L'UOMO A UNA DIMENSIONEEinaudi Torino 1967 |
Pubblicato in inglese nel 1964 e tradotto in Europa nel 1967, L'uomo a una dimensione ha avuto un successo di pubblico straordinario, soprattutto a livello giovanile, diventando uno dei testi di riferimento del movimento sessantottino. E' probabile, tenendo conto di un linguaggio filosofico rigoroso, denso di echi hegeliani e marxiani, che esso sia stato consultato e orecchiato più che letto dalle centinaia di migliaia di persone che lo hanno acquistato. Il titolo stesso, peraltro suggestivo, forniva lo spunto per la riduzione del discorso di Marcuse ad uno slogan, quello dell'uomo come un automa-burattino manipolato e guidato dallo sviluppo di una società, quella industriale avanzata, orientata a perseguire, in nome del profitto, il dominio totale tecnologico sulla natura e sull'uomo. Nonostante nel testo risulti chiaro che la critica è rivolta alla società occidentale non meno che a quella orientale, comunista, lo slogan fu adottato politicamente dal '68 in funzione antioccidentale e anticapitalistica. La critica al regime sovietico, autoritario e massificante, servì solo a sancire la non adesione del movimento sessantottino ai partiti comunisti occidentali, e l'adozione, da parte di molti giovani, di uno stile di vita libertario e per alcuni aspetti anarchico. Identificato immediatamente con il borghese integrato, chiuso nel culto dell'interesse privato, appagato dal benessere materiale, indifferente allo stato di cose esistente nel mondo e immunizzato da ogni istanza di cambiamento, l'uomo unidimensionale giunse a rappresentare per molti giovani un fantasma fobico, il cui oggetto era il pericolo di finire come i padri, che alimentò il rifiuto del lavoro, inteso univocamente come strumento di alienazione, e, più in generale, dell'adattamento all'ordine di cose esistente. Ribellarsi è giusto, uno degli slogan più noti del '68, può essere oggi decifrato agevolmente come un'interpretazione sintetica del saggio di Marcuse, che di fatto insiste a più riprese sulla necessità, per cambiare lo stato di cose esistente, di riattivare le istanze di liberazione che giacciono al fondo di ogni esperienza umana. Le conseguenze sostanzialmente anarcoidi di tale slogan lasciano però capire che il testo di Marcuse fu sostanzialmente frainteso. Se è vero infatti che, in esso, la società industriale avanzata viene descritta come un sistema totalitario che porta l'uomo a diventare funzionario di bisogni falsi, che non sono suoi ma del sistema, non è meno vero che l'alienazione, intesa non solo come interiorizzazione di quei bisogni bensì come radicamento degli stessi nella struttura della coscienza, non comporta la possibilità di liberarsene semplicemente rifiutandoli e rigettandoli fuori di sé. La liberazione implica senz'altro il Grande Rifiuto, ma in nome di una distinzione tra bisogni falsi e bisogni autentici che non è affatto semplice. La logica antitetica, che sottese la cultura sessantottina, identificò nell'opposto di un falso bisogno un bisogno autentico, tradendo lo spirito dialettico che pervade il pensiero di Marcuse, e rivelando in quale misura le istanze di liberazione finiscono in un vicolo cieco se esse, rimanendo vincolate al piano di una differenziazione comportamentale, non giungono ad una riforma radicale della coscienza. Se vale oggi la pena leggere L'uomo a una dimensione (e ne vale senz'altro la pena), la lettura deve essere incentrata sul tema fondamentale, a mio avviso, del saggio - lo statuto della coscienza in rapporto alla realtà sociale -, presente implicitamente sin dalle prime pagine, ma che, malauguratamente, affiora distintamente e viene illustrato nei capitoli finali del libro. Dopo una lunga discussione critica sulla reificazione di concetti universali quali la Mente, la Coscienza, l'Io, Marcuse scrive: "La mente è qualcosa di più e di altro che non atti consapevoli e comportamento. La sua realtà potrebbe essere descritta in via provvisoria come la maniera o il modo in cui questi atti particolari sono sintetizzati, integrati da un individuo. Si potrebbe essere tentati di dire sintetizzati a priori... nel senso che la sintesi integrativa che rende possibili i processi e gli atti particolari li precede, li configura, li distingue dalle altre menti... Tale coscienza gode di una priorità empirica, ed include quindi l'esperienza sovraindividuale, le idee, le aspirazioni di particolari gruppi sociali. In vista di queste caratteristiche la coscienza può ben essere chiamata un'inclinazione, una propensione, o una facoltà. Non è un'inclinazione o una facoltà individuale tra le altre, tuttavia, ma è in senso stretto un'inclinazione generale che è comune, in varia misura, ai singoli membri di un gruppo, di una classe, di una società. Su questi fondamenti la distinzione tra coscienza vera e coscienza falsa assume un pieno significato. La coscienza vera dovrebbe sintetizzare i dati dell'esperienza in concetti che riflettano, il più ampiamente e adeguatamente possibile, la società data nei fatti dati. Questa definizione "sociologica" è suggerita non a motivo di qualche pregiudizio a favore della sociologia, bensì a motivo dell'effettiva presenza della società nei dati dell'esperienza... La quotidiana limitazione dell'esperienza produce una tensione diffusa, persino un conflitto, tra la "mente" e i processi mentali, tra la "coscienza" e gli atti coscienti. Se parlo della mente di una persona, non mi riferisco solo ai suoi processi mentali, quali si rivelano nel modo onde si esprime, parla, si comporta, ecc., e neppure alle sue inclinazioni o facoltà quali sono esperite o desunte dall'esperienza. Io intendo riferirmi anche a ciò che egli non esprime, per cui non mostra inclinazione, ma che è nondimeno presente, e che determina, in misura considerevole, il suo comportamento, il suo giudizio, la formazione e la portata dei suoi concetti. Così sono "negativamente presenti" le specifiche forze "ambientali" che condizionano a priori la sua mente affinché egli respinga certi dati, condizioni, relazioni. essi sono presenti come materiale respinto. La loro assenza è una realtà; un fattore positivo che spiega i suoi attuali processi mentali, il significato delle sue parole e del suo comportamento. Significato per chi? Non solo per il filosofo di professione, compito del quale è rimediare alle storture che pervadono l'universo del discorso comune, ma anche per coloro che sopportano queste storture benché possano non esserne consci." (pp. 213-215) Per capire il significato del saggio, occorre tenere conto di queste notazioni sottili, che ancora oggi sono del tutto assenti nei testi di psicologia cognitiva che reificano la coscienza come un costrutto individuale. Secondo Marcuse, la coscienza è semplicemente il modo in cui le persone si rapportano alla realtà con un loro modo di sentire, di pensare e di agire. La possibilità che essa sia vera o falsa, vale a dire fedele ai dati reali esperiti o più o meno mistificata rispetto ad essi, dipende dal fatto che il suo statuto non è di ordine primariamente ed esclusivamente psicologico. Certo, ogni soggetto ha una sua esperienza della realtà, ma perché questa esperienza si integri fino a dar luogo ad un livello di coscienza, vale a dire ad una certa visione del mondo, occorre un a priori che è dato, semplicemente, dalla società e dalla cultura col suo carico di valori, tradizioni, pregiudizi, luoghi comuni, ecc. La coscienza è dunque, per il processo stesso che la fonda, una dimensione ideologica, ritagliata sullo sfondo di un mondo storico, nella quale il soggetto riversa le sue potenzialità nella misura in cui essa può accoglierle. Ciò spiega la distinzione tra coscienza e mente, la quale ultima contiene vari aspetti della realtà esperiti ma non integrati (rimossi dunque) e una quota di potenzialità inespresse e frustrate. Si tratta dunque di una definizione sociologica e psicoanalitica della coscienza, che sottolinea, per un verso, la partecipazione del sociale alla sua integrazione e alla selezione delle informazioni, e, per un altro, quanto ci può essere in essa di vero ma, nel contempo, precluso dall'assetto cosciente. Entrambe le definizioni traggono senso dal riconoscere la radicale storicità dell'esperienza soggettiva: l'ambiente socio-storico non solo informa la coscienza ma la forma anche in maniera tale che essa è sollecitata a riconoscere qualcosa, a misconoscere qualcos'altro e, soprattutto, a negare e a rimuovere gli effetti di disordine e di frustrazione che l'ambiente produce in rapporto al capitale dei bisogni autentici depositati nella natura umana. Per quanto oggi il tema del rapporto tra ambiente, coscienza e mente (intesa come mondo interiore nella sua totalità), richieda un discorso ben più profondamente articolato rispetto all'approccio di Marcuse, non si può negare che questo approccio, almeno nei principi che lo sottendono, mantiene una sua validità e rappresenta un antidoto ancora efficace contro tutte le teorie cognitiviste e costruttiviste che fanno dell'ambiente e della realtà storica uno sfondo dell'attività autopoietica. Queste teorie, infatti, nonostante le loro finezze intellettualistiche, finiscono con l'esaltare l'unicità e l'irripetibilità dell'esperienza soggettiva individuale (che è una tautologia, visto che l'individuo è per definizione un ente distinto da tutti gli altri), ma sono incapaci di spiegare perché quell'unicità e irripetibilità giunga a dare luogo a livelli di coscienza, a visioni del mondo, a modi di sentire, di pensare e di agire caratterizzati, all'interno di una determinata società, da notevoli somiglianze e talora da un grado inquietante di uniformità o di conformismo. Ma è proprio questo l'aspetto che interessa Marcuse: non lo statuto e l'organizzazione della coscienza come dato universale dell'esperienza umana, che è un'astrazione, bensì il modo in cui funziona effettivamente la coscienza nell'ambito di un contesto storico specifico, quello della società industriale avanzata. La tesi di fondo di Marcuse è che la coscienza del cittadino medio occidentale è caratterizzata da un tratto specifico, la falsificazione, in nome della quale essa si sente libera senza esserlo, in virtù del fatto che scambia come propri bisogni i bisogni imposti dal sistema socio-economico (definiti impropriamente bisogni sociali): "In questa società l'apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non solo le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali." (p. 9) "L'apparato impone le sue esigenze economiche e politiche, in vista della sua difesa e dell'espansione, sul tempo di lavoro come sul tempo libero, sulla cultura materiale come su quella intellettuale. In virtù del modo in cui ha organizzato la propria base tecnologica, la società industriale contemporanea tende ad essere totalitaria." (p. 17) Il controllo sulle coscienze è assicurato dall'interiorizzazione dei falsi bisogni, vale a dire da bisogni propri del sistema che vengono interiorizzati, vissuti e perseguiti come bisogni individuali: "E' possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi. I bisogni "falsi" sono quelli che vengono sovrimposti all'individuo da interessi sociali particolari cui preme la sua repressione: sono i bisogni che perpetuano la fatica, l'aggressività, la miseria e l'ingiustizia La maggior parte dei bisogni che oggi prevalgono, il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni." (p. 19) Il paradosso del sistema industriale avanzato consiste proprio nell'avere creato le condizioni oggettive per la liberazione degli autentici bisogni umani (lo Stato del benessere), ma nel dovere reprimere ogni istanza di liberazione, attraverso l'imposizione di falsi bisogni, per perpetuare se stesso: "Con tutta la sua razionalità, lo Stato del benessere è uno stato in cui regna l'illibertà, poiché la sua amministrazione totalmente accentrata impone una restrizione sistematica su a) il tempo libero "tecnicamente" disponibile; b) la quantità e la qualità di beni e servizi "tecnicamente" disponibili per i bisogni vitali dell'individuo: c) l'intelligenza (cosciente e inconscia) capace di comprendere e realizzare le possibilità di autodeterminazione." (p. 62) "La sua promessa suprema è una vita sempre più confortevole per un numero sempre più grande di persone, le quali, in senso stretto, non sanno immaginare un universo di discorso e di azione qualitativamente differente, poiché la capacità di manipolare e di contenere l'immaginazione e lo sforzo sovversivi è parte integrante della società data." (p. 18) L'uomo a una dimensione è per l'appunto il soggetto che, avendo accettato la razionalità del reale, non ha più la percezione del possibile, non vive più lo scarto tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, sia in riferimento alla realtà che a se stesso. Questa definizione non implica in alcun modo l'equivoco in cui caddero i critici conservatori e non pochi sessantottini secondo il quale l'uomo unidimesionale è una marionetta, un burattino, un automa. Egli è un uomo in carne ed ossa, spesso in buona fede, che sente e pensa e si sforza anche di capire qualcosa e di dare significato alla propria vita e al mondo. L'attività cognitiva non viene dunque negata. Il problema è che essa finisce sistematicamente nei canali di pietra ideologici di ciò che si deve pensare e sentire e di come si deve agire. Il paradosso di un sistema sociale che crea, con la sua ricchezza, le premesse di una liberazione radicale dell'uomo e stabilisce poi, attraverso l'interiorizzazione di falsi bisogni, un dominio pressoché totale sulla coscienza è il leit-motiv del saggio. Esso viene svolto su due piani. Da una parte, Marcuse cerca di dimostrare che il sistema capitalistico, mirando a soddisfare le sue esigenze, che sono quelle di uno sviluppo illimitato, non può che identificare quelle con i bisogni individuali e infine imporle: "Nelle zone più altamente sviluppate della società contemporanea, il trapianto dei bisogni sociali nei bisogni individuali è così efficace che la differenza tra i due sembra essere puramente teorica. E' mai possibile tracciare una vera distinzione tra i mezzi di comunicazione di massa come strumenti di informazione e di divertimento, e come agenti di manipolazione e d'indottrinamento? Tra l'automobile come jattura e come comodità? Tra gli orrori e i comodi dell'architettura funzionale? Tra il lavoro che serve alla difesa nazionale e quello che giova soprattutto ai profitti delle società per azioni?" (p.22) Dall'altra parte, Marcuse analizza gli effetti dell'interiorizzazione dei bisogni del sistema a livello di coscienza e di soggettività, laddove essi, sotto forma di falsi bisogni, giungono a sostituire quelli propri dell'individuo e della natura umana. Tali effetti coincidono con la falsa coscienza, vale a dire con una coscienza felice che accetta la realtà così com'essa è, la vive come una realtà razionale, anzi l'unica possibile, e si preclude l'accesso ad una più profonda comprensione dei fatti. In altre parole nega l'irrazionalità intrinseca alla civiltà industriale, che pone le premesse per la liberazione dell'uomo dal bisogno ma poi di fatto la ostacola, e rimuove le istanze di liberazione che premono a livello inconscio. Di questa condizione paradossale, di una coscienza che estingue gli indizi della sua infelicità e azzera gli stimoli reali che potrebbero inquietarla, Marcuse fornisce molteplici prove. Le principali sono due: l'uso della cultura e l'uso del corpo. L'uomo unidimensionale, se ne ha tempo, può anche dedicarsi alla cultura, vale a dire avvalersi di un patrimonio accumulato nel corso dei secoli che non ha riscontro in alcuna altra civiltà. Teoricamente la pratica culturale dovrebbe aiutarlo a liberarsi dalla mistificazione del senso comune. Quello che accade invece è "l'appiattirsi dell'antagonismo tra cultura e realtà sociale, tramite la distruzione dei nuclei d'opposizione, di trascendenza, di estraneità contenuti nell'alta cultura, in virtù dei quali essa costituiva un'altra dimensione della realtà." (p. 70) L'alta cultura, infatti, nasce secondo Marcuse, dall'opposizione al mondo reale di un mondo possibile. "Ritualizzata o no, l'arte contiene la razionalità della negazione. Nelle sue posizioni più avanzate, essa rappresenta il Grande Rifiuto, la protesta contro ciò che è." (p.76) Ora l'aspetto nuovo è che "Il potere assimilante della società svuota la dimensione artistica, assorbendone i contenuti antagonistici. nel regno della cultura, il nuovo totalitarismo si manifesta precisamente in un pluralismo armonioso, dove le verità e le opere più contraddittorie convivono pacificamente in un mare d'indifferenza." (p. 74) L'uomo è dunque, forse, più colto, ma non più saggio. Usa la cultura per soddisfare il suo bisogno estetico, senza cogliere le potenzialità critiche che ad essa sono intrinseche. Analoghe osservazioni Marcuse, rievocando il tema di Eros e Civiltà, fa riguardo alla liberazione istintuale, e in particolare sessuale, che caratterizza la nostra epoca e sembra attestare inconfutabilmente l'affrancarsi del principio del piacere dalle logiche preesistenti incentrate sulla rinuncia e sulla mortificazione. Anche a questo livello, però, la desublimazione, che libera il principio del piacere, consegue degli effetti paradossali. Essa infatti sessualizza la psicologia collettiva, ma, nello stesso, tempo deerotizza il rapporto con il mondo. Restringe insomma il piacere all'uso sessuale del corpo, atrofizzando tutte le altre modalità di piacere che esso implica, a partire dalla socialità spontanea al rapporto con la natura. E ciò non avviene per caso. L'erotizzazione del mondo, intesa come capacità di provare piacere attraverso la totalità dei rapporti che il soggetto intrattiene con esso, è una liberazione, mentre la sessualizzazione comporta il culto delle apparenze, la cura del corpo, dell'abbigliamento, l'uso di cosmetici, il ricorso a istituti di bellezza, ecc: una schiavitù, insomma, pagata tra l'altro a caro prezzo. Nella misura in cui la società industriale avanzata è riuscita a colonizzare le coscienze, uniformandole sul registro dell'accettazione della realtà esistente, essa ha estinto il conflitto tra borghesia e proletariato nel quale Marx intravedeva una potenzialità liberatoria. Marcuse non nutre più alcuna fiducia nel popolo e tanto meno nelle sue istanze di liberazione, isterilite dalla rincorsa, peraltro comprensibile, ad un maggior benessere, vale a dire al culto dei falsi bisogni. Ciò però non lo induce alla disperazione. Se le istanze di liberazione, com'egli pensa, fanno parte della natura umana, sia pure essa la seconda natura prodotta dall'evoluzione storica, non è possibile (né forse emotivamente accettabile) che la società industriale avanzata sia riuscita ad estinguerle. Ma chi, ormai, le rappresenta? La risposta, che conclude il saggio, creò all'epoca scalpore: "Al di sotto della base popolare conservatrice, vi è il sostrato dei reietti e degli stranieri, dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi permangono al di fuori del processo democratico; la loro presenza prova come non mai quanto sia immediato e reale il bisogno di porre fine a condizioni ed istituzioni intollerabili. Perciò la loro opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza C'è la possibilità che, in questo periodo, gli estremi storici possano toccarsi ancora una volta: la coscienza più avanzata dell'umanità e la sua forza più sfruttata. Non è altro che una possibilità." (p. 259) Per un paradosso della storia, la possibilità evocata da Marcuse, ironizzata all'epoca dai conservatori e dalla sinistra ufficiale, è tornata ad avere di recente una qualche attualità con l'esplosione della globalizzazione, la rabbia del Terzo Mondo, l'avvio del movimento no-global e la presa di coscienza da parte della sinistra di doversi fare carico di contraddizioni a livello planetario che contrappongono il benessere dei pochi al malessere dilagante dei più. Ma non è questo aspetto politico, i cui sviluppi sono attualmente imprevedibili, che qui interessa. Le diagnosi e le previsioni storiche sono sempre dubitabili. Ai fini di una nuova scienza dell'uomo e dei fatti umani, ciò che importa è chiedersi la pertinenza delle riflessioni marcusiane sullo statuto della coscienza e su un'istanza di liberazione che sarebbe intrinseca alla natura umana. Il concetto di falsa coscienza si può ritenere il risultato più alto del pensiero di Marcuse e la conquista più duratura della cultura critica degli anni '60. Esso riconosce almeno due precedenti importanti. Marx, senza mai usare il termine falsa coscienza, descrive l'alienazione come processo per cui il lavoratore, estraniato dai suoi prodotti che si pongono di fronte a lui, li assume come altro da sé, non riconoscendo in essi l'espressione delle sue potenzialità. Il pensiero marxista ha esteso il concetto di alienazione fino a fare entrare in esso tutta la cultura nella misura in cui essa, prodotta dagli uomini nel corso dello sviluppo storico, giunge ad oggettivarsi sotto forma di valori e di credenze che l'ideologia naturalizza. Freud, per tutt'altra via, è pervenuto a considerare la coscienza come una dimensione strutturalmente mistificata, in quanto incapace di una comunicazione trasparente con l'inconscio, e funzionalmente impegnata spesso a razionalizzare, vale a dire ad elevare sui dati dell'esperienza una sovrastruttura che ne neutralizza il significato emozionale. La falsa coscienza di Marcuse, che rappresenta la confluenza di queste due correnti di pensiero, definisce uno stato di cecità per due versi: in rapporto alla realtà esterna, nella misura in cui essa cade nel ricatto delle ideologie che la sollecitano a vedere le cose non come stanno ma così come si vuole che siano viste, e in rapporto alla realtà interna, laddove le istanze di liberazione urtano contro la repressione e la rimozione culturale. La falsa coscienza corrisponde ad un vissuto di felicità o di tranquillità che non coincide mai con ciò che avviene di fatto al di sotto di essa. Il potenziale liberatorio esiste sempre, nell'inconscio, sotto forma di bisogni autentici frustrati. E' evidente che questo riferimento implica l'attribuzione all'inconscio, e dunque alla natura umana, di una vocazione verso la libertà e l'autenticità che ha poco a che vedere con la teoria delle pulsioni freudiane. Il falso sé, riconosciuto ufficialmente dalla psicoanalisi, rappresenta una trasposizione impoverita del concetto marcusiano di falsa coscienza. Ciò che Marcuse intendeva descrivere, infatti, non era una tipologia di personalità psicopatica, bensì la tipologia della coscienza normalizzata, imbrigliata nella sua capacità di comprendere la realtà e anestetizzata nella sua capacità di sentire. Se si accetta il presupposto per cui la coscienza normalizzata, priva di qualunque inquietudine nei confronti del mondo così come dovrebbe essere, è l'espressione di un'alienazione, ne consegue che ogni stato di disagio psicologico implica una tensione verso una condizione più autentica, più integrata. E' insomma l'indizio di un malessere interiore, dovuto alla pressione dei bisogni frustrati, che pone, senza poterle realizzare di per sé, le premesse di una liberazione dall'unidimensionalità della coscienza. Questo tema marcusiano, messo a fuoco indipendentemente negli stessi anni da Laing, è divenuto uno degli assi portanti dell'antipsichiatria. Esso va recuperato nell'ambito di una nuova scienza del disagio psichico. Perché esso, però, non diventi uno slogan, occorre chiarire quali sono le istanze di liberazione che Marcuse attribuisce univocamente ad ogni uomo, e che quindi sono proprie della natura umana. Per questo aspetto, il suo pensiero, che oppone radicalmente al lavoro, inteso come condizione alienata, il tempo libero, dimensione unica nella quale l'uomo può realizzare se stesso, appare piuttosto debole. Il nodo forse non sta in una vita affrancata dai lacci del lavoro, quanto piuttosto in un'esistenza che trovi nelle sue diverse manifestazioni in rapporto al mondo, qundi anche nel lavoro, l'espressione della sua vocazione ad essere e dei suoi bisogni. Il problema della libertà non può porsi oggi solo nei termini della libertà dall'oppressione, dalla mistificazione, dai falsi bisogni, su cui Marcuse ripetutamente insiste. La libertà da deve approdare, perché l'uomo si realizzi, alla libertà di operare delle scelte significative di vita, che comportano anche l' impegno e un'assunzione di responsabilità critica. |