altre. Perciò egli cerca solo il benessere
proprio, affatto indifferente a quello di tutti gli altri, il cui
essere è a lui del tutto estraneo, separato dal suo mediante
un ampio abisso. Gli altri vede egli addirittura come larve senza
realtà. E codeste due note sono gli elementi fondamentali del
carattere malvagio.
Quella grande vivacità del volere è intanto già
in sé e per sé una perenne fonte di dolore. Dapprima,
perché ogni volere, in quanto tale, deriva dalla privazione,
ossia dal dolore (perciò, come il lettore ricorderà
dal terzo libro, il momentaneo tacere della volontà, che si
produce appena noi come puro, privo di volontà soggetto del
conoscere – correlato dell'idea – ci abbandoniamo alla
contemplazione estetica, è già per l'appunto un
elemento principale della gioia provata davanti al bello). In
secondo luogo, perché, in forza della causale concatenazione
delle cose, quasi tutte le aspirazioni rimangono inappagate, e la
volontà viene ben più spesso ostacolata che
soddisfatta; sì che, anche per questo, vivace e forte volere
trae sempre con sé vivace e forte soffrire. Imperocché
ogni soffrire non è null'altro se non inappagato e
contrariato volere: lo stesso dolore del corpo, quando questo vien
ferito o distrutto, è in quanto dolore unicamente possibile
pel fatto, che il corpo non è se non la volontà
medesima fattasi oggetto. Perciò adunque, poi che molto e
vivo soffrire da molto e vivo volere è inseparabile,
già l'espressione del volto in uomini assai cattivi ha
l'impronta dell'interno dolore. Quand'anche abbiano raggiunto ogni
felicità esteriore, hanno sempre aspetto d'infelici, a meno
che non si trovino in uno stato di giubilo momentaneo o che
s'infingano. Da questo interno tormento, che in loro è
proprio direttamente essenziale, vien prodotta in ultimo perfino
quella gioia del male altrui, non più causata dal semplice
egoismo, ma addirittura disinteressata, che è la
malvagità vera e propria, e sale fino alla crudeltà.
Per essa l'altrui dolore non è più un mezzo a ottenere
il conseguimento dei fini della propria volontà, bensì
scopo a se stesso. La precisa spiegazione di questo fenomeno
è la seguente. Essendo l'uomo fenomeno della volontà,
illuminato dalla più chiara conoscenza, paragona sempre
l'effettivo, provato appagamento della sua volontà con
quello, solamente possibile, che la conoscenza gli pone davanti agli
occhi. Da ciò nasce l'invidia: ogni privazione viene
infinitamente esasperata dall'altrui godimento, e sollevata dal
sapere che anche altri patiscono la privazione medesima. I mali a
tutti comuni, e dalla umana vita inseparabili, poco ci turbano: e
similmente quelli che al clima, al paese tutto appartengono. Il
ricordo di mali maggiori, che non siano i nostri, placa il dolore di
questi: attenua i nostri la vista dei dolori altrui. Ora, un uomo
preso da un estremo, impetuoso impeto della volontà, con
ardente cupidigia vorrebbe tutto abbracciare per ispegnere la sete
dell'egoismo; ma intanto, com'è fatale, deve sperimentar che
ogni appagamento è illusorio, né il bene conseguito
mai corrisponde a ciò, che il bene desiderato prometteva,
ossia definitivo cessare della rabbiosa sete; perché invece
il desiderio con l'appagamento non fa che mutar di forma, e in forma
nuova torturare ancora; anzi da ultimo, quando tutte le forme sono
esaurite, la sete della volontà pur senza aspirazione
consapevole permane, manifestandosi come insanabile martirio, qual
sentimento della più atroce desolazione e del vuoto
universale. Tutto questo, che nei gradi ordinari della
volontà, sentito solamente in più tenue misura,
produce anche solo un grado ordinario di turbamento dell'animo, in
colui, che invece è fenomeno della volontà spinto fino
all'aperta cattiveria, sviluppa necessariamente un'estrema tortura
intima, eterna inquietudine, insanabile dolore. Allora costui cerca
in modo indiretto quel sollievo, che non può raggiungere in
modo diretto, ossia cerca di lenire il male suo con la vista
dell'altrui, che egli in pari tempo vede come una manifestazione
della propria forza. Altrui dolore gli diviene scopo in se stesso,
è uno spettacolo nel quale egli esulta: e così nasce
il fenomeno della vera e propria crudeltà, della sete di
sangue, che la storia tanto spesso ci mostra, nei Neroni, nei
Domiziani, nei Robespierre, etc.
Alla malvagità è già affine la sete di
vendetta, che il male paga col male, non per riguardo al futuro, il
che costituisce il carattere della pena, ma solo per il fatto
accaduto, passato; quindi senza vantaggio; non come mezzo, ma come
fine, per letiziarsi nel tormento, da noi stessi inflitto
l'offensore. Ciò che distingue la vendetta dalla pura
malvagità, e in qualche po' la scusa, è un'apparenza
di giustizia; in quanto lo stesso atto, che stavolta è
vendetta, quando fosse legale, ossia compiuto secondo una regola
fissa e notoria, e in seno a una collettività, da cui questa
fosse sanzionata, si chiamerebbe pena, cioè diritto. Fuori
delle sofferenze descritte, nate con la malvagità da una
stessa radice, l'eccessiva volontà, e quindi da quella
inseparabili, alla malvagità è ancora associata
un'altra sofferenza affatto diversa e particolare, la quale si fa
sensibile ad ogni cattiva azione commessa, sia poi questa una
semplice ingiustizia per egoismo, o malvagità pura; e secondo
il tempo della sua durata si chiama breve rimorso o duratura
angoscia della coscienza. Chi abbia presente nella memoria quanto si
contiene finora in questo quarto libro, e particolarmente la
verità illustrata in principio, che alla volontà di
vivere è assicurata ognora la vita stessa, qual semplice
immagine e specchio di lei – quegli troverà che,
conformemente alle considerazioni fatte, il rimorso non può
avere altro significato se non questo che ora seguirà. Ossia,
il suo contenuto, astrattamente espresso, è il seguente, nel
quale si distinguono due parti, che nondimeno devono da ultimo
essere riunite e pensate come affatto congiunte.
Per quanto fitto sia il velo di Maja che avvolge l'animo del
malvagio, ossia per quanto chiusa sia la prigionia di lui nel
principio individuationis, in virtù del quale egli tiene la
propria persona come distinta assolutamente, e da ogni altra
separata mediante un ampio abisso, la qual cognizione, perché
è la sola conforme al suo egoismo e ne forma il sostegno,
egli tien ferma con tutta forza, essendo quasi sempre la cognizione
corrotta dalla volontà, si agita tuttavia nell'intimo della
sua coscienza l'occulta sensazione, che un siffatto ordine di cose
sia nondimeno nient'altro che fenomeno; e che in sé la cosa
sia tutt'altra. Dividano pur tempo e spazio lui medesimo da altri
individui e dai tormenti inenarrabili ch'essi soffrono, anzi per
cagion sua soffrono, e veda egli pur costoro come affatto stranieri
a lui medesimo, tuttavia è l'unica volontà di vivere
che in sé, prescindendo dalla rappresentazione e dalle sue
forme, in essi tutti si palesa; ella è, che se stessa
disconoscendo, contro sé volge le proprie armi; e mentre
cerca con un dei propri fenomeni un maggiore benessere,
perciò appunto infligge a un altro il maggior dolore. E
l'uomo malvagio è per l'appunto codesta volontà tutta
intera, sì ch'ei viene a essere non solo il tormentatore, ma
anche il tormentato, dal cui dolore egli è separato e si
crede libero sol mediante un sogno illusorio, che ha per forma il
tempo e lo spazio. Ma il sogno svanisce; ed egli, per forza della
verità, deve il piacere pagare col dolore; tutta la
sofferenza ch'egli conosce solo in quanto possibile, lui colpisce
effettivamente, in quanto egli è volontà di vivere;
imperocché sol per la conoscenza individuale, solo per
virtù del principii individuationis, e non già in
sé, sono distinte possibilità e realtà,
lontananza e vicinanza di tempo e di spazio. È questa la
verità, che miticamente, ossia conformata al principio di
ragione e tradotta con ciò nella forma del fenomeno, viene
espressa dalla dottrina della migrazione delle anime: ma la sua
espressione più pura da ogni mescolanza l'ha per l'appunto in
quell'angoscia oscuramente sentita, eppure inconsolabile, che si
chiama rimorso. Ma questo procede inoltre da una seconda, immediata
conoscenza, con quella prima esattamente congiunta: ossia dalla
conoscenza del vigore, con cui nell'individuo malvagio la
volontà di vivere si afferma; vigore che va ben oltre
l'individuale fenomeno di lui, fino alla completa negazione della
medesima volontà rivelantesi in altri individui. Quindi
l'interno orrore del malvagio per la sua propria azione, orrore
ch'ei cerca di celare a se stesso, contiene, oltre quel vago
sentimento della nullità e della pura apparenza sì del
principio di ragione sì della distinzione, ch'esso mette tra
lui e gli altri, contiene, dico, in pari tempo anche la cognizione
della violenza della propria volontà, dell'impeto con cui
questa ha ghermito la vita, e l'ha succhiata. Questa vita appunto,
di cui egli vede la faccia orrenda nell'angoscia di chi è da
lui oppresso; e con la quale è nondimeno così
strettamente avvinto, che perciò appunto il più tristo
orrore proviene da lui medesimo, qual mezzo per la compiuta
affermazione della sua propria volontà. Egli si riconosce
come concentrato fenomeno della volontà di vivere, sente fino
a qual punto ei sia in potere della vita, e quindi anche degli
innumerabili dolori, che a questa sono essenziali, avendo essa
infinito tempo e infinito spazio per cancellare il divario tra
possibilità e realtà, e tutti i mali da lui per ora
sol conosciuti convertire in mali provati. I milioni d'anni delle
continue rinascite sussistono in verità soltanto nel
concetto, come soltanto nel concetto esistono tutto il passato ed il
futuro: il tempo realmente pieno, la forma del fenomeno della
volontà è solo il presente, e per l'individuo è
il tempo ognora nuovo: egli si ritrova sempre come nato allora.
Imperocché dalla volontà di vivere è
inseparabile la vita, e sua unica forma è l'adesso. La morte
(mi si scusi la ripetizione del paragone) somiglia al tramonto del
sole, il quale solo in apparenza viene inghiottito dalla notte,
mentre in realtà, esso ch'è sorgente unica d'ogni
luce, senza interruzione arde, a nuovi mondi reca nuovi giorni, in
ogni attimo si leva e in ogni attimo tramonta. Principio e fine
toccano solo all'individuo, per mezzo del tempo, forma del fenomeno
individuale per la rappresentazione. Fuori del tempo non è
che la volontà, la cosa in sé di Kant, e la sua
adeguata oggettità, ossia l'idea di Platone. Perciò
non dà il suicidio salvazione di sorta: ciò che
ciascuno nel suo più intimo vuole, ciò deve egli
essere: e ciò che ciascuno è, ciò appunto egli
vuole. Quindi accanto alla cognizione soltanto sentita della pura
apparenza e della nullità delle forme della rappresentazione,
per cui vengono distinti gli individui, gli è
l'autocognizione della propria volontà e del suo grado quella
che dà pungolo alla coscienza. Il corso vitale produce
l'immagine del carattere empirico, di cui è originale il
carattere intelligibile, ed il malvagio ha orrore di questa
immagine: sia essa tracciata a grosse linee, sì che il mondo
partecipi al suo proprio orrore, o sia tracciata invece in linee
così sottili, ch'egli solo le veda: che lui unicamente essa
immagine tocca in modo immediato. Il passato sarebbe indifferente,
come semplice fenomeno, e non potrebbe angustiare la coscienza, se
il carattere non si sentisse sciolto da ogni tempo e, attraverso il
tempo, immutabile, finch'esso non abbia rinnegato se medesimo.
Perciò azioni commesse anche da gran pezzo pesano pur sempre
sulla coscienza. La preghiera: «Non m'indurre in
tentazione», significa: «Non lasciarmi vedere che io mi
sia». Dalla forza, con cui il malvagio afferma la vita, e che
gli si manifesta nei dolori da lui inflitti ad altri, egli misura
quanto lontane siano da lui appunto la rinunzia e la negazione di
quella volontà, che sono l'unica redenzione possibile dal
mondo e dal suo male. Vede, fino a che punto egli al mondo
appartiene ed è con esso avvinto: il conosciuto dolore altrui
non è giunto a scuoterlo: della vita e del dolore
direttamente provato egli è in pieno potere. Tralasciamo per
ora di vedere, se questa diretta prova infrangerà e
vincerà la violenza del suo volere.
Quest'illustrazione del valore e dell'intima essenza del malvagio,
la qual sol come sentimento, ossia non come chiara, astratta
conoscenza, è il contenuto del rimorso, acquisterà
ancor maggior limpidità e compiutezza mediante l'analisi,
condotta nel medesimo modo, del buono, come proprietà
dell'umano volere; e poi, da ultimo, della rassegnazione e
santità, la quale proviene da quella proprietà,
quand'essa ha raggiunto il grado più alto. Imperocché
i contrari s'illuminano sempre vicendevolmente, e il giorno rivela
insieme se medesimo e la notte, secondo ha detto eccellentemente
Spinoza.
§ 66.
Una morale senza fondamento, ossia un semplice moraleggiare, non
può aver effetto, perché non fornisce motivi. Ma una
morale che dia motivi, può farlo solo con l'agire sull'amore
di sé. Ed il frutto di codesto amore non ha alcun valore
morale. Ne deriva, che per la via della morale, e della conoscenza
astratta in genere, nessuna genuina virtù può essere
prodotta; bensì questa deve provenire dalla conoscenza
intuitiva, la quale nell'individuo estraneo riconosce l'essenza
medesima che è in noi stessi.
La virtù procede invero dalla conoscenza; ma non
dall'astratta, comunicabile per mezzo di parole. Se così
fosse, la si potrebbe insegnare; e proclamandone qui astrattamente
l'essenza, e la cognizione che alla virtù servisse di
fondamento, avremmo migliorato ognuno che ciò avesse
compreso. Ma non è punto così. Con etiche conferenze o
prediche non si fabbrica un virtuoso, più di quanto tutte le
estetiche, a cominciar da quella d'Aristotele, abbian mai fabbricato
un poeta. Che per la vera e propria essenza intima della
virtù il concetto è infruttifero, come per l'arte, e
solo in maniera affatto subordinata può render servigio
nell'esecuzione e conservazione di quanto s'è per altra via
conosciuto e deciso. Velle non discitur. Sulla virtù, ossia
sulla bontà dell'animo, non hanno i dogmi astratti in
realtà effetto alcuno: non la turbano i falsi, e
difficilmente la favoriscono i veri. E sarebbe d'altronde gran male,
se la cosa più importante dell'umana vita, il suo valore
etico, da valere per l'eternità, dipendesse da elementi, il
cui acquisto è tanto soggetto al caso, come sono dogmi,
religiosi, filosofemi. I dogmi hanno per la moralità questo
semplice valore, che in essi chi è già virtuoso in
virtù d'una diversa conoscenza la quale spiegheremo, trova
uno schema, un formulario, secondo il quale rende conto, conto il
più delle volte immaginario, alla propria ragione degli atti
non egoistici da lui compiuti, dei quali la ragione, ossia egli
medesimo, non comprende l'essenza. E di tal conto egli ha abituato
la ragione a contentarsi.
Forte influenza possono bensì avere i dogmi sulla condotta,
sull'agire esterno; così pure l'abitudine e l'esempio
(quest'ultimo, perché l'uomo comune non fida nel giudizio
proprio, di cui conosce la fiacchezza, bensì segue soltanto
la propria o l'altrui esperienza); ma con ciò non è
mutato l'animo56. Ogni conoscenza astratta non da che motivi: i
motivi tuttavia possono, com'è mostrato più sopra,
cambiar solamente l'indirizzo della volontà, e non la
volontà medesima. Ma intanto ogni conoscenza mediata
può sulla volontà agire sol come motivo;
perciò, comunque la guidino i dogmi, nondimeno quel che
l'uomo propriamente e genericamente vuole rimane sempre il medesimo:
egli ha solo ricevuto altri pensieri intorno alle vie, per cui la
sua volontà va attuata, e motivi immaginari lo guidano come i
reali. Quindi è per esempio affatto indifferente, rispetto al
suo valore morale, se egli faccia grandi donazioni a indigenti,
persuaso di riavere in una vita futura, decuplicato, il suo dono, o
se impiega quella stessa somma a migliorare una tenuta che gli
frutterà interessi bensì tardivi, ma perciò
appunto più sicuri e considerevoli: – e un assassino, non
meno del bandito, che si guadagna col delitto un compenso, è
anche quegli che ortodossamente consegna l'eretico alle fiamme, o
addirittura, guardato nel suo intimo, anche colui che scanna i
Turchi in Terrasanta, se, come l'altro, ciò propriamente fa
perché crede di guadagnarsi così un posto nel cielo.
Imperocché solo a se stessi, al proprio egoismo, voglion
costoro pensare; proprio come quel bandito, da cui essi si
distinguono unicamente per l'assurdità dei mezzi. Dal di
fuori, come abbiam detto, si perviene alla volontà solo per
mezzo di motivi: nondimeno questi mutano esclusivamente il modo con
cui la volontà si manifesta, e non mai la volontà
stessa. Velle non discitur.
Nelle buone azioni, il cui autore si fonda su dogmi, bisogna
però sempre distinguere, se codesti dogmi sono poi veramente
il motivo dell'azione, o se, com'io dicevo poc'anzi, non sono che
l'apparente giustificazione, con cui quegli cerca di appagare la
propria ragione intorno ad una buona azione originata da tutt'altra
sorgente, ch'egli compie perché è buono, ma che non sa
sufficientemente spiegarsi, perché non è filosofo, e
pur vorrebbe pensar qualcosa in proposito. Ma la differenza è
assai difficile a scorgere, perché sta nell'intimo
dell'animo. Perciò non possiamo quasi mai rettamente
giudicare il valore morale delle azioni altrui, e raramente delle
nostre. Gli atti e i modi d'agire del singolo, come d'un popolo,
possono da dogmi, esempii e abitudine essere di molto modificati. Ma
in sé son tutte le azioni (opera operata) nient'altro che
vuote immagini, e soltanto l'animo, che a quelle mena, dà
loro il valore morale. E questo può in realtà essere
il medesimo, anche sotto ben diversa apparenza esteriore. Pur
possedendo lo stesso grado di malvagità, che presso un popolo
si esprime in grossi tratti, con l'assassinio e il cannibalismo, e
nell'altro invece sottilmente e delicatamente en miniature con
intrighi di corte, oppressioni e astute manovre d'ogni maniera:
l'essenza rimane la stessa. Si potrebbe immaginare che uno stato
perfetto, o addirittura fors'anche un dogma di ricompense e pene
nell'al di là, a cui si prestasse fede assolutamente piena,
impedisse ogni delitto: ora, politicamente sarebbe questo un gran
risultato, ma nullo moralmente; anzi si sarebbe solo interdetto alla
vita di riflettere la volontà.
La genuina bontà dell'animo, la disinteressata virtù e
la pura generosità non provengono adunque da conoscenza
astratta, ma bensì tuttavia da una conoscenza: ossia da una
conoscenza immediata ed intuitiva, che non si può cancellare
né eccitare con arzigogoli di ragione; da una conoscenza, che
appunto perché non è astratta, non si lascia
comunicare, ma deve in ognuno nascere spontanea, e che perciò
trova la sua vera, adeguata espressione non già in parole,
bensì esclusivamente in atti, nella condotta, nel corso
vitale dell'uomo. Noi, che qui cerchiamo la teoria della
virtù, e quindi dobbiamo anche esprimere astrattamente
l'intimo essere della conoscenza, che le serve di base, non potremo
tuttavia fornire in tale espressione quella conoscenza in sé,
bensì esclusivamente il suo concetto. Sempre dovremo partire
dalla condotta, sol nella quale essa diviene visibile, e alla
condotta riferirci come alla sua sola espressione adeguata, che noi
possiamo appena chiarire e spiegare, ossia formulando astrattamente
ciò che propriamente in lei accade.
Ma prima che noi, in contrasto con la trattazione fatta del
malvagio, veniamo a trattare di ciò ch'è propriamente
buono, ci tocca accennare, come grado intermedio, alla semplice
negazione del malvagio: alla giustizia. Che cosa siano giusto e
ingiusto, abbiamo sufficientemente spiegato: potremo quindi dire ora
in breve, che colui il quale volontariamente riconosce e rispetta
quel confine puramente morale, anche dove nessuno stato o altra
forza lo difende, e perciò, secondo la nostra spiegazione,
non arriva mai nell'affermazione della propria volontà fino a
negar quel che si palesa in un altro individuo – colui è
giusto. Non infliggerà dunque dolori ad altri, per accrescere
il suo proprio benessere: ossia non commetterà nessun
crimine, rispetterà i diritti, rispetterà il bene
altrui. E noi vediamo, ora, che per un tale uomo giusto, il
principium individuationis non è già più, come
per il malvagio, un'immobile parete divisoria; vediamo ch'egli non
afferma, come il malvagio, solamente il suo proprio fenomeno di
volontà, e tutti gli altri nega; che gli altri uomini non
sono per lui semplici larve, la cui essenza sia affatto diversa
dalla sua. Viceversa con la sua maniera d'agire dimostra ch'egli la
sua propria essenza, ossia la volontà di vivere, in quanto
cosa in sé, riconosce anche nel fenomeno estraneo, dato a lui
esclusivamente come rappresentazione; ritrova in quello se stesso,
fino a un certo grado, il grado del non commettere ingiustizia, del
non ferire. In questo grado appunto egli penetra di là dal
principio individuationis, dal velo di Maja: considera l'essenza,
ch'è fuori di lui, pari, fino a questo segno, alla propria:
non fa ingiuria.
In codesta giustizia, quando la si guardi nel suo intimo, già
si trova il proposito di non andar nell'affermazione della
volontà propria tant'oltre, ch'essa neghi gli estranei
fenomeni di volontà, obbligandoli a servirci. Si vorrà
dunque agli altri tanto concedere, quanto da loro si riceve. Il
grado supremo di tale giustizia dell'animo, che sempre nondimeno
già s'accoppia con la bontà vera e propria, il cui
carattere non è più soltanto negativo, arriva fino a
porre in dubbio i propri diritti su di un patrimonio ereditato, a
voler mantenere il corpo sol mediante le forze proprie,
intellettuali o corporali, ad accogliere ogni altrui prestazione di
servigi, ogni lusso come un rimprovero, e ad abbracciare da ultimo
la volontaria povertà. Così vediamo Pascal, quando
prese l'indirizzo ascetico, non poter più sopportare d'essere
servito, sebbene avesse servi a sufficienza; non badando alla
permanente cagionevolezza della sua salute, si rifaceva da sé
il letto, toglieva egli stesso il suo cibo dalla cucina, e
così via (Vie de Pascal par sa soeur, p. 19). In piena
corrispondenza con ciò si narra che taluni Hindù, e
addirittura dei Rajà, pur possedendo molta ricchezza, questa
impiegano solo nel mantenimento della famiglia, della corte dei
servi, mentr'essi con rigido scrupolo osservano la massima di nulla
mangiare che non abbiano con le lor mani seminato e raccolto. In
fondo a questo è nondimeno un certo malinteso:
imperocché il singolo uomo può, appunto essendo ricco
e potente, al complesso dell'umana società rendere servigi
sì considerevoli, da corrispondere all'ereditata ricchezza,
della cui sicurtà egli va debitore allo Stato. Propriamente
quell'eccessiva giustizia di cotali hindù è già
più che giustizia: è reale rinunzia, negazione della
volontà di vivere, ascesi; del che tratteremo da ultimo.
Viceversa può il semplice far niente e il vivere delle forze
altrui, con una proprietà ereditata, senza nulla operare,
esser già considerato come moralmente ingiusto, anche se deve
rimaner giusto secondo le leggi positive.
Abbiamo trovato, che la giustizia volontaria ha la sua più
profonda origine in un certo grado di superamento del principii
individuationis, mentre in questo principio riman sempre del tutto
prigioniero l'uomo ingiusto. Codesto superamento può aver
luogo non soltanto nel grado a ciò richiesto, ma anche in un
grado maggiore, che spinge al benvolere e al benfare attivi,
all'amor del prossimo: e questo può accadere per quanto forte
ed energica sia in sé pur la volontà manifestantesi in
tale individuo. Sempre può la conoscenza tenerlo in
equilibrio, insegnargli a resistere alla tentazione
dell'ingiustizia, fino a produrre tutti i gradi della bontà e
addirittura della rassegnazione. Perciò l'uomo buono non va
punto considerato come un fenomeno di volontà, il quale sia
dall'origine più debole dell'uomo cattivo: bensì
è la conoscenza, che in lui governa il cieco impeto della
volontà. Vi sono invero individui, che sembrano buoni sol per
la debolezza della volontà in essi palesantesi: ma quel
ch'essi veramente sono appare presto dal fatto, che sono incapaci
d'ogni notevole sforzo su se medesimi per compiere un'azione giusta
o buona.
Se poi ora ci capita, come rara eccezione, un uomo, il quale per
avventura possegga una considerevole rendita, ma di questa poco
prenda per sé, e tutto il rimanente dia ai miseri, mentr'egli
medesimo di molti godimenti e comodi si privi; e se noi cerchiamo di
spiegarci la condotta di quest'uomo; troveremo, prescindendo affatto
dai dogmi ond'egli vuol forse far comprensibile alla propria ragione
il suo agire, essere questa la più semplice, generica
espressione, e questo il carattere essenziale della sua condotta:
che egli minor differenza pone, di quanto solitamente si faccia, tra
sé e gli altri. Se per l'appunto codesta differenza, agli
occhi di tanti altri, è sì grande, che altrui dolore
è al malvagio diretta gioia, all'ingiusto è gradito
mezzo per conseguire il benessere proprio; e se quegli ch'è
semplicemente giusto si limita a non causar quel dolore; e se in
genere la maggior parte degli uomini vede e conosce in sua
prossimità innumerabili dolori altrui, ma non si risolve a
mitigarli, perché dovrebbe a tal fine patire a sua volta
qualche privazione; se adunque a ciascuno di cotali uomini sembra
che un forte divario passi tra il proprio io e l'altrui; a quel
generoso invece, che noi immaginammo, non pare quel divario
sì considerevole. Il principium individuationis, la forma del
fenomeno, non lo tiene più così stretto; invece il
dolore, ch'ei vede in altri, lo tocca quasi come il suo proprio:
egli cerca perciò di tener tra questo e quello l'equilibrio,
si rifiuta godimenti, si assume privazioni, per attenuare i mali
altrui. Si persuade, che la distinzione tra lui e gli altri, la
quale è per il malvagio un sì grande abisso, è
in realtà prodotta da un effimero, illusorio fenomeno;
conosce, direttamente e senza bisogno di sillogismi, che
l'in-sé del suo proprio fenomeno è pur quel
dell'altrui, ossia è quella volontà di vivere, che
costituisce l'essenza d'ogni cosa e in tutto vive; conosce, anzi,
che quest'essenza si estende fino agli animali e alla natura intera:
perciò non tormenterà mai un animale57. Egli è
oramai così poco in grado di lasciar che altri stenti la
vita, mentr'egli possiede financo il superfluo, come a nessuno
verrebbe in mente di soffrire una giornata di fame, per avere il
dì seguente più di quanto possa mangiare.
Imperocché a quegli, che pratica le opere dell'amore, il velo
di Maja si è fatto trasparente; da lui è svanita
l'illusione del principii individuationis. Se stesso, il suo io, la
sua volontà egli conosce in ogni essere, e quindi anche in
chi soffre. Da lui è fuggita la stoltezza, con la quale la
volontà di vivere, se medesima disconoscendo, qui gode in un
individuo fuggitivi, finti piaceri, mentre in cambio là
soffre e stenta; e così affanno cagiona ed affanno patisce;
senza conoscere che, come Tieste, la propria carne avido divora, e
poi qui geme sopra un immeritato dolore, là folleggia senza
timpr della Nemesi, sempre e sempre sol perché se stesso
disconosce nell'altrui fenomeno, e quindi non percepisce l'eterna
giustizia, essendo prigioniero del principii individuationis, ossia
ognora di quel modo di conoscenza, che il principio di ragione
governa. Esser guarito da questo errore illusorio del velo di Maja,
e praticar le opere dell'amore, è tutt'uno. Questa pratica
è l'immancabile sintomo di quella guarigione.
Il contrario del rimorso, del quale furon chiariti più sopra
l'origine e il valore, è la buona coscienza, la soddisfazione
che noi proviamo dopo ogni azione, quale viene generata dal diretto
riconoscer la nostra propria essenza in sé anche nell'altrui
fenomeno, dà di rimando a noi la conferma di codesta
conoscenza: la conoscenza, cioè, che il nostro vero io non
risiede soltanto nella persona nostra, la quale è un fenomeno
isolato, ma bensì in tutto quanto ha vita. Da ciò si
sente il cuore fatto più ampio, come viceversa per l'egoismo
si sente più stretto. Imperocché, come l'egoismo
concentra la nostra partecipazione nel singolo fenomeno del nostro
individuo, nel quale stato la conoscenza ci tiene ognora presenti i
pericoli innumerevoli, onde questo fenomeno è minacciato,
sì che ansia e preoccupazione divengono il fondo dell'animo
nostro, la conoscenza invece che ogni cosa vivente è per
l'appunto la nostra stessa essenza in sé com'è nostra
la nostra persona, estende viceversa la nostra partecipazione a
tutto quanto vive; ed il cuore ne è allargato. Mediante
questo diminuito interesse al nostro io, l'angosciosa ansia a suo
riguardo viene intaccata e limitata nella radice: di là
proviene la tranquilla, fiduciosa letizia, che animo virtuoso e
buona coscienza ci danno; di là viene il loro sempre
più chiaro manifestarsi ad ogni azione buona, perché
l'azione buona ci conferma la verità di quella disposizione.
L'egoista si sente circondato da fenomeni estranei ed ostili, ed
ogni sua speranza poggia sul bene proprio. Il buono vive in un mondo
di fenomeni amici: il bene d'ognuno di questi è il suo bene.
Quindi, se pur la cognizione dell'umano destino universale non
può far lieto il suo animo, nondimeno il saldo riconoscer
l'essenza propria in tutto ciò che vive gli dà un
certo equilibrio, e perfino serenità d'animo. Perché
l'interesse diffuso su innumerevoli fenomeni non può
angustiare come l'interesse concentrato sopra uno solo. I casi
accidentali ond'è colta l'universalità degli individui
si compensano, mentre quelli occorrenti a un individuo isolato
apportano felicità o sventura.
Se altri, adunque, potè stabilire principi morali,
gabellandoli come regole di virtù, e leggi da seguirsi per
obbligo, non posso invece io, come ho detto, fornirne di altrettali:
perché all'eternamente libera volontà non ho da
prescrivere dovere né legge. Invece, nell'organismo del mio
sistema ciò che in certo modo corrisponde analogicamente a
quel proposito è la verità, puramente teoretica, di
cui è semplice sviluppo il complesso di questa mia
esposizione. Ossia, che la volontà è l'in-sé
d'ogni fenomeno, e quindi, come tale, sciolta dalle forme
fenomeniche e dalla pluralità; la qual verità io,
riguardo alla condotta, non so esprimere più degnamente che
con la citata formula del Veda: «Tat tvam asi!»
(«questo sei tu!»). Chi sa ripeterla a se stesso con
limpida cognizione e ferma, intima persuasione innanzi a ciascun
essere con cui venga in contatto, è certo con essa di
conseguire ogni virtù e beatitudine, e si trova sulla via
diritta che conduce alla redenzione.
Ma, prima che io proceda oltre e mostri, come termine della mia
trattazione, in qual modo l'amore, di cui già conosciamo
essere origine ed essenza il poter guardare di là dal
principio individuationis, conduca alla redenzione, ossia alla
cessazione completa della volontà di vivere, cioè
d'ogni volere; ed in qual modo vi conduca pure un'altra via, meno
dolce, eppur più frequente; deve ancora venir formulato e
chiarito un paradosso: non perché sia tale, ma perché
è vero, ed entra nella compiutezza del pensiero ch'io voglio
esporre. Esso è il seguente: «Ogni amore τελος,
caritas) è compassione».
§ 67.
Abbiamo veduto come dall'oltrepassamento del principii
individuationis venisse, nel grado minore, la giustizia, e nel
maggiore la bontà vera e propria dell'animo, la quale ci si
mostrò come puro, ossia disinteressato amore per gli altri.
Dove quest'amore si fa perfetto, rende l'individuo estraneo e il suo
destino affatto pari al nostro: più in là non si
può andare, non essendovi ragione di preferire l'altrui
individuo al nostro. Può nondimeno la massa degli individui
estranei, il cui benessere o la cui vita siano in pericolo,
prevalere sui riguardi del bene individuale. In tal caso il
carattere asceso all'altissima bontà e alla perfetta
generosità sacrifica in tutto il suo bene al bene dei
più: così periva Codro, così Leonida,
così Regolo, così Decio Mure, così Arnoldo di
Winkelried, così ciascuno, che volontariamente e
consapevolmente per i suoi, per la patria va a morte sicura. Alla
medesima altezza sta chiunque di buon animo affronti dolore e morte
per l'affermazione di ciò che all'umanità intera giova
ed a buon diritto spetta, ossia per verità generali e
importanti, e per l'estirpazione di grossi errori. Così
periva Socrate, così Giordano Bruno, così trovarono
tanti eroi della verità la morte sul rogo, tra le mani dei
preti.
Ma riguardo al paradosso più sopra formulato ho da
rammentare, che noi già per l'addietro trovammo essere
inerente alla vita, nel suo complesso, il dolore, e dalla vita
inseparabile. Vedemmo pure, come ogni desiderio nasca da un bisogno,
da una mancanza, da una sofferenza; che quindi ogni appagamento
è appena un dolore tolto di mezzo, e non già un
piacere positivo; che le gioie appariscono menzogneramente al
desiderio come un bene positivo, mentre in verità non sono
che negative, quali cessazioni d'un male. Quel che adunque
bontà, amore e nobiltà posson fare per altri, è
sempre nient'altro che lenimento dei loro mali; e quel che per
conseguenza può muoverle alle buone azioni e opere
dell'amore, è sempre soltanto la conoscenza dell'altrui
dolore, fatto comprensibile attraverso il dolore proprio, e messo a
pari di questo. Ma da ciò risulta che il puro amore (αγαπη,
caritas) è, per sua natura, compassione, sia pur grande o
piccolo (è tra questi ogni desiderio inappagato) il dolore
ch'esso lenisce. In diretto contrasto con Kant, il quale ogni vera
bontà e ogni virtù ammette come tali sol quando siano
originate dalla riflessione astratta, e precisamente dal concetto
del dovere e dell'imprativo categorico, mentre dichiara debolezza, e
non virtù, la compassione provata, non esiteremo a dire: il
puro concetto è per la virtù genuina tanto infecondo,
quanto per la genuina arte: ogni vero e puro amore è
compassione, e ogni amore che non sia compassione è egoismo.
Egoismo è l'ερως; compassione è l'αγαπη). I due si
trovano spesso frammisti. Perfino la vera amicizia è sempre
mescolanza di egoismo e compassione: quello sta nel compiacersi
della presenza dell'amico, la cui individualità corrisponde
con la nostra, e costituisce dell'amicizia quasi sempre la massima
parte; questa invece, la compassione, si manifesta nel partecipar
sinceramente al suo bene e al suo male, e nei sacrifizi
disinteressati che per lui si fanno. Perfino Spinoza dice:
benevolentia nihil aliud est, quam cupiditas ex commiseratione orta.
(Eth., II, pr. 27, cor. 3, schol.). A conferma del nostro paradosso
si può osservare, che accento e parole della lingua, e
carezze del puro amore coincidono in tutto col tono della
compassione: e inoltre, di passata, che in italiano compassione e
puro amore vengono indicati con la stessa parola: pietà.
Qui è pure il luogo di spiegare un'altra delle più
sorprendenti proprietà dell'umana natura, il pianto, il
quale, come il riso, appartiene alle manifestazioni ond'è
l'uomo distinto dall'animale. Il piangere non è punto,
senz'altro, espressione del dolore: imperocché i dolori pei
quali si piange sono i meno. Anzi, secondo me, non si piange mai
direttamente per un dolore provato, ma bensì sempre per il
riprodursi di esso nella riflessione. Cioè, dal dolore
provato, pur quand'è corporale, si passa a una pura
rappresentazione di esso, e si trova allora sì
compassionevole il proprio stato, che, se altri fosse a soffrire,
siamo fermamente e sinceramente persuasi che l'aiuteremmo con tutta
pietà e amore. Ma intanto siamo noi stessi l'oggetto di
quella nostra sincera pietà: col più soccorrevole
animo sentiamo d'essere proprio noi i bisognosi d'aiuto; si sente di
patir più di quanto potremmo resistere a veder patire un
altro; e in tal situazione singolarmente complessa, in cui il dolore
direttamente sentito ritorna alla percezione sol con un doppio
rigiro, rappresentandocisi come estraneo, come tale compassionato, e
quindi immediatamente ripercepito come nostro, la natura si da
sollievo mediante quella strana convulsione corporea. Il pianto
è adunque pietà di se stesso, ossia pietà che
torna indietro al suo punto di partenza. Perciò esso ha per
condizione la capacità dell'amore e della compassione, e la
fantasia; quindi né uomini duri di cuore né uomini
privi di fantasia piangono facilmente, ed il pianto vien'anzi ognora
considerato come segno d'un certo grado di bontà del
carattere, e disarma l'ira, perché si sente, che chi
può ancora piangere, deve per necessità essere anche
capace d'amore, ossia di pietà verso altri; questo essendo
che ci mette, nella maniera descritta, in quella disposizione la
quale al pianto conduce. Affatto conforme a questa spiegazione,
è il modo come Petrarca, esprimendo spontaneo e vero il
proprio sentimento, descrive l'origine delle sue lagrime:
I' vo pensando: e nel pensar m'assale
Una pietà sì
forte di me stesso,
Che mi conduce spesso
Ad alto lagrimar, ch'i'
non soleva.
Quanto abbiam detto trova conferma nel fatto che bambini, i quali
abbian patito un dolore, si mettono di solito a piangere solo quando
li si compassiona; ossia non per il dolore, ma per la
rappresentazione di esso. Quando noi non siam mossi al pianto da
nostri, bensì da altrui dolori, ciò accade
perché vivacemente ci mettiamo con la fantasia al posto di
chi soffre, oppure nel suo destino scorgiamo la sorte
dell'umanità intera e quindi principalmente di noi stessi; e
così per un ampio giro pur sempre veniamo a piangere su di
noi, di noi abbiam pietà. Questo sembra anche essere il
motivo principale del comune, e quindi naturale, pianto nei casi di
morte. Chi piange un morto non piange ciò che ha perduto; che
si vergognerebbe di lagrime sì egoiste; mentre invece a volte
si vergogna di non piangere. Piange in primo luogo invero la sorte
del defunto: nondimeno piange anche quando in seguito a lunghe,
gravi e insanabili sofferenze la morte è per quegli una
desiderabile liberazione. Principalmente lo stringe adunque
compassione per il destino dell'umanità intera, la quale
è in potere d'un fato di morte, in cui ogni vita per quanto
attiva e spesso ricca d'azioni dovrà spegnersi e ridursi al
nulla. E in questo fato dell'umanità egli vede soprattutto il
fato proprio: tanto più, quanto più vicino era a lui
il morto: più che mai, quanto il morto era suo padre. Fosse
pure a quest'ultimo per età e malattia divenuta un tormento
la vita, fosse pure il padre nel suo stato d'impotenza ridotto un
carico grave per il figlio, questi piange pur sempre vivamente la
sua morte: per il motivo che s'è detto58.
§ 68.
Dopo questa digressione sull'identità del puro amore e della
pietà, la quale ultima facendo ritorno a noi medesimi ha per
sintomo il fenomeno del pianto, riprendo il filo della nostra
esposizione riguardante il valore etico della condotta; per venire a
mostrare come dalla sorgente medesima, da cui proviene ogni
bontà, amore, virtù e nobiltà, si origini
infine anche quella, ch'io chiamo negazione della volontà di
vivere.
Come vedemmo odio e malvagità aver per condizione l'egoismo,
e questo poggiar sulla conoscenza circoscritta nel principio
individuationis; così trovammo essere origine ed essenza
della giustizia, nonché, salendo più in su, dell'amore
e della nobiltà fino ai gradi più alti,
l'oltrepassamento di quel principii individuationis. Che solo il
guardar di là da questo sopprime la distinzione tra
l'individuo nostro e gli altri, e rende possibile e spiega la
perfetta bontà dell'animo, fino al più disinteressato
amore e al più generoso sacrificio di sé.
Ma, dato in alto grado di chiarezza questo superamento del principii
individuationis, data questa diretta cognizione della volontà
identica in tutti i suoi fenomeni, essa eserciterà
immediatamente sulla volontà un influsso procedente ancor
più lontano. Se invero davanti agli occhi d'un uomo quel velo
di Maja, che è il principium individuationis, s'è
tanto sollevato, che quest'uomo non ponga più l'egoistico
divario tra la sua persona e l'altrui, bensì agli altrui
dolori tanta parte prenda, quanta ai propri, e quindi non soltanto
sia in altissima misura soccorrevole, ma pronto addirittura a
sacrificar se stesso non appena più individui estranei sian
da salvare col sacrificio suo; allora ne consegue spontaneamente che
un tale uomo, il quale in tutti gli esseri il suo più intimo
e più vero io riconosce, anche gl'infiniti mali d'ogni
vivente tiene come suoi, e così fa suo il dolore del mondo
intero. Nessun dolore gli è più straniero. Tutti gli
affanni altrui, ch'egli vede e può sì raramente
lenire; tutti gli affanni, di cui ha notizia indiretta, o che
semplicemente conosce come possibili, agiscono sullo spirito di lui
come i suoi propri. Non è più l'alterno bene e male
della sua persona, quel ch'egli ha in vista, com'è il caso
degli uomini ancor prigionieri dell'egoismo; invece, scorgendo egli
di là dal principio individuationis, tutto gli è
ugualmente vicino. Conosce il tutto, ne comprende l'essenza, e la
trova sempre involta in un continuo perire, in un vano aspirare, in
intimo contrasto e in perenne dolore; vede, dovunque guardi, la
sofferente umanità e la sofferente animalità, e un
mondo evanescente. E tutto è a lui così vicino,
com'è vicina all'egoista la sua propria persona. Ora, come
potrebb'egli mai, con tal conoscenza del mondo, questa vita
affermare con continui atti di volontà, e in siffatto modo
sé ognora più strettamente alla vita avvincere, sempre
più forte a sé stringerla? Se adunque colui il quale
ancor prigioniero nel principio individuationis, nell'egoismo,
soltanto singole cose conosce, e il rapporto di esse con la sua
persona; e quelle diventan poi motivi sempre rinnovati del suo
volere; viceversa quella cognizione del tutto, dell'essenza delle
cose in sé, diventa un quietivo della volontà in
genere e in particolare. La volontà si distoglie oramai dalla
vita: ha orrore dei suoi piaceri, nei quali riconosce l'affermazione
di quella. L'uomo perviene allo stato della volontaria rinunzia,
della rassegnazione, della vera calma e della completa soppressione
del volere. A noi, che ancora avvolge il velo di Maja, traluce a
momenti, in mezzo a dolori nostri pesantemente sofferti o a dolori
altrui vivacemente percepiti, la conoscenza della vanità e
amarezza della vita, e allora con piena, definitivamente risoluta
rinuncia vorremmo strappare al desiderio il suo pungolo, a ogni
dolore sbarrare il cammino, purificarci e santificarci; ma tosto ci
riafferra nelle sue maglie l'illusione del fenomeno, e di nuovo i
suoi motivi mettono in moto la volontà: né perveniamo
a districarcene. Gli adescamenti della speranza, la lusinga del
presente, la dolcezza dei piaceri, il benessere, ond'è
partecipe la nostra persona in mezzo al travaglio d'un mondo
doloroso, in balìa del caso e dell'errore, ci traggono
novellamente a sé e stringono di nuovo i legami.
Perciò dice Gesù: «È più facile a
una gomena passare attraverso una cruna d'ago, che a un ricco venire
nel regno di Dio». Paragoniamo la vita a un'orbita fatta di
carboni ardenti, con pochi spazi freddi, orbita che noi dobbiamo
senza posa percorrere: a chi in quell'orbita è preso da
conforto il piccolo spazio freddo, sul quale per il momento egli si
trova, o che vicino innanzi a sé vede, e continua a
percorrere l'orbita. Ma quegli che, guardando oltre il principium
individuationis, conosce l'essenza delle cose in sé, e quindi
il tutto, non è più sensibile a quel conforto: vede se
stesso contemporaneamente su tutta l'orbita, e ne viene fuori. La
sua volontà muta indirizzo, non afferma più la sua
propria essenza, rispecchiantesi nel fenomeno, bensì la
rinnega. Il processo, con cui ciò si manifesta, è il
passaggio dalla virtù all'ascesi. Non basta più a
quell'uomo amare altri come se stesso, e far per essi quanto fa per
sé; ma sorge in lui un orrore per l'essere, di cui è
espressione il suo proprio fenomeno, per la volontà di
vivere, per il nocciolo e l'essenza di quel mondo riconosciuto pieno
di dolore. Quest'essenza appunto, in lui medesimo palesantesi e
già espressa mediante il suo corpo, egli rinnega; il suo
agire sbugiarda ora il suo fenomeno, entra con esso in aperto
contrasto. Egli, che non altro è, se non fenomeno della
volontà, cessa di volere, si guarda dall'attaccar la sua
volontà a una cosa qualsiasi, cerca di rinsaldare in se
stesso la massima indifferenza per ogni cosa. Il suo corpo, sano e
forte, esprime per mezzo dei genitali l'istinto sessuale, ma egli
rinnega la volontà e sbugiarda il corpo: non vuole la
soddisfazione del sesso, a nessun patto. Volontaria, perfetta
castità è il primo passo nell'ascesi, ovvero nella
negazione della volontà di vivere. Essa rinnega così
l'affermazione della volontà, che va oltre la vita
individuale; e con ciò dà segno che con la vita di
questo corpo la volontà, di cui esso è fenomeno,
è soppressa. La natura, sempre vera e ingenua, dice che, se
questa massima diventasse universale, perirebbe il genere umano: e
dopo quanto fu detto nel secondo libro intorno alla connessione di
tutti i fenomeni della volontà, credo di poter ammettere, che
col fenomeno di volontà più alto svanirebbe anche quel
più debole riflesso che è il mondo animale: come in
piena luce svaniscono anche le penombre. Con la piena soppressione
della conoscenza, si perderebbe da sé nel nulla anche il
rimanente mondo: che non v'ha oggetto senza soggetto. A ciò
potrei perfino riferire un passo del Veda, che dice: «Come in
questo mondo bambini affamati si stringono intorno alla madre,
così attendono tutti gli esseri il santo sacrificio»
«Asiatic researches», vol. 8: Colebrooke, On the Vedas,
nell'estratto del Sama-veda: si trova anche in Colebrooke,
Miscellaneous Essays, vol. I, p. 88). Sacrificio significa
genericamente rassegnazione, e la residua natura deve attendere la
sua redenzione dall'uomo, ch'è nel medesimo tempo sacerdote e
vittima. E merita d'esser notato come cosa singolarissima, che
questo pensiero fu espresso anche dall'ammirabile e
incommensurabilmente profondo Angelus Silesius, nel versetto
intitolato l'uomo porta tutto a Dio, che suona così:
Uomo! tutto ti ama; a te intorno è gran ressa:
Tutto verso te
corre, per così giungere a Dio59.
Ma un mistico ancor più grande, Meister Eckhard, le cui
mirabili opere sono or finalmente rese accessibili dall'edizione di
Franz Pfeiffer (1857), scrive (ibid., p. 459), proprio nel senso qui
illustrato: «Io confermo ciò con Cristo, che dice:
quando vengo sollevato dalla terra, voglio tutte le cose trarre
dietro a me (Giov., 12, 32). Similmente deve l'uomo buono tutte le
cose elevare a Dio, alla loro origine prima. Questo ci confermano i
Maestri, che tutte le creature sono fatte per la volontà
dell'uomo. Questo verificate in tutte le creature, che una creatura
all'altra giova: al giovenco l'erba, al pesce l'acqua, all'uccello
l'aria, alla bestia selvatica il bosco. E così tutte le
creature portano giovamento all'uomo buono: e l'una creatura
nell'altra è portata dall'uomo buono a Dio». Vuol dire:
l'uomo mette a profitto gli animali in questa vita, per il fine di
redimerli in sé e con sé. Mi sembra che perfino il
difficile passo della Bibbia in Romani, 8, 21-24 sia da
interpretarsi a questo modo.
Anche nel Buddhismo non mancano espressioni di ciò: per
esempio, quando Buddha, ancora in forma di Bodhisattva, fa sellare
un'ultima volta il suo cavallo, per la fuga dalla paterna residenza
verso il deserto, dice ad esso queste parole: Già lungo tempo
tu fosti nella vita e nella morte: ma ora devi cessar di portare e
di trascinare. Sol questa volta ancora, o Kantakana, portami via di
qua, e quando io avrò conseguita la legge (diventato Buddha),
non mi dimenticherò di te (Foe Koue Ki, traduz. di Abel
Rémusat, p. 233).
L'ascesi si rivela inoltre nella volontaria, meditata
povertà, che non sopravviene per accidens, in quanto il
patrimonio venga donato per lenir mali altrui, ma è
già scopo a se stessa, serve di permanente mortificazione
della volontà, affinchè l'appagamento dei desideri e
la mollezza della vita non tornino ad eccitar la volontà,
della quale ha concepito orrore la vera conoscenza. Chi è
pervenuto a tal segno, sente ancor sempre, come corpo animato, come
concreto fenomeno di volontà, la disposizione al volere in
tutte le sue forme: ma meditatamente la soffoca, costringendosi a
nulla fare di quanto vorrebbe, e viceversa a tutto fare quanto non
vorrebbe, anche se non abbia altro fine, che quello di servire alla
mortificazione della carne. Poiché egli medesimo rinnega la
volontà palesantesi nella sua persona, non resisterà
se altri fa lo stesso, ossia se gli fa un torto: ogni sofferenza,
che a lui venga dall'esterno, sia per caso, sia per altrui
malvagità, è la benvenuta; e così ogni danno,
ogni smacco, ogni offesa. Tutto accoglie gioiosamente, come
occasione di dare a se medesimo la certezza, ch'egli la
volontà più non afferma, bensì lieto prende le
parti di ciascun nemico sorto contro quel fenomeno di
volontà, ch'è la sua propria persona. Tale onta e
dolore sopporta quindi con inesauribile pazienza e dolcezza, paga
senza ostentazione il male col bene, e non tollera che il fuoco
dell'ira si risvegli in lui, più che non tolleri il fuoco
della brama. Come mortifica la volontà, così mortifica
la sua forma visibile, l'oggettità di lei: il corpo.
Scarsamente lo nutre, affinchè il suo rigoglioso fiorire e
prosperare non torni a far più viva e forte la
volontà, di cui esso è semplice espressione e
specchio. Similmente pratica il digiuno, anzi la macerazione,
l'autoflagellazione, per sempre più uccidere mediante perenne
privazione e sofferenza la volontà, ch'egli conosce ed
aborrisce qual sorgente del proprio doloroso essere come di quello
del mondo. Viene finalmente la morte, a disciogliere questo fenomeno
di quella volontà, la cui essenza qui, già da gran
tempo, per libera negazione di se medesima, fuori del fioco resto
che ne appariva in mantener vita al corpo, era spenta. E la morte,
come invocata redenzione, è altamente ben venuta, e
lietamente viene accolta. Con lei non termina in questo caso,
com'è per gli altri, il solo fenomeno; bensì l'essenza
medesima è soppressa, la quale qui ancor soltanto nel
fenomeno, e per suo mezzo, aveva una pallida vita60: ultimo fragile
vincolo, ora anch'esso spezzato. Per quegli, che così
finisce, è il mondo insieme finito.
E ciò, ch'io qui con debole lingua e solo in termini generali
ho descritto, non è per avventura una fiaba filosofica di mia
invenzione, e che solo da oggi duri: no, era invece l'invidiabile
vita di numerosi santi e di belle anime tra i Cristiani, e ancor
più tra gli hindù e i Buddhisti, e pure in altre
confessioni. Per quanto fossero diversi i dogmi impressi nella loro
ragione, nell'identica guisa venne tuttavia ad attuarsi, mediante il
modo di vivere, l'intima, diretta, immediata conoscenza, da cui
esclusivamente può procedere ogni virtù e
santità. Imperocché anche qui si mostra il grande
divario tra la conoscenza intuitiva e l'astratta, finora troppo poco
osservato, ma in tutto il nostro sistema così importante e
penetrante in ogni dove. Tra le due conoscenze è un ampio
abisso, attraverso il quale, riguardo alla cognizione dell'essenza
del mondo, la sola filosofia può condurre. Intuitivamente
invero, ossia in concreto, ogni uomo è consapevole di tutte
le verità filosofiche: ma portarle nel suo sapere astratto,
nella riflessione, è affare del filosofo: il quale, oltre a
questo, nulla deve, nulla può.
Forse qui adunque per la prima volta, in forma astratta e pura
d'ogni mito, l'intima essenza della santità, negazione di
sé, morte della volontà, ascesi, è formulata
come negazione della volontà di vivere; la quale subentra
dopo che la compiuta conoscenza del proprio essere è divenuta
quietivo d'ogni volere. Viceversa l'hanno direttamente conosciuta ed
espressa nella realtà tutti quei santi e asceti che, pur
avendo la stessa intima cognizione, parlavano una lingua assai
diversa, secondo i dogmi che avevano accolti nella loro ragione, e
in virtù dei quali un santo indiano, cristiano, lamaico
devono render diversissimo conto della propria azione; il che
è, per la sostanza, del tutto indifferente. Un santo
può esser pieno della più assurda superstizione, o
esser viceversa un filosofo: i due si equivalgono. Soltanto il suo
modo d'agire prova ch'egli è santo: perché esso, sotto
il riguardo morale, non proviene dalla conoscenza astratta,
bensì dall'intuitiva, immediata conoscenza del mondo e della
sua essenza; e da quegli sol per appagamento della sua ragione viene
spiegato con un dogma purchessia. Che il santo sia un filosofo,
è tanto poco necessario, quanto poco necessario che il
filosofo sia un santo: come necessario non è che un uomo
bellissimo sia un grande scultore, o che un grande scultore sia pure
un bell'uomo. Sarebbe d'altronde singolare il pretendere da un
moralista, ch'egli non deva raccomandare se non le virtù da
lui stesso possedute. Rispecchiare astrattamente, universalmente e
limpidamente in concetti l'intera essenza del mondo; e così,
quale immagine riflessa, deporla nei permanenti e ognora disposti
concetti della ragione: questo e non altro è filosofia.
Richiamo alla memoria il passo, citato nel primo libro, di Bacone da
Verulamio.
Ma appunto, esclusivamente astratto e generico e quindi freddo
è il modo, ond'io ho più sopra descritta la negazione
della volontà di vivere, ossia la condotta di una bell'anima,
di un santo rassegnato, che faccia volontaria penitenza. Essendo
intuitiva e non astratta la conoscenza, da cui nasce la negazione
della volontà, non può trovar la sua espressione
compiuta in concetti astratti, bensì esclusivamente
nell'azione e nella condotta. Quindi, per meglio comprendere
ciò che noi esprimiamo filosoficamente col concetto di
negazione della volontà di vivere, si devono conoscere esempi
tolti all'esperienza e alla realtà. Non li incontreremo di
certo nell'esperienza di tutti i giorni: nam omnia praeclara tam
difficilia quam rara sunt, dice benissimo Spinoza. Se adunque non si
è stati testimoni oculari per una sorte particolarmente
benigna, bisognerà contentarsi di legger le biografie di
quegli uomini. La letteratura indiana, come già possiam
vedere dal poco che finora ne conosciamo in traduzioni, è
assai ricca di biografie dei santi, dei penitenti, detti Samani,
Saniassi, e così via. Anche la nota, sebben tutt'altro che in
tutto lodevole, Mythologie des Indous di Mad. de Polier contiene
molti eccellenti esempi di tal genere (specialmente nel 13° cap.
del 2° volume). Né mancano esempi tra i cristiani. Si
leggano le biografie, di solito scritte male, di coloro che or
vengono chiamati anime sante, ora pietisti, quietisti, pii
visionarii, etc. Raccolte di tali biografie si fecero in diverse
epoche, per esempio dal Tersteegen, Vite di anime sante, dal Reiz,
Storia dei Rigenerati; a' nostri giorni si ha una raccolta del
Kanne, che tra molta roba cattiva ne contiene pure alcuna buona, e
specialmente, secondo me, la Vita della beata Sturmin. In modo
particolarissimo va qui ricordata la vita di san Francesco d'Assisi,
vera personificazione dell'ascesi, e modello di tutti i monaci
mendicanti. La vita di lui, descritta dal suo contemporaneo,
alquanto più giovane, e celebre anche come filosofo
scolastico, san Bonaventura, è comparsa recentemente in nuova
edizione (Soest, 1847): Vita S. Francisci a S. Bonaventura
concinnata, poco dopo ch'era uscita in Francia una biografia di san
Francesco accurata, ampia, e condotta su tutte le fonti: Histoire de
S. Francois d'Assise, di Chavin de Mallan (1845). Come paralleli
orientali di codesti scritti claustrali abbiamo il libro
interessantissimo di Spence Hardy: Eastern Monachism, an Account of
the Order of Mendicants founded by Gotama Budha (1850). Ci mostra la
stessa cosa in altra veste. E vi si vede, come sia alla cosa
indifferente il prender le mosse da una religione teista o atea. Ma
soprattutto posso raccomandare, come speciale, amplissimo esempio e
illustrazione effettiva dei concetti da me formulati,
l'autobiografia di Madame de Guyon. Conoscere quella bella e grande
anima, il cui ricordo mi riempie ognora d'ammirazione, e render
giustizia all'eccellenza delle sue disposizioni spirituali, pur
facendo riserve sulla superstizione della sua mente, dev'essere per
ogni uomo bennato una gioia, come invece quel libro starà
sempre in cattiva luce presso il comune volgare, ch'è
costituito dai più; perché sempre e dovunque ciascuno
può ammirar solo quel ch'è a lui in certa maniera
analogo, e per cui ha una sia pur debole tendenza. Questo vale
sì pel dominio intellettuale e sì nel morale. In un
certo senso, si potrebbe ravvicinare a questi esempi anche la nota
biografia francese di Spinoza, se si adopra come chiave per
penetrarvi la magnifica introduzione a quella molto scadente opera
di lui ch'è il De emendatione intellectus: introduzione, che
posso consigliare come il più efficace mezzo ch'io mi conosca
per placare la tempesta delle passioni. Finalmente, anche il gran
Goethe, per quanto greco egli sia, non ha stimato indegno di
sé mostrar questo bellissimo aspetto dell'umanità nel
chiarificante specchio della poesia, col rappresentarci idealizzata
nelle Confessioni di una bell'anima la vita della signorina
Klettenberg; e più tardi, nella propria autobiografia, diede
anche notizia storica di lei; come pure ci ha raccontato ben due
volte la vita di san Filippo Neri. La storia del mondo tacerà
invero sempre, e deve tacere, degli uomini la cui condotta è
la migliore, l'unica soddisfacente illustrazione di questo punto
essenziale della nostra indagine. Perché la materia della
storia del mondo è tutt'altra, anzi è l'opposto: non
è il negare, il rinunciare della volontà di vivere, ma
è per l'appunto l'affermarla, il rilevarsi di lei in
individui innumerabili. E quivi, in codesto affermarsi, apparisce
con tutta chiarezza, al vertice supremo della sua oggettivazione, il
suo dissidio interiore; ponendoci davanti agli occhi ora la
prevalenza del singolo mediante l'intelligenza, ora la violenza
della folla mediante la massa, ora il potere del caso personificato
nel destino, ma sempre la caducità e nullità di tutti
i desideri. Ma noi, che non dobbiamo qui seguire nel tempo il filo
dei fenomeni, bensì come filosofi abbiam da investigare il
valore etico delle azioni, e di questo il criterio unico per
misurare quanto è per noi significativo e importante, noi non
tratterrà nessun timore della volgarità e della
scipitaggine raccolte in perpetua maggioranza, dal proclamare che il
più alto, il più importante, il più
significativo fenomeno, che il mondo possa mostrare, non è
chi il mondo conquista, ma chi il mondo supera. Ossia è in
verità la silenziosa, inosservata condotta di un uomo, al
quale sia venuta tal conoscenza, che per effetto di lei egli getti
via da sé e rinneghi quell'avida volontà di vivere,
che tutto riempie e in tutto si agita. Solo in lui la volontà
apparisce allora libera: ma la sua condotta diviene opposta alla
condotta comune. Per il filosofo sono adunque sotto questo riguardo
incomparabilmente più istruttive e importanti, quanto
riguardo alla significazione del contenuto, le biografie di santi
uomini, per male che sian scritte di solito, e presentate con un
misto di superstizione e di stoltezza, che non siano Plutarco e
Livio.
Alla migliore e più compiuta conoscenza di quel che noi,
nell'astrazione e nell'universalità del nostro modo
d'esporre, chiamiamo negazione della volontà di vivere, molto
contribuirà, inoltre, lo studio delle massime etiche le quali
in questo senso furon date da uomini pieni di cotale spirito. Esse
ci mostreranno insieme, come antica sia la nostra concezione, per
quanto nuova possa essere la sua formula filosofica. Più
dappresso a noi sta il cristianesimo, la cui etica è tutta
animata da quello spirito, e non solo conduce al più alto
grado dell'amore verso il prossimo, ma anche alla rinunzia.
Quest'ultima è già ben visibile in germe negli scritti
degli Apostoli, ma tuttavia solo più tardi si sviluppa
appieno e viene explicite enunciata. Troviamo che gli Apostoli
prescrivono: amor del prossimo eguale all'amor di sé;
carità, amore e benevolenza in cambio di odio; pazienza,
mitezza, sopportazione d'ogni possibile offesa senza opporvisi:
sobrietà nel cibo per mortificare il piacere; resistenza
all'istinto sessuale, ove sia possibile, completa. Vediamo qui
già i primi gradi dell'ascesi, o propriamente negazione della
volontà. E questa nostra espressione indica proprio
ciò che negli Evangeli si chiama rinnegar se medesimo e
prender su di sé la croce (Math. 16, 24.25; Mare. 8, 34.35;
Lue. 9, 23.24; 14, 26.27.33). Quest'indirizzo si sviluppò
presto sempre più, e diede origine ai penitenti, agli
anacoreti, al monachismo; il quale era in sé puro e santo, ma
appunto perciò in nulla adatto alla maggioranza degli uomini,
per modo che soltanto finzione e turpitudine potè venirne:
imperocché abusus optimi pessimus. Col Cristianesimo meglio
sviluppato possiam poi vedere quel germe ascetico aprirsi nel suo
pieno fiore, negli scritti dei santi e mistici cristiani. Costoro
predicano, oltre il puro amore, anche rassegnazione intera,
volontaria, assoluta povertà, verace calma, completa
indifferenza riguardo a ogni cosa terrena, morte della
volontà individuale e rinascita in Dio, perfetto oblio della
propria persona e assorbimento nella contemplazione divina. Di
ciò si ha una compiuta esposizione in Fénelon,
Explication des maximes des Saints sur la vie intérieure. Ma
forse mai lo spirito del Cristianesimo in questo suo sviluppo fu
espresso con tanta perfezione e vigore come negli scritti dei
mistici tedeschi, e quindi di Meister Eckhard e nel libro a ragione
celebrato Die deutsche Theologie (la teologia tedesca), di cui
Lutero, nella prefazione che vi fece, disse di non aver da nessun
altro libro, eccettuati la Bibbia e sant'Agostino, imparato meglio
che da questo, che cosa siano Dio, Cristo e l'uomo. Ma il suo testo
genuino l'abbiamo avuto solo il 1851, nell'edizione di Stuttgart
curata da Pfeiffer. I precetti e ammaestramenti quivi impartiti sono
la più completa illustrazione, inspirata dalla più
intima e profonda certezza, di ciò ch'io ho presentato come
negazione della volontà di vivere. Colà bisogna quindi
imparare a meglio conoscerla, prima di sdottrineggiarvi su con
ebraico-protestante saccenteria. Scritta nel medesimo, altissimo
spirito, sebbene non tale da mettersi proprio a paro di quell'opera,
è l'Imitazione della povera vita di Cristo (Nachfolgung des
armen Leben Christi) di Tauler, e anche, dello stesso autore, la
Medulla animae. Secondo me gl'insegnamenti di questi genuini spiriti
cristiani sono rispetto a quelli del Nuovo Testamento ciò che
l'alcool è rispetto al vino. Ossia: ciò che nel Nuovo
Testamento ci appare come attraverso velo e nebbia, ci si fa
incontro nelle opere dei Mistici scopertamente, in piena
chiarità ed evidenza. E si potrebbe, per concludere,
considerare il Nuovo Testamento come la prima consacrazione, i
Mistici come la seconda σμικρα και μεγαλα μυοτηρια.
Ma ancor più sviluppato, sotto più aspetti formulato,
e più vivacemente rappresentato che non fosse possibile nella
Chiesa cristiana e nel mondo occidentale, troviamo ciò che
noi chiamammo negazione della volontà di vivere nelle
antichissime opere della lingua sanscrita. Che quella grave
considerazione etica della vita potesse colà raggiungere uno
sviluppo ancora più ampio, e più risoluta espressione,
è forse principalmente da attribuire al fatto, che quivi essa
non fu limitata da un elemento a lei del tutto estraneo,
com'è nel Cristianesimo la religione ebraica, alla quale
l'alto fondatore di quello dovè per necessità, parte
consapevolmente e parte forse inconsapevolmente, conformarsi e
adattarsi: per modo che il Cristianesimo risulta di due elementi
molto eterogenei, dei quali io l'elemento ch'è soltanto etico
amerei di preferenza, anzi in modo esclusivo, chiamar cristiano; e
vorrei distinguerlo dal dogmatismo ebraico ch'esso trovò
innanzi a sé. Se, come già spesso, e in particolar
modo nell'età presente si è temuto, quell'alta e
redentrice religione dovesse un giorno decadere del tutto, io
troverei di ciò la ragione nel fatto, ch'ella consta non
già di un elemento semplice, bensì di due elementi in
origine eterogenei, e venuti a collegarsi sol per il corso degli
eventi. La loro scomposizione, causata dalla naturale disuguaglianza
e dal contrasto col progredito spirito di quest'età, non
mancherebbe di produrne lo scioglimento; ma in seguito rimarrebbe
tuttavia integra la parte puramente morale, perché questa
è indistruttibile. Venendo all'etica degli hindù,
quale noi già ora, per incompiuta che sia la nostra
cognizione di quella letteratura, la troviamo espressa nel modo
più vario e più vivace nei Vedas, nei Puranas, nelle
opere poetiche, nei miti, nelle leggende dei santi indiani, nelle
massime e regole di vita61, vediamo che vi si prescrive: amore del
prossimo con piena rinunzia ad ogni egoismo; amore non limitato al
genere umano, ma estendentesi a ogni cosa viva; carità spinta
fino a dare lo stentato guadagno quotidiano; illimitata pazienza
verso tutti gli offensori; bontà e amore in cambio d'ogni
male, per duro che sia; volontaria e gioiosa tolleranza d'ogni
umiliazione; astinenza da ogni nutrizione animale; completa
castità e rinunzia a tutti i piaceri da parte di chi aspira
alla vera santità; donazione d'ogni patrimonio, abbandono
d'ogni domicilio, e di tutti i parenti; profonda, assoluta
solitudine, trascorsa in silenziosa contemplazione, con volontaria
penitenza e terribile, lenta macerazione, per venire alla compiuta
mortificazione della volontà, mortificazione che giunge fino
alla morte volontaria per fame, o con l'esporsi ai coccodrilli, o
col precipitarsi da una sacra vetta dell'Himalaja, o col farsi
seppellire vivi, o col gettarsi sotto le ruote dell'immane carro
recante attorno in processione le immagini degli Dei tra canto,
giubilo e danza delle bajadere. E a codeste regole, la cui origine
risale indietro di quattro millenni, s'informa oggi ancora la vita
di quel popolo, per quanto in molte cose degenerato; taluni le
seguono addirittura fino agli ultimi eccessi62. Ora, quel che
sì a lungo, in un popolo comprendente tanti milioni d'uomini,
è stato praticato, sebbene imponga i più gravi
sacrifici, non può essere un'ubbia inventata a capriccio, ma
deve avere il suo fondamento nell'essenza dell'umanità. A
ciò si aggiunga, che non ci si meraviglierà mai
abbastanza della somiglianza uniforme, che si trova quando si legge
la vita di un penitente o santo cristiano, e quella di un indiano.
Con dogmi, costumi e luoghi sì fondamentalmente diversi,
affatto identica è l'aspirazione e l'interna vita di
entrambi. Lo stesso si dica per le loro prescrizioni. Per esempio,
Tauler parla dell'assoluta povertà, che bisogna ricercare, e
che consiste nel disfarsi appieno di tutto ciò da cui
potrebbe trarsi un conforto o una soddisfazione terrena:
evidentemente, perché tutto ciò da sempre nuovo
alimento alla volontà, che si mira invece a spegnere del
tutto. Ora, come analogia indiana troviamo nelle regole del Fo
raccomandato al Saniassi, il quale non deve aver domicilio né
proprietà alcuna, di non adagiarsi, per di più, troppo
sovente sotto lo stesso albero, affinchè non abbia a
concepire per quest'albero qualche preferenza o inclinazione. I
mistici cristiani e i maestri della filosofia Vedanta s'incontrano
anche nel considerar superflue tutte le opere esteriori e pratiche
religiose, per colui che abbia raggiunto lo stato perfetto. Tanta
concordanza, in tempi e popoli sì diversi, è una prova
di fatto che quivi non si esprime, come volentieri afferma
l'ottimistica insulsaggine, una stramberia e stoltezza dell'animo,
bensì un lato essenziale dell'umana natura, il quale sol per
la sua eccellenza di rado si manifesta. Oramai ho indicata la fonte,
dalla quale si posson direttamente conoscere, attingendo alla vita
stessa, i procedimenti in cui si palesa la negazione della
volontà di vivere. In un certo modo è questo il punto
più importante di tutto il nostro studio: nondimeno io l'ho
esposto tenendomi sempre sulle generali, meglio essendo rimandare a
quelli, i quali ne parlano per diretta esperienza, che non
ingrossare senza bisogno questo libro con l'affievolita ripetizione
di ciò ch'essi hanno detto.
Ma poco altro voglio aggiungere per definire genericamente il loro
stato. Vedemmo più indietro il malvagio, per vivacità
del suo volere, soffrire perenne, divorante intimo affanno, e da
ultimo, quando tutti gli oggetti del volere sono esauriti, placar la
rabbiosa sete dell'egoismo con la vista della pena altrui; quegli
viceversa, in cui s'è affermata la negazione della
volontà di vivere, per quanto povero, scevro di gioia, di
privazioni pieno sia il suo stato visto dal di fuori, è pieno
d'intima gioia e di vera calma celeste. Non sono più
l'irrequieto impulso vitale, l'esuberante gioia, che ha per
condizione precedente o successiva un vivo dolore, quali
costituiscono la vita di un uomo amante dell'esistenza; ma è
invece un'incrollabile pace, una profonda quiete ed intima letizia,
uno stato che noi, se ci vien posto davanti agli occhi o alla
fantasia, non possiamo guardare senza altissimo desiderio,
perché tosto lo riconosciamo come l'unico a noi conveniente,
di gran lunga superiore a ogni altra cosa, e verso di esso il nostro
spirito migliore ci spinge col grande sapere aude. Sentiamo allora
come ogni appagamento dei nostri desideri strappato al mondo
è appena simile all'elemosina, che oggi tiene in vita il
mendico perché domani ancor soffra la fame. La rassegnazione
somiglia invece alla proprietà ereditaria, che libera per
sempre il possessore da tutte le angustie.
Ci sovviene il terzo libro, che la gioia estetica del bello consiste
per gran parte nel fatto che noi, entrando nello stato della pura
contemplazione, siamo pel momento liberati da ogni volere, ossia da
tutti i desideri e gli affanni, quasi fossimo sciolti da noi
medesimi; non più individuo dotato d'una conoscenza in
servizio del suo perenne volere, non più correlato
dell'oggetto singolo, a cui le cose divengono motivi; bensì
eterno soggetto del conoscere, liberato dalla volontà,
correlato dell'idea. E sappiamo come gl'istanti, in cui sciolti dal
feroce impulso della volontà veniamo quasi a tenerci
sollevati sulla greve aria terrestre, siano i più beati che
noi conosciamo. Da ciò possiam ricavare, come felice debba
esser la vita di un uomo, la cui volontà sia non per fugaci
istanti domata, come accade nel godimento del bello, ma per sempre,
e sia anzi spenta del tutto, eccettuata solamente l'ultima
estinguentesi scintilla, che regge il corpo e con questo si
estinguerà. Un siffatto uomo, che dopo molte amare lotte
contro la propria natura, riporta finalmente piena vittoria, non
sopravvive più se non come semplice essenza conoscente, come
limpido specchio del mondo. Nulla più perviene ad
angustiarlo, nulla a scuoterlo: perché tutte le mille fila
del volere, che ci tengono legati al mondo, e di qua e di là
in forma di sete, paura, invidia, ira ci trascinano dilaniandoci,
con assiduo dolore, egli le ha tagliate. Sereno e sorridente egli si
volge ora a guardare le finte immagini del mondo, che un tempo
sapevano scuotere e affliggere anche l'animo suo, ma ora gli stanno
innanzi indifferenti come i pezzi d'una scacchiera a giuoco finito,
o come al mattino i vestiti da maschera smessi e dispersi, le cui
parvenze ci avevano stuzzicati ed eccitati nella notte di carnevale.
La vita e le sue forme ondeggiano oramai davanti a lui come una
fuggitiva visione, o come appare nel dormiveglia un lieve sogno
mattutino, attraverso il quale già traluce la realtà,
e che più non perviene ad illuderci: e appunto come questo
sogno svaniscono, senza un brusco passaggio. Da queste
considerazioni possiamo intendere in qual senso si esprima spesso
così M.me de Guyon, verso la fine della sua autobiografia:
«Tutto m'è indifferente; io non posso più nulla
volere: spesso non so, se esisto o non esisto». Mi sia anche
concesso, per esprimere come, dopo la morte della volontà,
pur la morte del corpo (il quale non è che il fenomeno della
volontà, soppressa la quale perde anch'esso ogni significato)
non abbia più nulla d'amaro, e sia anzi la benvenuta –, di
trasportar qui le parole stesse di quella santa penitente, sebbene
non siano formulate con eleganza: «Midi de la gloire; jour
où il n'y a plus de nuit; vie qui ne craint plus la mort,
dans la mort même: parce que la mort a vaincu la mort, et que
celui qui a souffert la première mort, ne goûtera plus
la seconde mort» (Vie de M.me de Guyon, vol. Il, p. 13).
Non dobbiamo tuttavia ritenere che, una volta subentrata, attraverso
la conoscenza ridotta a quietivo, la negazione della volontà
di vivere, questa non tentenni mai più, e si possa su lei
posare come su d'una proprietà guadagnata. Invece dev'essere
con diuturna battaglia sempre di nuovo riconquistata. Perché
il corpo è la volontà medesima, ma sol nella forma
dell'oggettità, ossia fenomeno nel mondo quale
rappresentazione; quindi, finché il corpo vive, sussiste
ancora nella propria possibilità tutta intera la
volontà di vivere, e tende perennemente a entrar nella
realtà, ad ardere di nuovo in tutto il proprio ardore. Quindi
troviamo, che nella vita dei santi quella descritta calma e
beatitudine è come il fiore, che sorge dalla continua
vittoria sulla volontà; il suolo, da cui essa germoglia,
è la permanente battaglia con la volontà di vivere:
imperocché durevole calma non può aver nessuno sulla
terra. Perciò vediamo le narrazioni della vita interna dei
santi esser piene di lotte spirituali, tentazioni, e abbandoni della
grazia: ossia offuscamenti di quel modo di conoscenza, che facendo
inefficaci tutti i motivi doma come universal quietivo tutti i
voleri, dà la pace più profonda e apre la porta della
libertà. E vediamo quindi anche coloro, i quali son giunti
alla negazione della volontà, tenersi con tutti gli sforzi su
questo cammino, costringendosi a rinunzie d'ogni maniera, con una
espiante dura regola di vita e con la ricerca di ciò che loro
spiace: tutto per soffocare la volontà sempre divampante. Da
qui vengono infine, poiché essi già conoscono il
pregio della redenzione, la loro cura angosciosa per la osservazione
del bene raggiunto, i loro scrupoli di coscienza per ogni innocente
piacere, e per ogni piccol moto della vanità, che anche in
essi è l'ultima a morire, essendo di tutte le inclinazioni
umane la più tenace, la più attiva e la più
stolta. Con la parola ascesi, già spesso da me usata, io
intendo, nel senso più stretto, il deliberato infrangimento
della volontà, mediante l'astensione dal piacevole e la
ricerca dello spiacevole, l'espiazione e la macerazione
spontaneamente scelta, per la continuata mortificazione della
volontà.
Ora, se noi vediamo questa mortificazione praticata da chi
già è giunto alla negazione della volontà, per
mantenervisi, è poi il dolore in genere, quale ci viene
inflitto dal destino, una seconda via (δευτερος πλους) per arrivare
a quella negazione. Possiamo anzi ritenere, che i più solo da
questa vi arrivano, e che è il dolore direttamente provato,
non quello semplicemente conosciuto, a produrre la piena
rassegnazione, spesso solamente in prossimità della morte.
Che solo in pochi basta a ciò la semplice conoscenza, la
quale, penetrando oltre il principium individuationis, produce
dapprima la perfetta bontà dell'animo, e finalmente fa
riconoscer come proprii tutti i mali del mondo, per dar luogo alla
negazione della volontà. Anche in colui che a tale stato si
avvicina, quasi sempre le condizioni tollerabili della sua persona,
la lusinga dell'attimo, l'ingannevole richiamo della speranza e
l'ognora offrentesi appagamento della volontà, ossia del
piacere, sono un continuo ostacolo alla negazione della
volontà stessa, e una continua tentazione di riaffermarla:
perciò sotto tale riguardo tutte codeste tentazioni vennero
personificate in diavoli. Il più delle volte deve quindi la
volontà venire spezzata da un fortissimo dolore personale,
prima che pervenga a negarsi. Vediamo allora l'uomo, quando per
tutti i gradi della crescente angoscia è giunto, resistendo
con violenza, all'orlo della disperazione, improvvisamente tornare
in sé, sé e il mondo conoscere, mutare tutto il
proprio essere, elevarsi sopra sé stesso e sopra il dolore,
e, come fosse da questo dolore purificato e santificato, in non
attaccabile calma, in beatitudine e sublimità di spirito
rinunziare a tutto quanto prima egli bramava con la massima
violenza, e gioioso accogliere la morte. Questo è il corrusco
metallo della negazione della volontà di vivere, ossia della
redenzione, che all'improvviso balza fuori dalla fiamma
purificatrice del dolore. Perfino coloro, che furono molto malvagi,
vediamo talora purificati fino a questo grado dai più
profondi dolori: sono diventati altre persone da quel che furono, e
completamente trasformati. I misfatti prima commessi non angosciano
quindi nemmen più la loro coscienza; tuttavia li espiano
volentieri con la morte, e di buon animo vedono volgersi al termine
il fenomeno di quella volontà, che ora è ad essi
straniera ed oggetto d'orrore. Di questa negazione della
volontà prodotta da grande sventura e nessuna speranza di
salvezza, ci ha dato una limpida e intuitiva rappresentazione, tale
ch'io non ne conosco pari nella poesia, il gran Goethe, nel suo
immortale capolavoro, il Faust, nella storia del dolore di
Margherita. Essa è un esempio perfetto della seconda via, la
qual conduce alla negazione della volontà mediante un
personale, terribile dolore da noi stessi provato; e non, come la
prima, mediante la semplice cognizione del dolore di un mondo
intero, che volontariamente si fa dolore proprio. È vero, che
molte tragedie conducono da ultimo il loro eroe pieno d'impetuosa
volontà a questo punto di completa rassegnazione, in cui di
solito si spengono insieme la volontà di vivere ed il suo
fenomeno: ma nessuna rappresentazione, ch'io conosca, mi mette
innanzi agli occhi ciò ch'è essenziale in quel
rivolgimento con tanta limpidità e così puro d'ogni
accessorio, come la storia citata del Faust.
Nella vita reale vediamo quegl'infelici, i quali han da vuotare la
più gran misura di dolore, allorché è tolta
loro del tutto ogni speranza, e in piena lucidità di spirito
vanno incontro a una vergognosa, violenta, spesso tormentosa morte
sul patibolo, molto spesso trasmutarsi nel modo suddetto. Non
penseremo davvero, che tra il carattere loro e quello della maggior
parte degli uomini sia tanta differenza, come dà a credere il
loro destino, e invece attribuiremo quest'ultimo, il più
delle volte, alle circostanze: ma pur tuttavia sono colpevoli, e
malvagi in grado considerevole. E intanto vediamo molti di loro, una
volta perduta affatto la speranza, convertiti come dicemmo.
Dimostrano allora una reale bontà e purezza d'animo, hanno
orrore d'ogni atto minimamente malvagio o privo d'amore; ai loro
nemici perdonano, fossero pur questi gli autori d'una pena che
innocentemente essi soffrono, non solo a parole e forse per ipocrita
paura dei giudici dell'al di là, bensì effettivamente,
e con intima gravità; né voglion vendetta alcuna.
Anzi, il soffrire e morire finisce col diventar loro gradito,
imperocché è subentrata la negazione della
volontà di vivere; respingono spesso l'offerta salvezza,
volentieri muoiono, tranquilli, beati. Nell'eccesso del dolore si
è loro palesato il segreto ultimo della vita, che cioè
il dolore e la malvagità, la sofferenza e l'odio, il
tormentato e il tormentatore, per quanto diversi appariscano alla
conoscenza, che segue il principio di ragione, sono in sé
tutt'uno, fenomeno di quell'unica volontà di vivere, che il
proprio dissidio con se medesima oggettiva mediante il principium
individuationis: essi hanno appreso a conoscerne in piena misura le
due facce, la malvagità e il dolore, e scorgendone da ultimo
l'identità, entrambe le rigettano da sé, rinnegano la
volontà di vivere. In quali miti e dogmi diano poi conto alla
loro ragione di questa intuitiva e diretta conoscenza, e del proprio
mutamento, è cosa, come osservammo, affatto indifferente.
Testimone di una simile trasformazione morale fu, senza dubbio,
Matthias Claudius, quando scrisse quel singolare saggio che nel
Wandsbecker Boten (parte I, p. 115) si trova sotto il titolo Storia
della conversione di ***, e si chiude così: «Il modo di
pensare dell'uomo può passar da un punto della periferia al
punto opposto, e tornar poi al punto precedente, se le circostanze
ve lo spingano. E tali mutamenti non sono nell'uomo nulla di grande
e d'interessante. Ma quella strana, cattolica, trascendentale
trasformazione, per cui tutto il circolo viene irrevocabilmente
lacerato, e tutte le leggi della psicologia diventan vane e vuote;
dove il vestimento è tolto alla pelle, o almeno rovesciato, e
all'uomo sembrano cadere squame dagli occhi, quella trasformazione
è tal cosa che ciascuno, il quale abbia in qualche modo
coscienza del fiato nel suo naso, abbandona padre e madre, se ha
occasion di udire e apprendere alcunché di sicuro intorno a
quest'argomento».
Prossimità della morte e perdita della speranza non sono
d'altronde punto necessarie per codesta purificazione prodotta dal
dolore. Anche senza di quelle può, mediante grande sventura e
grande dolore, la cognizione del contrasto della volontà di
vivere con se medesima prodursi vigorosamente, e fare scorgere il
nulla d'ogni aspirazione. Per questo si videro sovente uomini, i
quali avevano menato una vita assai travagliata nel tumulto delle
passioni, re, eroi, cavalieri di ventura, improvvisamente mutare,
darsi alla rassegnazione e alla penitenza, farsi eremiti e monaci.
Quivi vanno comprese tutte le storie genuine di conversione, ad
esempio, anche quella di Raimondo Lullo, il quale da una bella, a
cui aveva lungamente fatto la corte, invitato finalmente a
raggiungerla in camera sua, si vedeva presso al compimento di tutti
i desideri, quand'ella, slacciandosi il corpetto, gli mostrò
il seno orribilmente divorato da un cancro. Da quest'istante,
com'avesse spinto l'occhio nell'inferno, si convertì;
abbandonò la corte del re di Majorca e andò nel
deserto, a far penitenza63.
A questa conversione somiglia molto quella dell'abate Rancé,
che io ho brevemente narrata nel cap. 48 del secondo volume. Se
consideriamo come in entrambi il passaggio avvenisse dal piacere
agli orrori della vita, abbiamo in ciò una spiegazione del
fatto sorprendente, che la nazione più mondana, più
allegra, più sensuale e più leggiera d'Europa, ossia
la francese, sia pur quella in cui è sorto l'ordine monastico
di gran lunga più rigido, la Trappa, poi restaurato dopo la
sua decadenza da Rancé, e malgrado rivoluzioni, evoluzioni
ecclesiastiche e propagata incredulità, fino al dì
d'oggi sopravvivente nella sua purezza e terribile severità.
Ma una cognizione della natura del mondo, quale quella più
sopra ricordata, può nondimeno allontanarsi nuovamente
dall'uomo, quando cessi l'occasione che l'ha prodotta; ritorna
allora la volontà di vivere, e con lei il carattere
antecedente. Così vediamo l'impetuoso Benvenuto Cellini, una
volta in prigione e altra volta ammalato di grave malattia,
trasmutarsi nel modo suddetto; ma, scomparsi i mali, tornar
nell'antico stato. In genere, poi, la negazione della volontà
non è prodotta dal dolore con la stessa necessità con
cui un effetto è prodotto dalla sua causa; la volontà
resta libera. Anzi è proprio questo l'unico punto, in cui la
sua libertà entri direttamente nel fenomeno; di qui la
sorpresa così vivamente espressa dall'Asmus sulla
«conversione trascendentale». Accanto a ogni dolore si
può immaginare una volontà ad esso superiore in forza,
e quindi incoercibile. Così Platone racconta nel Fedone di
cotali, che fino all'istante del loro supplizio banchettano, bevono,
godono Afrodite, fino alla morte affermando la vita, Shakespeare ci
pone innanzi nel cardinale Beaufort64 la terribile fine di uno
scellerato, che muore al colmo della disperazione, non potendo
dolore alcuno né morte infrangere la sua volontà
spinta fino alla malvagità più estrema.
Quanto più vivace la volontà, quanto più
stridente il fenomeno del suo contrasto, tanto è più
forte il dolore. Un mondo, il quale fosse fenomeno di una
volontà di vivere molto più vivace della presente, ci
mostrerebbe dolore d'altrettanto più grande: sarebbe adunque
un inferno.
Poiché ogni sofferenza, essendo una mortificazione e un
richiamo alla rassegnazione, ha la possibilità d'essere una
forza purificatrice, si spiega con questo che una grande sventura e
profondi dolori già di per sé ispirino un certo
rispetto. Ma del tutto degno di venerazione ci appare colui che
soffre, sol quand'egli, guardando al corso della sua vita come a una
catena di mali, o soffrendo per un grande, insanabile dolore, non
s'indugi a mirar precisamente la concatenazione di circostanze, onde
fu precipitata in doglia la sua vita, e non s'arresti a quel singolo
grande dolore che l'ha colpito: che entro questi limiti la sua
conoscenza seguirebbe ancora il suo principio di ragione e
rimarrebbe attaccata al singolo fenomeno, egli vorrebbe ancor sempre
la vita, purché in condizioni diverse dalle sue; ma invece,
dico, degno di venerazione egli appare veracemente sol quando il suo
sguardo s'è elevato dal particolare all'universale, quando
egli il suo dolore personale considera come esempio del Tutto, e per
lui, diventato ormai geniale sotto il rispetto etico, un caso val
quanto mille; sì che il complesso della vita, visto come
essenziale dolore, lo conduce alla rassegnazione. In questo senso
è degna di venerazione nel Torquato Tasso di Goethe la
Principessa, quando si effonde a narrar come sempre mesta e senza
gioia fosse la vita sua e quella dei suoi, e ciò facendo
guarda al dolore universale.
Un carattere molto nobile ce lo immaginiamo sempre con una certa
apparenza di muta tristezza; la quale è tutt'altro che un
permanente cattivo umore per le contrarietà quotidiane (che
questo non sarebbe un tratto nobile, e darebbe a temere
malvagità d'animo); bensì è conscienza, nata da
cognizione, della vanità di tutti i beni e del dolore d'ogni
vita, non della propria soltanto. Nondimeno questa cognizione
può esser dapprima destata da mali personalmente sofferti,
soprattutto da un unico grande dolore. Così un'unica,
inappagabile brama ha condotto Petrarca a quella rassegnata mestizia
nel considerar la vita intera, che tanto ci commuove nelle sue
opere: imperocché la Dafne ch'egli inseguiva doveva sfuggire
dalle sue mani, per lasciare a lui, in luogo di se stessa, l'alloro
immortale. Quando la volontà, per un tal grande e
irreparabile diniego del destino, è rotta ad un certo grado,
non viene quasi più null'altro desiderato, e il carattere si
mostra dolce, triste, nobile, rassegnato. Quando infine il dolore
non ha più una casa determinata, ma si estende sul complesso
della vita, allora esso è in certo modo un rientrare in
sé, un ritirarsi, un graduale svanire della volontà. E
la visibilità di questa, il corpo, finisce con l'essere a
poco a poco, ma nel più profondo, minata dal dolore; in
ciò l'uomo sente una certa liberazione dai suoi ceppi, un
dolce presentimento della morte annunziantesi insieme col
dissolvimento del corpo e della volontà. Perciò tale
dolore s'accompagna con una segreta gioia, quella, secondo me, che
il più malinconico di tutti i popoli ha chiamato the joy of
grief. Tuttavia si trova proprio qui lo scoglio della
sensibilità, sia nella vita, sia nella rappresentazione
poetica di questa: se cioè si soffre sempre, e sempre ci si
lamenta, senza elevarsi alla rassegnazione e fortificarsi, ci si
trova ad aver perduto insieme terra e cielo, conservando solo una
lagrimosa sensibilità. Il soffrire è via di
redenzione, e degno quindi d'alto rispetto solo in quanto prende la
forma della semplice, pura conoscenza; e questa allora, fattasi
quietivo della volontà, produce vera rassegnazione. Sotto
tale riguardo proviamo alla vista di ciascun grande infelice un
certo rispetto, affine a quello che virtù e nobiltà ci
inspirano; innanzi a lui ci sembra un rimprovero la nostra
condizione felice. Non possiamo trattenerci dal considerare ogni
dolore, sia nostro che altrui, come un ravvicinamento, per lo meno
possibile, alla virtù e santità; e considerare invece
i piaceri e le soddisfazioni terrene come un allontanamento da
quelle. Ciò arriva al punto, che ogni uomo il quale patisca
una grande sofferenza corporea, o una grave sofferenza morale; o
anche addirittura ogni uomo, che compia col sudore nel volto e con
visibile sfinimento un semplice lavoro fisico richiedente il massimo
sforzo; e tutto ciò sopporti pazientemente e senza mormorare;
quest'uomo, dico, quando lo guardiamo con profonda attenzione, ci
appare come un malato: il quale faccia una cura dolorosa, ma
sopportando di buon animo e addirittura con piacere il dolore, che
da quella gli viene, perché sa che quanto più soffre,
tanto più sarà estirpata la causa del male. Il dolore
presente è la misura della sua guarigione.
Da quanto s'è detto finora apparisce che la negazione della
volontà di vivere, la quale è quel che si chiama
rassegnazione completa o santità, proviene sempre dal
quietivo della volontà, ossia dalla cognizione dell'intimo
dissidio a questa inerente, e della sua essenziale vanità,
che si manifestano nei dolori d'ogni essere vivente. La differenza,
che noi indicammo con l'immagine delle due vie, è questa: se
quella cognizione è generata dal dolore semplicemente
conosciuto, con spontanea adozione di esso, mediante il superamento
del principii individuationis; oppure dal dolore direttamente,
personalmente provato. Vera salvezza, redenzione dalla vita e dal
dolore non può essere immaginata senza completa negazione
della volontà. Prima di giungere a quel punto, noi non siamo
altro che quella volontà stessa, il cui fenomeno è
un'esistenza evanescente, è un sempre nullo, vano aspirare,
è l'intero doloroso mondo della rappresentazione, al quale
tutti in egual modo irrevocabilmente appartengono. Imperocché
noi vedemmo più sopra, che alla volontà di vivere
è ognor sicura la vita, e sua unica forma reale è il
presente: a cui gli esseri, per quanto nascita e morte imperino sul
fenomeno, mai si sottraggono. Questo esprime il mito indiano,
dicendo: «essi tornano a nascere». Il gran divario etico
dei caratteri ha il significato seguente. Il malvagio è
infinitamente lontano dal raggiungere la conoscenza, da cui si
genera la negazione della volontà, e quindi è
effettivamente in balìa di tutti gli affanni che nella vita
appaiono come possibili: essendo anche la casuale sua presente
condizione felice null'altro se non un fenomeno mediato dal
principio individuationis, ossia un'illusione della Maja, il sogno
felice del mendicante. I dolori, ch'egli nella violenza e nella
rabbia della sua sete infligge altrui, sono la misura dei dolori da
lui personalmente provati, che non pervengono a infrangere la sua
volontà e a guidarlo verso la finale negazione. Ogni vero e
puro amore, invece, ed anche ogni libero senso di giustizia,
provengono già dal superamento del principii individuationis;
il qual superamento, quando avvenga con pieno vigore, ha per effetto
la completa santità e redenzione. Il processo di questa
è lo stato di rassegnazione sopra descritto, l'incrollabile
amore, che tale rassegnazione accompagna, e la suprema letizia nella
morte65.
§ 69.
Da questa negazione della volontà di vivere, oramai
sufficientemente esposta nei limiti del nostro studio; negazione,
che è l'unico atto di libertà possibile al fenomeno, e
costituisce quindi, come Asmus la chiama, la metamorfosi
trascendentale, nulla si discosta tanto come l'effettiva
soppressione del proprio singolo fenomeno: il suicidio. Lungi
dall'esser negazione della volontà, esso è invece un
atto di forte affermazione della volontà stessa.
Imperocché la negazione ha la sua essenza nell'aborrire non
già i mali, bensì i beni della vita. Il suicida vuole
la vita, ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono
toccate. Egli non rigetta perciò in nulla la volontà
di vivere, ma soltanto la vita, distruggendone il singolo fenomeno.
Vuole la vita, vuole la libera esistenza ed affermazione del corpo;
ma ciò non gli è consentito dall'intreccio delle
circostanze, e gliene viene un grande dolore. La volontà di
vivere viene a trovarsi in questo singolo fenomeno tanto
compromessa, da non poter più svolgere la propria tendenza.
Allora essa prende una risoluzione conforme alla propria essenza in
sé; la quale sta fuor delle forme del principio di ragione, e
tiene quindi per indifferente ogni isolato fenomeno, essendo ella
medesima intangibile da nascita e da morte, e costituendo l'intimo
della vita di tutte le cose. Quella medesima salda, profonda
certezza, la quale fa sì che noi tutti viviamo senza il
continuo terror della morte, ossia la certezza che alla
volontà non verrà mai meno il suo fenomeno, sorregge
anche il gesto del suicida. La volontà di vivere si palesa
dunque altrettanto nel suicidio (Shiva), quanto nel benessere della
propria conservazione (Visnù) e nella voluttà della
generazione (Brahma). Questo è il significato profondo
dell'unità della Trimurti, la quale è tutta in ciascun
uomo sebbene ella nel tempo alzi ora l'una, ora l'altra delle sue
tre teste. Come l'oggetto singolo sta all'idea, così sta il
suicidio alla negazione della volontà: il suicida nega
soltanto l'individuo, non la specie. Già vedemmo che, essendo
alla volontà di vivere sicura sempre la vita, ed essenziale
alla vita il dolore, il suicidio o arbitraria distruzione di un
fenomeno isolato è azione in tutto vana e stolta: che
sopprimendo il fenomeno rimane intatta la cosa in sé, come
sussiste l'arcobaleno, per veloci che si succedano le gocce le quali
nell'attimo lo sostengono. Quell'azione è inoltre il
capolavoro della Maja, essendo la più clamorosa espressione
del contrasto della volontà di vivere con se stessa. Come
già osservammo, tale contrasto nei fenomeni più bassi
della volontà, nella lotta permanente combattuta da tutte le
manifestazioni delle forze naturali e da tutti gl'individui organici
per la materia, per il tempo e per lo spazio; e come quel contrasto
vedemmo sempre più visibile apparire, con tremenda evidenza,
nei gradi dell'oggettivazione della volontà man mano
più alti; così finalmente raggiunge nel grado supremo,
ch'è l'idea dell'uomo, questo vertice, in cui non soltanto
gl'individui rappresentanti della stessa idea si distruggono l'un
l'altro, ma addirittura l'individuo dichiara guerra a se medesimo. E
allora quella stessa vivacità con cui l'individuo vuole la
vita e fa impeto contro l'oppressore di essa, il dolore, lo riduce a
distruggere se medesimo: sì che la volontà individuale
sopprime con un atto volontario il corpo, il quale è appunto
la propria manifestazione visibile, prima che il dolore infranga la
volontà. Appunto perché il suicida non può
cessar di volere, cessa di vivere; e la volontà s'afferma qui
proprio con la soppressione del proprio fenomeno, non potendosi
più altrimenti affermare. Ma poiché precisamente il
dolore a cui il suicida in tal modo si sottrae era quello che
avrebbe potuto, qual mortificazione della volontà, condurlo
alla negazione di se stesso ed alla redenzione, somiglia sotto
questo riguardo il suicida ad un malato, il quale non lasci condurre
a termine una dolorosa operazione che lo guarirebbe radicalmente, e
preferisce tenersi la malattia. Il dolore gli s'accosta, e gli apre
la possibilità di venire alla negazione del volere: ma egli
lo respinge da sé, distruggendo il fenomeno della
volontà, il corpo, affinchè la volontà rimanga
intatta. Questa è la ragione, per cui quasi tutte le etiche,
sia filosofiche, sia morali, condannano il suicidio; sebbene non
possano giustificar la condanna se non con strani sofismi. Ma se mai
un uomo potesse venir trattenuto dal suicidio con una semplice
incitazione morale, il senso intimo di codesta vittoria su se stesso
(quali che fossero poi i concetti di cui la sua ragione rivestisse
quel senso) sarebbe il seguente: «Io non voglio sottrarmi al
dolore, affinchè esso possa contribuire a spegnere la
volontà di vivere, il cui fenomeno è sì pieno
d'affanno, rafforzando in me la già balenantemi cognizione
dell'essenza del mondo fino a tal segno, ch'essa diventi un finale
quietivo della mia volontà e mi redima per sempre».
È noto che di tanto in tanto si danno casi in cui il suicidio
si estende ai propri figli: il padre uccide i figli, che egli ama, e
poi se medesimo. Riflettiamo che coscienza, religione e tutti i
concetti appresi gli fanno scorgere nel delitto il più grave
misfatto, e nondimeno ei lo commette nell'ora della sua propria
morte, senza poter avere in ciò il minimo motivo egoistico.
Il suo atto si spiega solo pensando, che qui la volontà
dell'individuo si riconosce direttamente nei figli, ma prigioniera
tuttavia dell'errore che scambia il fenomeno con la cosa in
sé; e così, profondamente scossa dalla cognizione del
dolore inerente a ogni vita, ritiene allora di sopprimere col
fenomeno l'essenza. Quindi se stessa ed i figli, nei quali si vede
direttamente rivivere, vuol salvare dall'esistenza e dal suo
tormento. Un errore del tutto analogo a questo sarebbe il pensare
che la stessa mèta, a cui si perviene mediante volontaria
castità, possa venir raggiunta con l'impedire i fini della
natura nell'atto del generare, o addirittura col procurar la morte
del neonato, in considerazione dell'inevitabile dolore della vita,
invece di far viceversa il possibile, perché la vita sia
assicurata a ognuno che nella vita vuole entrare. Imperocché
quando esiste volontà di vivere, nessuna forza può
distruggerla, essa che è la sola realtà metafisica, la
cosa in sé; ma unicamente può distruggere il suo
fenomeno nello spazio e nel tempo. La volontà non può
venir soppressa che dalla conoscenza. Perciò unica via di
salvazione è che la volontà si palesi liberamente, per
poter conoscere, in questo suo palesarsi, la propria essenza. Solo
quando tale cognizione è raggiunta può la
volontà sopprimere se stessa e quindi anche dar termine al
dolore, che dal fenomeno di lei è inseparabile: ma non vi si
perviene invece con violenza fisica, come sarebbe distruzione del
germe, uccisione del neonato, o suicidio. La natura mette appunto
alla luce la volontà, perché questa nella luce
soltanto può trovare la sua redenzione. Quindi tutti i fini
della natura vanno aiutati in ogni modo, non appena si è
decisa ad agire la volontà di vivere, che della natura
è l'intima essenza.
Affatto diversa dal suicidio comune sembra essere una particolar
forma di esso, la quale tuttavia non venne fino ad ora abbastanza
constatata. È la morte per fame, volontariamente scelta dal
grado più alto dell'ascesi. Ma essa fu sempre accompagnata da
molta esaltazione religiosa e addirittura da superstizione, che
l'han fatta poco chiara. Sembra nondimeno, che la completa negazione
della volontà possa raggiungere il punto, in cui vien meno
perfino la volontà occorrente a mantener mediante il cibo la
vegetazione del corpo. Tal maniera di suicidio proviene da
tutt'altro che dalla volontà di vivere: quell'asceta
rassegnato appieno cessa di vivere sol perché ha cessato
affatto di volere. Altra forma di morte che per fame non sarebbe, in
questo caso, immaginabile (a meno che non fosse determinata da una
particolare superstizione); perché l'intendimento di
abbreviare la sofferenza sarebbe già in effetti un grado
d'affermazione della volontà. I dogmi, che empiono a quel
penitente la ragione, gli prospettano l'errore, che un essere di
natura superiore gli abbia imposto il digiuno, a cui lo spinge
invece l'intimo impulso. Non recenti esempi di queste morti si
posson trovare nella Breslauer Sammlung von Naturund Medicin
Geschichten, settembre 1719, p. 363; presso Bayle, Nouvelles de la
république des lettres, febbraio 1685, pp. 189 sg.; presso
Zimmermann, Ueber die Einsamkeit, vol. I, p. 182; nella Histoire de
l'Académie des Sciences del 1764 si trova una relazione di
Houttuyn; questa è riprodotta nella Sammlung für
praktische Aente, vol. I, p. 69. Relazioni posteriori si trovano nel
Journal für praktische Hilkunde di Hufeland, vol. x, p. 181, e
vol. 48, p. 95; anche nella «Zeitschrift für psychische
Aerzte» di Nasse, 1819, fasc. 3, p. 460; nell'«Edinburgh
medicai and surgical Journal», 1809, vol. 5, p. 319. Nell'anno
1833 tutti i giornali riferirono, che lo storico inglese dr.
Lingard, di gennaio, a Dover, era volontariamente morto di fame;
secondo notizie successive non si trattava di lui, ma di un suo
parente. Nondimeno in queste relazioni cotali individui vengono
generalmente dati come pazzi, e non c'è più modo di
stabilire fino a che punto pazzi fossero veramente. Ma una notizia
nuova dello stesso genere voglio riferire anch'io, dovesse pur
servire soltanto a conservare il ricordo d'un de' più rari
esempi di codesta straordinaria singolarità dell'umana
natura. La notizia sembra appartener proprio ai fatti, tra i quali
io vorrei annoverarla, e sarebbe altrimenti difficile a spiegare. La
si trova nel Nurnberger Korrespondenten del 29 luglio 1813, come
segue:
«Si annunzia da Berna, che presso Thurnen in un folto bosco fu
scoperta una capannuccia, e dentro di questa un cadavere maschile
giacente in putrefazione da circa un mese, con abiti che poco danno
a comprendere sulla condizione del loro proprietario. Due camicie
assai fini gli stavano da presso. L'oggetto più importante
era una Bibbia, con fogli bianchi intercalati, i quali in parte
erano scritti di mano del morto. Questi vi segna il giorno della sua
partenza da casa (ma il luogo d'origine non è nominato), poi
dice ch'egli è sospinto dallo spirito di Dio in un deserto,
per pregare e digiunare. Ha già digiunato in viaggio sette
giorni, poi ha di nuovo mangiato. Ma nel suo romitaggio ha ripreso a
digiunare, ed indica i giorni. Ogni giorno è indicato con un
trattolino, e ve ne son cinque; trascorsi i quali, il pellegrino
verisimilmente sarà morto. Si trovò inoltre una
lettera a un sacerdote, intorno a una predica che il morto aveva
udita da lui; ma quivi pur mancava l'indirizzo». Fra questa
morte provocata da un estremo dell'ascesi e il comune suicidio mosso
dalla disperazione, potranno essere più gradi intermedi e
forme miste, la qual cosa è difficile a chiarire; ma l'animo
umano ha abissi, tenebre e avvolgimenti, che sono di estrema
difficoltà ad illuminare e dispiegare.
§ 70.
Tutta questa nostra esposizione, oramai compiuta, di ciò
ch'io chiamo negazione della volontà, si potrebbe ritenere
inconciliabile con l'esame, fatto più indietro, della
necessità, la quale appartiene alla motivazione come ad ogni
altra forma del principio di ragione. In virtù di quella
necessità i motivi, come tutte le cause, sono semplicemente
cause occasionali, per cui mezzo il carattere dispiega la propria
essenza e la manifesta con la necessità d'una legge di
natura: sì che noi negammo allora senz'altro la
libertà come liberum arbitrium indifferentiae. Ben lungi dal
cancellar qui tutto codesto, vi richiamo la memoria. Invero la
libertà propriamente detta, ossia indipendenza dal principio
di ragione, appartiene soltanto alla volontà come cosa in
sé, e non al suo fenomeno, la cui forma essenziale è
sempre il principio di ragione, l'elemento della necessità.
Ma l'unico caso, in cui quella libertà può
direttamente apparire anche nel fenomeno, è quello, in cui
essa al fenomeno mette fine; e poiché nondimeno allora il
semplice fenomeno, in quanto esso è un anello nella catena
delle cause, ossia il corpo animato, continua a sussistere nel
tempo, il quale non contiene che fenomeni, sta allora la
volontà, in codesto fenomeno manifestantesi, in contrasto con
lui: poiché ella nega ciò che esso esprime. Esistono,
per esempio, in questo caso, reali e sani, i genitali; come
manifestazione visibile dell'istinto sessuale; ma tuttavia la
volontà non vuol più, anche nel suo più intimo,
nessuna soddisfazione di sensi: ed il corpo tutto non è se
non espressione visibile della volontà di vivere, e tuttavia
non agiscono più i motivi corrispondenti a questa
volontà. Anzi, il dissolvimento del corpo, la fine
dell'individuo, e con essa l'ostacolo maggiore opposto alla
volontà naturale, è benvenuta e invocata. Questa reale
contraddizione, proveniente dal diretto attacco, che la
libertà del volere in sé, la quale non conosce
necessità di sorta, muove contro la necessità inerente
ai fenomeni del volere, viene riflessa filosoficamente dalla
contraddizione fra quanto affermammo, per un lato, intorno alla
necessaria determinazione della volontà mediante i motivi,
nella misura imposta dal carattere; e, per l'altro, intorno alla
possibile soppressione completa della volontà, soppressione
che toglie forza ai motivi. La chiave per accordare queste
contraddizioni è la seguente: lo stato, in cui il carattere
si trova ad esser sottratto all'impero dei motivi, non viene
direttamente dalla volontà, ma da un mutato modo di
conoscere. Finché non si possiede altra conoscenza, che
quella irretita nel principio individuationis e asservita tutta al
principio di ragione, l'impero dei motivi è irresistibile; ma
quando il principium individuations è superato, e le idee, o
anzi l'essenza delle cose in sé, come volontà unica
ovunque, vengon direttamente conosciute, e da tal conoscenza
proviene un general quietivo del volere, allora perdono ogni possa i
singoli motivi, perché il modo di conoscenza, che ad essi
corrisponde, è venuto a offuscarsi, a scomparire davanti a un
modo affatto nuovo. È vero adunque, che un carattere non
può mai mutarsi parzialmente, e deve, con la conseguenza di
una legge di natura, obbedire di volta in volta alla volontà,
di cui è in complesso il fenomeno: ma appunto questo
complesso, il carattere medesimo, può esser tolto via del
tutto dalla sopraddetta trasformazione della conoscenza. Tale
soppressione indica Asmus, come dicemmo, come «cattolica,
trascendentale metamorfosi», e ne stupisce: essa è quel
che nella Chiesa cristiana vien chiamato molto opportunamente la
rigenerazione; e la conoscenza che ne deriva è detta azione
della grazia. Appunto perché non si tratta di un mutamento,
ma di una completa soppressione del carattere, ne viene che, per
diversi che fossero prima della soppressione i caratteri, a cui
questa è toccata, essi mostrano in seguito una grande
somiglianza, sebbene ciascuno parli ancora molto diversamente,
secondo i propri concetti e i propri dogmi.
In questo senso non è adunque infondato il vecchio, sempre
discusso e sempre affermato filosofema della libertà del
volere; e non è neppure privo di senso e di valore anche il
dogma ecclesiastico della grazia operante e della rigenerazione. Li
vediamo fusi in unità, il filosofema e il dogma, e possiamo
adesso comprendere qual significato intendesse l'eccelso Malebranche
con le parole: La liberté est un mystère. Aveva
ragione. Quel che i mistici cristiani chiamano azione della grazia e
rigenerazione, è per noi l'unica diretta manifestazione della
libertà del volere. Questa si ha quando la volontà,
pervenuta alla cognizione della propria essenza in sé, riceve
da questa un quietivo e appunto perciò è sottratta
all'impero dei motivi, il quale sta nel dominio d'un altro modo di
conoscenza, i cui oggetti sono esclusivamente fenomeni. L'esser
possibile la libertà, manifestantesi in questo modo, è
il più alto privilegio dell'uomo, privilegio che all'animale
non sarà mai conceduto, avendo per condizione la
capacità riflessiva della ragione, la quale fa vedere il
complesso della vita, indipendentemente dall'impressione
dell'attimo. L'animale non ha libertà possibile, com'è
del resto addirittura privo della possibilità d'una scelta
vera e propria, ossia riflessa, che ponga termine a un precedente
conflitto di motivi: perché a ciò occorrerebbe che i
motivi fossero rappresentazioni astratte. Quindi con la stessa
necessità, con cui la pietra cade a terra, pianta il famelico
lupo i denti nella carne della selvatica preda, senza
possibilità di conoscere ch'egli è tanto il divorato
quanto il divoratore. Necessità è il regno della
natura; libertà è il regno della grazia.
Ora, poiché, come vedemmo, quella autosoppressione della
volontà procede dalla conoscenza, ed ogni conoscenza, in
quanto tale, è indipendente dall'arbitrio; così anche
quella negazione del volere, quell'entrar nella libertà non
si può ottenere con deliberato proposito, bensì viene
dal più intimo rapporto del conoscere col volere nell'uomo.
Viene perciò d'un tratto, quasi arrivasse volando. E questa
è la causa per cui fu chiamata dalla Chiesa azione della
grazia: ma come la Chiesa fa inoltre dipender l'azione della grazia
dall'accoglimento della grazia, così anche l'azione del
quietivo è infine un atto di libertà del volere. E
poiché in conseguenza di codesta azione della grazia l'intero
essere dell'uomo viene dalle fondamenta trasformato e convertito,
sì ch'egli più nulla vuole di quanto finora con tanta
forza voleva, e quindi è in lui veramente quasi un uomo nuovo
sorto al posto dell'antico, la Chiesa chiamò rigenerazione
quest'effetto della grazia operante. Quel ch'essa chiama l'uomo
naturale, a cui nega ogni capacità di bene, è appunto
la volontà di vivere; la quale va negata, se si vuole aver
redenzione da una esistenza com'è la nostra. Dietro la nostra
esistenza si cela invero qualche altra cosa, che si fa a noi
accessibile sol quando abbiamo rimosso il mondo da noi stessi.
Guardando non agli individui, in conformità del principio di
ragione, bensì all'idea dell'uomo nella sua unità, la
religione cristiana simboleggia la natura, l'affermazione della
volontà di vivere, in Adamo: il peccato di lui, disceso
ereditariamente fino a noi, ossia l'unità nostra con lui
nell'idea, unità che si manifesta nel tempo col vincolo della
generazione, ci fa tutti partecipi del dolore e della morte eterna.
E simboleggia invece la grazia, la negazione della volontà,
la redenzione, nel Dio incarnato: il quale, libero da ogni peccato,
ossia da ogni volontà di vivere, non può come noi
provenire dalla più risoluta affermazione della
volontà, né avere come noi un corpo, che in tutto e
per tutto è esclusivamente volontà concreta, fenomeno
della volontà; ma invece, generato dalla pura Vergine, ha
solo un corpo apparente. Così almeno pretendono i doceti,
ch'erano certi padri della chiesa molto conseguenti nel loro
pensare. L'insegnò soprattutto Apelle, contro il quale, e
contro i successori suoi, si levò Tertulliano. Ma lo stesso
Agostino commenta quel passo (Rom., 8, 3): «Deus filium suum
misit in similitudinem carnis peccati»; quindi «non enim
caro peccati erat, quae non de carnali delectatione nata erat: sed
tamen inerat ei similitudo carnis peccati, quia mortalis caro
erat» (Liber 83 quaestion., qu. 66). Lo stesso Agostino
insegna nell'opera, che ha per titolo Opus imperfectum, I, 47, che
nel peccato originale si trova a un tempo peccato e punizione. Si
trova già nei neonati, ma apparisce solo col loro crescere.
Quindi l'origine di questo peccato sta, secondo lui, nella
volontà del peccatore. E il peccatore, dice, fu Adamo, ma in
lui siamo tutti esistiti: Adamo divenne infelice, e tutti divenimmo
infelici con lui. Sicuramente la dottrina del peccato originale
(affermazione della volontà), con quella della redenzione
(negazione della volontà), è la gran verità che
forma il nocciolo del cristianesimo; mentre il rimanente è il
più delle volte una veste e un velo, o un accessorio. Quindi
Gesù Cristo va sempre preso in generale come simbolo, o
personificazione, della negazione della volontà di vivere; e
non già individualmente, sia nella sua storia mitica,
com'è negli Evangeli, sia nella storia presumibilmente vera,
che serve a quella di base. Né l'una né l'altra
appagherebbe facilmente appieno. Questo non è che il tramite
per salire a quella concezione: tramite ad uso del popolo, che
domanda sempre qualcosa di materiale. Che poi il Cristianesimo
nell'età moderna abbia dimenticato il suo vero senso,
degenerando in uno scipito ottimismo, è cosa che qui non ci
riguarda.
C'è poi un'altra dottrina dell'originario ed evangelico
Cristianesimo, che Agostino, col consenso dei capi della Chiesa,
sostenne contro le stoltezze dei pelagiani; purificarla da errori e
metterla in vigore fu il principale scopo dell'attività di
Lutero, com'egli espressamente dichiara nel suo libro De servo
arbitrio. È la dottrina, che la volontà non sia
libera, ma dall'origine soggetta all'inclinazione del male; che
perciò son le sue opere sempre peccaminose, e non posson mai
soddisfare la giustizia; che finalmente non già le opere, ma
la fede sola salva; e codesta fede non nasce da proposito e da
libera volontà; bensì per l'azione della grazia, senza
il nostro concorso, viene a noi quasi giungesse dal di fuori. Non
soltanto i dogmi più sopra riferiti, ma anche quest'ultimo,
genuinamente evangelico, appartengono a quelli, che oggi una rozza e
insulsa concezione rigetta come assurdi, o nasconde. Soggetta a quel
borghesismo intellettuale pelagiano, che è appunto il
razionalismo odierno, codesta concezione, malgrado Agostino e
Lutero, mette fra le anticaglie proprio i dogmi più
intimamente ed essenzialmente cristiani, e invece tien fermo
soltanto e pone in primo luogo il dogma originato e conservato dal
giudaismo, collegato col cristianesimo esclusivamente per la via
della storia.66
Noi viceversa riconosciamo nella dottrina citata la verità
corrispondente appieno al risultato delle nostre osservazioni.
Vediamo cioè, che la genuina virtù e santità
dell'animo ha la sua prima origine non già nel meditato
arbitrio (nelle opere), bensì nella conoscenza (nella fede):
proprio secondo noi pure concludemmo, muovendo dal nostro pensiero
centrale. Se conducessero alla beatitudine le opere, le quali
emanano da motivi e da meditato proposito, sarebbe ognora la
virtù null'altro che un sottile, metodico, lungimirante
egoismo: si giri pur la cosa come si vuole. La fede invece, a cui la
Chiesa cristiana promette la beatitudine, è questa: che, come
per il peccato originale del primo uomo siamo del peccato tutti
partecipi, e destinati alla morte e alla perdizione, tutti saremo
egualmente salvati sol per la grazia e perché il divino
propiziatore ha assunto su di sé il nostro immane peccato.
Saremo salvati senz'alcun nostro merito personale; perché
ciò che può venir dall'agire intenzionale (determinato
da motivi) dell'individuo, ossia le opere, non potrebbe esserci di
giustificazione mai in nessun modo e per propria natura, appunto
essendo agire intenzionale, determinato da motivi, opus operatum. In
questa fede è primo principio, che il nostro sia
originalmente ed essenzialmente uno stato di perdizione, dal quale
dobbiamo essere redenti. Vien poi l'altro principio, che noi
apparteniamo per essenza al male, e siamo ad esso così
strettamente legati, che le nostre opere, fatte secondo legge e
secondo prescrizione, ossia secondo motivi, né possono
soddisfare la giustizia, né salvarci. La redenzione
s'acquista soltanto con la fede, ossia mediante un mutato modo di
conoscenza; e questa fede non può venire che dalla grazia,
cioè dal di fuori: ciò vuol dire che la salvazione
è alcunché d'affatto estraneo alla nostra persona, e
indica come necessario per quella salvazione appunto il negare, il
sopprimere la persona stessa. Le opere, adempimento della legge in
quanto tale, non posson mai giustificare, perché sono sempre
un agire per effetto di motivi. Lutero vuole (nel libro De libertate
christiana) che, una volta penetrata la fede, le buone opere ne
emanino spontanee, come sintomi, come frutti di lei: non già
pretendendo d'avere in sé diritto a merito, giustificazione,
o ricompensa, ma producentisi invece affatto spontaneamente e
disinteressatamente. Così anche noi facemmo sorgere, dalla
penetrazione sempre più limpida che va oltre il principium
individuationis, dapprima la semplice libera giustizia, poi l'amore,
fino alla completa soppressione dell'egoismo, e finalmente la
rassegnazione, o negazione della volontà.
Questi dogmi della religione cristiana, che sono in sé
estranei alla filosofia, li ho qui introdotti per mostrare, che
l'etica risultante da tutto il nostro sistema, e accordantesi e
connettentesi in tutto con le varie parti di esso, non è
punto nuova e inaudita nella sostanza, se pur tale può parere
nella sua formulazione. Essa coincide invece appieno coi veri dogmi
cristiani, ed ora anzi già in essi, sostanzialmente,
contenuta e presente; così come in tutta precisione coincide
con le dottrine e le prescrizioni morali, sebbene presentate
anch'esse in tutt'altra forma, dei libri sacri indiani. Inoltre il
richiamo ai dogmi della Chiesa cristiana servì a illustrare e
dirimere il contrasto apparente tra la necessità di tutte le
manifestazioni del carattere in seguito a dati motivi (regno della
natura) da una parte, e dall'altra la libertà, che possiede
la volontà in sé, di negare se medesima e sopprimere
il carattere, con tutta la necessità dei motivi che su di
esso si fonda (regno della grazia).
§ 71.
Dando qui termine ai fondamenti dell'etica, e con essi all'intero
sviluppo di quell'unico pensiero, ch'io mi proponevo di comunicare,
non voglio punto tener celato un rimprovero che tocca quest'ultima
parte della trattazione; intendo anzi mostrare, ch'esso è
inerente alla sostanza della cosa, e sarebbe del tutto impossibile
rimuoverlo. Eccolo: giunta la nostra indagine al punto da farci
vedere nella perfetta santità la negazione e l'abbandono
d'ogni volere, e quindi la redenzione da un mondo, la cui essenza
intera ci si presentò come dolore, tale condizione ci appare
come un passare al vuoto nulla.
A questo proposito devo in primo luogo osservare, che il concetto
del nulla è essenzialmente relativo, e si riferisce sempre ad
alcunché di determinato, ch'esso nega. Codesta
relatività fu attribuita (specie da Kant) soltanto al nihil
privativum, indicato col segno – in opposizione al segno +; il qual
segno –, capovolgendo il punto di vista, poteva diventare +; e in
contrasto con quel nihil privativum, si stabilì un nihil
negativum, che fosse il nulla sotto tutti i rapporti, per esempio,
del quale si cita la contraddizione logica, distruggente se stessa.
Ma, guardando più da vicino, un nulla assoluto, un vero e
proprio nihil negativum non si può neppure immaginare: ogni
nihil negativum, guardato più dall'alto o sussunto ad un
più ampio concetto, rimane pur sempre un nihil privativum.
Ciascun nulla è pensato come tale solo in rapporto a qualche
cosa, e presuppone codesto rapporto, ossia quella cosa. Perfino una
contraddizione logica è un nulla relativo. Non è un
pensiero della ragione: ma non perciò è un nulla
assoluto. Imperocché essa è un'accozzaglia di parole,
è un esempio del non pensabile, di cui nella logica si ha
bisogno per mostrar le leggi del pensare: quindi, allorché si
ricorre con quel fine a un esempio siffatto, si bada all'insensato,
che è la cosa positiva di cui si va in cerca, trascurando il
sensato, come negativo. Così adunque ogni nihil negativum, o
nulla assoluto, quando venga subordinato a un concetto più
alto, apparirà sempre qual semplice nihil privativum, o nulla
relativo, che può sempre scambiare il suo segno con
ciò ch'esso nega, sì che questo diventi a sua volta
negazione, ed esso viceversa diventi posizione. Con noi s'accorda
anche il risultato della difficile indagine dialettica intorno al
nulla, che Platone istituisce nel Sofista (pp. 277-287, ed. Bip.):
Την του έτερου φυσιν αποδειξαντες ουσαν τε, και κατακεκερματισμεηνη
ετι παντα τα οντα προς αλληλα, το προς το ον έκαστου μοριον αυτης
αντιτιθεμενον. Ετολμησαμεν ειπειν, ώς αυτο τουτο εστιν αυτως το μη
ον (Cum enim ostenderemus, alterius ipsius naturam esse, perque
omnia entia divisam atque dispersam invicem; tunc partem ejus
oppositam ei, quod cujusque ens est, esse ipsum revera non ens
asseruimus).
Ciò ch'è universalmente ammesso come positivo, che noi
chiamiamo l'ente, e la cui negazione è espressa dal concetto
del nulla nel suo significato più universale, è
appunto il mondo della rappresentazione, che io ho indicato come
oggettità, specchio della volontà. E questa
volontà e questo mondo sono poi anche noi stessi, e al mondo
appartiene la rappresentazione in genere, come una delle sue facce:
forma di tale rappresentazione sono spazio e tempo, quindi ogni
cosa, che sotto questo riguardo esista, dev'esser posta in qualche
luogo e in qualche tempo. Negazione, soppressione, rivolgimento
della volontà è anche soppressione e dileguamento del
mondo, ch'è specchio di quella. Se non vediamo più la
volontà in codesto specchio, invano ci domanderemo dove si
sia rivolta; e lamentiamo allora ch'ella non abbia più
né dove né quando, e sia svanita nel nulla.
Un punto di vista invertito, qualora fosse possibile per noi,
scambierebbe i segni, mostrando come il nulla ciò che per noi
è l'ente, e quel nulla come l'ente. Ma, finché noi
medesimi siamo la volontà di vivere, il nulla può
esser conosciuto da noi solo negativamente, perché l'antico
principio d'Empedocle, potere il simile esser conosciuto soltanto
dal simile, ci toglie qui ogni possibilità di conoscenza;
come viceversa poggia su quel principio la possibilità di
tutta la nostra conoscenza reale, ossia il mondo come
rappresentazione, o l'oggettità della volontà.
Imperocché il mondo è l'autocognizione della
volontà.
Quando si volesse tuttavia insistere nel pretendere in qualche modo
una cognizione positiva di ciò, che la filosofia può
esprimere solo negativamente, come negazione della volontà,
non potremmo far altro che richiamarci allo stato di cui fecero
esperienza tutti coloro, i quali pervennero alla completa negazione
della volontà; stato al quale si son dati i nomi di estasi,
rapimento, illuminazione, unione con Dio, e così via. Ma tale
stato non può chiamarsi cognizione vera e propria,
perché non ha più la forma del soggetto e
dell'oggetto, e inoltre è accessibile solo all'esperienza
diretta, né può essere comunicato altrui.
Noi, che restiamo fermi sul terreno della filosofia, dobbiamo qui
contentarci della conoscenza negativa, paghi d'aver raggiunto il
limite estremo della positiva. Avendo riconosciuto nella
volontà l'essenza in sé del mondo, e in tutti i
fenomeni del mondo null'altro che l'oggettità di lei; avendo
quest'oggettità perseguito dall'inconsapevole impulso delle
oscure forze naturali fino alle più lucide azioni umane, non
vogliamo punto sfuggire alla conseguenza: che con la libera
negazione, con la soppressione della volontà, vengono anche
soppressi tutti quei fenomeni e quel perenne premere e spingere
senza mèta e senza posa, per tutti i gradi
dell'oggettità, nel quale e mediante il quale il mondo
consiste; soppressa la varietà delle forme succedentisi di
grado in grado, soppresso, con la volontà, tutto intero il
suo fenomeno; poi finalmente anche le forme universali di quello,
tempo e spazio; e da ultimo ancora la più semplice forma
fondamentale di esso, soggetto e oggetto. Non più
volontà: non più rappresentazione, non più
mondo.
Davanti a noi non resta invero che il nulla. Ma quel che si ribella
contro codesto dissolvimento nel nulla, la nostra natura, è
anch'essa nient'altro che la volontà di vivere.
Volontà di vivere siamo noi stessi, volontà di vivere
è il nostro mondo. L'aver noi tanto orrore del nulla, non
è se non un'altra manifestazione del come avidamente vogliamo
la vita, e niente siamo se non questa volontà, e niente
conosciamo se non lei. Ma rivolgiamo lo sguardo dalla nostra
personale miseria e dal chiuso orizzonte verso coloro, che
superarono il mondo; coloro, in cui la volontà, giunta alla
piena conoscenza di sé, se medesima ritrovò in tutte
le cose e quindi liberamente si rinnegò; coloro, che
attendono di vedere svanire ancor solamente l'ultima traccia della
volontà col corpo, cui ella dà vita. Allora, in luogo
dell'incessante, agitato impulso; in luogo del perenne passar dal
desiderio al timore e dalla gioia al dolore; in luogo della speranza
mai appagata e mai spenta, ond'è formato il sogno di vita
d'ogni uomo ancor volente: ci appare quella pace che sta più
in alto di tutta la ragione, quell'assoluta quiete dell'animo pari
alla calma del mare, quel profondo riposo, incrollabile fiducia e
letizia, il cui semplice riflesso nel volto, come l'hanno
rappresentato Raffaello e Correggio, è un completo e certo
Vangelo. La conoscenza sola è rimasta, la volontà
è svanita. E noi guardiamo con profonda e dolorosa nostalgia
a quello stato, vicino al quale apparisce in piena luce, per
contrasto, la miseria e la perdizione del nostro. Eppur quella vista
è la sola, che ci possa durevolmente consolare, quando noi da
un lato abbiam riconosciuto essere insanabile dolore ed infinito
affanno inerenti al fenomeno della volontà, al mondo; e
dall'altro vediamo con la soppressione della volontà
dissolversi il mondo, e soltanto il vacuo nulla rimanere innanzi a
noi. In tal guisa adunque, considerando la vita e la condotta dei
santi, che raramente ci è concesso invero d'incontrar nella
nostra personale esperienza, ma che dalle loro biografie e, col
suggello dell'interna verità, dall'arte ci son posti sotto
gli occhi, dobbiamo discacciare la sinistra impressione di quel
nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo a ogni virtù
e santità e di cui noi abbiamo paura, come della tenebra i
bambini. Discacciarla, quell'impressione, invece d'ammantare il
nulla, come fanno gl'Indiani, in miti e in parole prive di senso,
come sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti.
Noi vogliamo piuttosto liberamente dichiarare: quel che rimane dopo
la soppressione completa della volontà è invero, per
tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma
viceversa per gli altri, in cui la volontà si è
rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto
reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il
nulla.