F. NIETZSCHE

LA GAIA SCIENZA 1881-1882

Oscar Mondadori, Milano 1971

1.

Scritto, sulla base di appunti che risalgono al 1881, nel giugno del 1882, La gaia scienza è unanimente riconosciuto come il libro più equilibrato e "sereno" di Nietzsche. Nella prefazione alla seconda edizione, egli scrive: ""Gaia scienza": vuol significare i saturnali di uno spirito, che ha resistito con pazienza a una lunga orribile oppressione, - con pazienza, con durezza, con freddezza senza darsi vinto, eppure senza speranza, - e che ora, tutt'a un tratto, è invaso dalla speranza, dalla speranza di salute, dall'ebbrezza della convalescenza" (p. 15). L'oppressione risale all'estate e all'autunno del 1881, ed è documentata da alcune lettere: "Sum in puncto disperationis. Dolor vincit vitam voluntatemque. O quos menses, qualem aestatem habui!" (a Overbeck, settembre); "Questi sono stati momenti pericolosi, ho vissuto vicino alla morte, per tutta l'estate ho sofferto terribilmente: non so a che santo votarmi! (a gast, settembre); "ogni giorno combatto una battaglia, di cui nessuno può avere un'idea, gli attacchi del mio male sono così multiformi e richiedono da me tanta energia, pazienza, riflessione e inventiva - proprio così, anche se è ridicolo: inventiva!" (a Gast, ottobre). Il superamento della crisi avviene miracolosamente nel gennaio del 1882: "Avete anche voi una "primavera" come noi? Questi sono i veri "miracoli di S. Gennaro"" (a Overbeck). La convalescenza è favorita dall'incontro con Lou Salomé, presentatagli da Paul Rée, della quale Nietzsche s'innamora al punto di chiederle due volte, invano, di sposarsi. Nonostante la delusione, la frequentazione di Lou ha un effetto balsamico: "Quest'anno... è stato illuminato dallo splendore e dalla grazia di questa giovane anima, veramente eroica. desidero di avere in lui una discepola e, se non dovessi vivere a lungo, l'erede e la continuatrice del mio pensiero" (a Malwida von Meysembug, luglio).

Le vicissitudini di Nietzsche, dal "risveglio" adolescenziale sino al buio e inesorabile tunnel della psicosi, sono emozionali per un verso, intellettuali per un altro. Sotto il profilo emozionale, la depressione ricorrente è l'espressione dei sensi di colpa che incombono su di una soggettività che, per realizzare la sua vocazione ad essere, pretende di indurirsi e di isolarsi socialmente, e utilizza a tale fine, quasi sistematicamente, il disprezzo nei confronti di ogni forma di normalità e, da ultimo, degli esseri umani calati in essa. Sotto il profilo intellettuale, Nietzsche s'impone di portare alle estreme conseguenze la passione della verità di cui è, nello stesso tempo, testimone e preda, e di varcare eroicamente e a qualunque costo i confini delle tradizioni, del buon senso e del senso comune. La gaia scienza è l'espressione di un allentamento di questo conflitto, in virtù del quale il pensiero si dispiega con un minimo di livore contro la normalità.

I temi centrali del libro sono due: l'opposizione tra egoismo e altruismo, complementare a quella tra nobiltà e volgarità, e il valore della conoscenza come strumento di liberazione degli istinti, vale a dire della gioia di vivere.

2.

L'opposizione tra egoismo e altruismo si pone come scelta tra la propria personale vocazione ad essere, che va coltivata senza remora alcuna, e l'appartenenza ad un gruppo sociale, che, sulla base dell'istinto del gregge, promuove la supina adesione al sistema di valori su cui si fonda l'identità, la coesione e la perpetuazione del gruppo stesso. E' evidente che tale scelta fa capo a due diversi orientamenti presenti nella natura umana, che sono, in qualche misura, mortificati dai termini che Nietzsche attinge dalla tradizione. Tradotta in termini contemporanei, l'opposizione verte sul conflitto tra individuazione e integrazione sociale.

Essendo la seconda più antica e più potente ("Nelle epoche più remote dell'umanità c'era un rimorso di coscienza ben diverso da quello di oggigiorno. Oggi ci si sente soltanto responsabili per ciò che si vuole e si fa, e si ha in se stessi il proprio orgoglio: tutti i nostri professori di diritto procedono da questo senso di sé e da questa sensazione di picere del singolo, come se da epoca immemorabile fosse da qui sgorgata la fonte del diritto. Ma durante il più lungo periodo dell'umanità, non v'era niente di più spaventoso che sentirsi singoli. essere soli e avere un'individuale sensibilità, non obbedire né comandare, avere significato come individui - questo non era allora un piacere, ma una punizione: essere individui costituiva una condanna. Libertà di pensiero voleva dire il disagio stesso. Mentre noi sentiamo nelle leggi e nell'inserimento in un ordine costrizione, detrimento, allora invece si sentiva nell'egoismo una cosa penosa, una vera e propria angustia... A quel tempo il libero volere aveva nella sua più immediata vicinanza la cattiva coscienza: e quanto meno liberamente si agiva, quanto più si esprimeva dall'azione l'istinto del gregge e non il personale discernimento, tanto più ci si stimava morali" p. 121), l'individuazione non può realizzarsi che in virtù di un rifiuto violento dell'istinto del gregge e delle sue conseguenze, che portano a riconoscere nella tradizione e nell'opinione dei più il metro di misura della morale. Ma, dato il ricatto che la normalizzazione esercita sulla coscienza umana, l'individuazione comporta uno sforzo ripetuto, permanente ed eroico di liberazione.

A riguardo, due frammenti postumi, non utilizzati nel testo a stampa, sono del massimo interesse: "11 (222) L'egoismo è ancora infinitamente debole! Con molta inesattezza si chiamano egoistici gli affetti che formano il gregge. Uno è avido e accumula un patrimonio (istinto della famiglia, della tribù); un altro commette eccessi in Venere, un altro è vanitoso (valuta se stesso secondo il metro del gregge); si parla dell'egoismo del conquistatore, dell'uomo di stato, e così via - costoro penano soltanto a sé, ma a sé nella misura in cui l'ego è sviluppato dall'affetto che forma il gregge (egoismo delle madri, dei maestri)... Niente è più raro di una definizione dell'Ego per noi stessi" (p. 348); "11 (310) L'egoismo è qualcosa di tardo e pur sempre raro: gli istinti gregari sono più potenti e più antichi!.. Anche nell'individuo risvegliato, la quota originaria di sentimenti gregari è ancora strapotente" (p. 357).

E' difficile minimizzare il significato di questi frammenti, tanto più se si fa riferimento a Freud, che ha ammirato e citato Nietzsche evidentemente senza capirlo. A differenza di Freud, Nietzsche non solo ammette l'esistenza di un istinto gregario, ma lo assume come un istinto primario la cui "strapotenza" si mantiene viva anche nell'individuo risvegliato dal ricatto normativo. L'affermazione dell'egoismo, peraltro, non è solo storicamente tardiva e statisticamente rara, bensì anche debole e spesso confusa. E' evidente che l'egoismo di Nietzsche nulla ha a che vedere con l'individualismo borghese, che è esso stesso un codice culturale che assume come valore supremo la cura dell'interesse personale nel rispetto formale dei diritti altrui. Il risveglio in questione, vale a dire l'individuazione, coincide con l'intuizione e la scoperta da parte del soggetto di non dovere rendere conto a nessuno della sua volontà di potenza. Questa, a sua volta, comporta una tensione e una passione per la verità tale che, se essa risulta nociva o pericolosa per i più, nondimeno va perseguita e incarnata.

La differenziazione individuale prodotta da questa tensione nobilita l'individuo e lo contrappone al gregge degli esseri volgari che hanno bisogno di banali certezze, di verità rassicuranti, di valori mediocri, vale a dire delle tradizioni e del consenso sociale. Per realizzarla, andando intellettualmente e moralmente contro la corrente delle abitudini, occorre un grado estremo di eroismo e di durezza, con sé non meno che con gli altri. Si tratta, infatti, per l'appunto di debellare l'istinto gregario che porta inesorabilmente al conformismo, per scongiurare l'isolamento sociale: "Il biasimo della cocsienza, anche nel più scrupoloso, è debole di fronte al sentimento: "Questa e quella cosa vanno contro i buoni costumi della tua società". Una fredda occhiata, una smorfia della bocca da parte di coloro sotto i quali e per i quali si è educati, ispira ancora timore anche nel più forte. ma che cosa è propriamente temuto in questo caso? L'isolamento... Così parla in noi l'istinto del gregge" (p. 74).

Ma in nome di che l'individuo può ribellarsi alla società, al costume, all'ordine? Su cosa si fonda il suo diritto di rivendicare una totale libertà dai controlli sociali e dai vincoli morali?

3.

Nel rispondere a questi quesiti, il pensiero di Nietzsche, che ignora l'esistenza di un bisogno d'individuazione geneticamente determinato e rappresentato con diversa intensità nei soggetti, diventa confuso. Egli infatti ricava quel bisogno dalla passione della conoscenza, ma ritiene che tale passione porti al di là della cultura, a riscoprire gli istinti primari che giacciono nel cuore umano, i quali univocamente sollecitano l'uomo ad affermare se stesso anche a danno degli altri. Per questo aspetto, l'individuazione si trasforma in un meccanismo banalmente selettivo deputato a sancire la superiore forza degli uni contro la spregevole debolezza degli altri.

Nietzsche confonde addirittura due diversi piani di affermazione di sé: quello intellettuale, che è il piano su cui rivendica un'assoluta superiorità sugli esseri banali, attestata dalla capacità "malvagia" di perseguire la veroità a tutti i costi possibili di dolore per sé e per gli altri, e quello dell'azione, sul quale egli, come accade a molti intellettuali, è assolutamente difettoso. Tale difetto lo porta inesorabilmente ad esaltare acriticamente, nel tempo e nello spazio, la categoria dei devianti.

La crudeltà dell'intellettuale, che non arretra di fronte ad alcuna verità, per quanto sgradevole, è ben altro rispetto a quella dell'uomo la cui volontà di potenza si realizza profittando della debolezza altrui. Purtroppo Nietzsche, infatuato di una forza che egli non ha mai posseduto, fa di tutt'erba un fascio: "Sono stati gli spiriti più vigorosi e più malvagi ad avere fino ad oggi maggiormente portato vanti l'umanità: essi accesero sempre le passioni prossime ad assopirsi - ogni ordinata società assopisce le passioni -, essi ridestarono sempre il senso del confronto della contraddizione, del piacere di cose nuove, osate, non sperimentate, essi costrisero gli uomini a contrapporre opinioni a opinioni, modelli amodelli. Con le armi, con l'abbattimento delle pietre di confine, infrangendo culti nella maggior parte dei casi, ma anche per mezzo di nuove religioni e morali! La stessa "malvagità", che fa il discredito di un conquistatore, si trova in ogni maestro e predicatore di cose nuove: anche se si palesa con maggior sottigliezza, e non mette subito in moto i muscoli, e appunto per ciò non crea un gran discredito. Ma in tutte le situazioni il nuovo è il male, in quanto vuol rovesciare quel che è da conquistare, le antiche pietre di confine e i vecchi culti; e soltanto l'antico è il bene. le anime buone d'ogni tempo sono coloro che seppelliscono nel profondo gli antichi pensieri e li mettono a frutto, i contadini dello spirito. Ma quella terra alla fine sarà esaurita e sempre di nuovo dovrà tornare l'aratro del male" (p. 42).

Questa confusione, oserei dire tra il male necessario a promuovere l'evoluzione culturale, violentando il conservatorismo della coscienza, delle tradizioni e del senso comune, e la banalità del male, che si esprime nell'estraniare l'altro e nell'assumerlo come strumento, è il limite del pensiero nietzschiano. Il quale dunque, per essere colto nel suo autentico significato, richiede di essere filtrato e interpretato. Nietzsche si adonterebbe per un trattamento del genere, ma la sua pretesa di essere pervenuto a verità ultime sulla natura umana s'imbatte nello scoglio di un'attribuzione istintuale che è troppo banale per essere credibile. E' su tale attribuzione infatti che si sono edificate le religioni, le morali e i codici giuridici che egli contesta. Sancirla, significa vanificare qualunque utopia di liberazione.

4.

Nonostante questa confusione, presente peraltro in tutte le opere di Nietzsche, La gaia scienza è ricca d'ntuizioni geniali. Alcune citazioni, delle infinite possibili, ne danno, a mio avviso, la misura:

"Chi oggi vuol fare uno studio su fatti morali, si vede aperto un immenso campo di lavoro. ogni specie di passione deve essere sottoposta singolarmente a matura riflessione attraverso tempi, popoli, individui grandi e piccoli: il loro intero dscernimento e tutte le loro valutazioni e chiarificazioni delle cose devono essere posti in evidenza! Fino ad oggi tutto quanto ha dato colore all'esistenza, non ha ancora avuto una storia: o dove mai si è avuta una storia dell'amore, della cupidigia, dell'invidia, della coscienza, della pietà, della crudeltà? Perfino una storia comparata del diritto o anche soltanti della pena è fino ad oggi completamente mancata. Si sono mai fatte oggetto d'indagine le differenti suddivisioni della giornata, le conseguenze di una regolare stabilizzazione del lavoro, della festività, del riposo? Si conoscono forse gli influssi morali degli alimenti? Esiste una filosofia della nutrizione?.. Sono state già raccolte le esperienze sulla vita in comune, per esempio le esperienze dei conventi? E' stata già descritta la dialettica del matrimonio e dell'amicizia? I costumi dei dotti, dei mercanti, degli artisti, degli artigiani hanno già trovato chi li ha sottoposti a meditazione? Quanta materia di meditazione! Tutto ciò che fino a ora gli uomini hanno considerato come proprie "condizioni d'esistenza" e tutta la ragione, la passione, la superstizione connessa a questa considerazione, tutto ciò è già stato indagato fino in fondo? Soltanto l'osservazione del diverso sviluppo che gli istinti umani hanno avuto e che ancora potrebbero avere secondo il diverso clima morale dà già fin troppo lavoro ai più laboriosi; occorreno intere generazioni e generazioni di dotti impegnati in una collaborazione sistematica per esaurire i punti di vista e il materiale a questo proposito" (p. 44-45).

"La coscienza è l'ultimo e più tardo sviluppo dell'organico e di conseguenza anche il più incompiuto e il più depotenziato... Si pensa che qui sia il nocciolo dell'essere umano: ciò che di esso è durevole, eterno, ultimo, assolutamente originario! Si considera la coscienza una stabile grandezza data! Si negano il suo sviluppo, le sue intermittenze! la si intende come unità dell'organismo! Questa ridicola sopravvalutazione, questo travisamento della coscienza hanno come corollario un grande vantaggio, consistente nel fatto che con ciò è stato impedito un troppo celere perfezionarsi della medesima. Perchè gli uomini ritenevano di possedere già la coscienza, si sono dati scarsa premura per acquistarla, e anche oggi le cose non stanno diversamente! E' ancora un compito sempre del tutto nuovo, proprio in questo momento baluginante all'occhio umano e a stento riconoscibile con chiarezza, quello di incarnare in se stessi il sapere e di farlo istintivo; un compito scorto solo da chi è giunto a comprendere che fino ad oggi si sono incarnati solo i nostri errori e che tutta la nostra coscienza è in rapporto ad errori!" (pp. 47-48).

"La cosa più bella che io sappia dire a gloria dell'uomo Shakespeare è questa: egli ha creduto in Bruto, e non un granello di diffidenza ha gettato su questo tipo di virtù! A lui ha consacrato la sua migliore tragedia - la si continua sempre ancora oggi a chiamare con un falso nome - a lui e alla più terribile ricapitolazione di alta morale. Indipendenza dell'anima: ecco quello che vale! Nessun sacrificio in questo caso può essere troppo grande: ad essa si deve sacrificare anche l'amico più diletto, fosse anche per giunta l'uomo più splendido, l'ornamento del mondo, genio senza uguali - quando si ama, cioè, la libertà, come la libertà di anime grandi, e attraverso l'amico un pericolo minaccia questa libertà: in questo modo deve avere sentito Shakespeare. L'altezza alla quale innalza Cesare è il più squisito onore che poteva rendere a Bruto: soltanto così conferisce immensità di proprozioni al problema interiore di lui come del pari alla forza spirituale che fu capace di sciogliere questo nodo!" (pp.102 -103).

"Chi chiami cattivo? Chi mira soltanto a creare vergogna. Che cos'è per te la cosa più umana? Risparmiare vergogna a qualcuno. Che cos'è il sigillo della raggiunta libertà? Non provare più vergogna davanti a se stessi." (p. 152).

"Nel dolore c'è tanta saggezza quanta nel piacere; al pari di quest'ultimo, esso appartiene alle energie di primo ordine che conservano la specie. Se non fosse così, esso sarebbe perito da un pezzo: che faccia male non rappresenta un argomento contro di esso, è la sua natura... Sono gli uomini eorici, i grandi portatori di doleore del'umanità: quei pochi o rari individui per cui è appunto necessaria la stessa apologia come per il dolore in generale... Sono forze di prim'ordine che conservano e promuovono la specie: non fosse altro perchè si oppongono al benessere e non nascondono la loro ripugnanza per questo tipo di felicità" (p. 176)

"Chi raggiungerà qualcosa di grande, se non sente in sé la forza e il volere di causare grandi dolori? Saper soffrire è il meno: in questo deboli donne e perfino schiavi riescono spesso dei maestri. Ma non soccombere per l'intima pena e insicurezza, se si causa un grande dolore e si ode il grido di questo dolore - questa è cosa grande, questo fa parte della grandezza" (p. 178).

"Ah! quanto poco sapete voi della felicità dell'uomo, voi gente pacifica e bonaria! Giacché la felicità e l'infelicità sono due sorelle, e gemelle, che divenano grandi insieme o, come accade per voi, restano piccle insieme" (p. 189).

"Il problema della coscienza (più esattamente: del divenire autocoscienti) ci compare dinanzi, soltanto allorché cominciamo a comprendere in quale misura potremmo fare a meno di essa...Noi potremmo di fatto pensare, sentire, volere , rammemorare, potremmo ugaulmente agire in ogni senso della parola, e ciononostante tutto questo non avrebbe bisogno d'"entrare nella nostra coscienza" (come si dice immaginosamente). La vita intera sarebbe possibile senza che ci si vedesse, per così dire, nello specchio; in effetti, ancora oggi la parte di gran lunga prevalente di questa vita si svolge in noi senza questo rispecchiamento - e invero anche la nostra vita pensante, senziente, volente, per quanto ciò possa risultare offensivo ad un antico filosofo. A che scopo una coscienza in generale, se essa è superflua?.. E' lecito procedere alla supposizione che la coscienza in generale si sia sviluppata soltanto sotto la prssione del bisogno di comunicazione, che sia stata all'inizio necessaria e utile soltanto tra uomo e uomo (in particolare tra colui che comanda e clolui che obbedisce), e soltanto in rapporto al grado di questa utilità si sia inoltre sviluppata. Coscienza è prorpiamente soltanto una rete di collegamento tra uomo e uomo - solo in quanto tale è stata costretta a svilupparsi: l'uomo solitario, l'uomo bestia da preda non ne avrebbe avuto bisogno. Il fatto che le nostre azioni, i pensieri, i sentimenti i movimenti siano anche oggetto di coscienza - almeno una parte di essi - è la consegeunza di una terribile "necessità", che ha lungamente signoreggiatoi l'uomo; essendo esso l'animale maggiormente in pericolo, ebbe bisogno d'aiuto, di protezione, ebbe bisogno dei suoi simili, dovette esprimere le sue necessità, sapersi rendere comprensibile - per tutto questo gli fu necessaria, in primo luogo, coscienza, gli fu necessario anche sapere quel che gli mancava, sapere come si sentiva, sapere quel che pensava... Il mio pensiero è che la coscienza non appartenga propriamente all'esistenza individuale dell'uomo, ma piuttosto a ciò che in esso è natura comunitaria e gregaria; che - come deriva da tutto questo - essa si è sottilmente sviluppata solo in rapporto ad un'untilità comunitaria e gregaria; e che di conseguenza ognuno di noi, con la migliore volontà di cmprendere se stesso nel mosdo più individuale possibile, di conoscere se stesso, renderà sempre oggetto di coscienza soltanto il non individuale; quel che in se stesso è esattamente la sua misura media; che il nostro stesso pensiero viene continuamente, per così dire, adeguato alla maggioranza e ritradotto nella propsettiva del gregge ad opera del carattere della coscienza, deol "genio della specie" in essa operante" (pp. 208 - 211).

 luglio 2003