INTRODUZIONE A ROUSSEAU

1.

Nonostante tutto ciò che è stato scritto a suo riguardo, non è facile affrontare criticamente il problema Rousseau, vale a dire l'attualità e i limiti di una delle menti più lucide, geniali e intellettualmente inquiete che siano mai esistite, contrassegnata però da un'ambivalenza costitutiva che non è venuta mai meno. Pensatore a tutto campo, che si è interessato di filosofia, di politica, di religione, di sociologia, di psicologia, di pedagogia, ecc., Rousseau ha un potere critico straordinario: egli legge i mali del suo mondo, che, per alcuni aspetti, sono ancora del nostro, con una vivacità che anticipa la Rivoluzione francese e Marx. Nello stesso tempo, egli è un conservatore viscerale, che legge nel progresso e nell'allontanamento dalle leggi della natura un processo d'irreversibile decadenza. E', insomma, nel contempo, "rivoluzionario" e "nostalgico": rivoluzionario in quanto, definendo come intollerabile lo stato di cose esistente, egli avverte la necessità di un cambiamento radicale; nostalgico perché il rimedio è il recupero, che egli stesso ritiene improbabile, di una virtù sociale che si perde nelle nebbie di un passato remoto.

Quest'ambivalenza è presente in tutte le sue opere e talora si esprime sorprendentemente in una stessa pagina. Interpretarla non è difficile. Misurando il mondo alla luce di un modello ideale e costatando uno scarto drammatico tra questo e quello, Rousseau è portato a pensare che sia stato il progresso a produrlo. Di conseguenza, egli ritiene necessario, per ridurlo se non per azzerarlo, tornare dietro, vale a dire ridurre l'impatto della cultura sulla natura. L'utopia di un mondo ideale è il polo rivoluzionario del suo pensiero, la nostalgia del buon tempo antico il polo reazionario.

Quest'ambivalenza, costitutiva della personalità e della visione del mondo di Rousseau, spiega i giudizi controversi che da sempre hanno investito la sua opera (e alla sua epoca, l'uomo). Precursore del vangelo ugualitaristico della Rivoluzione francese, e quindi ispiratore dei diritti universali dell'individuo, egli è stato accusato di aver promosso il Terrore e di avere fornito il presupposto filosofico - lo Stato etico - su cui si sono edificate le dittature moderne. Fondatore dell'antropologia filosofica, sulla base dell'attribuzione all'uomo di un istinto di conservazione e di un istinto sociale, che promuove l'identificazione con il simile, è stato attaccato come creatore dell'inesistente figura del buon selvaggio. Amante della libertà e avverso ad ogni forma di dominio dell'uomo sull'uomo, gli è stata imputato, come pedagogista, di aver creato un sistema di manipolazione insidiosa della mente dell'educando. La sua stessa impresa di psicologo del profondo, affidata alle Confessioni, è stata addotta come prova del suo incoercibile narcisismo e di una scarsa onestà interiore.

Dopo oltre due secoli, le passioni - il culto per un verso, l'idiosincrasia per un altro - accese dall'opera di Rousseau non si sono placate, se è vero che, in occasione del bicentenario della sua morte, nel 1998, sono comparsi libri e articoli pro e contro di lui. Segno, questo, indubbiamente, della vitalità di un pensiero che resiste al logorio del tempo, non meno che di un destino controverso che continua a incombere sull'autore.

Rousseau, insomma, come Marx e Nietzsche, ha il potere di irretire sia gli estimatori che i detrattori. Chi volesse avere una prova di questo, potrebbe leggere l'articolo di Lévi-Strauss (Jean-Jacques Rousseau, fondatore delle scienze dell'uomo, in Razza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino 1967) e il capitolo dedicato a Rousseau da Bertrand Russell nella sua Storia della filosofia occidentale (TEA, Milano 1991). Dal confronto, riesce difficile capire che essi parlano dello stesso filosofo.

Il problema è che l'uno valorizza le straordinarie intuizioni di Rousseau sull'uomo e sulla natura umana e, pur non potendo condividere, da antropologo, la teoria del buon selvaggio, di fatto ha scoperto più umanità tra gli indigeni dell'Amazzonia che non nella civilissima Francia del XX° secolo; l'altro, viceversa, stigmatizza, da logico, il "sentimentalismo" roussoiano, la sua critica radicale nei confronti della scienza e la sfiducia nella possibilità di un'autentica democrazia, che per Rousseau esiste solo come democrazia diretta o assembleare.

Per mio conto, avendo letto più volte le opere del ginevrino, e pur senza ritenermi uno specialista, sto piuttosto dalla parte di Lévi-Strauss che non di Russell. E' facile evidenziare, nelle opere di Rousseau, infinite contraddizioni. Egli è un genio squilibrato, ma squilibrato in virtù della sua stessa genialità. Quando un intellettuale è spinto dalla passione della conoscenza ad esplorare molteplici terreni di ricerca, non ci si può aspettare la misura e la coerenza.

E' difficile però ignorare gli straordinari contributi che Rousseau ha fornito al campo delle scienze umane e sociali. Di questi intendo parlare.

2.

Un primo contributo è stato rilevato magistralmente da Lévi-Strauss, nell'articolo citato. L'elezione di Rousseau a fondatore delle scienze umane si basa su due elementi. Il primo è un principio metodologico che vale a distinguere irreversibilmente l'oggetto di studio proprio dello scienziato dal moralista e dallo storico: "Quando si vogliono studiare gli uomini, bisogna guardare vicino a sé; ma per studiare l'uomo, bisogna imparare a guardare lontano; bisogna anzitutto osservare le differenze, per poter poi scoprire le proprietà." La potenza di questo principio, che, portato alle estreme conseguenze coincide con il secondo elemento, sta nel fatto che esso fonda una concezione dell'uomo che pone l'altro prima dell'io.

Scrive a riguardo Lévi-Strauss: "E' possibile credere che con la comparsa della società sia avvenuto un triplice passaggio, dalla natura alla cultura, dal sentimento alla conoscenza, dall'animalità all'umanità [...] solo se attribuiamo all'uomo, e già alla sua condizione primitiva, una facoltà essenziale che lo spinga a superare quei tre ostacoli; una facoltà, dunque, caratterizzata, originariamente, e in modo immediato, da attributi contraddittori, se non contraddittoria essa stessa; che sia, in pari tempo, naturale e culturale, affettiva e razionale, animale e umana; e che, per il solo fatto di diventare cosciente, possa convertirsi dall'uno all'altro piano. Tale facoltà, come Rousseau non ha cessato di ripetere, è la pietà, derivante dall'identificazione ad un altro che non è solo un parente, un vicino, un compatriota, ma un uomo qualsiasi, da momento che è un uomo, anzi, un essere vivente qualsiasi, dal momento che è vivente. L'uomo comincia dunque con il sentirsi identico a tutti i suoi simili, e non dimenticherà mai quest'esperienza primitiva, nemmeno quando l'espansione demografica [...] l'avrà costretto a diversificare i suoi generi di vita per adattarsi agli ambienti differenti in cui il suo aumento numerico l'avrà indotto ad espandersi, e a sapere distinguere se stesso, ma solo nei limiti in cui un faticoso apprendistato lo istruiva a distinguere gli altri: gli animali secondo la specie, l'umanità dall'animalità, il mio io dagli altri io."

L'esegesi levistrossiana fa riferimento ad uno dei passi più famosi del Discorso sull'origine della disuguaglianza, che recita:

"Lasciando tutti i libri scientifici, che non ci apprendono che a vedere gli uomini quali si sono fatti, e meditando sulle prime e più semplici operazioni dell'anima umana, credo di scorgervi due principi anteriori alla ragione: uno dei quali ci interessa ardentemente al nostro benessere e alla conservazione di noi stessi, e l'altro c'ispira una ripugnanza naturale a veder perire o soffrire ogni essere sensibile, e principalmente i nostri simili." Da ciò discende che l'uomo "fin che non resisterà all'impulso interno della compassione, non farà mai del male ad un altro uomo" e che "se io sono obbligato a non fare alcun male al mio simile, ciò sia non tanto perché egli è un essere ragionevole, quanto perché è un essere sensibile."

Si è a lungo ironizzato sull'attribuzione all'uomo di questa bontà naturale. Ma la bontà è una virtù, mentre ciò di cui parla Rousseau è una qualità naturale -l'empatia nei termini della psicologia moderna - il cui fondamento è la percezione che ogni uomo ha di sé com'essere senziente, e quindi capace di soffrire. E' su questa base che l'identificazione, attribuendo all'altro la stessa capacità, dovrebbe inibire la possibilità di fargli del male.

Io sono convinto che tale qualità di fatto esiste ed appartiene al corredo genetico umano. Si può pensare che essa sia distribuita con un diversa intensità nei singoli individui, ma non che possa essere assente. Certo, un'infinità di dati tratti dalla storia e dall'attualità contestano quest'attribuzione, e sembrano piuttosto deporre a favore di un'aggressività innata. Il problema è che la sensibilità, come ogni altra qualità naturale, passa attraverso il filtro della cultura. Essa, anzi più di altre, sembra sensibile alla repressione e alla rimozione culturale, che promuovono l'estraneazione dell'altro.

Partendo dall'intuizione di Rousseau, mi sono chiesto quale funzione svolge la sensibilità sociale nello sviluppo e nell'organizzazione della personalità umana. La risposta, fondamentale nell'ottica della teoria psicopatologica struttural-dialettica, è che essa integra un bisogno - il bisogno di appartenenza/integrazione sociale - programmato al fine di promuovere, attraverso l'identificazione con l'altro, il passaggio dalla natura alla cultura che avviene attraverso la trasmissione e l'interiorizzazione dei valori culturali. L'interiorizzazione dei valori culturali determina, a livello inconscio, la strutturazione della funzione superegoica, che fa valere, vita natural durante, il primato del sociale sull'individuo.

Alla luce della psicoanalisi (ovviamente eccezion fatta per Freud e i freudiani ortodossi, che rimangono fermi all'esistenza dell'istinto di morte), dunque, Rousseau ha ragione. Ciò che egli non ha considerato è la possibilità che la pietas o l'empatia, per effetto della cultura, si restringano, come avviene costantemente, al Noi in opposizione a Loro, che vengono ad essere estraniati. Ma ciò significa solo che, una cultura fatta a misura d'uomo, dovrà mantenere la sensibilità sociale sul registro suo proprio, originario, che riguarda l'intera comunità umana.

3.

La pericolosità potenziale della cultura non è peraltro estranea al pensiero di Rousseau. Gran parte delle sue denunce sullo stato di cose esistente nel mondo vertono sugli effetti nocivi di un progresso che, nell'intento di fare star meglio l'uomo, produce la disuguaglianza, l'ingiustizia, la sopraffazione dei pochi sui più. Egli ha vissuto sulla pelle, dolorosamente, la conseguenza di essere nato plebeo in un mondo diviso rigidamente in classi e dominato dall'aristocrazia e dal clero. Egli ha intuito, prima di Marx, che la cultura può naturalizzare ideologicamente differenze tra gli esseri umani che sono contro natura e violano la pari dignità ch'essi hanno.

Ridurre però la polemica anticulturale di Rousseau all'encien régime è improprio. Il radicalismo di Rousseau va molto al di là dell'epoca. Egli denuncia, com'effetto del progresso, l'urbanesimo, che isola gli esseri umani dal contatto con la natura e, ammassandoli, li abbrutisce, il progressivo inasprirsi dei rapporti interpersonali, sempre più ispirati al principio dell'interesse privato, la corruzione dei valori e dei costumi, la superficialità alienante delle mode, il primato della comunicazione verbale (il chiacchericcio) sulla riflessione, l'adesione crescente ai pregiudizi e ai luoghi comuni che, in una società avviata a diventare di massa, si diffondono rapidamente, ecc. Insomma, se la sua critica avviene nel conteso dell'encien régime, essa sembra già in qualche modo riferita al nuovo mondo che si stava delineando alla sua epoca, il mondo borghese.

Nulla è più estraneo a Rousseau della razionalità, che rappresenta da sempre il carattere e il parametro specifico della civiltà borghese. Pur partecipando dell'Illuminismo, Rousseau non ha mai avuto esitazione nell'identificare nella razionalità, vale a dire nel culto del calcolo, un sottoprodotto bastardo della Ragione, la cui piena realizzazione richiede che essa illumini sì, ma anche utilizzi, canalizzandole, le passioni.

Una passione illuminata: questo - forse - è l'ideale cui mirava Rousseau, il modello di riferimento che egli ha proposto all'uomo e alla civiltà.

Se si prescinde da una visione errata dell'Illuminismo, che ne fa impropriamente la matrice della razionalità capitalistica, vale a dire di una razionalità "disincantata" fondata solo sull'efficienza e sul calcolo, l'ideale roussoiano, per quanto del tutto particolare, non si può ritenere estraneo alla grande stagione illuministica.

Identificare, pertanto, in Rousseau come fa Russell, il predecessore di Robespierre e del Terrore, nonché di tutte le forme di totalitarismo del XX° secolo sembra letteralmente aberrante. Se proprio gli si vuole attribuire una paternità, essa è piuttosto identificabile nella sociologia critica (da Th. Veblen alla Scuola di Francoforte), nelle filosofie che contestano lo sviluppo tecnologico come potenzialmente alienante, nel pensiero di Fromm (Psicoanalisi della società contemporanea) e nell'antipsichiatria di Laing (La politica dell'esperienza).

Rimane comunque un merito di Rousseau quello di avere sottolineato l'ambivalenza del progresso culturale, che può arricchire l'uomo non meno che immiserirlo. Certo, nel suo tempo, egli leggeva più l'immiserimento che non l'arricchimento. Fosse vivo oggi la sua diagnosi, presumibilmente, sarebbe ancora più pessimistica.

La cura che egli proponeva ai mali della civiltà era univoca: il ritorno alla natura, cioè al passato. Se poniamo tra parentesi il conservatorismo nostalgico, il primo richiamo serba tutto il suo valore, se lo si intende riferito non già ad uno stato naturale che egli sapeva non essere mai esistito, bensì alla natura umana. Questa, di fatto, con le sue potenzialità e le sue contraddizioni è e rimane il vincolo ultimo per valutare il progresso culturale. Tutta la cultura, di fatto, esprime quelle potenzialità, ma, fondandosi essa su di una scelta o un insieme di scelte che muovono dalla pressoché indefinita libertà dell'essere umano, nulla vieta di pensare che le scelte operate in ogni epoca storica e in ogni contesto non necessariamente siano le migliori.

Se la natura umana contiene le due istanze identificate da Rousseau - un vivo interesse riferito alla conservazione e alla realizzazione dell'individuo e un legame d'identificazione con l'altro, con tutti i simili o addirittura con tutti gli esser senzienti - una cultura fatta a misura d'uomo deve necessariamente potenziare entrambe quelle istanze e dotarsi di strumenti atti a produrne la massima realizzazione e integrazione possibile. ciò significa pensare ad un mondo nel quale la realizzazione delle potenzialità individuali si configuri come una ricchezza sociale, appagante per l'individuo e vantaggiosa per i suoi simili.

Se questa era l'utopia di Rousseau, rimane ancora aperto il quesito se essa appartenga al libro dei sogni o non sia vicina alla verità più di quanto, stante lo stato attuale di cose, si possa pensare.

Gennaio 2004