In ricordo di C. Lévi-Strauss |
1. Il primo novembre si è spento, pochi giorni prima del centunesimo compleanno, C. Lèvi-Strauss. Il mio debito culturale nei confronti dello studioso francese è espresso sia nella mia biografia intellettuale sia in un articolo che risale al 1978 (http://www.nilalienum.it/Sezioni/Archivio/Scienza rimorso.html). In un certo senso, mi considero tra coloro che hanno usufruito del lavoro di Lévi-Strauss, per i quali vale l’affermazione tratta dal discorso che egli ha pronunciato in occasione dell’assegnazione del Premio Nonino: “Sarei l'ultimo a pensare che dai risultati che ho creduto di raggiungere consegua alcunché di definitivo. Le discipline sociali e umane non rientrano nelle scienze cosiddette "dure", dove le ipotesi possono essere rifiutabili. Nessuno fra noi potrà mai affermare che il livello in cui ha scelto di collocarsi è l'ultimo... Ho soltanto aspirato a render conto di fenomeni molteplici e complicatissimi in una maniera più economica, e più soddisfacente per l'intelletto, di quanto non si facesse prima. Ma con la certezza che questo stadio è provvisorio e che altri, migliori, gli succederanno. Mi basta sapere che il lavoro di tutta una vita non è stato completamente inutile, e che può servire da trampolino da cui altri prenderanno slancio... Per un uomo arrivato all'imbrunire della sua carriera, è confortante, anzi esaltante, sentirsi garantire che il suo insegnamento e i suoi scritti offrono ancora un tema di riflessione.” Lo strutturalismo, peraltro, di cui Lévi-Strauss si può ritenere il fondatore e il teorico più attento, e che negli anni ‘70 si configurò, ahimé, come una moda, orecchiata più che approfondita, appare ormai superato. Non è un caso che gli articoli di commemorazione sull’antropologo francese, tra cui quelli che riporto di seguito, pubblicati su Repubblica del 4 novembre 2009, non insistono sullo strutturalismo, bensì sull’umanesimo dell’autore (peraltro controverso se si tiene conto del suo sguardo da lontano). “Jean Daniel Addio a Lévi-Strauss il profeta dell' antropologia Senza cadere nell' equivoco di una cieca devozione, possiamo prendere atto della sorte riservata a Lévi-Strauss tenendo presente che in tutte le istituzioni culturali della Repubblica, egli era rispettato, idolatrato, considerato alla stregua di un monumento vivente. Che cosa gli si ascrive? Probabilmente un capolavoro letterario, Tristi Tropici (1955), che per un soffio non ottenne il premio Goncourt, tanto la magia della scrittura rendeva trascurabile il fatto che non si trattasse di un' opera di fantasia. Un libro con un incipit celebre quanto quello dei romanzi di Proust o di Camus: «Odio i viaggi e gli esploratori». Sappiamo che Lévi-Strauss fu professore al Collège de France, che fa parte dell' Accademia. Sappiamo che questo grande erudito ha studiato da vicino, sul campo, le abitudini di civiltà definite un tempo primitive. Basti pensare a Il pensiero selvaggio (1962). Per la società intellettuale Lévi-Strauss è colui che ha trovato in Montaigne, in Rousseau, in Bergson e in Mauss tutte le premesse del concetto di Antropologia strutturale (1958). Concetto che forse oggi alcuni potrebbero ritenere meno funzionale, ma che tuttavia ha rinnovato i n profondità tutta la antropologia francese. Lévi-Strauss è un maestro superato e al tempo stesso un maestro che nessuno è stato in grado di sostituire. Le confutazioni alle sue tesi sono sempre accompagnate da un riconoscimento dei suoi meriti. Nel vivo delle più stimolanti questioni d' attualità, il suo pensiero resta un punto fisso di riferimento. Meglio di altri, probabilmente, LéviStrauss ha saputo concettualizzare l'alterità, la differenza, il confronto, la genesi dell'Io dall' Altro. Comprendere l' altro, infatti, è possibile. Il diverso non è estraneo in senso assoluto. In lui è sempre possibile individuare un «inconscio strutturale» non molto dissimile dal nostro. Il pensiero selvaggio non è il pensiero dei selvaggi, bensì un pensiero non ancora addomesticato. Da ciò deriva quel sentore di nostalgia per il «buon selvaggio» caro a Rousseau. Lasciandosi alle spalle tutta una tradizione, Lévi-Strauss ha fatto comprendere i meccanismi del pensiero razionale nella mentalità degli ex-primitivi. Si è trattato di una rivoluzione che non poteva che avere molteplici ripercussioni nella storia delle idee e nella scienza dei costumi, così come nel pensiero politico: «Ciò che noi chiamiamo Rinascimento segnò l' effettiva nascita del colonialismo e dell'antropologia. Tra l' uno e l' altra, rivali sin dalla loro comune genesi, è andata avanti per quattro secoli una disputa ambigua». Lévi-Strauss è colpito da un passaggio dei Saggi nei quali Montaigne descrive i selvaggi della costa brasiliana mentre si cibano delle carni dei loro nemici. Montaigne li giudica superiori ai fanatici protagonisti delle guerre di religione, che uccidono i nemici e li tagliano a pezzi non per mangiarne la carne, ma per gettarla in pasto ai maiali. Stupefacente attualità di Montaigne! Se ogni uomo racchiude in sé l' essenza della propria condizione umana, né tra gli esseri umani, né tra i vari popoli è più ammissibile gerarchia alcuna. Tutto ha avuto inizio dalla domanda «che cosa ne so io?» di Montaigne, e tutto finisce con quella di Rousseau «chi sono io?». Claude Lévi-Strauss rende omaggio ovunque gli sia possibile a Jean Jacques Rousseau, «fondatore della scienza dell'Uomo». Cita molto frequentemente il Discorso sull'origine e sui fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini. Così Rousseau scrive nella sua IV lettera a M. de Malesherbes: «Ho una profonda avversione per gli Stati che dominano gli altri. Detesto le Grandi potenze, esecro i loro Stati». Claude Lévi-Strauss si chiede poi se non si addica prima di tutto all'uomo quest'altra dichiarazione: «Hai presunto di poter dominare gli altri esseri viventi e di godere di un status diverso, consentendo che i meno degni tra gli uomini si avvalessero del medesimo privilegio nei confronti di altri uomini. In una società civile non potrebbe esserci giustificazione alcuna per l'unico crimine umano realmente imperdonabile, che consiste nel credersi permanentemente o temporaneamente superiori e nel trattare gli uomini come oggetti, che ciò si verifichi indifferentemente in nome della razza, della cultura, del progresso, di un mandato ufficiale o semplicemente di un pretesto contingente». Contro il colonialismo non è mai stato istruito un processo più innegabilmente implacabile di ciò che Lévi-Strauss ha proclamato basandosi sugli scritti di Montaigne e di Rousseau. La ricchezza di pensiero di Lévi-Strauss è ben lungi dall'esaurirsi nella mera riflessione sulla differenza. Confesso, da parte mia, che essendomi dovuto occupare per motivi professionali dei sussulti, delle convulsioni e dei palpiti del colonialismo - così come delle lotte emancipatrici dei colonizzati - ho spesso fatto ricorso con profonda gratitudine a Lévi-Strauss. La globalizzazione da una parte e il caos dei flussi migratori dall'altro hanno alterato gli studi antropologici che in altri tempi avevano reclamato - tanto quanto invece oggi ricusano - un'immutabilità e addirittura una essenzializzazione del loro oggetto. Lévi-Strauss ne è stato consapevole da subito e a questa prospettiva che compare nei suoi ultimi saggi ha infuso il suo punto di vista, non potendo emendare la sua opera d' esordio. Ma sull'indispensabile varietà delle culture, sul dovere di tutelarle, sulla specificità più o meno omicida del progresso e sullo scontro tra civiltà, sulla convinzione che le vittime possono diventare aguzzini e i colonizzati colonizzatori, sulla constatazione che popoli emancipati possono opprimere le loro minoranze, Claude Lévi-Strauss ha dimostrato di avere buon senso e assoluta indipendenza di spirito. Quando le civiltà, le cui culture siano state aggredite prima di tutto dalla modernità, evolvono dall'emancipazione all’espansione, allora possono diventare pericolosamente razziste quanto le altre. E' esistita una tendenza «strutturalista», scuola cui si opinava appartenessero Claude LéviStrauss, Michel Foucault, Roland Barthes e Jacques Lacan. Tuttavia Lévi-Strauss non si è mai sentito a suo agio in questa classificazione e dichiarò che gli unici strutturalisti con i quali voleva che lo si associasse erano Georges Dumézile di Emile Benveniste. Ciò non toglie che la sua più importante opera si intitola Le strutture elementari della parentela (1949) e che la si compulsa ancor oggi. A grandi linee, il suo concetto centrale si basa su un' intuizione: quella secondo cui il funzionamento delle società e perfino delle culture si regge su strutture inconsce. «Qualsiasi cultura può essere considerata come un insieme di sistemi simbolici, al primo livello dei quali si situano il linguaggio, le prassi matrimoniali, i rapporti economici, l' arte, la scienza, la religione» (Sociologia e Antropologia, 1960). Si tratta forse di un tentativo «brillante ma non chiarificante» per prospettare una spiegazione globale della vita degli uomini in società? Possiamo affermarlo nella misura in cui, come abbiamo visto, Lévi-Strauss è arrivato a convincersi che un certo razionalismo cartesiano difficile da definire, da trovare e da decifrare sia comune a tutti i popoli, e che sia esso a spiegarne i comportamenti e le istituzioni. E' questa sua convinzione, è il modo in cui egli la propugna che susciterà le discussioni più appassionate, le critiche più intransigenti. Ancora poco convinti della validità delle confutazioni, già alcuni ricercatori pretendono di aver scoperto una differenza radicale tra le società che utilizzano la scrittura e le altre, come se l'invenzione della scrittura avesse trasformato in selvaggi incomprensibili tutti coloro che non hanno potuto avervi accesso. Stupisce che delle grandi menti abbiano sottovalutato il fatto che le capacità intellettuali possono essere le medesime, sia prima sia dopo la loro espressione scritta. Vorrei aggiungere che ciò che coinvolge in Lévi-Strauss pensatore non è soltanto il pensiero, ma la sua prodigiosa sensibilità. Che si tratti di arte, di paesaggi, di letture, della sua attitudine ad esprimere un «fremito d' ammirazione» davanti a delle opere, ci si trova sempre e in ogni caso al cospetto di una sorta di maestria, degna dei grandi classici. E qui occorre tornare a ciò da cui abbiamo iniziato, ovvero Tristi Tropici. Avido di comprendere l' essenza di una verità che «trapelava già nella sollecitudine con la quale era intenta a dissimularsi», egli passeggia individuando in una specie d' estasi le incrinature di parecchi millenni: «Mi sento intriso di un' intelligibilità profonda, dentro la quale i secoli e gli spazi riecheggiano, comunicando tra loro con un linguaggio finalmente comune». Occorre altresì citare le pagine eccezionali sulla musica, alla quale Claude Lévi-Strauss accorda un' importanza etnologica altrettanto considerevole di quella che egli accorda alla cucina. Decisamente, l' uomo comune di cui sopra ha ragione senza saperlo: tutto era già contenuto in Tristi Tropici. L' ultima volta che ho visto Claude Lévi-Strauss - non molto tempo fa - mi ha citato Rousseau, ancora lui, che diceva che col tempo le idee diventano sensazioni. Le sue erano idee pessimiste su un mondo votato ad una lenta ma indiscutibile autodistruzione. Tuttavia leggeva Ronsard, instaurava paragoni con Mallarmé, e quando l' età gli ha suggerito di prendere commiato da tutte le vanità, si è sentito come ispirato da una ragione «cosmica e non mistica» di sopravvivenza.” (Traduzione di Anna Bissanti) “Marino Niola Le lezioni di un maestro che reinventava il mito Austero, secco, elegantemente severo. Il tratto sempre cortese, la retorica alta e distaccata, l'ironia tagliente e l'erudizione sterminata erano quelli del grande classico. E Claude Lévi-Strauss classico lo era fino in fondo, perfino nel corpo. La prima volta che lo vidi mi apparve come una stupefacente reincarnazione di quei grandi moralisti che amava spesso citare nei suoi libri e nelle sue affollatissime lezioni al Collège de France. Come la Bruyère, come l'amato Montaigne. Apparentemente distante e disincantato eppure pronto ad aprirsi improvvisamente a digressioni personali, vere e proprie confessioni in stile rousseauiano, sofferenti, veementi, persino violente. Sideralmente distante da ogni forma di compagnonnage con allievi e collaboratori la sua impeccabile formalità metteva spesso a disagio i suoi interlocutori. Il grande antropologo americano Marshall Sahlins mi raccontò che quando era in visita a Parigi temeva moltissimo le cene in casa di Lévi-Strauss poiché la raffinatezza proustiana del maestro lo intimoriva. Tanto che al primo invito bevve un whisky per sciogliersi. Evidentemente si sciolse troppo e il risultato fu un'atmosfera gelidamente silenziosa. Eppure era questo stile d'altri tempi ad affascinare chi lo ascoltava. E perfino chi lo leggeva. Nessuno si rialza indenne da una lettura di Lévi-Strauss, diceva spesso Yvan Simonis, un suo allievo belga che nel 1968 gli dedicò un libro appassionato e concitato. In quegli anni i corsi di Lévi-Strauss erano incredibilmente affollati da giovani che accorrevano da tutte le parti del mondo per ascoltare la voce gnomica dell'uomo che reinventava in diretta la scienza dei miti davanti al suo pubblico incantato. Come un Orfeo ammaliatore, attraversato dalla poeticità delle sue stesse parole, posseduto dalla materia incandescente di quei racconti e al tempo stesso capace di farla colare negli stampi rigorosi di una logica di stringente razionalità. L'effetto era una miscela straordinariamente suggestiva di ragione e passione, un intreccio irripetibile fra Immanuel Kant e Giambattista Vico. È la forza del suo pensiero, l'urgenza della sua interrogazione filosofica che ha consentito a Claude Lévi-Strauss quella rivoluzione scientifica, ma anche esistenziale che lo ha proiettato nell'Olimpo dei maîtres à penser del Novecento. Per aver trasformato la conoscenza dell'Altro, lo studio delle differenze culturali, in coscienza critica dell'Occidente. In un nuovo modo di pensare l'uomo. Facendo così dell'antropologia il fondamento di una critica radicale dell'Occidente e dei pericoli della mondializzazione che si profilava. L'uomo che ha inventato l'antropologia ha incarnato in pieno l'ansia delle generazioni del dopoguerra di spezzare gli angusti schemi eurocentrici che identificavano la civiltà occidentale con la civiltà tout court. Centro e motore dell'umanità. In questo senso l'autore di Tristi Tropici si può considerare il Copernico delle scienze umane. Nessun antropologo ha esercitato un'influenza altrettanto vasta al di fuori della propria disciplina. Dalla filosofia alla storia, dalla politica alla critica letteraria, dalla linguistica alla sociologia, dalla poesia alla psicanalisi, dall'arte alla musica contemporanea, l'opera di Lévi-Strauss è ricaduta come una pioggia benefica su tutti questi campi dando loro nuova linfa. Quando apparvero le Strutture elementari della parentela nel 1949 Simone de Beauvoir che fu la prima a recensire il libro, lo salutò come una pietra miliare nella conoscenza dell'uomo. E artisti come Max Ernst, come André Breton, come Luciano Berio hanno tradotto il pensiero di Lévi-Strauss in pittura, in poesia, in musica. Capolavori come Tristi Tropici, Il pensiero selvaggio, Antropologia strutturale, nascono da questo personalissimo mélange, in buona parte inimitabile perché frutto di un talento eterodosso e senza confini. Che ha sempre portato Lèvi-Strauss a pensare in grande. Senza tuttavia perdersi nell'astrazione pura che parla dell'uomo con la maiuscola dimenticando gli uomini in carne ed ossa. È proprio questa irripetibile alchimia di pathos e logos, teoria e poesia, rigore e fantasia la vera lezione di Claude Lévi-Strauss.” “Umberto Galimberti La fuga dall'occidente alla ricerca dell'altro Tutto incominciò con una telefonata alle 9 di mattina di una domenica di autunno del 1934 quando Célestin Bouglé, rendendosi interprete di «un capriccio un po' perverso» di Georges Dumas, chiede a Claude Lévi-Strauss, allora ventiseienne, se era disposto a partire per il Brasile su incarico di una commissione incaricata di organizzare l'università di São Paulo. Lévi-Strauss, che allora insegnava al liceo di Laon, accetta senza esitazione e parte per il Brasile dove rimane fino al 1939. In questi cinque anni, oltre alla cattedra di sociologia che gli era stata affidata, Lévi-Strauss compie spedizioni etnografiche nel Mato Grosso, nell'Amazzonia meridionale, entra in contatto con la popolazione dei Caduvei, dei Bororo, dei Nambikwava, dei Tupi Kawahib, e raccoglie tutto il materiale che poi ordinerà nei suoi libri che, nel loro complesso, costituiscono il corpus più significativo e filosoficamente più interessante dell'antropologia del Novecento. Mai parlar male della filosofia, perché, anche in chi, dopo averla frequentata, la disprezza, la filosofia lavora come un'inquietudine che rode l'anima finché non le si dà espressione. Quello che sarà il più grande antropologo del Novecento attribuisce la delusione del suo apprendistato speculativo al fatto che la filosofia è sterile come disciplina che si esprime come système, mentre può diventar feconda se si rivolge a quello che Lévi-Strauss chiama concreto, come aveva fatto Marx che Lévi-Strauss aveva letto a diciassette anni. La sua opposizione al "sistema" si rivolge anche a tutti quegli antropologi che avevano prediletto le ricerche systématisantes, mentre la vera ricerca, se vuole evitare conclusioni dogmatiche, dovrà essere ricerca "sur le terrain" come quella praticata da Marcel Mauss allievo e nipote di E. Durkheim. Ma non sono mai le esigenze puramente teoriche che inducono qualcuno a cambiar cielo e a cambiar terra. Quando le stelle non hanno più la stessa disposizione con cui appaiono nella terra d'origine, spontanea sorge quella domanda che Lévi-Strauss si pone dopo un'avventurosa peregrinazione nelle foreste del Mato Grosso: «Che cosa siamo venuti a fare qui? Con quale speranza? A quale fine? Avevo lasciato la Francia da quasi cinque anni, avevo abbandonato la mia carriera universitaria; la mia decisione esprimeva una incompatibilità profonda nei confronti del mio gruppo sociale da cui, qualunque cosa accadesse, avrei dovuto isolarmi sempre di più». Alla base di queste domande e del malaise che le promuove c'è un continuo ed estenuante interrogarsi sul senso e sul destino della civiltà occidentale, delle sue credenze e dei suoi valori, tutti imperniati su quell'orgoglio eurocentrico incapace di percepire e di comprendere l'esistenza dell'Altro, non semplicemente teorizzata a livello filosofico, ma toccata concretamente con mano nella forma di altri popoli, altre culture, altre civiltà. Agli "antipodi" dell'Occidente Lévi-Strauss vede: «Il segno di una saggezza che i popoli selvaggi hanno spontaneamente praticata, mentre la ribellione moderna è la vera follia. Essi hanno spesso saputo raggiungere col minimo sforzo la loro armonia mentale. Quale logorio, quale irritazione inutile ci risparmieremmo se accettassimo di riconoscere le condizioni reali della nostra esperienza umana e pensassimo che non dipende da noi liberarci interamente dai suoi limiti e dal suo ritmo?». Quella "antitesi", che aveva spinto Lévi-Strauss ad abbandonare l'Europa, potrebbe ora essere ricucita dalla sua opera se appena siamo capaci di scorgervi, al di là dello spirito di ricerca che l'ha promossa, l'intenzione profonda che l'ha generata e che potremmo riassumere nel concetto che, per quanto lontane siano le latitudini, e diversi i cieli, gli uomini, se nessuno di essi pensa se stesso al centro del mondo, sono tra di loro molto simili, e perciò possono incominciare a parlare e a dirsi molte più cose di quante non se ne siano dette nel corso della loro storia.” 2. Solo Jean Daniel, dunque, fa fugacemente riferimento allo strutturalismo. Il ricordo di Lévi-Strauss sembra vincolato alla contestazione dell’etnocentrismo occidentale, alla scoperta dell’alterità e all’attribuzione ad ogni essere umano di uguali capacità mentali, da cui discende la loro dignità. Penso che sia un po’ poco. Lévi-Strauss stesso, peraltro, riconducendosi a Rousseau e a Montaigne, rinuncia ad assegnare a se stesso il primato della scoperta dell’alterità. A ragione, perché, riguardo a tale scoperta, di precursori ce ne sono stati tanti nella storia, a partire dal gesuita Bartolomeo de Las casas, che è stato il primo a puntare il dito contro l’inciviltà dell’Occidente. Sarebbe più opportuno, a mio avviso, tentare di restaurare e di valorizzare lo strutturalismo di Lévi-Strauss, evidenziandone due aspetti di grande interesse ancora oggi. Tutti gli evoluzionisti, ormai, sono d’accordo con il fatto che, dall’epoca della sua comparsa (150-100mila anni fa), il cervello umano non ha riconosciuto cambiamenti strutturali di rilievo. Ciò significa che la natura umana (identificabile appunto con le potenzialità cerebrali) è identica in tutti gli esseri umani che si sono da allora succeduti sulla faccia del pianeta. Le differenze tra le diverse culture sono dunque da ricondurre al diverso uso che gli uomini hanno fatto di quelle potenzialità in rapporto alle circostanze ambientali con cui si sono confrontati e all’attrezzatura tecnologico-culturale di cui disponevano. Se questo è vero, la ricerca di ciò che vi è di comune nel modo in cui gli uomini interpretano la loro realtà e il mondo in cui sono immersi (naturale per alcuni versi, artificiale, cioè da essi stessi prodotto, per un altro), è assolutamente legittima. Del pari legittima è l’idea, espressa in Tristi Tropici (il Saggiatore, Milano 1999), secondo la quale tutti i fenomeni mentali potrebbero essere ricondotte a “famiglie” sistemiche: “L'insieme dei costumi di un popolo è contrassegnato sempre da uno stile; questo forma dei sistemi. Sono persuaso che questi sistemi non esistono in numero illimitato, e che le società umane, come gli individui - nei loro giuochi, nei loro sogni, nei loro deliri - non creano mai in modo assoluto, ma si limitano a scegliere certe combinazioni in un repertorio ideale agevolmente ricostruibile. Facendo l'inventano di tutti i costumi osservati, di tutti quelli immaginati nei miti, di quelli evocati nei giuochi dei fanciulli e degli adulti, dei sogni degli individui sani o malati e dei comportamenti psicopatologici, si giungerebbe a comporre una specie di quadro periodico come quello degli elementi chimici, in cui tutti i costumi reali o semplicemente possibili apparirebbero raggruppati in famiglie, e in cui non avremmo più che da riconoscere quelli che le società hanno effettivamente adottato.” (p. 174) A riguardo, Lévi-Strauss ha avanzato un’ulteriore ipotesi: quella per cui l’uso della mente, in ogni tempo e in ogni luogo, non può prescindere da vincoli legati a leggi dello spirito. Sarebbero queste leggi a strutturare l’esercizio del pensiero degli esseri umani. Il riferimento allo spirito è stato un autentico lapsus (forse provocatorio) da parte di Lévi-Strauss, che si è sempre dichiarato ateo. Egli intendeva semplicemente fare riferimento all’attività della mente considerata nella sua totalità, gran parte della quale agisce a livello inconscio. Oggi è difficile non riconoscere nell’impostazione di Lèvi-Strauss il rifiuto di considerare la mente come una tabula rasa, che, all’epoca in cui egli ha avviato le sue riflessioni, era la teoria di riferimento della psicologia comportamentista. Nell’ottica della psicologia contemporanea, che ormai ha accettato ufficialmente il ruolo dell’inconscio nell’attività mentale individuale, la provocazione di Lèvi-Strauss sembra meno peregrina di quanto si sia pensato dopo l’avvento, negli anni 80 del secolo scorso, del pensiero debole. Anche le ipotesi sostenute dagli storici che fanno capo alla scuola de Les Annales, con il loro riferimento all’inconscio sociale, recinto mentale entro il quale sentono, pensano e agiscono gli appartenenti ad una stessa etnia culturale, non sono affatto incompatibili con l’ipotesi levistraussiana. Definendo struttural-dialettica la teoria psicopatologica che ho messo a fuoco da oltre trent’anni a questa parte, ho azzardato l’integrazione tra due dimensioni apparentemente contraddittorie. Una struttura, infatti, comunque intesa, è sincronica, mentre la dialettica non può riguardare che fenomeni diacronici, che hanno un’evoluzione nel corso del tempo. Tale azzardo, peraltro, è da ricondurre alla teoria dei bisogni intrinseci, secondo la quale lo sviluppo della personalità è programmato geneticamente da due bisogni - di appartenenza/integrazione sociale e di opposizione/individuazione - che servono rispettivamente a favorire la replicazione della cultura del gruppo di appartenenza e a promuovere la differenziazione dell’individuo in nome delle sue attitudini personali e della sua vocazione ad essere. Lo sviluppo dei bisogni intrinseci, pur programmato geneticamente, è fortemente influenzato dall’interazione con l’ambiente socio-culturale. Esso, dunque, ha uno svolgimento diacronico. Il funzionamento della personalità peraltro dipende dal grado di integrazione o di scissione tra i bisogni stessi e le substrutture che su di essi si edificano - il Super-io e l’Io antitetico. Il grado di integrazione o di scissione si esprime, dunque, sul piano sincronico: esso consente di cogliere la struttura dinamica della personalità attraverso le sue manifestazioni comportamentali e i vissuti soggettivi. E’ evidente, dunque, il riferimento levistraussiano, come pure quello marxiano, della teoria struttural dialettica. Aggiungerei però un’osservazione di particolare rilievo. Lévi-Strauss ha operato una distinzione tra culture fredde, non evolutive, e culture calde, ad elevato tasso evolutivo, che è stata contestata dagli antropologi successivi, ma che io ritengo conservi un suo valore. Le culture fredde sono culture superegoiche, nel senso che esse si attengono alle tradizioni degli avi, che vengono sacralizzate al punto che non è lecito rinnovarle e tradirle in alcun modo. Molte culture primitive, di fatto, sono letteralmente irretite dal culto degli avi. Anche culture contemporanee, come l’Islam, però, rientrano in questo ambito. Esse, interagendo con il mondo occidentale, sono continuamente pervase da spinte verso la modernizzazione. Al tempo stesso, l’integralismo islamico richiama di continuo i fratelli musulmani a rispettare le leggi di Allah, così come esse sono state comunicate a Maometto oltre tredici secoli fa. Anche le culture calde, come per esempio quella occidentale, non sono del tutto affrancate dalle tradizioni, che si esprimono nella cultura popolare e nel senso comune. Esse però riconoscono una dinamica evolutiva nettamente superiore alle culture fredde, perché, almeno a livello filosofico e scientifico, le tradizioni e il senso comune sono messi di continuo in discussione. La messa in discussione è legata a pochi individuo il cui pensiero innovativo può, alla lunga incidere, sulla mentalità collettiva. Un esempio importante di questo aspetto è legato alla rivoluzione copernicana, che la Chiesa ha vanamente e duramente contrastato in nome del richiamo ai testi biblici, dovendo infine cedere all’evidenza scientifica. Penso che l’analisi di Lévi-Strauss delle culture fredde e di quelle calde rappresenti una conferma suggestiva della teoria dei bisogni intrinseci e del peso che essi hanno esercitato nello sviluppo delle culture umane. Il dispiegamento della diversità culturale a partire da una comune matrice psicobiologica e i vincoli che tale matrice pone a tale dispiegamento è, forse, l’insegnamento più prezioso di Lévi-Strauss, che può ancora oggi essere valorizzato chiedendosi in quale modo possa sopravvenire il riconoscimento universale di quella matrice e in quale modo tale riconoscimento, avvicinando le culture e consentendo ad esse di comunicare, possa, al tempo stesso, promuovere al loro interno il pieno dispiegamento dell’individuazione. L’Io senza l’Altro (e le tradizioni che esso veicola) è un non senso. Posta, però, la genesi sociale dell’Io, è giusto che la cultura riconosca il suo diritto di svilupparsi secondo linee vocazionali e originali. Non è certo questo che avviene nella nostra cultura, laddove il culto dell’individualità coincide troppo spesso con un modo di essere anonimo, conforme alle norme convenzionali e alle mode, che il soggetto vive illusoriamente come espressivo della sua identità unica e irripetibile.
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