CRITONE

 Il dialogo si svolge in carcere, ove Socrate, condannato dal tribunale, attende serenamente la morte. Critone, uno degli allievi prediletti, ha organizzato con altri un piano per farlo fuggire. Si tratta di persuadere il maestro. Ma non è cosa facile. Socrate, che in cuor suo ha già deciso il da fare, accetta il confronto:

"Noi dobbiamo esaminare se sia lecito o meno fare come tu dici, perché io - e non solo da oggi, ma da sempre - non mi lascio persuadere se non da quel ragionamento che, secondo il mio modo di pensare, mi sembra il migliore."

Il problema da affrontare è un problema di coerenza morale:

"Cosa diciamo, che fare volontariamente qualcosa di male, non è assolutamente lecito o che, in alcuni casi, può esserlo e in altri no? Oppure che far del male non è mai una cosa bella né onesta come, in passato, tante volte, tra noi, abbiamo ammesso? O tutti quei principi, sui quali eravamo d'accordo, han perso ogni valore in questi ultimi giorni? Che forse, Critone, nonostante la nostra età, in tutti i nostri lunghi e profondi discorsi, non eravamo diversi dai fanciulli? O che la cosa stia veramente così, come dicevamo prima, indipendentemente o meno da ciò che ne pensa la gente e dalle conseguenze più o meno gravi che possono capitarci, che cioè, il far del male è assolutamente una cosa brutta e malvagia per chi lo fa."

Ora "se non si deve mai essere ingiusti, non bisogna nemmeno rispondere a un'ingiustizia con un'altra ingiustizia, come pensano molti.", perché "l'importante non è vivere, ma vivere bene", e cioè. "nobilmente" e "giustamente".

La sentenza è oggettivamente ingiusta, al punto che Socrate ha concluso la sua difesa di fronte al tribunale proponendo per sé un premio piuttosto che una punizione. Ma essa è stata emessa legittimamente ed esprime dunque la volontà dello Stato, rappresentata dalle Leggi. E' lecito violarle?

Socrate, per farsi intendere da Critone, che evidentemente le ritiene astratte, le personifica e mette in scena un dialogo tra i più sorprendenti che si siano mai dati:

"Supponi che mentre noi stiamo per scappare - oppure usa il termine che vuoi - ci venissero davanti le Leggi e lo stesso Stato e ci chiedessero: - "Di' un po', Socrate, che cosa hai in mente di fare? Non è, forse, per distruggerci, per quanto sta in te, noi, le Leggi e tutto lo Stato insieme, che ti accingi a compiere quest'impresa? Pensi proprio che possa reggersi ancora, senza che ne sia sovvertito, quello Stato in cui le leggi non hanno efficacia, calpestate e rese vane da cittadini privati?" -

" E se le Leggi dicessero: "Ma erano questi i nostri patti, Socrate, o non piuttosto che tu avresti rispettato le sentenze che la tua patria avrebbe emesse?"

E se noi, a queste parole, mostrassimo di meravigliarci, forse, esse potrebbero dirci: "Non stupirti di questo che abbiamo detto, Socrate, ma rispondici, perché, proprio tu, conosci bene il sistema di far domande e di replicare. E allora, che cosa rimproveri a noi e allo Stato, tu che tenti di distruggerci? Che forse non devi a noi, prima di tutto, la tua nascita? Non fummo noi a regolare l'unione di tuo padre e tua madre che poi ti generarono? Rispondi, hai qualcosa da ridire contro quelle leggi che regolano i matrimoni? Non ti vanno forse bene?"

Io dovrei rispondere che non ho proprio nulla da rimproverare.

"E contro quelle che presiedono alla cura dell'infanzia e alla sua educazione, quella che tu stesso hai ricevuto? Erano, forse, cattive quelle leggi istituite per questo e che obbligavano tuo padre a educarti nella musica e nella ginnastica?"

"Ottime," io dovrei dire.

"Bene. E dal momento che sei venuto al mondo, che sei stato allevato ed educato, come puoi dire di non essere, prima di tutto, creatura nostra, in tutto obbligato a noi, tu e i tuoi antenati? E, se questo è vero, pensi proprio di avere i nostri stessi diritti, tu, di poter legittimamente fare a noi ciò che noi decidiamo nei tuoi riguardi? Verso tuo padre o verso il tuo padrone - se per caso ne hai avuto uno - non avevi i loro stessi diritti; tu non potevi comportarti con loro come loro si comportavano con te, ai rimproveri non potevi rispondere, alle percosse non potevi, a tua volta, percuotere, nulla di tutto questo. Però, verso la patria e verso le sue leggi, secondo te, tutto questo, sì, ti sarebbe concesso; così che se noi crediamo giusto che tu muoia, anche tu, dal canto tuo, puoi mandarci in rovina, noi, le tue leggi e la tua patria e, così facendo, dire che è giusto, tu proprio, che sei al servizio della virtù?

"Ma sei così sapiente da non sapere che la patria è tanto più nobile, più veneranda e più santa della madre e del padre e di tutti i nostri avi e che da dio e dagli uomini di sano intelletto è tenuta nella più alta considerazione, che bisogna rispettarla, venerarla, blandirla quando è in collera, più che il padre, convincerla dei suoi torti o fare ciò che essa comanda, sopportare in silenzio ciò che essa ci ordina di sopportare, percosse, carcere e se ci manda in guerra per essere feriti o uccisi, accettare anche questo, perché così è giusto, senza sottrarci, né cedere, né abbandonare il nostro posto ma, sia in battaglia che in tribunale, come in ogni altro luogo, fare quello che la patria comanda o, tutt'al più, persuaderla da che parte è la giustizia, ma non farle violenza: non è lecito farla alla madre o al padre e tanto meno alla patria."

" E le Leggi, probabilmente, continuerebbero: "Vedi, Socrate, che non è giusto, da parte tua, se è vero ciò che diciamo, quel che tu stai facendo nei nostri riguardi. Perché noi che ti abbiamo messo al mondo, che ti abbiamo allevato ed educato, che ti abbiamo fatto partecipe, con tutti gli altri cittadini, di tutti i beni che potevamo procacciarti, noi dichiariamo che chiunque degli ateniesi lo voglia, può trasferirsi dove più gli aggrada, con tutti i suoi beni se, una volta raggiunti i diritti civili e conosciuti gli ordinamenti dello Stato e noi stesse, le Leggi, non ci trovi di suo gradimento. Nessuna di noi vi impedisce di trasferirvi, magari, in una colonia, se non vi andiamo a genio, o in qualche altro luogo che vi piaccia, portandovi appresso le vostre sostanze; ma chi di voi rimane, riconoscendo il nostro modo di amministrare la giustizia e gli affari dello Stato, si impegna all'obbedienza di ciò che noi comandiamo, altrimenti dichiariamo che commette tre volte ingiustizia, prima perché non obbedisce a noi che gli abbiamo dato la vita, poi perché lo abbiamo allevato e infine perché, dopo essersi impegnato all'obbedienza, né ci persuade dei nostri torti eventuali, né ci obbedisce e mentre noi comandiamo con mitezza e lasciamo a lui la scelta tra le due soluzioni, o di persuaderci, cioè, o di obbedirci, egli non fa né l'una né l'altra cosa."

""E, intanto," potrebbero continuare, "tu non fai altro che violare i patti e gli accordi stretti con noi, che tu, peraltro, accettasti senza esservi costretto o tratto in inganno, né spinto a deciderti in breve tempo, ma in ben settant'anni, durante i quali potevi benissimo andartene, se noi non ti andavamo a genio o se gli accordi non ti sembravano giusti. Invece tu non hai preferito né Sparta, né Creta, di cui pure vanti, continuamente, le buone leggi, né alcuna altra città greca o straniera e da Atene ti sei allontanato meno di quanto fanno gli zoppi, i ciechi e gli altri invalidi; questo dimostra che a te, più che agli altri ateniesi, noi leggi e la tua patria, ti piacevamo. E, in effetti, una città senza leggi a chi potrebbe piacere? E, ora, non resti ai patti? Oh, Socrate, questo non puoi farlo, se ci dai retta, non puoi renderti ridicolo andandotene, ora, dalla tua patria.

"E allora, Socrate, dà ascolto a noi che ti abbiamo cresciuto e non tenere in maggior conto i figli o la vita o qualunque altra cosa al mondo, più della giustizia, così che quando giungerai nell'al di là, tu possa esporre le tue buone ragioni a quelli che laggiù comandano. Perché, qualora tu scegliessi una simile soluzione, essa non sarebbe né la migliore, né la più giusta, né la più santa e non porterebbe nessun vantaggio a te o a qualcuno dei tuoi, né su questa terra né quando sarai laggiù.

"Se, invece, tu ora risolverai di morire, sarà perché sei stato ingiustamente trattato, ma non da noi Leggi, bensì dagli uomini; se, invece, fuggissi, rendendo vigliaccamente ingiustizia per ingiustizia, male per male, trasgredendo ai patti e agli accordi stipulati con noi, facendo del male a chi meno lo meritava, cioè a te stesso, agli amici, alla patria e a noi, noi ti saremmo nemiche, finché vivrai e le nostre sorelle, le leggi dell'oltretomba, non ti accoglieranno, poi, con benevolenza, sapendo che tu hai tentato di sovvertirci, per quanto era in tua facoltà.

"Non lasciarti persuadere, quindi, da Critone, a fare a modo suo, ma fa come noi ti diciamo.

Tutte queste cose, credimi, mi sembra di udire, mio caro Critone, come i Coribanti che dicono di sentire il suono dei flauti, e l'eco di queste parole rimane dentro di me, che io non posso udirne altre."

Questo splendido riconoscimento del debito di appartenenza che lega un soggetto alla comunità di cui è membro si fonda anch'esso su di una voce interna che detta a Socrate il comportamento da tenere. Non si tratta evidentemente del super-io, se con questo termine s'intende una funzione che coercisce l'io in nome dei valori culturali interiorizzati, bensì della coscienza morale, vale a dire di una funzione integrata con l'io che fa riferimento a doveri sociali riconosciuti e fatti propri in nome, per l'appunto, del debito di appartenenza.

La coscienza morale di Socrate gli impone di rispettare le Leggi, la volontà collettiva nella misura in cui questo è giusto. Nell'Apologia Socrate ha rivendicato il suo diritto di pensare e di agire liberamente, criticando e contrastando le tradizioni e i luoghi comuni che alienano l'uomo in nome dell'adattamento sociale. Ma tale diritto, che esprime il bisogno d'individuazione, non azzera i doveri sociali nella misura in cui essi sono riconosciuti dalla coscienza morale.

Confrontando l'Apologia con il Critone, riesce chiaro che nell'anima di Socrate si è definito il conflitto strutturale che sottende ogni esperienza umana: il conflitto tra diritti individuali e doveri sociali. Riesce chiaro altresì che tale conflitto è stato mediato e dunque risolto dalla coscienza.