AMARTYA SEN
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Indiano, insignito del premio Nobel per l'economia nel 1998, Professor di Economia e Filosofia morale ad Harvard, Amartya Sen espone in questo libro, frutto di una serie di conferenze tenute nel 1986 presso l'Università della California a Berkeley, l'idea portante del suo lavoro: la possibilità di conciliare efficienza e equità nel nome di un'integrazione tra economia e etica. Non si tratta di un'integrazione dettata dal motivo, ricorrente nella letteratura socialista a partire da Marx, di contestare o temperare le dure leggi dell'economia in nome del senso di giustizia e dei bisogni sociali. Sen è un liberale illuminato (un liberal nella definizione statunitense) che non intende contestare il sistema capitalistico e l'ideologia economica del mercato su cui esso si fonda. Il suo intento è di dimostrare che l'homo oeconomicus, l'uomo cioè che persegue, nella sua attività e nelle scelte, unicamente l'interesse privato, non coincide con l'uomo reale le cui motivazioni ad agire, anche a livello economico sono in genere più complesse. Esse non escludono che egli possa agire perseguendo altre finalità rispetto all'utilità, vale a dire il vantaggio economico legato allo scambio, né che egli, senza trascurare i suoi bisogni, possa indulgere ad agire un comportamento cooperativo piuttosto che più o meno aspramente conflittuale. Per capire meglio il senso del discorso di Sen, occorre tenere conto del modello economico che egli critica: quello dell'economia positiva, incentrata sul principio per cui, data un'economia di mercato governata dallla domanda e dall'offerta, i soggetti, sulla base delle informazioni di cui dispongono, agiscono razionalmente perseguendo lo scopo univoco di massimizzare la propria utilità. Dal gioco interattivo tra i diversi agenti economici discende la dinamica del sistema che tende verso l'equilibrio, vale a dire l'allocazione efficiente delle risorse di cui esso dispone. Tale modello si è imposto progressivamente, via via che l'economia ha preteso di trasformarsi in una scienza descrittiva e esplicativa dei fatti, vale a dire di ciò che concretamente avviene all'interno del sistema economico capitalistico. La sua affermazione ha coinciso con una progressiva riduzione dell'interesse per l'economia normativa, che tiene conto di valutazioni etiche e affronta, al di là dell'efficienza del sistema economico, anche i problemi legati all'equità, vale a dire alla distribuzione sociale delle opportunità e del reddito. Sen muove appunto dall'opposizione tra economia positiva e economia normativa, ponendo preliminarmente in dubbio il presupposto antropologico su cui la prima si fonda: "L'economia si ritiene debba interessarsi alle persone reali. E' difficile credere che le persone reali possano essere del tutto ininfluenzate dalla portata dell'esame di sé indottotto dalla domanda socratica: "Come bisogna vivere?" - una domanda che è anche motivante e centrale in campo etico. E' possibile che le persone studiate dall'economia siano veramente così ininfluenzate da questa stimolante domanda, e si attengano esclusivamente alla rudimentale testardaggine che attribuisce loro l'economia moderna?" (p. 8). Dal punto di vista di Sen, la domanda è retorica, e può ricondursi all'evoluzione storica della disciplina. L'approccio normativo e quello positivo presiedono entrambi la nascita dell'economia. Solo nel corso del tempo, quest'ultima è divenuta egemone relegando la prima in un cono d'ombra: "Si può sostenere che l'importanza dell'approccio etico si è andata indebolendo in modo alquanto sostanziale via via che l'economia moderna si evolveva. La metodologia della cosiddetta "economia positiva" non solo ha eluso l'analisi normativa in economia, ma ha anche avuto l'effetto di fare ignorare una gamma di complesse considerazioni etiche che influenzano il comportamento umano effettivo e che, dal punto di vista dell'economista che studi tale comportamento, sono prevalentemente dati fattuali più che elementi di giudizio normativo" (p. 14). Nonostante gli indubbi successi conseguiti sul piano teorico dall'economia positiva, quell'elusione ha prodotto "un sostanziale impoverimento a causa della distanza venutasi a creare tra l'economia e l'etica" (p. 14). Sen ritiene che questa distanza possa e debba essere sormontata con un duplice vantaggio: per un verso "l'economia, così come si è venuta costituendo, può essere resa più produttiva se si presta maggiore e più esplicita attenzione alle considerazioni di natura etica, che informano il comportamento e i giudizi umani" (p. 16); per un altro, "alcune delle acquisizioni utilizzate in economia per affrontare i temi d'interdipendenza possono essere di grande importanza nell'affrontare complessi problemi etici, anche quando non sono in gioco variabili economiche" (p. 17). A tale fine, si tratta innanzitutto di criticare il cardine dell'economia positiva, vale a dire la definizione univoca di razionalità nei termini di comportamento mirato a massimizzare l'interesse personale. Impresa ardua benché necessaria, se è vero che "l'ipotesi di un comportamento unicamente mosso dall'interesse personale rimane l'ipotesi corrente in economia, quella che fornisce i fondamenti comportamentali della teoria economica e dell'analisi della politica economica, nonché la base di gran parte di quello che si insegna agli studenti di economia" (p. 25). La critica di Sen si fonda sull'allargamento del concetto di razionalità: "Perché dovrebbe essere peculiarmente razionale perseguire il proprio interesse personale ad esclusione di qualsiasi altra cosa? Naturalmente può non essere per niente assurdo affermare che la massimizzazione dell'interesse personale non è irrazionale o perlomeno non lo è necessariamente, ma sembra del tutto straordinario sostenere che tutto ciò che non sia massimizzazione dell'interesse personale debba essere una forza irrazionale Cercare di fare il proprio meglio per raggiungere ciò che si vorrebbe raggiungere può far parte della razionalità, e questo può includere il perseguimento di obbiettivi non dettati dall'interesse personale ai quali diamo valore e desideriamo raggiungere" (p.23). Questo allargamento pone il problema della razionalità in temini non esclusivi: "Negare che le persone si comportino sempre in modo esclusivamente mosso dall'interesse personale non è lo stesso che asserire che essi si comportno sempre in moso altruistico. Sarebbe straordinario se l'interesse personale non dovesse svolgere un ruolo molto importante in moltissime decisioni, e in relatà le normali transazioni economiche subirebbero un collasso, se l'interesse personale non rivestisse un ruolo sostanziale nelle nostre scelte. La vera questione è se ci sia una pluralità di motivazioni, o se sia il solo interesse personale a guidare gli esseri umani" (pp. 27-28). Il dubbio che implicitamente avanza Sen, dunque, è che l'homo oeconomicus, univocamente animato da un sacro egoismo, non sia la migliore approssimazione possibile al comportamento degli esseri umani in campo economico. Ma quali altre motivazioni vanno ammesse, associate all'interesse personale, per arrivare ad una comprensione del comportamento economico più fedele alla realtà delle cose? Sen ritiene che uno spunto importante per la risoluzione di questo problema si possa trarre proprio da Adam Smith, il fondatore della scienza economica, al quale a torto, a suo avviso, viene attribuito il principio per cui è l'interesse personale a dominare il comportamento economico umano. Nella Teoria dei sentimenti morali Smith attribuisce all'uomo, oltre all'interesse personale, che coincide con l'amore di se stessi, anche una vocazione sociale, espressa dalla simpatia e dall'autodisciplina, che, nel loro insieme definiscono la prudenza: "Benché la prudenza vada molto al di là della massimizzazione dell'interesse personale, Smith la considerava in generale solo "di tutte le virtù quella che è più utile alla persona", mentre "l'umanità, la giustizia, la generosità e lo spirito pubblico sono le qualità più utili agli altri"" (pp. 31-32). E' a partire da Smith dunque che il discorso sulle motivazioni che sottendono il comportamento economico umano va ripreso. Riprenderlo significa, anzitutto contestare l'utilitarismo, vale a dire la dottrina secondo la quale, perseguendo ogni individuo la sua utilità privata, dalla somma delle utilità individuali deriva un incremento dell'utilità sociale: "Le proposizioni correnti della moderna economia del benessere dipendono dalla combinazione del comportamento egoistico, da una parte, con una valutazione dei risultati sociali mediante qualche criterio basato sull'utilità dall'altra" (p.42). Si tratta in breve del problema dell'efficienza del sistema economico che viene appunto derivato dalla tendenza degli individui a privilegiare nel loro comportamento economico l'utilità personale. Sen ha buon gioco nel rilevare che questo approccio, evidente in Pareto, "si occupa esclusivamente dell'efficienza nello spazio delle utilità senza prestare alcuna attenzione alle considerazioni di carattere distributivo riguardanti l'utilità" (p. 45). In questa ottica, "la facoltà di agire della persona dev'essere indirizzata totalmente al suo benessere" (p. 54). Secondo Sen, "una volta eliminata questa sorta di camicia di forza della motivazione dell'interesse personale diventa possibile riconoscere l'incontrovertibile fatto che la facoltà di agire della persona può benissimo essere indirizzata a considerazioni non riguardanti - o perlomeno non completamente riguardanti - il suo benessere" (p. 54). Questo significa che "non c'è veramente alcuna solida base per esigere che il benessere e la facoltà di agire di una persona debbano essere aspetti indipendenti l'uno dall'altro, e suppongo che sia anche possibile che ogni cambiamentro dell'uno influenzi l'altro. Tuttavia, la cosa importante non è la plausibilità della loro indipendenza, ma la possibilità e l'importanza della loro distinzione" (p. 57). Questa distinzione mette in crisi l'identificazione tra utilità e benessere e apre una nuova prospettiva: "Si può sostenere che sarebbe meglio rappresentare il vantaggio attraverso la libertà che ha la persona, e non attraverso (perlomeno non totalmente attraverso) ciò che la persona raggiunge - in termini di benessere - sulla base di questa libertà " (p.61). "Si può ritenere che la libertà abbia un valore che non è solo quello dei risultati che consente di raggiungere. Le possibilità e le opportunità si una persona possono essere considerati importanti in una valutazione normativa, in aggiunta a ciò che la persona finisce col raggiungere o con l'ottenere. Alla libertà può essere assegnato un valore non solo perché aiuta a ottenere risultati, ma anche per la sua importanza intrinseca, che va al di là del valore delle condizioni di esistenza raggiunte" (p.77). La libertà però comporta, al di là del piano del benessere personale la possibilità di operare scelte basate su obbiettivi personali del più vario genere (compresi quelli morali). Essa però pone di fronte ad un problema: "La vera difficoltà dell'ipotesi di scelte basate su obbiettivi personali deriva dal fatto che l'effettuazione di scelte simili da parte di una comunità di persone con obbiettivi diversi può portare ad una situazione per cui gli obbiettivi di ciascuno siano appagati in misura minore di quanto sarebbe avvenuto se le persone avessero seguito una diversa regola di comportamento" (p. 101). Sen ritiene che questo pericolo sia scongiurato dal fatto che, come ha dimostrato la teoria dei giochi, laddove agiscono diversi agenti in una situazione d'interdipendenza, pur perseguendo ciascuno di essi obbiettivi personali, affiorano facilmente comportamenti di cooperazione. Ciò dipende dal fatto che, in un asituazione del genere, a ragione dell'interdipendenza reciproca, le persone non possono prescindere dagli obbiettivi altrui: "Il comportamento è in ultima analisi una questione anche sociale, e pensare in termini di cosa "noi" dovremmo fare, o di quele debba essere la "nostra" strategia può rispecchiare un senso d'identità che comporta un riconoscimento degli obbiettivi degli altri e delle interdipendenze reciproche in gioco. Benchè gli obbiettivi degli altri possano non essere incorporati negli obbiettivi di una data persona, il riconoscimento dell'interdipendenza può suggerrire di seguire alcune regole di comportamento che non sono necessariamente di valore intrinseco, ma che hanno una grande importanza strumentale nel raggiungimento degli obbiettivi rispettivi dei componenti di quel gruppo" (p. 105). In conclusione: "L'allontanamento dagli assunti comportamentali correnti della teoria economica può derivare da molteplici considerazioni etiche diverse. Queste possono comportare una cordialità e una simpatia per gli altri. Può anche esservi un impegno a favore di svariate cause. Inoltre può esservi un impegno a seguire particolari schemi di comportamento, la violazione dei quali può essere vista intrinsecamente negativa. Ma possono anche esserci altri schemi di comportamento, la fedeltà ai quali può non derivare da una qualsivoglia valutazione intrinseca riconosciuta a quello stesso comportamento, quanto piuttosto all'inportanza strumentale di quel comportamento - vuoi per l'individuo vuoi per il gruppo" (pp.109-110).
Commento L'intento di Amartya Sen di integrare valori etici nell'economia positiva, che riconosce quale agente economico solo l'individuo animato dal bisogno razionale di massimizzare l'interesse privato, è senz'altro nobile. Esso infatti mira a contrapporre al liberismo selvaggio, estrema e coerente espressione dell'utilitarismo, che privilegia l'efficienza rispetto all'equità, un liberalismo umanistico che tempera l'egoismo con il richiamo al fatto che l'uomo, per quanto indubbiamente interessato a sé, è comunque un essere sociale che vive e agisce in un regime di interdipendenza. L'intento è tanto più nobile in quanto i valori umanistici del liberalismo vengono attribuiti, appunto, ad un orientamento della natura umana che riconosce, associato all'interesse privato, la "simpatia", la solidarietà e la cooperazione. Che un'istanza sociale faccia parte del corredo naturale umano è fuor di dubbio. Il problema è che l'economia capitalistica si è affermata lottando contro quell'istanza, slacciando il legame sociale e enfatizzando il bisogno e il diritto dell'individuo di pensare a sé. Nella misura in cui la socialità, che Sen definisce in termini di interdipendenza, è un orizzonte che non può essere trasceso, l'affermazione del capitalismo non ha di certo alienato l'uomo fino al punto di trasformarlo in una macchina univocamente programmata a massimizzare l'interesse individuale. Essa però ha prodotto una scissione tra l'uomo in quanto agente economico, l'uomo privato e l'uomo sociale. In quanto agente economico egli, tranne rarissime eccezioni, è portato a privilegiare in assoluto l'utilità, ad agire cioè egoisticamente. Sul piano privato, può abbandonarsi anche agli affetti e manifestare uno spirito di sacrificio elevato (per esempio a favore dei figli). In quanto uomo sociale, il suo comportamento può oscillare, a seconda delle circostanze, dal cinismo e dall'indifferenza all'altruismo e alla solidarietà. La situazione di fatto è questa, e il liberismo selvaggio degli anni '90 non ha fatto che smascherarla. I crimini finanziari commessi negli ultimi dieci anni per interesse privato non hanno confronti nella storia precedente. Sen ha ragione in linea teorica. Non tutti gli uomini agiscono sul piano economico solo in nome dell'egoismo. Gran parte di essi però sì, e si tratta in genere di persone dotate di un rilevante potere (imprenditori, managers, politici, ecc.). Non si tratta neppure peraltro di una scelta, bensì di una necessità legata alla logica del sistema capitalistico. La proposta avanzata da Sen di un liberalismo dal volto umano, cioè di una società all'interno della quale gli uomini agiscano in nome di una libertà vissuta come bene primario e sulla base di motivazioni comportamentali autogratificanti, in quanto corrispondenti al bisogno di autorealizzazione, non è insignificante. Essa però ha scarse possibilità di realizzazione poiché postula un'uguaglianza delle opportunità di sviluppo che è rivendicata da tutti i partiti come un punto essenziale del loro programma, ma che tutti sanno non essere praticabile se non in virtù di una rivoluzione radicale dell'organizzazione sociale. Il welfarismo criticato da Sen è ancora, di fatto, l'unico argine contro l'affermazione egemonica del liberismo selvaggio e del darwinismo sociale che lo sottende. Al di là del welfarismo, non si dà una compiuta rivoluzione in nome dei valori liberali, ma solo un riacutizzarsi dei conflitti sociali che lo Stato assistenziale è valso a scongiurare i cui esiti sono imprevedibili. |