Ernesto de Martino
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1. Sarebbe difficile minimizzare l’importanza dell’opera di de Martino nell’ottica di una nuova scienza dell’uomo e dei fatti umani. Egli non è certo il primo autore che, nell’ambito delle scienze umane e sociali, abbia avvertito l’esigenza di un’integrazione interdisciplinare tra di esse. Di sicuro è tra i primi che l’ha presa sul serio coinvolgendo nelle sue ricerche sul campo psicologi, psicoanalisti, psichiatri, antropologi culturali, ecc. Egli, dunque, anche se non ha mai utilizzato che io sappia questo termine, è un panantropologo antelitteram. Un panantropologo, peraltro, tanto acuto da avere colto il problema centrale di questo nuovo sapere: la necessità, come scrive Lanternari, di “unificare prospettive di per sé eterogenee come quella storicista di derivazione crociana, ma riveduta in chiave marxista, con quella fenomenologico-ontologica, volta tipicamente alla identificazione di "universali" e di strutture invarianti d'ordine psicologico.” Questo problema, com’è noto a chi ha letto i miei saggi, è stato al centro della mia ricerca a partire dalla constatazione che i fenomeni psicopatologici, nella loro indefinita varietà, si articolano sulla base di una matrice strutturale conflittuale invariante, riconducibile alla scissione e all’opposizione tra il bisogno di appartenenza sociale e quello di individuazione. La soluzione del problema, insomma, a mio avviso, è fornita dalla teoria dei bisogni, che consente di fondare un modello interpretativo ed esplicativo che si può definire strutturalista e dialettico. Esso, infatti, tiene conto di quanto si dà di invariante in ogni visione del mondo soggettiva e collettiva, essendo essa vincolata alla dinamica dei bisogni intrinseci, e della varietà dei contenuti di quelle visioni del mondo, che dipendono dall’interazione dei singoli soggetti con una realtà storicamente determinata e, sia pure lentamente, in perpetua evoluzione. E’ in questa ottica che tenterò di rileggere il saggio di de Martino, soffermandomi di più sugli aspetti che hanno una valenza di ordine generale nella cornice di una panantropologia, che non sulle sue interpretazioni storiche, che sono peraltro di una sorprendente profondità. Sud e magia inaugura la trilogia di opere dedicate ad uno studio del folklore religioso nella cultura contadina del Sud, e accentra l’attenzione sul complesso mitico-rituale della fascinazione in Lucania. Il saggio consta di due parti. La prima è un accurato resoconto delle credenze e delle pratiche raccolte attraverso una ricerca sul campo. La seconda è l’analisi del materiale etnologico portata avanti nel tentativo di porre in luce non già il significato generale, simbolico della magia, bensì quello culturale, storico e politico di quelle credenze e pratiche in una determinata area geografica. L’oggetto della magia cerimoniale lucana la fascinazione è definito da de Martino in termini estremamente precisi e icastici: “[Con il termine fascinazione] si indica una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomia della persona, la sua capacità di decisione e di scelta.. Cefalalgia, sonnolenza, spossatezza, rilassamento, ipocondria spesso accompagnano la fascinazione: ma l’esperienza di una forza indominabile e funesta resta il tratto caratteristico. La fascinazione comporta un agente fascinatore e una vittima, e quando l’agente è configurato in forma umana, la fascinazione si determina come malocchio, cioè come influenza maligna che procede dallo sguardo invidioso (onde il malocchio è chiamato anche invidia), con varie sfumature che vanno dalla influenza più o meno involontaria alla fattura deliberatamente ordita con un cerimoniale definito, e che può essere ed è allora particolarmente temibile fattura a morte. L’esperienza di dominazione può spingersi sino al punto che una personalità aberrante, e in contrasto con le norme accettate dalla comunità, invade più o meno il comportamento: il soggetto non sarà più allora semplicemente un fascinato, ma uno spiritato, cioè un posseduto o un ossesso, da esorcizzare. Il trattamento della fascinatura (o affascino, o attaccamento, o malocchio, o invidia, o fattura) si fonda sulla esecuzione di un particolare cerimoniale da parte di operatori magici specializzato.” (pp. 15-16) Alla base della credenza nella fascinazione, dunque, si danno due convinzioni. La prima concerne l’esistenza di forze oscure (naturali e sovrannaturali) che sovrastano l’esperienza umana e possono incidere negativamente su di essa; la seconda la possibilità che agenti umani possano agire a danno di altri esseri umani. Tali convinzioni promuovono un bisogno di protezione che rende necessario attribuire a qualcuno (l’operatore magico) il potere di contrastare quelle forze e le cattive intenzioni degli agenti umani. Nella misura in cui l’attribuzione viene socialmente convalidata, nel senso che l’operatore viene identificato dalla comunità come dotato di poteri magici, il trattamento può conseguire degli effetti positivi e a volte risolutivi. Giustamente de Martino rileva che, posto il problema in questi termini di un insieme di credenze e di pratiche cerimoniali che mirano ad arginare “l’immensa potenza del negativo lungo tutto l’arco della vita individuale, col suo corteo di traumi, scacchi, frustrazioni” (p. 89) la radice della magia lucana è omologabile a quella di ogni altra forma di magia. Conclusione questa che, nella sua genericità, non lo soddisfa perché non spiega né il radicamento culturale delle credenze e delle pratiche magiche in quel determinato territorio né le forme specifiche che esse hanno assunto. Da questa insoddisfazione nasce l’esigenza di una storicizzazione del fenomeno, che occupa appunto la seconda parte del saggio. Per quanto l’analisi storicistica ha una straordinaria sottigliezza poiché essa tiene conto dei residui paganeggianti della cultura meridionale, dell’influenza su di essi del cattolicesimo, della miseria psicologica e reale prodotta dalla lunga dominazione di un potere monarchico e nobiliare indifferente ai bisogni delle masse e, infine, all’influenza dell’Illuminismo, essa, come riconoscerà lo stesso de Martino in una fase ulteriore dello sviluppo del suo pensiero, non riesce ad azzerare del tutto il fatto che lo sviluppo storico produce contenuti che, comunque, si realizzano all’interno di una forma la concezione magica che si può ritenere universale. Su questa forma è opportuno riflettere. 2. Convergono chiaramente in essa tre diversi aspetti. Il primo fa riferimento alla consapevolezza intrinseca alla soggettività di uno statuto caratterizzato dalla vulnerabilità, dalla contingenza e dalla finitezza. Si tratta dei tre contenuti che io ho identificato come matrici dell’ansia esistenziale che sottende ogni esperienza umana. In sé e per sé, tali contenuti, a differenza di quanto accade laddove si definisce un’ansia “patologica”, vale a dire incentrata sull’aspettativa più o meno “ossessiva” di un male destinato a realizzarsi, non sono espressivi di una conflittualità psicodinamica, bensì della struttura stessa della mente umana, capace di valutare la propria condizione esistenziale. Essi, però, implicano un vissuto di fondo, universale: un vissuto di precarietà, che evoca immediatamente il riferimento a fattori che possono incidere su di essa catastroficamente. Dato l’affacciamento della coscienza sul mondo esterno, che mette tra parentesi la possibilità che essa possa danneggiarsi dall’interno, vale a dire esercitando male la libertà di cui dispone per effetto di motivazioni consce o inconsce alienate, è inevitabile che i fattori potenzialmente nocivi vengano identificati nel mondo esterno: nelle forze naturali e sovrannaturali che si sottraggono al potere del soggetto e nei comportamenti agiti da altri esseri umani. Sembra banale affermarlo, ma l’identificazione di questi due fattori, nella sua universalità, definisce la drammaticità della condizione umana, esposta ai capricci del caso degli spiriti, di Dio, della natura o del caso poco importa e alle azioni del socius. Depurato di ogni valenza magica, il primo fattore è assolutamente oggettivo: il destino biologico di ogni individuo è l’espressione di una “lotteria” contro la quale gli uomini possono fare ben poco. Il secondo, invece, lo è solo nella misura in cui esso è confermato dalla storia. E’ una realtà di fatto che, nel corso dello sviluppo storico, il danno arrecato, direttamente o indirettamente, volontariamente o involontariamente, consapevolmente o inconsapevolmente, da agenti umani ad altri esseri umani è stato ed è, se fosse quantificabile, maggiore di quello prodotto dalla Natura o dal caso. Si può ritenere che questa realtà sia non trascendibile, vale a dire che ogni essere umano debba temere anzitutto, come potenziale causa del suo male, il socius, il simile. Si può anche pensare, però, come ho scritto più volte, che la nocività dell’uomo sull’uomo rappresenti un triste fenomeno legato alla preistoria dell’umanità, destinato ad essere sormontato allorché essa sviluppi una solidarietà di specie e si allei nel lottare contro le cause oggettive, naturali che minacciano ogni suo singolo membro. Si tratta, certo, di un’utopia, considerando non solo la storia ma lo stato di cose esistente nel mondo. Per quanto utopistica, però, questa prospettiva non è del tutto infondata. Uno dei fattori che la alimentano, infatti, è ricavabile proprio, paradossalmente, dalle pratiche magiche. Esse infatti confermano che l’uomo vive persecutoriamente il rapporto con la natura, con il caso e con gli altri esseri umani. Confermano anche che, non riuscendo a distinguere ciò che si dà di oggettivamente determinato nella condizione umana, vale a dire la sua esposizione a leggi naturali che non potranno mai essere modificate, e di ciò che è storicamente determinato il conflitto con il simile -, essa fa di tutt’erba un fascio ed esprime un bisogno di protezione totale, come se fosse e dovesse essere possibile stare al riparo da ogni male. Nella misura in cui però questo bisogno si rivolge a qualcuno l’operatore magico che fa parte della comunità e al quale si attribuisce un potere pressoché onnipotente, esso sembra fare affiorare la convinzione di fondo per cui se è dal socius, oltre che dalla Natura, che ci si può aspettare il male, è dal socius che ci si può aspettare anche il bene, la protezione, la guarigione. Non si sottolineerà mai abbastanza questo aspetto ambivalente nei confronti dell’umano intrinseco ad ogni pratica magica. Esso significa che il legame sociale è vissuto nel contempo come potenzialmente nocivo e “terapeutico”. In questa ottica, è compito dell’evoluzione storica incidere su questo spettro ambivalente, spostandolo verso la polarità della solidarietà e dell’aiuto reciproco in nome di una comune e universale condizione di esposizione al dolore, alla sofferenza, alla malattia, ecc. 3. A che punto siamo su questa via? Giustamente, nel suo saggio, de Martino sottolinea che l’arretratezza che traspare dalla diffusione delle pratiche magiche nel Sud dell’Italia, alla metà del secolo corso, è il frutto di una miseria culturale e sociale prodotta da secoli di oppressione da parte della Chiesa cattolica e del Potere politico. Un progresso, sotto questo profilo, c’è stato, e non è un caso che il ricorso alle pratiche magiche, senza essersi estinto, sia progressivamente diminuito. Il progresso è riconducibile per un verso al miglioramento del tenore di vita, alla realizzazione di pratiche assistenziali e previdenziali pubbliche, in virtù delle quali ogni soggetto può attingere in una qualche misura, alle risorse della solidarietà sociale, e all’affermarsi della scienza medica come sostitutiva delle pratiche magiche. Si tratta di aspetti importanti su cui è opportuno soffermarsi. L’uomo ha ricavato per molti secoli una certa minimale sicurezza dall’appartenere ad una comunità e ad un gruppo parentale. Associata ad una condizione di miseria e di indifferenza (quando non di sfruttamento) da parte del Potere politico, tale sicurezza, come documenta il libro di de Martino, era nondimeno esposta agli scacchi del negativo. Via via che l’organizzazione sociale si è modificata, per via dell’urbanizzazione e della frammentazione della famiglia allargata, la solidarietà comunitaristica si è progressivamente burocratizzata: è stata insomma lentamente sostituita dalle strutture previdenziali e assistenziali dello Stato. E’ o dovrebbe essere evidente che, laddove lo Stato riducesse questo ruolo “protettivo”, sarebbe inevitabile una regressione culturale, orientata a restaurare dispositivi minimali di sicurezza dell’individuo. La crisi dello Stato sociale, prodotta dall’aspra contestazione neoliberistica dello spreco di risorse pubbliche, rischia di produrre, nel contesto della nostra società un effetto del genere, più marcato ovviamente laddove la razionalità si è insediata più di recente. Il ritorno di massa alle pratiche magiche è reso impossibile dallo scarso numero di maghi ormai presenti sul territorio. Un indizio in tale senso però si dà, ed è legato alla sempre più frequente consultazione di astrologi, cartomanti, pranoterapisti, ecc. Nel passaggio dalla magia alla razionalità ha svolto un ruolo estremamente importante la medicina. Non c’è da sorprendersi per questo se si pensa che i disturbi un tempo attribuiti alla fascinazione hanno avuto una costante caratterizzazione psichica e psicosomatica. L’avvento della medicina ha avuto dunque buon gioco nel farsi carico della domanda di cura in essi implicita. Si tratta senz’altro di un progresso, ma sarebbe ingenuo non considerare che, se la pratica medica non dà alcuno spazio ai principi magici, essa comunque utilizza le valenze psicologiche e simboliche che in passato hanno indotto le persone a rivolgersi alla magia. Questo aspetto è confermato dall’incidenza che ha l’effetto placebo nella pratica medica, se è vero che non meno del 20-30% dei miglioramenti e delle guarigioni sono attribuibili ad esso. Come un tempo la magia rappresentava il collettore di tutta una serie di bisogni frustrati che si traducevano in malessere, disturbi, sofferenza, ecc., così ancora oggi è la medicina a rappresentare un nuovo collettore, non meno destorificante della pratica magica. C’è dunque nell’uomo un bisogno radicale di protezione dal negativo dell’esistenza che si rivolge comunque verso la comunità, verso il socius, verso l’altro, e riesce, in forme più o meno razionali, ad assicurarsi una qualche soddisfazione. Nessuna civiltà potrà mai affrancare l’uomo da questo bisogno. Essa potrà solo rispondere ad esso in forme più o meno proprie e adeguate. 4. Un’ultima considerazione si impone. Le descrizioni che de Martino fornisce della fascinazione sono dense di riferimenti psicopatologici, al punto che il suo saggio si può leggere anche come una descrizione accurata sotto il profilo fenomenologico di varie forme di delirio (ipocondriaco, d’influenzamento, persecutorio, di possessione, ecc.). In effetti, una quota rilevante dei disturbi che in passato rappresentavano la domanda rivolta agli operatori magici aveva un rilievo psichiatrico. A differenza di quanto è avvenuto per disturbi meno seri (ipocondria, depressione mascherata, ecc.), che sono stati cooptati dall’ideologia e dalla pratica medica, la psichiatria non è riuscita a scalzare del tutto la magia. Non solo nel Sud d’Italia, ma anche al Centro e al Nord, le famiglie un cui congiunto sviluppa repentinamente una psicosi, usano ancora oggi, pur rivolgendosi allo psichiatra, consultare anche un mago. Ciò è dovuto in parte alla scarsa efficacia delle cure psichiatriche, e, in parte, all’impossibilità di credere che un’esperienza di vita sino allora normale possa precipitare nell’abisso della psicosi e della follia per una causa genetica rimasta sino allora latente o per qualche molecola chimica in eccesso o in difetto. Questa pratica persistente contrappone, all’ideologia psichiatrica, un’interpretazione più o meno inconsapevole che verte su di una causalità relazionale: il malocchio, la fattura, il demonio, ecc. E’ un paradosso, ma questa interpretazione, nonostante i suoi limiti, è più vicina alla verità di quella neopsichiatrica, il cui naturalismo nega che il bene e il male dell’uomo dipendono, in ogni loro espressione, dal rapporto con l’altro... |