Antologia commentata dei Tristi Tropici di C. Lèvi-Strauss

 

1.

L’esordio famoso contiene un paradosso il cui significato è una delle chiavi del libro. L’odio di Lévi-Strauss per i viaggi e gli esploratori denuncia la pratica degli etnologi che si limitano a registrare e a raccontare tutto ciò che di folkloristico e aneddotico può essere reperito in culture diverse dalla nostra:

“Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni. Ma quanto tempo per decidermi! Sono passati quindici anni da quando ho lasciato per l'ultima volta il Brasile e durante tutto questo tempo ho progettato spesso di metter mano a questo libro; ogni volta una specie di vergogna e di disgusto me l'ha impedito. Suvvia! Occorre proprio narrare per disteso tanti particolari insipidi e avvenimenti insignificanti? Nella professione dell'etnografo non c'è posto per l'avventura: questa non costituisce che un impaccio; incide sui lavoro effettivo coi peso di settimane o mesi perduti in cammino, di ore oziose mentre l'informatore se ne va per i fatti suoi; della fame, della fatica, a volte della malattia, e, sempre, di quelle mille corvées che logorano le giornate in pura perdita, e riducono la pericolosa vita nel cuore della foresta vergine a una specie di servizio militare. Che occorrano tanti sforzi e inutili spese per raggiungere l'oggetto dei nostri studi, non dà alcun valore a ciò che si dovrebbe considerare piuttosto come l'aspetto negativo del nostro mestiere. Le verità che andiamo a cercare così lontano valgono soltanto se spogliate da quelle scorie. Certo, si possono consacrare sei mesi di viaggio, di privazioni e di avvilente stanchezza al reperimento (che richiederà qualche giorno e, a volte, qualche ora) di un mito inedito, di un nuovo istituto matrimoniale, di un elenco completo di nomi di clan, ma questo residuato della memoria (...alle 6,30 del mattino entrammo nella rada di Recife mentre i gabbiani stridevano e le barche dei mercanti di frutta esotica facevano ressa attorno allo scafo... ), un ricordo così esiguo merita che io prenda la penna per fissarlo?”

Tuttavia, questo genere di racconti riscuote un successo che per me rimane incomprensibile. L'Amazzonia, il Tibet e l'Africa invadono le vetrine sotto forma di libri di viaggio, resoconti di spedizioni e album di fotografie, dove la preoccupazione dell'effetto è troppo preponderante perché il lettore possa valutare la testimonianza che gli è offerta. Anziché sollecitato nel suo spirito critico, il lettore richiede sempre più questo genere di cibo e ne ingurgita quantità prodigiose.

E un mestiere, oggi, essere esploratori: mestiere che non consiste, come si potrebbe credere, nello scoprire, dopo uno studio prolungato, fatti rimasti ignoti, ma nel percorrere un numero considerevole di chilometri raccogliendo immagini fisse o animate, preferibilmente a colori, grazie alle quali si possa per parecchi, giorni di seguito affollare una sala di ascoltatori, a cui le cose più ovvie e banali sembreranno tramutarsi miracolosamente in rivelazioni per il solo motivo che l'autore, invece di compilarle senza muoversi, le avrà santificate con un percorso di 20.000 chilometri.

Che cosa ascoltiamo in quelle conferenze e che cosa leggiamo in quei libri? L'inventario delle casse trasportate, le malefatte del cagnolino di bordo, e, commisti agli aneddoti, slavati frammenti di informazioni che da secoli si trascinano in tutti i manuali e che una dose poco comune di impudenza, per quanto in giusto rapporto con l'ingenuità e l'ignoranza dei consumatori, non si perita di presentare come una testimonianza, o addirittura come una scoperta originale.” (p. 13-14)

Lévi-Strauss ha una concezione radicale e rigorosa dell’antropologia, che impone di trascendere la superficie degli eventi per coglierne il significato profondo sia culturale che storico. Egli intende l’antropologia come un assiduo interrogarsi sull’umano nelle varie forme in cui esso si è dispiegato nel corso del tempo. E’ questa concezione elevata, filosofica e scientifica al tempo stesso, che gli consente di riportare infiniti episodi apparentemente poco significativi senza cadere nell’aneddotica che egli stigmatizza.

Un esempio eccellente di questo modo di guardare la realtà è legato al viaggio in virtù del quale, nel 1941, Lévi-Strauss riesce fortunosamente a scampare al campo di concentramento cui lo destina il suo essere ebreo. Il viaggio è infinitamente disagiato rispetto a quelli lussuosi già effettuati come studioso a partire dal 1935. Tra i 350 esuli, scaricati dal regime di Vichy e ammassati su di un piccolo vapore privo di ogni confort, ci sono André Breton e Victor Serge. Un’annotazione che riguarda quest’ultimo dà la misura dello spirito critico di Lévi-Strauss:

“il suo passato di compagno di Lenin mi intimidiva, e nello stesso tempo provavo la più grande difficoltà a conciliarlo col suo aspetto che ricordava piuttosto una vecchia rigida zitella d'altri tempi. Quel viso glabro, quei tratti fini, quella voce chiara, uniti a maniere affettate e prudenti, erano indice di quel carattere quasi asessuato che dovevo più tardi ritrovare presso i monaci buddisti della frontiera birmana, lontanissimo dal temperamento maschio e dalla esuberanza vitale che la tradizione francese associa sempre alle attività cosiddette sovversive. Il fatto è che tipi culturali che si riproducono con sufficiente somiglianza in ogni società, perché costruiti intorno a opposizioni molto semplici, vengono poi utilizzati da ogni gruppo per assolvere funzioni sociali differenti. Quello di Serge aveva potuto attuarsi in Russia, in una carriera rivoluzionaria, ma che cosa sarebbe stato egli altrove? Senza dubbio le relazioni fra le diverse società sarebbero molto facilitate se fosse possibile, per mezzo di schemi comparati, stabilire un sistema di equivalenze fra i modi di utilizzazione di tipi umani analoghi, per compiere funzioni sociali diverse. Se non ci limitassimo, come oggi facciamo, a confrontare medici con medici, industriali con industriali, professori con professori, ci accorgeremmo forse che esistono corrispondenze più sottili fra gli individui e i loro compiti.” (p. 22)

C’è già molto dello strutturalismo in una notazione del genere, che implica un gioco combinatorio tra tipologie della personalità e diversi sistemi sociali.

Di notazioni del genere, ricche di intuizioni che spesso rimangono in sospeso, il libro è fin troppo ricco. Se esso ha un limite è la sua eccessiva densità, che però è incorniciata entro una visione del mondo che viene esposta nelle prime pagine e diventa sempre più profonda sino alle straordinarie pagine finali.

La visione del mondo esposta nelle prime pagine è marcatamente critica nei confronti dell’Occidente e della sua volontà di potenza:

“Poiché avevo rinunciato a rinnovare il mio contratto con l'Università di São Paulo per dedicarmi a una lunga campagna nell'interno del paese, ero partito qualche settimana prima dei miei colleghi imbarcandomi sul battello che doveva riportarmi in Brasile; per la prima volta, dopo quattro anni, ero dunque l'unico universitario a bordo; era anche la prima volta che c'erano molti passeggeri; uomini d'affari stranieri, ma soprattutto l'effettivo al completo di una missione militare che si recava al Paraguay. La traversata familiare era divenuta irriconoscibile, come pure l'atmosfera un tempo così serena del piroscafo. Quegli ufficiali e le loro mogli scambiavano un viaggio transatlantico per una spedizione coloniale, e il servizio d'istruttori presso un esercito, tutto sommato, molto modesto, per l'occupazione di un paese conquistato, alla quale si preparavano, moralmente almeno, sul ponte trasformato in piazza d'armi, facendo sostenere la parte d'indigeni ai passeggeri civili. Questi ultimi non sapevano più come schivare un'insolenza rumorosa al punto da provocare un vero malessere persino sul ponte di comando. L'atteggiamento del capo della missione era ben diverso da quello dei suoi subordinati; sia lui che sua moglie erano due persone riservate e cortesi; mi abbordarono un giorno nell'angolo meno frequentato dove tentavo di sfuggire al fracasso, s'informarono dei miei lavori, dell'oggetto della mia missione e seppero, con qualche allusione, farmi comprendere la loro posizione di chiaroveggenti ma impotenti testimoni. Il contrasto era così evidente che sembrava nascondesse un mistero; tre o quattro anni più tardi, l'incidente mi tornò in mente, avendo trovato sui giornali il nome di questo ufficiale superiore la cui posizione personale era davvero paradossale.

Fu allora che per la prima volta cominciai a capire ciò che, in altre regioni del mondo, circostanze ugualmente demoralizzanti mi hanno poi definitivamente insegnato Viaggi, scrigni magici pieni di promesse fantastiche, non offrirete più intatti i vostri tesori. Una civiltà proliferante e sovreccitata turba per sempre il silenzio dei mari. Il profumo dei tropici e la freschezza degli esseri sono viziati da una fermentazione il cui tanfo sospetto mortifica i nostri desideri e ci condanna a cogliere ricordi già quasi corrotti.

Oggi che le Isole Polinesiane, soffocate dal cemento armato, sono trasformate in portaerei pesantemente ancorate al fondo dei Mari del Sud, che l'intera Asia prende l'aspetto di una zona malaticcia e le bidonvilles rodono l'Africa, che l'aviazione commerciale e militare viola l'intatta foresta americana o melanesiana, prima ancora di poterne distruggere la verginità, come potrà la pretesa evasione dei viaggi riuscire ad altro che a manifestarci le forme più infelici della nostra esistenza storica Questa grande civiltà occidentale, creatrice delle meraviglie di cui godiamo, non è certo riuscita a produrle senza contropartita. Come la sua opera più famosa, pilastro sopra il quale si elevano architetture d'una complessità sconosciuta, l'ordine e l'armonia dell'Occidente esigono l'eliminazione di una massa enorme di sottoprodotti malefici di cui la terra è oggi infetta. Ciò che per prima cosa ci mostrate, o viaggi, è la nostra sozzura gettata sui volto dell'umanità.

Capisco allora la passione, la follia, l'inganno dei racconti di viaggio. Essi dànno l'illusione di cose che non esistono più e che dovrebbero esistere ancora per farci sfuggire alla desolante certezza che 20.000 anni di storia sono andati perduti. Non c'è più nulla da fare: la civiltà non è più quel fragile fiore che, per svilupparsi a fatica, occorreva preservare in angoli riparati di terreni ricchi di specie selvatiche, indubbiamente minacciose per il loro rigoglio, ma che permettevano anche di variare e rinvigorire le sementi. L'umanità si cristallizza nella monocultura, si prepara a produrre la civiltà in massa, come la barbabietola. La sua mensa non offrirà ormai più che questa vivanda.

Un tempo si rischiava la vita nelle Indie o in America per conquistare beni che oggi sembrano illusori: legna da bruciare (da cui «Brasile»); tintura rossa o pepe che alla corte di Enrico IV era considerato a tal punto una ghiottoneria che usavano tenerlo nelle bomboniere e masticarlo a grani. Quelle scosse visive e olfattive, quel gioioso calore per gli occhi, quel bruciore squisito per la lingua, aggiungevano un nuovo registro alla gamma sensoriale di una civiltà che non si era ancora resa conto della sua scipitezza. Diremo allora che, per un doppio rovesciamento, i nostri moderni Marco Polo riportano da quelle stesse terre, questa volta sotto forma di fotografie, libri e resoconti, le spezie morali di cui la nostra società prova un acuto bisogno sentendosi sommergere dalla noia?

Un altro parallelismo mi sembra ancora più significativo. Questi moderni condimenti sono, che lo si voglia o no, falsificati; non certo perché la loro natura sia puramente psicologica, ma perché, per quanto onesto possa essere il narratore egli non può più presentarceli sotto una forma autentica. Per metterci in condizione di poterli accettare è necessario, mediante una manipolazione che presso i più sinceri è soltanto inconscia, selezionare e setacciare i ricordi e sostituire il convenzionale al vissuto. Apro i libri di questi esploratori: trovo ad esempio che certe tribù mi vengono descritte da loro come ancora selvagge e conservanti fino al momento attuale gli usi di non so quale umanità primitiva, messa in caricatura in pochi capitoli buttati giù alla meglio; mentre le stesse tribù io le avevo analizzate per settimane intere della mia vita di studente, annotando opere che ancora cinquant'anni fa, e talvolta anche più recentemente, uomini di scienza hanno dedicato alloro studio, prima che il contatto con i bianchi e le epidemie susseguenti non le avessero ridotte a un pugno di miserabili sbandati. Prendiamo un altro gruppo, che dicono sia stato scoperto e studiato in quarantotto ore da un viaggiatore adolescente: era stato invece soltanto intravisto (il che non è trascurabile) durante uno spostamento fuori del suo territorio, in un accampamento temporaneo, ingenuamente preso per un villaggio permanente. E sono state scrupolosamente trascurate le vie d'accesso che avrebbero rivelato l'esistenza della Missione, da 20 anni in relazione continua con gli indigeni, la piccola linea di navigazione a motore che penetra nel più profondo del paese, e di cui l'occhio allenato percepisce subito la presenza da piccoli particolari fotografici, poiché l'inquadratura non sempre era riuscita a evitare i bidoni arrugginiti in cui questa umanità vergine cucinava.

La vanità di queste pretese, la credulità ingenua che le accoglie e nello stesso tempo le provoca, il successo infine che sanziona tanti sforzi inutili (se non in quanto contribuiscono a estendere il deterioramento che cercano d'altro canto di dissimulare) tutto ciò implica tanto negli autori che nel loro pubblico, delle forze psicologiche potenti che lo studio di certe istituzioni indigene può contribuire a mettere a nudo. Poiché l'etnografia deve aiutare a comprendere il perché essa attiri tutti questi consensi che le vengono tributati.

Presso parecchie tribù dell'America del Nord, il prestigio sociale di ciascun individuo è determinato dalle circostanze in cui si svolgono certe prove alle quali gli adolescenti devono sottoporsi all'età della pubertà. Alcuni si abbandonano senza cibo su una zattera solitaria; altri vanno a cercare l'isolamento sulla montagna, in balia delle bestie feroci, del freddo e della pioggia. Per giorni, settimane o mesi, secondo i casi, si privano di tutto; ingeriscono solo cibi grossolani o digiunano per lunghi periodi, aggravando il loro deperimento con l'uso di emetici. Tutto è pretesto per provocare l'al di là: bagni gelati e prolungati, mutilazioni volontarie di una o più falangi, laceramento delle aponevrosi mediante l'inserzione sotto i muscoli dorsali di cavicchi a punta, a cui con delle corde vengono attaccati pesanti fardelli da trascinare. Quando non arrivano a tali estremi, si logorano con lavori inutili: strappano uno per uno i peli del loro corpo o spogliano rami di abeti di tutti gli aghi; oppure traforano blocchi di pietra.

Nello stato di ebetudine, d'indebolimento o di delirio in cui queste prove li riducono, essi sperano di entrare in contatto con il mondo soprannaturale. Commosso dall'intensità di queste sofferenze e dalle preghiere, un animale magico sarà costretto ad apparire; una visione dovrà rivelare quello che sarà il loro spirito custode, il nome con il quale saranno designati e il potere particolare che darà loro, in seno al gruppo sociale, privilegi e rango.

Potremo dunque dire che questi indigeni non abbiano nulla da attendersi dalla società? Istituzioni e costumi sono per loro come un meccanismo il cui funzionamento monotono non lascia posto al caso, alla fortuna o al talento. L'unico modo di forzare la sorte sarebbe di avventurarsi su quei pericolosi limiti dove le norme sociali cessano di avere un senso, nel momento in cui le garanzie e le esigenze del gruppo svaniscono: andare cioè fino alle frontiere del territorio regolamentato, fino ai limiti della resistenza fisiologica o della sofferenza fisica e morale. E su questo confine indefinito che ci si espone, sia alla possibilità di cadere dall'altra parte per non tornare mai più, sia, al contrario, alla possibilità di captare nell'immenso oceano di forze inesplorate che circondano l'umanità organizzata, una provvista personale di potenza grazie alla quale un ordine sociale altrimenti immutabile potrà essere revocato in favore dell'audace.

Tuttavia, una tale interpretazione sarebbe ancora superficiale. Poiché non si tratta, nel caso di queste tribù delle pianure e dell'altipiano nordamericano, di credenze individuali contrastanti con una dottrina collettiva. La dialettica completa deriva dai costumi e dalla filosofia del gruppo. Solo dal gruppo gli individui imparano la loro lezione; la credenza negli spiriti custodi è una prerogativa del gruppo ed è la società tutta intera che insegna ai suoi membri come per loro non ci siano possibilità in seno all'ordine sociale, che a prezzo di un assurdo e disperato tentativo di evaderne.

Chi non vede a qual punto questa «ricerca di potenza» sia tornata in auge nella società francese contemporanea, sotto l'ingenua forma del rapporto fra il pubblico e i «suoi» esploratori? Fin dalla pubertà i nostri adolescenti sono liberi di obbedire agli stimoli ai quali vengono sottoposti dalla prima infanzia, e di scavalcare in una maniera qualunque la media attuale della loro civiltà. Ciò può avvenire in altezza, con l'ascensione di una montagna, o in profondità, scendendo negli abissi, o anche, orizzontalmente, spingendosi nel cuore di lontane regioni. Infine, l'eccezionalità che si ricerca può essere anche di ordine morale, come nel caso di coloro che si creano volontariamente situazioni così difficili da escludere, allo stato attuale delle conoscenze, ogni possibilità di sopravvivenza.

Di fronte ai risultati che si vorrebbero chiamare razionali di queste avventure, la società dimostra una totale indifferenza. Non si tratta né di scoperta scientifica, né di arricchimento poetico o letterario, essendo le testimonianze molto spesso di una povertà desolante. Ma è il tentativo in sé che conta, non il suo oggetto. Come nei nostro esempio, il giovane indigeno che, per qualche settimana o qualche mese, si è isolato dal gruppo per esporsi (con sincerità e convinzione, o con prudenza e furberia, poiché le società indigene conoscono anche queste sfumature) a una situazione eccessiva, ritorna provvisto di un prestigio che da noi si esprime tramite gli articoli dei giornali, le grandi tirature e le conferenze a tutto esaurito, e il cui carattere magico è dimostrato dal processo di automistificazione del gruppo stesso, che spiega il fenomeno in ogni caso. Questi primitivi, infatti, che basta aver visto una volta per esserne edificati, queste cime di ghiaccio, queste grotte e queste foreste profonde, templi di alte e proficue rivelazioni, sono, per diversi aspetti, i nemici di una società che recita a se stessa la commedia di nobilitarli nel momento in cui riesce a sopprimerli, mentre quando erano davvero avversari, provava per essi solo paura e disgusto. Povera selvaggina presa al laccio della civiltà meccanizzata, indigeni della foresta amazzoniana, tenere e impotenti vittime, posso rassegnarmi a capire il destino che vi distrugge, ma non lasciarmi ingannare da questa magia tanto più meschina della vostra, che brandisce davanti a un pubblico avido gli album di foto a colori al posto delle vostre maschere ormai distrutte. Credono forse così di potersi appropriare il vostro fascino? Non soddisfatti ancora e neanche coscienti di distruggervi, devono febbrilmente saziare delle vostre ombre il cannibalismo nostalgico di una storia dalla quale siete già stati sopraffatti. Vecchio predecessore di questi vagabondi delle boscaglie, sarò dunque io solo a ritrovarmi in mano null'altro che ceneri? Solo la mia voce denunzierà l'inutilità dell'evasione?” Come l'indiano del mito, sono arrivato al limite del mondo, ho interrogato gli esseri e le cose per ritrovare la sua delusione: «Egli rimase là in lacrime, pregando e gemendo. E tuttavia non udì nessun rumore misterioso; e neppure si addormentò per essere trasportato nel sonno al tempio degli animali magici. Non poteva esistere per lui il minimo dubbio: nessun potere di nessuno, gli era toccato in sorte.” (pp. 35-40)

In un altro lavoro, Lèvi-Strauss definirà l’antropologia la scienza del rimorso. Tale è la sua antropologia o meglio la sua vocazione umana e intellettuale che lo porta quasi incidentalmente sul terreno antropologico. Egli ricostruisce in questi termini la faticosa scoperta di tale vocazione, che muove da una deludente carriera di studente in filosofia, la quale lo immunizza per sempre da un metodo sterile che caratterizza tale disciplina:

“Ho cominciato allora a capire che tutti i problemi, gravi o futili, possono essere liquidati applicando un metodo sempre identico, che consiste nel contrapporre due punti di vista tradizionali sulla questione; introdurre cioè il primo con le giustificazioni del senso comune, per distruggerlo poi con il secondo; infine rigettarli uno da una parte e uno dall'altra, adottando invece un terzo punto di vista che riveli il carattere ugualmente parziale dei due altri, ricondotti con artifici di vocabolario agli aspetti complementari di una stessa realtà: forma e sostanza, contenente e contenuto, essere e parere, continuo e discontinuo, essenza ed esistenza ecc. Queste esercitazioni diventano presto del tutto verbali, fondate come sono su giochi di parole elevati ad arte che prendono il posto della riflessione, mentre le assonanze fra i termini, le omofonie e le ambiguità forniscono progressivamente la materia di queste teatralità speculative, dalla cui ingegnosità si riconoscono i buoni lavori filosofici.

Cinque anni di Sorbona si riducevano al tirocinio di questa ginnastica evidentemente pericolosa. Prima di tutto perché il meccanismo di queste risistemazioni è così semplice che ogni problema può essere considerato in questo modo.” (p. 49)

“Mi resi conto inoltre del pericolo ancora più grave che consiste nel confondere il progresso della conoscenza con la complessità crescente delle costruzioni dello spirito. Ci suggerivano di procedere a una sintesi dinamica prendendo come punto di partenza le teorie meno adeguate, per giungere alle più sottili; ma nello stesso tempo (per la preoccupazione storica che ossessionava tutti i nostri maestri) bisognava spiegare come queste erano gradualmente nate da quelle. In fondo, più che di individuare il vero e il falso, si trattava di capire come gli uomini avessero a poco a poco superato delle contraddizioni. La filosofia non era l'ancilla scientiarum, serva e ausiliaria dell'esplorazione scientifica, ma una specie di contemplazione estetica che la coscienza operava su se stessa. La si era vista, attraverso i secoli, elaborare costruzioni sempre più leggere e audaci, risolvere problemi d'equilibrio o di portata, inventare raffinatezze logiche, e tutto ciò era considerato tanto più valido quanto più grandi erano la perfezione tecnica e la coerenza strutturale; l'insegnamento filosofico poteva essere paragonato a quello di una storia dell'arte che proclamasse il gotico necessariamente superiore al romanico, e, nell'ordine del primo, il gotico fiorito più perfetto di quello primitivo, senza mai chiedersi che cosa è veramente e che cosa non lo è. La forma era vuota di significato, e non aveva quindi riferimento.” (p. 50)

Sono pressapoco le stesse critiche che Piaget rivolgerà alla filosofia nel 1965 (Saggezza e illusioni della filosofia). Al di sotto di esse c’è, evidentemente, l’esigenza di un sapere scientifico. E’ tale esigenza ad orientare quasi casualmente Lévi-Strauss verso l’antropologia:

“Mi domando a volte oggi se l'etnologia non mi abbia chiamato, senza che me ne rendessi conto, per l'affinità esistente fra la struttura delle civiltà che essa studia e quella del mio pensiero. Mi mancano le doti per conservare saggiamente in cultura, campi di interessi di cui, un anno dopo l'altro, avrei raccolto i frutti: ho un'intelligenza neolitica. Come i fuochi della boscaglia indigena, essa brucia distese a volte inesplorate; le feconda, forse, per ricavarne qualche rapido raccolto, lasciandosi dietro un territorio devastato. In quell'epoca, però, non potevo rendermi conto di questi motivi profondi. Ignoravo tutto dell'etnologia, non avevo mai seguito un corso, e quando Sir James Frazer fu per l'ultima volta alla Sorbona e vi tenne una conferenza memorabile - credo nel 1928 - benché fossi al corrente dell'avvenimento, non mi sfiorò nemmeno l'idea di assistervi.

Certo, mi ero dedicato fin dalla prima infanzia a collezionare curiosità esotiche. Ma si trattava piuttosto di un'attività da antiquario, orientata verso campi abbastanza accessibili alla mia borsa. Giunto all'adolescenza, ero ancora indeciso sul mio orientamento... Rinunziai dunque alla scuola normale e mi iscrissi in giurisprudenza, preparando nello stesso tempo il diploma in filosofi, per il semplice fatto che era molto facile. Una strana fatalità pesa sull'insegnamento del diritto. Stretto fra la teologia, alla quale, in quel tempo, il suo spirito si avvicinava, e il giornalismo, verso cui la recente riforma sta per farlo sbandare, sembrerebbe impossibile che si stabilizzasse su un piano solido e obbiettivo: perde così una delle sue virtù, mentre cerca di conquistare o di conservare l'altra. Il giurista, oggetto di studio per lo scienziato, mi faceva pensare a un animale che pretendesse mostrare la lanterna magica allo zoologo. Allora, fortunatamente, gli esami di diritto si preparavano in quindici giorni, grazie a certi appunti imparati a memoria. Più ancora della sua sterilità, mi ripugnava la clientela del diritto. La distinzione è sempre valida? Ne dubito. Ma, verso il 1928, gli studenti del primo anno delle diverse facoltà si dividevano in due specie, si potrebbe quasi dire in due razze diverse: diritto e medicina da una parte, lettere e scienze dall'altra.

Per quanto poco simpatici possano essere i termini «estrovertito» e «introvertito» sono senza dubbio i più adatti ad esprimere questa opposizione. Da un lato una «giovinezza» (nel senso che il folclore tradizionale dà a questo termine per designare un determinato momento della vita) rumorosa, aggressiva, preoccupata di affermarsi anche a prezzo della peggiore volgarità, politicamente orientata verso l'estrema destra (di allora); dall'altro, adolescenti prematuramente invecchiati, discreti, riservati, abitualmente a «sinistra», che già si adoperavano per farsi ammettere nel numero di quegli adulti che tentavano di imitare.

La spiegazione di questa differenza è abbastanza semplice. I primi, che si preparano all'esercizio di una professione, celebrano, con la loro condotta, l'emancipazione dalla scuola e una posizione già acquisita nel sistema delle funzioni sociali. Poiché si trovano a mezzo fra l'essere indifferenziato del liceale e l'attività specializzata a cui si dedicheranno, si sentono in una situazione marginale e rivendicano i privilegi contraddittori dell'una e dell'altra condizione.

A lettere e scienze, al contrario, gli sbocchi abituali: professorato, indagine scientifica e altre carriere imprecise, hanno un'altra natura. Lo studente che sceglie questa strada non dice addio all'universo infantile: si applica piuttosto a rimanerci. Il professorato non è forse il solo modo offerto agli adulti per restare a scuola? Lo studente di lettere o di scienze è caratterizzato da una specie di rifiuto che oppone alle esigenze del gruppo. Una inclinazione quasi conventuale lo spinge a ripiegarsi temporaneamente o in maniera più durevole, nello studio, la preservazione e la trasmissione di un patrimonio indipendente dall'ora che passa; quanto al futuro scienziato, il suo oggetto è commensurabile soltanto con la durata dell'universo. Nulla è dunque più erroneo che il volerli persuadere ad impegnarsi; anche quando credono di farlo, il loro impegno non consiste nell'accettare un dato di fatto, nell'identificarsi in una delle sue funzioni, nell'assumerne le possibilità e i rischi personali; ma nel giudicarlo dal di fuori e come se non ne facessero parte essi stessi; quell'impegno è ancora un modo particolare di restare liberi. L'insegnamento e l'indagine scientifica non si confondono, da questo punto di vista, con il tirocinio di un mestiere. La loro grandezza e la loro miseria è appunto di essere e un rifugio e una missione.

In questa antinomia che oppone da una parte il mestiere, dall'altra un'impresa ambigua che oscilla fra la missione e il rifugio, partecipe sempre dell'una e dell'altro, pur identificandosi ora con l'una, ora con l'altro, l'etnologia occupa certo un posto di elezione. E la forma più estrema che si possa concepire del secondo termine. Pur ritenendosi umano, l'etnologo cerca di conoscere e di giudicare l'uomo da un punto di vista sufficientemente elevato e distaccato, per astrarlo dalle contingenze particolari a una data società o a una data civiltà. Le condizioni di vita e di lavoro dell'etnografo lo staccano fisicamente dal suo gruppo per lunghi periodi; la brutalità dei cambiamenti ai quali si espone, produce in lui una specie di disancoramento cronico: mai più si sentirà a casa sua in nessun posto, rimarrà psicologicamente mutilato. Come la matematica o la musica, l'etnologia è una delle rare vocazioni autentiche. Si può scoprirla in noi anche senza che ci sia mai stata inculcata.” (pp. 51-53)

Lévi-Strauss procede, dunque per la sua via con un bagaglio culturale aperto a tutte le scienze umane e sociali:

“Fra il marxismo e la psicanalisi che sono scienze umane a prospettiva sociale l'una, individuale l'altra, e la geologia, scienza fisica - ma anche madre e nutrice della storia, sia per il suo metodo che per il suo oggetto - l'etnologia trova spontaneamente il suo regno: questa umanità che noi consideriamo senza altre limitazioni oltre quelle dello spazio, dà un senso nuovo alle trasformazioni del globo terrestre, trasmesse dalla storia geologica; lavorio ininterrotto attraverso i millenni, mediante l'opera di agenti anonimi quali le forze telluriche e il pensiero degli individui che sono, per l'attenzione dello psicologo, altrettanti casi particolari. L'etnologia mi dà una soddisfazione intellettuale: in quanto storia che tocca ai suoi estremi la storia del mondo e la mia, essa rivela contemporaneamente la loro comune ragione d'essere. Nel propormi lo studio dell'uomo, mi libera dal dubbio, poiché considera in lui le differenze e le trasformazioni che hanno un senso per tutti gli uomini, escludendo quelle proprie di una sola civiltà, e che non hanno alcun valore per chi non abbia un interesse specifico. Essa calma, infine, quell'appetito inquieto e distruttore di cui ho parlato, garantendomi un materiale praticamente inesauribile, fornito dalle differenze degli usi, dei costumi e delle istituzioni. Essa riconcilia dunque il mio carattere e la mia vita.” (p. 57)

L’antropologia, dunque, è per Lèvi-Strauss la conoscenza dell’umano in tutta la sua fenomenologia storica, condensata nelle diverse culture, e, al tempo stesso, conoscenza di sé in quanto appartenente a quella fenomenologia.

2.

L’accusa rivolta ricorrentemente a Lévi-Strauss di privilegiare troppo la sincronia, alla ricerca delle strutture profonde che sottendono le culture, trascurando la storia (accusa che, avanzata anche da Sartre, nella celebre appendice de Il pensiero selvaggio, viene elegantemente respinta) è smentita dalle pagine che egli dedica al Nuovo Mondo al quale approda, che muovono dall’attraversare in mare la Fossa nera sulla stessa rotta di Cristoforo Colombo:

“Il cielo fuligginoso della Fossa Nera, la sua aria pesante, non sono soltanto segni manifesti della linea equatoriale. Sono l'atmosfera nella quale due mondi si sono trovati di fronte. Questo tetro elemento che li separa, questa bonaccia che sembra nascondere malvagie forze, rappresentano l'ultima barriera mistica fra ciò che costituiva ancor ieri due pianeti opposti, le condizioni dei quali erano così diverse che i primi testimoni stentarono a crederle ugualmente umane. Un continente appena sfiorato dall'uomo si offriva a uomini che per la loro avidità erano insoddisfatti del loro. Questo secondo peccato rimetteva tutto in causa: Dio, la morale, la legge; tutto verrebbe ad essere in modo simultaneo e contraddittorio insieme, confermato di fatto e revocato di diritto. Confermati furono l'Eden della Bibbia, l'Età dell'oro degli antichi, la Fontana della Gioventù, l'Atlantide, le Esperidi, le Pastorali e le Isole Felici; messi in dubbio, però, l'essersi trovati di fronte a una umanità più pura e più felice (che non io era affatto, ma che un rimorso segreto faceva già credere tale) furono la Rivelazione, la Salvezza, il Costume, il Diritto. Mai l'umanità aveva conosciuto una prova più ardua e mai ne conoscerà una simile, a meno che un giorno, a migliaia di chilometri dal nostro, non si riveli un altro globo, abitato da esseri pensanti. Noi sappiamo oggi, inoltre, che queste distanze sono teoricamente superabili, mentre i primi navigatori temevano di affrontare il nulla.

Per misurare il carattere assoluto, totale, intransigente dei dilemmi nei quali l'umanità del XVI secolo si sentiva rinchiusa, occorre ricordare alcuni fatti. In quella Hispaniola (oggi Haiti e San Domingo) dove gli indigeni, 100000 circa nel 1492, ridotti a 200 un secolo dopo, morivano dì orrore e di disgusto per la civiltà europea, più ancora che per il vaiolo e le percosse, i colonizzatori inviavano commissioni su commissioni allo scopo di definirne la natura. Si trattava realmente di uomini? Si dovevano vedere in essi i discendenti delle dieci tribù di Israele? O erano Mongoli giunti sugli elefanti? O Scozzesi portati qualche secolo prima dal Principe Modoc? Erano stati sempre pagani, o erano antichi cattolici battezzati da San Tommaso e poi ricaduti nell'eresia? Erano incerti se fossero uomini, o non piuttosto creature diaboliche o animali. Questo era lo stato d'animo del Re Ferdinando allorché, nel 1512, importava schiave bianche nelle Indie Occidentali, al fine di impedire agli spagnoli di sposare le indigene «le quali sono ben lungi dall'essere creature razionali». Di fronte agli sforzi di Las Casas per sopprimere il lavoro forzato, i coloni si mostravano più increduli che indignati: «Dunque» esclamavano «non potremo più servirci neanche delle bestie da soma?»

Di tutte queste commissioni, la più giustamente celebre, quella dei monaci dell'ordine di San Gerolamo, commuove sia per il suo scrupolo, che le imprese coloniali hanno completamente dimenticato, sia per la luce che getta sugli atteggiamenti mentali dell'epoca. Nel corso di una vera inchiesta psico‑sociologica, concepita secondo i canoni più moderni, i coloni erano stati sottoposti a un questionario per sapere se, secondo loro, gli Indiani fossero o no «capaci di organizzarsi da soli, come lo erano i contadini di Castiglia». Tutte le risposte furono negative: «Al massimo, forse, i loro nipoti; ma ancora sono così profondamente perversi che se ne può dubitare; per esempio: sfuggono gli Spagnoli, rifiutano di lavorare senza compenso, e arrivano persino a regalare i loro beni; non rinnegano i compagni ai quali gli Spagnoli hanno tagliato le orecchie.» E come conclusione unanime: «E meglio per gl'Indiani diventare uomini schiavi che restare animali liberi...»

Una testimonianza posteriore di qualche anno mette il punto finale a questa requisitoria: «Essi mangiano carne umana, vanno in giro nudi, si nutrono di pulci, ragni, vermi crudi... Non hanno barba e si affrettano a depilarsela quando cresce» (Ortiz al Consiglio delle Indie, 1512).

In quel periodo, del resto, in un'isola vicina (Porto Rico, secondo la testimonianza di Oviedo) gli Indiani catturavano i bianchi e li affogavano, poi per settimane ne facevano la guardia ai cadaveri per vedere se erano o no soggetti alla putrefazione. Dal confronto di queste inchieste si possono trarre due conclusioni: i bianchi invocavano le scienze sociali mentre gli Indiani avevano piuttosto fiducia nelle scienze naturali; e mentre i bianchi proclamavano che gli indiani erano bestie, questi si contentavano di sospettare che quelli fossero dei. A uguale livello di ignoranza, l'ultima ipotesi era senza dubbio la più degna di uomini.” (pp. 70-71)

Il confronto tra esseri civile e selvaggi si iscrive nella cornice di diverse interpretazioni della realtà che vanno valutate in sé e per sé, indipendentemente dal livello tecnologico delle culture che le producono. Nel portare la civiltà ai selvaggi, l’Occidente ha realizzato il peggiore genocidio che si sia dato nel corso della storia. La civiltà in questione, giunta al punto di solcare gli oceani, non è peraltro immune di sbandamenti intellettuali:

“Le prove intellettuali aggiungono un supplemento patetico al turbamento morale.

Tutto era misterioso per i nostri viaggiatori; l'Immagine del Mondo di Pierre d'Ailly parla di una umanità scoperta di recente e sommamente felice, gens beatissima, composta di pigmei, di ebeti e perfino di acefali. Pierre Martyr riporta descrizioni di bestie mostruose, serpenti simili a coccodrilli, animali dal corpo di bue e forniti di proboscide come elefanti; pesci a quattro con la testa di bue, il dorso coperto di verruche o a guscio di tartaruga; tyburon che divorano la gente. Non si tratta, dopo tutto, che di serpenti boa, tapiri, buoi marini, ippopotami e pescicani (in portoghese tubarão). Ma, al contrario, invece, ciò che era misterioso potevano ammetterlo come normale. Per giustificare il brusco cambiamento di rotta per cui non raggiunse il Brasile, Colombo riferì nei suoi rapporti ufficiali, circostanze strane mai ripetutesi dopo di allora, soprattutto in quella zona sempre umida: calore bruciante che impediva di scendere a terra, tanto che per una settimana fusti d’acqua e di vino esplosero, si incendiò il grano, lardo e carne secca arrostirono spontaneamente; il sole era così ardente che l'equipaggio credette di bruciare vivo. Scolo felice, quando tutto era ancora possibile, come forse anche oggi, nell’epoca dei dischi volanti!

In queste onde in cui stiamo navigando, non incontrò Colombo le sirene? In verità, egli le vide alla fine del suo primo viaggio, nel mar dei Caraibi, e non al largo del delta amazzoniano. «Le tre sirene» egli racconta «emergevano coi loro corpi alla superficie dell'oceano, e benché non fossero tanto belle come si raffiguano in pittura, il loro viso rotondo aveva una forma nettamente umana.» Ora, i buoi marini hanno la testa rotonda, hanno mammelle sui petto, e poiché le femmine allattano i loro piccoli stringendoseli al seno con le pinne, l’identificazione non è poi così sorprendente in un'epoca in cui si sarebbe descritta (e perfino disegnata) la pianta del cotone, come «albero‑montone», un albero, cioè, da cui pendevano come frutti interi montoni appesi per il dorso, dei quali bastava tosare la lana.

Analogamente, quando Rabelais, nel Quarto Libro di Pantagruel, basandosi senza dubbio su racconti di navigatori tornati dall'America, presenta la prima caricatura del «sistema di parentela», come oggi lo chiamano gli etnologi, egli ricama liberamente su un fragile canovaccio; poiché non è possibile concepire un sistema di parentela in cui un vecchio possa chiamare la nipotina «mio padre». In tutti questi casi mancava alla coscienza del XVI secolo un elemento più essenziale delle conoscenze stesse: una qualità indispensabile alla riflessione scientifica e della quale erano completamente privi. Gli uomini di quell'epoca erano insensibili allo stile dell'universo, come oggi, sul piano delle belle arti, un ignorante, avendo intravisto certi caratteri della pittura italiana o della scultura negra, sarebbe incapace di distinguere una contraffazione da un Botticelli autentico, e un oggetto da bazar da una figurina Pahouin. Le sirene e l'albero montone sono ben altro e ben più che errori obbiettivi: su un piano intellettuale sono piuttosto errori di gusto; insufficienza di spiriti che, malgrado il loro genio e la raffinatezza dimostrata in altri campi, erano deboli in rapporto all'osservazione. Il che non induce affatto a biasimarli, ma piuttosto a rispettarli maggiormente per i risultati ottenuti malgrado queste lacune.” (pp. 74-75)

3.

Il passaggio del Tropico è un’ulteriore occasione per rievocare le imprese della civiltà occidentale in America latina, che, dopo aver decimato la popolazione locale, ha schiavizzato i sopravvissuti nelle miniere e ha imposto il suo dominio alla natura:

“Paesaggio tropicale da sogno è ancora la riviera fra Rio e Santos. La catena costiera che oltrepassa in un punto i 2000 metri, discende nel mare e lo frastaglia di isolotti e di piccole gole; spiagge di sabbia fine, bordate di palme da cocco o di foreste umide colme di orchidee, confinano con pareti di arenaria e di basalto. che ne interdicono l'accesso salvo che dal mare. In piccoli porti distanti l'uno dall'altro un centinaio di chilometri, i pescatori vivono in abitazioni del XVIII secolo, ora in rovina, ma costruite un tempo in pietra nobilmente tagliata, da armatori, capitani e vice‑governatori. Angra dos Reis, Ubatuba, Parati, So Sebastio, Villa Bella, tutti luoghi dove affluiscono, dopo settimane di viaggio a dorso di mulo attraverso le montagne, l'oro, i diamanti, i topazi e i crisoliti, estratti nelle minas geraes, le miniere generali del governo. Seguendo la traccia di queste piste lungo le espiges, lungo le creste, è difficile immaginarsi un traffico importante al punto che un'industria speciale viveva del recupero dei ferri, perduti per istrada dalle bestie.

Bougainville ha descritto le precauzioni che circondavano lo sfruttamento delle miniere e il trasporto del materiale. Appena estratto, l'oro doveva essere mandato alle fonderie esistenti in ogni distretto: Rio des Mortes, Sabara, Serro Frio. Vi si percepivano i diritti della corona, e ciò che toccava agli imprenditori era rimesso loro in lingotti numerati, col marchio del peso, del titolo, e delle armi del re. Un ufficio centrale, posto a mezza strada fra la miniera e la costa, operava un nuovo controllo. Un luogotenente con 50 uomini prelevavano il diritto del quinto e il diritto di pedaggio per ogni uomo e animale. Questi diritti venivano divisi fra il re e il distaccamento; quindi non faceva meraviglia che le carovane, tornando dalle miniere, al passaggio obbligato di questo vaglio, fossero «fermate e perquisite con sommo rigore».

Gli incaricati portavano poi i lingotti d'oro alla zecca di Rio de Janeiro, ricevendone in cambio monete, mezzi dobloni del valore di 8 piastre di Spagna, su ognuna delle quali il re guadagnava una piastra per la lega e per il diritto di battere moneta. Bougainville aggiunge: «Il palazzo della zecca. è uno dei più belli che esistano; è provvisto di tutto il necessario per poterci lavorare con la più grande rapidità. Poiché l'oro arriva dalle miniere nello stesso tempo che le flotte arrivano dal Portogallo, il lavoro di conio va accelerato e si batte moneta con una prontezza sorprendente.» Per i diamanti, il sistema era ancora più rigoroso. Gli imprenditori, racconta Bougainville «devono rendere conto esatto dei diamanti trovati, e devono rimetterli nelle mani dell'intendente preposto dal re a questo ufficio. Questo intendente li deposita subito in una cassetta cerchiata di ferro e chiusa con tre serrature. Egli tiene una delle chiavi, un'altra la tiene il viceré e la terza il provador della Hacienda Reale. Questa prima cassetta viene rinchiusa in una seconda su cui si appongono i sigilli delle tre persone sopra menzionate, e che contiene le tre chiavi della prima. Il viceré non ha il potere di controllare ciò che vi è rinchiuso. Egli deve soltanto depositare il tutto in una terza cassaforte che invia a Lisbona, dopo aver apposto il suo sigillo sulla serratura. La cassaforte si apre in presenza del re, che sceglie i diamanti che vuole, e paga il prezzo agli imprenditori, sulla base di una tariffa, regolata dalla loro convenzione».

Di questa intensa attività che, per il solo anno 1762, aveva riguardato il trasporto, il controllo, il conio e la spedizione di 119 arrobes d'oro, vale a dire più di una tonnellata e mezza, non rimane traccia alcuna, lungo questa costa ritornata allo stato di Paradiso Terrestre, salvo qualche solitaria, maestosa facciata in fondo alle baie, muraglie battute dai flutti, ai cui piedi approdavano i galeoni. Sarebbe piacevole credere che soltanto qualche indigeno a piedi nudi si fosse avventurato dalla sommità dell'altipiano fino a queste foreste grandiose, a queste anse vergini, a queste rocce dirupate che invece furono sede, ancora fino a 200 anni fa, di un'attività destinata a forgiare il destino del mondo moderno. Dopo essersi saziato di oro, il mondo ebbe fame di zucchero; ma anche lo zucchero logorava i suoi schiavi. Lo sfruttamento delle miniere preceduto del resto dalla devastazione delle foreste che davano il combustibile ai crogiuoli ‑, l'abolizione della schiavitù e infine la domanda mondiale crescente, orientarono São Paulo e il suo porto, Santos, verso il caffè. Da giallo e poi bianco, l'oro è diventato nero.” (pp. 86-87)

“Intorno a me, l’erosione ha devastato le terre non ancora assestate, ma l'uomo soprattutto è responsabile dell'aspetto caotico del paesaggio. Si è dapprima dissodato per coltivare; ma dopo qualche anno, il suolo esaurito e dilavato dalle piogge, non consentiva più la coltivazione del caffè. Le piantagioni si sono allora trasferite più lontano, dove la terra era ancora vergine e fertile. Ma, fra l'uomo e la terra, si era stabilita questa specie di reciprocità che, nel Mondo Antico, ha dato origine a quella intimità millenaria durante la quale si sono adattati l'uno all'altra. Qui il suolo è stato violato e distrutto. Un'agricoltura rapinatrice si è impadronita di quel giacimento di ricchezza, e dopo averne approfittato, si è trasferita altrove. È esatto descrivere l'area di attività dei pionieri come una frangia. Perché, devastando il suolo quasi con la stessa rapidità con cui lo dissodano, sembrano condannati a non occuparne mai che una striscia mobile, che morde da un lato il suolo vergine, mentre abbandona dall'altro solchi estenuati. Come un incendio di sterpaglie che avanza prima ancora di aver consumato il suo alimento, in cento anni la fiammata agricola ha attraversato lo Stato di São Paulo. Accesa a metà del XIX secolo dai «mineiros» che abbandonavano i loro filoni inariditi, si è spostata da est a ovest (ed ora l'avrei ben presto raggiunta sull'altra riva del fiume Paraná) aprendosi un passaggio attraverso un groviglio confuso di tronchi abbattuti e di famiglie sradicate.

Il territorio attraversato dalla strada che va da Santos a São Paulo è stato sfruttato fra i primi; e ora sembra una zona archeologica di una architettura defunta. Poggi e pendii in altri tempi boscosi, lasciano scorgere la loro ossatura sotto un rado mantello di ruvide erbe. Si indovina a tratti il punteggiato dei monticelli che segnavano la posizione delle piante di caffè; essi sporgono sui fianchi erbosi come mammelle atrofizzate. Nelle valli, la vegetazione ha ripreso possesso del suolo; ma non è più la nobile architettura della foresta primitiva; la «capoeira», ossia il sottobosco, rinasce come un pelame ininterrotto di gracili alberi. Ogni tanto si nota una capanna di un emigrante giapponese che cerca, con metodi arcaici, di rigenerare un angolo di terreno per impiantarvi una coltivazione di legumi.

Il viaggiatore europeo è sconcertato da questo paesaggio che non rientra in nessuna delle categorie tradizionali. Noi ignoriamo la natura vergine, il nostro paesaggio è ostensibilmente asservito all'uomo; a volte ci può sembrare selvaggio, ma non perché sia veramente tale, bensì perché gli scambi sono avvenuti su un ritmo più lento (come nelle foreste), o anche ‑nelle montagne ‑ perché i problemi erano così complessi che l'uomo, invece di dar loro una risposta sistematica, ha reagito nel corso dei secoli con numerosi tentativi di soluzioni marginali; le soluzioni d'insieme che li riassumono, mai decisamente volute o pensate come tali, gli si presentano dal di fuori con un carattere primitivo. A noi sembrano aspetti selvaggi autentici del paesaggio, mentre sono, invece, il risultato di una catena di iniziative e di decisioni inconsce.

Ma anche i più rudi paesaggi d'Europa sono pervasi da un ordine di cui Poussin è stato l'incomparabile interprete. Andate in montagna, osservate il contrasto fra gli aridi burroni e le foreste, la disposizione di queste al di sopra delle praterie, la differenza delle sfumature dovuta al predominio dell'una o dell'altra vegetazione secondo l'esposizione o il versante; bisogna aver viaggiato in America per sapere che questa armonia sublime, lungi dall'essere un'espressione spontanea della natura, proviene da accordi lungamente cercati nel corso di una collaborazione fra il luogo e l'uomo. Questi ammira ingenuamente le tracce delle sue iniziative passate.

Nell'America abitata, sia del Nord che del Sud (ad eccezione degli altipiani andini, del Messico, e dell'America Centrale che un'occupazione più intensa e più persistente avvicina alla situazione europea), non abbiamo altra scelta che fra una natura tanto spietatamente sottomessa da non essere più campagna ma officina all'aria aperta (penso ai campi di canna da zucchero delle Antille e a quelli di mais della corn‑belt) e un'altra che, come quella che in questo momento considero, l'uomo ha occupata il tempo necessario per saccheggiarla, ma non abbastanza per elevarla al rango di paesaggio, con una lenta ed incessante coabitazione. Nei dintorni di São Paulo, come più tardi nello Stato di New York, nel Connecticut e anche nelle Montagne Rocciose, ho imparato a familiarizzarmi con una natura più rude della nostra, perché meno popolata e meno coltivata, e tuttavia priva di vera freschezza: non selvaggia ma declassata.

Questi terreni incolti, grandi come province, l'uomo li ha posseduti un tempo, ma per poco; poi è andato altrove. Dietro di sé ha lasciato un intrico di residui e rovine. E su questi campi di battaglia dove, per qualche decennio, si è misurato con una terra sconosciuta, una vegetazione monotona rinasce lentamente, in un disordine che inganna in quanto, sotto la maschera di una falsa innocenza, essa conserva la memoria e la traccia dei combattimenti.” (pp. 90-91)

Fiore all’occhiello della civilizzazione è, naturalmente, la nascita delle città: sulla costa prima, e poi verso l’interno, ove si tratta di contendere lo spazio alla foresta amazzonica per insediare nuclei urbani destinati a crescere.

La civilizzazione non minaccia solo la natura, ma anche i gruppi umani - i “primitivi” - che hanno deciso di rimanere in armonia con essa, e che rappresentano l’oggetto dell’antropologia.

Prima di affrontare la fatica di raggiungerli, Lévi-Strauss dedica all’urbanesimo questa densa riflessione:

“Bisogna tener conto degli elementi misteriosi che operano in tante città, facendole sviluppare in direzione di ponente, e condannando così i loro quartieri orientali alla miseria e alla decadenza; espressione elementare, forse, di quel ritmo cosmico che, dalle sue origini, ha pervaso l’umanità con la convinzione inconscia che il senso del movimento solare sia positivo, il senso inverso negativo; che l'uno traduca l'ordine, l'altro il disordine. Da tempo, infatti, non adoriamo più il sole e abbiamo smesso di attribuire ai punti cardinali qualità magiche, colori e virtù. Ma per quanto il nostro spirito euclideo sia diventato ribelle alla concezione qualitativa dello spazio, non possiamo impedire che i grandi fenomeni astronomici, o anche soltanto meteorologici, influiscano sulle diverse zone della terra con un coefficiente impercettibile ma indelebile; non possiamo impedire che, per ogni uomo, la direzione est-ovest sia quella del compimento; e che per l'abitante delle regioni temperate dell'emisfero australe il nord sia la sede del freddo e della notte, il sud quella del calore e della luce. Niente di tutto questo traspare nel comportamento ragionevole di ogni individuo. Ma la vita urbana offre uno strano contrasto. Benché essa rappresenti la forma più complessa e più raffinata della civiltà, l'eccezionale concentrazione umana che realizza su un piccolo spazio, e la durata del suo ciclo fanno sì che nel suo crogiolo precipitino attitudini inconsce, ognuna infinitesimale, ma che, secondo il numero di individui che le manifestano allo stesso titolo e nella stessa maniera, possono produrre grandi effetti. Tale è l'espandersi delle città da oriente verso occidente, e il polarizzarsi del lusso e della miseria secondo questo asse; fenomeno incomprensibile se non si riconosce questo privilegio, o questa schiavitù, delle città che, come un microscopio e grazie all'espandersi che è loro proprio, fa sorgere sul filo della coscienza collettiva il brulichio microbico delle nostre ancestrali e sempre vive superstizioni.

D'altra parte, si tratta proprio di superstizioni In talune predilezioni o tendenze vedo piuttosto il segno di una saggezza che i popoli selvaggi hanno spontaneamente praticata, mentre la ribellione moderna è la vera follia. Essi hanno spesso saputo raggiungere col minimo sforzo la loro armonia mentale. Quale logorio, quale irritazione inutile ci risparmieremmo se accettassimo di riconoscere le condizioni reali della nostra esperienza umana, e pensassimo che non dipende da noi liberarci interamente dai suoi limiti e dal suo ritmo? Lo spazio ha dei valori propri, come i suoni e i profumi hanno dei colori e i sentimenti un peso. Questa ricerca di corrispondenze non è un gioco poetico o una mistificazione...; essa offre allo studioso un terreno nuovo, la cui esplorazione può ancora procurargli ricche scoperte. Se i pesci, come l'esteta, distinguono i profumi in chiari e scuri, e se le api classificano le intensità luminose in termini di peso ‑ l'oscurità essendo per loro pesante e il chiarore leggero ‑ l'opera del pittore, del poeta e del musicista, i miti e i simboli del selvaggio, ci devono apparire, se non come una forma superiore di conoscenza, almeno come la più fondamentale, la sola veramente comune, di cui il pensiero scientifico costituisce soltanto la punta acuminata, più penetrante perché affilata sulla pietra dei fatti (sia pure a prezzo di una perdita di sostanza), la cui efficacia sta nel suo potere di incidere in profondità, affinché la massa del congegno possa entrare completamente.

Il sociologo può apportare il suo contributo a questa elaborazione di un umanesimo globale e concreto. Infatti le grandi manifestazioni della vita sociale hanno in comune con l'opera d'arte il fatto che nascono al livello dell'inconscio, e benché siano collettive nel primo caso e individuali nel secondo, la differenza resta secondaria, è anzi soltanto apparente, perché le une sono prodotte «dal» pubblico, e le altre «per» il pubblico, e questo pubblico costituisce il denominatore comune di entrambe, e determina le condizioni della loro creazione.

Non è dunque in senso metaforico che si ha il diritto di confrontare ‑ come spesso è stato fatto ‑ una città a una sinfonia o a un poema; sono infatti oggetti della stessa natura. Più preziosa ancora, forse, la città si pone alla confluenza della natura con l'artificio. Agglomerato di esseri che racchiudono la loro storia biologica entro i suoi limiti e la modellano con tutte le loro intenzioni di creature pensanti, la città, per la sua genesi e per la sua forma, risulta contemporaneamente dalla procreazione biologica, dall'evoluzione organica e dalla creazione estetica. Essa è, nello stesso tempo, oggetto di natura e soggetto di cultura; individuo e gruppo; vissuta e sognata; cosa umana per eccellenza.” (pp. 117-119)

Nonostante l’intensità del disboscamento e la nascita di insediamenti urbani, l’America tropicale è caratterizzata da una bassa densità di popolazione. Prima di inoltrarsi nella foresta amazzonica, laddove pochissimi gruppi umani continuano a coltivare la tradizione di vivere in armonia con la natura, Lévi-Strauss rievoca i suoi viaggi di studio (successivi alla ricerca in Brasile) nell’altra zona tropicale del pianeta, quella dell’Asia. Colà, una tradizione culturale ha indotto gli la maggioranza della popolazione ad accettare e a coltivare psicologicamente il ruolo di servi:

“Ogni Europeo in India si trova - che lo voglia o no - circondato da un notevole numero di servitori, uomini a tutto fare che si chiamano bearers. E’ forse il sistema delle caste, o una tradizionale ineguaglianza sociale, o le esigenze dei colonizzatori, che spiegano questa sete di servire? Non so bene perché, ma la loro ossequiosità rende presto l'atmosfera irrespirabile. Si stenderebbero per terra per risparmiarvi un passo sul pavimento, vi propongono dieci bagni al giorno: quando ci si soffia il naso, quando si mangia un frutto, quando ci si macchia un dito... Sono sempre lì a implorare un ordine. C'è qualcosa di erotico in quest'ansia di sottomissione. E se il vostro comportamento non risponde alla loro attesa, se voi non agite in tutte le circostanze come gli antichi padroni britannici, il loro universo crolla: niente pudding? bagno dopo il pranzo invece che prima? non c'è più dunque un Dio... Lo smarrimento si dipinge su quei volti; faccio precipitosamente marcia indietro, rinunzio alle mie abitudini o alle più rare occasioni. Mangerò una pera dura come una pietra, una viscida crema perché devo pagare col sacrificio di un ananas la salvezza morale di un essere umano.” (p. 135)

Nonostante le miserabili condizioni, “occorre così poco, qui, per creare umanità”: “Ecco un artigiano sistemato tutto solo sul marciapiede dove ha disposto alcuni pezzi di metallo ed altri utensili. Si occupa di un lavoro infimo, dal quale trae la sua sussistenza e quella dei suoi. Ma quale sussistenza? Nelle cucine all'aria aperta, poca carne tritata infilata su asticciuole, arrostisce sulla brace; latticini si rapprendono in bacinelle coniche; rotoli di foglie disposte a spirale racchiudono le cicche di betel; i grani d'oro del gram si arrostiscono nella sabbia calda. Un bambino porta in giro un catino di lenticchie di cui un uomo acquista l'equivalente di un cucchiaio da minestra, che subito mangia accoccolandosi nella posizione identica, di indifferenza verso i passanti, che un istante dopo prenderà per orinare. Nelle bettole di legno, gli oziosi passano ore a bere tè mescolato col latte.

Si ha bisogno di poco per vivere: poco spazio, poco nutrimento, poca gioia pochi utensili e arnesi; è la vita in un fazzoletto. Viceversa, c'è anima ovunque. Lo si sente nel movimento della strada, nell'intensità degli sguardi, nella virulenza della più piccola discussione, e al passaggio di uno straniero, nella cortesia dei sorrisi accompagnati spesso, nei paesi musulmani, da un salaam con la mano portata alla fronte. Come interpretare altrimenti la facilità con la, quale questa gente prende posto nel cosmo? Ecco dunque la civiltà del tappeto da preghiera che rappresenta il mondo, o del quadrato disegnato per terra che definisce un luogo di culto. Ecco qui questi uomini, in piena strada, ognuno nell'universo della sua piccola bottega, placidi e intenti ognuno alla sua piccola industria, in mezzo alle mosche, ai passanti, al fracasso: barbieri, scrivani, parrucchieri, artigiani. Per poter resistere, è necessario un legame molto forte, molto personale, con il soprannaturale, e forse uno dei segreti dell'Islam e degli altri culti di questa regione del mondo, è che ciascuno si sente incessantemente in presenza del suo Dio.” (p. 137-138)

Anche qui, naturalmente, l’Occidente ha lasciato la sua impronta:

“Qui, popolazioni medioevali sono cadute in piena epoca manifatturiera e gettate in pasto al mercato mondiale. Dal punto di partenza fino al punto di arrivo vivono sotto un regime di alienazione. Mentre per i tessitori di Demra, che usano filati inglesi o italiani, la materia prima è totalmente importata, per i fabbricanti di Langalbund le conchiglie sono di origine locale, ma non i prodotti chimici, i cartoni, i fogli metallici indispensabili alla loro industria. E, ovunque, la produzione è concepita according to foreign standards, dato che questi infelici, che hanno appena i mezzi di vestirsi, ne hanno meno ancora per abbottonarsi. Sotto le campagne verdeggianti e i canali tranquilli bordati di capanne, l'odiosa sagoma della fabbrica appare in filigrana, come se l'evoluzione storica ed economica fosse riuscita a fissare e sovrapporre le sue fasi più tragiche a spese di queste miserabili vittime: carenze e epidemie medioevali, forsennati sfruttamenti, come all'inizio dell'èra industriale, disoccupazione e speculazione del capitalismo moderno. I secoli XIV, XVIII e XX si sono incontrati qui per irridere all'idillio cui la natura tropicale fa da scenario.

In queste regioni, dove la densità della popolazione supera a volte i 1000 per chilometro quadrato, mi sono reso conto in pieno del privilegio storico ancora proprio dell'America tropicale (e fino a un certo punto dell'America intera) d'essere rimasta, del tutto o relativamente, vuota di uomini. La libertà non è un'invenzione giuridica né un tesoro filosofico, proprietà esclusiva di civiltà più valide di altre, perché sole capaci di produrla e preservarla. Essa risulta da una relazione oggettiva tra l'individuo e lo spazio che occupa, tra il consumatore e le risorse di cui dispone. E non è del tutto sicuro che questo compensi quello, e che una società ricca, ma troppo densa, non si avveleni di questa densità, come quei parassiti della farina che arrivano a sterminarsi a distanza con le loro stesse tossine, molto prima che la materia nutritiva venga meno.

Occorre molta ingenuità o malafede per pensare che gli uomini scelgano le loro credenze indipendentemente dalla loro condizione. Lungi dal pensare che i sistemi politici determinino le forme di esistenza sociale, sono queste che dànno un senso alle ideologie che le esprimono: quei segni costituiscono un linguaggio solo in presenza degli oggetti ai quali si riferiscono. A questo punto, il malinteso tra l'Occidente e l'Oriente è soprattutto semantico: le formule che noi vi smerciamo implicano significati che lì non esistono o sono diversi. Per contro, se fosse possibile mutare la situazione, importerebbe poco alle sue vittime che questo cambiamento fosse apportato da un sistema a nostro giudizio insopportabile. Essi non sentirebbero di diventare schiavi, ma liberi al contrario, accettando il lavoro forzato, l'alimentazione razionata e il pensiero comandato, poiché tutto ciò sarebbe per loro il mezzo storico di ottenere lavoro, nutrimento e vita intellettuale. L'aspetto negativo di questi sistemi di vita scomparirebbe davanti allo spettacolo di una realtà fino allora da noi rifiutata, in nome della sua apparenza.

A parte i rimedi politici ed economici concepibili, il problema posto dal confronto dell'Asia con l'America tropicale è quello della moltiplicazione umana in uno spazio limitato. Come dimenticare che, sotto questo riguardo, l'Europa occupa una posizione intermediaria fra i due mondi? Questo problema del numero, l'India l'ha affrontato circa tremila anni fa, cercando, con il sistema delle caste, un modo di trasformare la quantità in qualità, ossia di differenziare i raggruppamenti umani, per permettere la loro coesistenza fianco a fianco. E aveva anche concepito il problema in termini più vasti, estendendolo al di là dell'uomo a tutte le forme di vita. La regola vegetariana si ispira, come il regime delle caste, alla preoccupazione di impedire che i raggruppamenti sociali e le specie animali infieriscano le une contro le altre, riservando a ognuna la libertà sua propria, grazie alla rinunzia, da parte delle altre, dell'esercizio di una libertà antagonista. E’ tragico per l'uomo che questa grande esperienza sia fallita: che cioè nel corso della storia, le caste non siano riuscite a raggiungere uno stato in cui rimanere uguali in quanto differenti - uguali nel senso che sarebbero state inconfrontabili - e che si sia introdotta fra di esse quella perfida dose di omogeneità che avrebbe permesso il confronto, e quindi il formarsi di una gerarchia. Gli uomini possono arrivare a coesistere a condizione di riconoscersi tutti uomini, ma in modo diverso, oppure negandosi reciprocamente un grado uguale di umanità, e dunque subordinandosi. Questo grande fallimento dell'India comporta un insegnamento: diventando troppo numerosa, e malgrado il genio dei suoi pensatori, una società non si perpetua che generando la servitù. Allorché gli uomini cominciano a sentirsi stretti nel loro spazio geografico, sociale e mentale, una facile soluzione rischia di sedurli: negare la qualità umana a una parte della specie. Per qualche decennio essi avranno mano libera. In seguito bisognerà procedere a una nuova espulsione. In questa luce, gli avvenimenti di cui l'Europa è stata teatro per vent'anni, e che riassumono un secolo nel corso del quale la sua popolazione si è raddoppiata, non mi appaiono più come il risultato dell'aberrazione di un popolo, d'una dottrina o di un gruppo di uomini. Ci vedo piuttosto l'indizio di una evoluzione verso una fine di cui l'Asia del Sud ha fatto l'esperienza mille o duemila anni prima di noi, e a cui, a meno di grandi decisioni, non riusciremo forse a sfuggire. Questa grande svalorizzazione sistematica dell'uomo da parte dell'uomo si va estendendo, e sarebbe ipocrita e incosciente voler evitare il problema con la scusa che si tratta di un fenomeno passeggero.

Ciò che mi atterrisce in Asia è l'immagine del nostro futuro, che essa ci anticipa. Nell'America indiana invece vagheggio il riflesso, fugace anche laggiù, di un'età in cui la specie era proporzionata al suo universo, e in cui persisteva un rapporto valido tra l'esercizio della libertà e le sue leggi.” (pp.145-146)

E’ con questo straordinario affresco dei Tropici, entrambi tristi, che Lévi-Strauss si muove alla ricerca dell’umanità che, avendo rifiutato la civilizzazione, è definita primitiva.

4.

Il resoconto dell’incontro con i “selvaggi” comincia a pagina 149 con un severo monito:

“Campeggiatori, accampatevi al Paraná. O meglio no, astenetevene. Riservate agli ultimi luoghi ancora tranquilli in Europa le vostre carte oleate, le vostre bottiglie infrangibili, le vostre scatole di conserva sventrate. Dispiegate lì le vostre tende color ruggine. Ma al di là della frangia pioniera e per il breve tempo che ancora ci separa dal suo saccheggio definitivo, rispettate i torrenti screziati di fresca schiuma che scendono saltellando i gradini scavati nei fianchi violetti del basalto. Non calpestate le spume vulcaniche dall'acida freschezza; esitino i vostri passi sulla soglia delle praterie deserte c .della grande umida foresta di conifere che spezzano l'intreccio delle liane e delle felci per elevare al cielo forme inverse a quelle dei nostri abeti: non coni affilati al sommo, ma al contrario - forma vegetale che avrebbe incantato Baudelaire - rami disposti a piani esagonali intorno al tronco, in misura crescente-dal basso all'alto, fino a espandersi in una ombrella gigante. Vergine e solenne paesaggio che per milioni di secoli sembra aver serbato intatto l'aspetto del carbonifero e che la combinazione dell'altitudine con la lontananza dal tropico, libera dal caos amazzoniano, per dargli una maestà e un ordine inesplicabili; a meno che questo non si voglia attribuire all'azione di una razza dimenticata, più saggia e più potente della nostra, la cui sparizione ci ha permesso di penetrare in questo parco sublime, oggi caduto nel silenzio e nell'abbandono.”

In questo scenario sembra ipotizzabile incontrare un’umanità incontaminata. L’avvio dell’esplorazione è, però, deludente, anche se Lévi-Strauss è in grado di interpretarla storicamente:

“All'epoca della scoperta, tutta la zona sud del Brasile era abitati da raggruppamenti affini fra loro per lingua e per cultura, e che si usa classificare col nome di Gt. Essi, verosimilmente, erano stati ricacciati dagli invasori recenti di lingua tupi, che già occupavano tutta la striscia costiera, e contro i quali erano in lotta. Protetti dal loro ripiegamento in regioni di difficile accesso, i Gé del sud del Brasile sono sopravvissuti per qualche secolo ai Tupi, presto liquidati dai colonizzatori. Nelle foreste degli stati meridionali, Paraná e Santa Catarina, piccole bande selvagge si sono conservate fino al secolo XX; ne esistevano forse ancora alcune nel 1935, ma erano state così ferocemente perseguitate durante gli ultimi cento anni, da essersi resi introvabili; in gran parte, però, erano state obbligate dal Governo brasiliano, circa il 1914, a fissarsi in diversi centri. In principio si cercò di immetterli nella vita moderna. Al villaggio di São Jeronimo, che serviva di base, furono impiantate una fucina, una segheria, una scuola, una farmacia. Il centro riceveva regolarmente degli attrezzi: accette, coltelli, chiodi; vi si distribuivano abiti e coperte. Venti anni dopo questi tentativi furono abbandonati. Il Servizio di Protezione, lasciando gli Indiani alle loro sole risorse, testimoniava l'indifferenza dei poteri pubblici a loro riguardo (dopo di allora ha ripreso una certa autorità); si trovò così obbligato, senza volerlo, a provare un altro metodo che incitasse gli Indiani a ritrovare qualche iniziativa e li costringesse a riacquistare la loro autonomia. Di quelle effimere esperienze di civilizzazione, gli indigeni hanno conservato solo gli abiti brasiliani, l'accetta, il coltello e l'ago da cucire. Per tutto il resto fu un fallimento. Erano state costruite per loro delle case ed essi vivevano fuori. Ci si era sforzati di fissarli in villaggi ed essi restavano nomadi. Spezzavano i letti per accendere il fuoco e continuavano a dormire per terra. Le mandrie di vacche mandate dal Governo vagavano alla ventura, perché gli indigeni rifiutavano con disgusto la carne e il latte. I pestelli di legno azionati meccanicamente dal riempirsi e vuotarsi alterno di un recipiente fissato al braccio di una leva (dispositivo frequente in Brasile dove è conosciuto sotto il nome di monjolo e che i Portoghesi hanno forse importato dall'Oriente) marcivano inutilizzati, e la macinazione a mano restava la pratica generale.

Con mia grande delusione, gli Indiani del Tibagy non erano dunque né completamente «veri Indiani», né soprattutto «selvaggi». Ma spogliando della sua poesia l'ingenua immagine che l'etnografo debuttante si fa delle sue esperienze future, essi mi davano una lezione di prudenza e di obbiettività. Avendoli trovati meno intatti di quanto sperassi, avrei presto scoperto che erano più chiusi e segreti di quanto la loro apparenza esteriore potesse far credere. Infatti illustravano pienamente quella situazione sociologica, che tende a diventare tipica per l'osservatore della seconda metà del secolo XX, di «primitivi» ai quali la civiltà fu brutalmente imposta e dei quali, una volta superato il pericolo che erano tenuti a rappresentare, ci si è in seguito disinteressati. Da un lato la loro cultura era il risultato di antiche tradizioni che hanno resistito all'influenza dei bianchi (quale la pratica della limatura e della incrostazione dei denti, così frequente ancora fra loro), dall'altro di elementi presi in prestito dalla civiltà moderna; ciò costituiva un insieme originale il cui studio, per quanto sprovvisto di pittoresco potesse essere, dava una lezione non meno valida di quella che mi avrebbero dato gli Indiani puri, da mc avvicinati ulteriormente.

Dacché gli Indiani si trovarono abbandonati alle loro proprie risorse, si assisteva soprattutto a uno strano rovesciamento dell'equilibrio superficiale fra la cultura moderna e la primitiva. Riaffioravano antichi sistemi di vita e tecniche tradizionali, resti di un passato di cui a torto si sarebbero dimenticate la vitalità e la prossimità. Da dove vengono questi pestelli di pietra mirabilmente levigati che ho trovato, nelle case indiane, tra i piatti di ferro smaltato, i cucchiai da bazar, e anche, a volte, tra i resti scheletrici di una macchina da cucire? Erano forse scambi commerciali, nel silenzio della foresta, con popolazioni della stessa razza ma rimaste selvagge, la cui attività bellicosa proibiva l'accesso ai dissodatori in alcune regioni del Paraná

Per rispondere sarebbe necessario conoscere esattamente l'odissea di qua!che vecchio Indiano bravo che andava allora a riposo nella colonia governativa.

Questi oggetti che ci lasciano pensosi esistono ancora nelle tribù come testimoni di un'epoca in cui l'Indiano non conosceva né casa né vestiti, né utensili metallici. E anche le vecchie tecniche si conservano nella memoria semi-cosciente degli uomini. Ai fiammiferi ben conosciuti, ma cari e difficili da ottenere, l'indiano preferisce sempre la rotazione o la frizione di due teneri pezzi di legno di «palmito». Quanto poi ai vetusti fucili e pistole un tempo distribuiti dal Governo, molto spesso li si trova appesi nella casa abbandonata, mentre l'uomo, nella foresta, fa uso di arco e frecce costruite con una tecnica così sicura come quella dei popoli che non hanno mai visto armi da fuoco. Così l'antico genere di vita, sommariamente soffocato dagli sforzi ufficiali, si fa nuovamente strada, con la stessa lentezza e sicurezza di quelle colonne di Indiani incontrate nella foresta dove tracciavano piccoli sentieri, mentre i tetti sprofondavano nei villaggi abbandonati.” (pp. 150-151)

Occorre penetrare nel cuore della foresta per trovare popolazioni meno contaminate. i Caduvei, i Bororo, i Nambikwara, i Tupi Kawahib. I resoconti di Lévi-Strauss sono estremamente dettagliati, da antropologo attento e rigoroso a non trascurare alcun particolare. Egli si concede spesso riflessioni e interpretazioni di grande interesse, che fanno capo a questo criterio di ordine generale:

“L'insieme dei costumi di un popolo è contrassegnato sempre da uno stile; questo forma dei sistemi. Sono persuaso che questi sistemi non esistono in numero illimitato, e che le società umane, come gli individui - nei loro giochi, nei loro sogni, nei loro deliri - non creano mai in modo assoluto, ma si limitano a scegliere certe combinazioni in un repertorio ideale agevolmente ricostruibile. Facendo l'inventano di tutti i costumi osservati, di tutti quelli immaginati nei miti, di quelli evocati nei giochi dei fanciulli e degli adulti, dei sogni degli individui sani o malati e dei comportamenti psicopatologici, si giungerebbe a comporre una specie di quadro periodico come quello degli elementi chimici, in cui tutti i costumi reali o semplicemente possibili apparirebbero raggruppati in famiglie, e in cui non avremmo più che da riconoscere quelli che le società hanno effettivamente adottato.” (p. 174)

E’ questa una definizione semplice, ma efficace di ciò che Lévi-Strauss intende per ricerca antropologica: non già le stranezze, il folklore, i riti impenetrabili, i costumi alieni al nostro modo di vivere, bensì ciò che si dà in comune al di sotto delle differenze.

“I Caduvei, che appartengono al gruppo M’Baya, hanno un’organizzazione castale incentrata su di una nobiltà presuntuosa al punto di sentirsi predestinata a comandare l’umanità. Il mito delle origini su cui fondano questa presunzione è noto solo per frammenti ma “filtrato attraverso i secoli, risplende di mirabile semplicità: forma concisa di quella evidenza della quale il mio viaggio in Oriente doveva convincermi più tardi, vale a dire che il grado di servitù è determinante del carattere definitivo della società. Ecco dunque il mito: quando l'essere supremo, Gonoenhodi, decise di creare gli uomini, tirò fuori per primi dalla terra i Guana, poi tutte le altre tribù; ai primi dette in retaggio l'agricoltura, agli altri la caccia. L'Ingannatore, l'altra divinità del panteon indigeno, si accorse allora che gli Mbaya erano stati dimenticati in fondo al pozzo e li fece uscire; ma poiché per loro non restava nulla, si assunsero l'unico compito disponibile, quello di opprimere e sfruttare gli altri. Vi fu mai contratto sociale più profondo di quello?” (p. 176)

Nonostante condizioni di vita miserevoli, i Caduvei “hanno creato un'arte grafica il cui stile non si può paragonare a nulla di ciò che l'America precolombiana ci ha lasciato e che a nulla somiglia se non forse alle decorazioni delle nostre carte da giuoco...

In questa tribù gli uomini sono scultori e le donne pittrici. Gli uomini modellano, nel legno duro e azzurrognolo del guaiaco, le figure di santi di cui ho già parlato e decorano anche in rilievo, con figure di uomini, di struzzi e di cavalli, le corna di zebù di cui si servono come tazze; talvolta disegnano anche, ma sempre per rappresentare fogliame, uomini o animali. Alle donne sono riservate la decorazione della ceramica e delle pelli, e le pitture corporali che vengono eseguite da alcune con raro virtuosismo.

Il loro viso, e a volte il loro intero corpo, è coperto da una rete di arabeschi asimmetrici alternati a motivi di una sottile geometria. Il primo a descriverli fu il missionario gesuita Sanchez Labrador, vissuto fra loro dal 1760 al 1770; ma per poterne vedere esatte riproduzioni bisogna aspettare un secolo e Boggiani. Nel 1935, ho raccolto io stesso centinaia di motivi procedendo nel modo seguente: mi ero proposto in principio di fotografare i visi, ma le esigenze finanziarie delle belle della tribù avrebbero presto esaurite le mie risorse. Provai allora a tracciare dei visi su fogli di carta suggerendo alle donne di dipingerli come se fossero i loro propri volti; il successo fu tale che rinunciai presto ai miei goffi disegni. Le disegnatrici non erano per nulla sconcertate da quei fogli bianchi, il che dimostra l'indifferenza della loro arte per l'architettura naturale del volto umano...

Un tempo i motivi erano tatuati o dipinti; ora si usa solo quest'ultimo metodo. La pittrice lavora sui viso o sul corpo di una compagna, talvolta anche di un ragazzo. Gli uomini si sono allontanati più rapidamente da questo costume. Con una sottile spatola di bambù intrisa nel succo di genipapo ‑ incolore da principio ma che poi diventa blu‑nero per ossidazione ‑ l'artista improvvisa sul vivo, senza modello, né abbozzo, né punto di riferimento; orna il labbro superiore con un motivo a forma d'arco che termina ai due estremi a spirali; poi divide il viso a metà con un tratto verticale, tagliato a volte da linee orizzontali. La faccia, divisa in quarti e in sezioni ‑ o anche in obliquo ‑ viene allora decorata liberamente di arabeschi che non tengono conto della posizione degli occhi, del naso, delle guance, della fronte e del mento, sviluppandosi come su un piano ininterrotto.

Queste sapienti composizioni, asimmetriche pur restando equilibrate, incominciano da un punto qualunque e continuano fino alla fine senza esitazioni o interruzioni. Queste composizioni si ispirano a motivi relativamente semplici, come spirali, esse, croci, losanghe, greche e volute, combinate in tal maniera che ogni opera possiede un carattere originale; su 400 disegni raccolti nel 1935, non ne ho mai trovato due uguali; ma poiché ho fatto la constatazione inversa paragonando la mia collezione con quella raccolta più tardi, se ne può dedurre che il repertorio straordinariamente esteso degli artisti è tuttavia fissato dalla tradizione. Disgraziatamente non è stato possibile né a me, né ai miei successori, penetrare la teoria ispiratrice di questa stilistica indigena: gli informatori azzardano qualche termine corrispondente ai motivi elementari, ma dicono di non sapere o di aver dimenticato quanto riguarda le decorazioni più complesse; può essere infatti che agiscano in base a un comportamento empirico trasmesso di generazione in generazione, o che valgano a conservare il segreto sugli arcani di questa arte.

Oggi i Caduvei si dipingono soltanto per essere più piacenti; ma un tempo quest'uso aveva un significato più profondo. Dalle testimonianze di Sanchez Labrador, le caste nobili si dipingevano solo la fronte, mentre il volgo si ornava tutto il viso; in quell'epoca, inoltre, soltanto le giovani donne seguivano la moda: «E’ raro» egli scrive «che le vecchie perdano tempo in questi disegni: esse si contentano di quelli che gli anni hanno impresso sui loro viso.» Il missionario è allarmato per questo disprezzo dell'opera del Creatore; perché gl'indigeni alteravano l'apparenza del viso umano? Egli cerca delle spiegazioni: forse per ingannare la fame che passano ore a tracciare i loro arabeschi? o per rendersi irriconoscibili dal nemico? Qualsiasi cosa possa immaginare, si tratta sempre di trarre in inganno. Perché? Per quanta ripugnanza possa provarne, anche il missionario deve riconoscere che queste pitture hanno per gli indigeni un'importanza primordiale e in un certo senso sono fine a se stesse. Egli inoltre deplora che quegli uomini perdano giornate intere a farsi dipingere, noncuranti della caccia, della pesca e delle loro famiglie. «Perché siete così stupidi?» domandavano gli indigeni ai missionari. «E’ perché siamo stupidi» rispondevano questi. «Perché non vi dipingete come fanno gli Eyiguaycgui?» Bisognava dipingersi per essere uomini; colui che restava allo stato naturale non si distingueva dal bruto.

Non c'è alcun dubbio che la persistenza di quell'uso fra le donne non sia dettato oggi da considerazioni di carattere erotico. La reputazione delle donne caduveo è molto solida sulle rive del Rio Paraguay; molti meticci e Indiani di altre tribù sono venuti a stabilirsi e a sposarsi a Nalike. Le pitture facciali e corporali giustificano forse questa attrazione; in ogni caso, esse la rafforzano e la simbolizzano. Quei contorni delicati e sottili, sensibili come le linee del viso, che ne sono sottolineate e nello stesso tempo nascoste, dànno alla donna qualcosa di deliziosamente provocante. Questa chirurgia pittorica opera una specie di innesto dell'arte sul corpo umano. E quando Sanchez Labrador protesta ansiosamente che questo è «opporre alle grazie della natura una artificiosa bruttezza», si contraddice perché, qualche riga più in là, afferma che le più belle tappezzerie non potrebbero rivaleggiare con queste pitture. Mai, senza dubbio, l'effetto erotico dei belletti è stato così sistematicamente e coscientemente sfruttato.

Con le pitture facciali, come con l'uso dell'aborto e dell'infanticidio, gli Mbaya esprimevano lo stesso orrore per la natura. L'arte indigena proclama un sovrano disprezzo per l'argilla di cui siamo impastati; in questo senso confina col peccato. Dal suo punto di vista di gesuita e di missionario, Sanchez Labrador si dimostrava singolarmente perspicace scorgendo in essa il demonio. Egli stesso sottolinea l'aspetto prometèico di questa arte selvaggia, quando descrive la tecnica secondo la quale gli indigeni si coprivano il corpo di motivi a forma di stella: «Così ogni Eyiguayegui si considera un altro Atlante che, non più soltanto con le spalle e con le mani, ma con tutta la superficie del suo corpo, diviene il sostegno di un universo goffamente raffigurato.» Sarebbe forse la spiegazione dei carattere eccezionale dell'arte caduvea, tramite la quale l'uomo rifiuta di riflettere l'immagine divina?

Considerando le sbarre, le spirali e i viticci per cui quest'arte sembra avere una predilezione, si pensa inevitabilmente al barocco spagnolo, ai suoi ferri battuti e ai suoi stucchi. Non saremmo noi per caso in presenza di uno stile ingenuamente copiato dai conquistatori? [...] Quando si studiano i disegni caduveo s'impone una constatazione: la loro originalità non proviene dai motivi elementari, che sono abbastanza semplici per essere stati inventati indipendentemente piuttosto che copiati (e con tutta probabilità i due procedimenti coesistevano): essa risulta piuttosto dal modo come questi motivi sono combinati fra loro, e si stabilisce al livello del risultato dell'opera compiuta. Ora, i procedimenti di composizione sono così raffinati e sistematici che sorpassano di gran lunga le corrispondenti suggestioni che l'arte europea del Rinascimento avrebbe potuto fornire agli Indiani. Qualunque sia il punto di partenza, questo sviluppo eccezionale non può dunque essere spiegato che da ragioni insite in esso. Già altra volta ho cercato di isolare alcune di queste ragioni confrontando l'arte caduvea, con altre arti, che offrono con essa delle analogie: Cina arcaica, costa nord‑ovest del Canada e Alaska, Nuova Zelanda. L'ipotesi che presento qui è abbastanza diversa, ma non contraddice l'interpretazione anteriore: anzi, la completa.

Come notavo allora, l'arte caduvea è caratterizzata da un dualismo: quello degli uomini e quello delle donne, gli uni scultori, le altre pittrici; i primi attaccati a uno stile rappresentativo e naturalista, malgrado la stilizzazione; mentre le seconde si dedicano a un'arte non rappresentativa. Limitandomi ora alla considerazione di quest'arte femminile, vorrei sottolineare che il dualismo vi si prolunga su diversi piani. Le donne adottano due stili, entrambi ispirati dal decorativismo e dall'astrazione. L'uno è angoloso e geometrico, l'altro curvilineo e libero. Generalmente le composizioni sono fondate su una combinazione regolare dei due stili. Per esempio, uno è impiegato per il bordo o inquadratura, l'altro per la decorazione principale; più sorprendente ancora è il caso delle terrecotte, dove si trova per lo più una decorazione geometrica sul collo, e una decorazione curvilinea sulla pancia, o viceversa. Lo stile curvilineo è più spesso adottato per le pitture del viso, e lo stile geometrico per quelle del corpo; a meno che, a mezzo di una suddivisione supplementare, ogni regione non porti una decorazione derivata da una combinazione fra i due stili. In ogni caso, il lavoro compiuto esprime la preoccupazione di equilibrare principi anch'essi a coppia; una decorazione lineare in origine viene ripresa alla fine dell'esecuzione per essere parzialmente trasformata in una superficie (col rendere pieni certi settori, come facciamo noi quando disegniamo macchinalmente); la maggior parte delle opere sono fondate sull'alternarsi di due temi: e quasi sempre la figura e il fondo occupano pressappoco uguale superficie, tanto che si può interpretare la composizione in due modi, invertendo i gruppi destinati a rappresentare l'uno o l'altro ruolo: ogni motivo può infatti essere guardato in positivo o in negativo. Infine la decorazione riflette spesso un doppio, principio di simmetria e di asimmetria simultaneamente applicate, ciò che si traduce sotto forma di registri opposti fra loro, raramente divisi o tagliati, più spesso nettamente incisi, o anche inquartati o arrotondati...

Lo stile caduveo ci mette dunque di fronte a tutta una serie di problemi complessi. C'è anzitutto un dualismo che si proietta su piani successivi, come in una sala di specchi: uomini e donne, pittura e scultura, rappresentazione e astrazione, angoli e curve, geometria e arabesco, collo e pancia, simmetria e asimmetria, linea e superficie, bordura e motivo centrale, campo e contorno, figura e fondo. Ma queste opposizioni si percepiscono in ritardo; esse hanno un carattere statico; la dinamica dell'arte, cioè il modo in cui i motivi vengono immaginati ed eseguiti, mescola questo dualismo fondamentale su tutti i piani: poiché i temi primitivi sono prima disarticolati e quindi rielaborati in temi secondari che introducono, in una unità provvisoria, frammenti derivati dai precedenti, e questi vengono sovrapposti in modo tale che la primitiva unità riappare come in un gioco di prestigio. Infine, le complesse decorazioni ottenute con questo sistema vengono risuddivise e ricomposte a mezzo di inquartature simili a quelle dei blasoni, in cui due motivi decorativi si suddividono in quattro angoli opposti a due a due, semplicemente ripetuti o colorati alternativamente. Si può allora spiegare perché questo stile ricordi, ma in senso più sottile, quello delle nostre carte da gioco. Ogni figura di carte obbedisce a due necessità. Essa deve in primo luogo assumere una funzione, che è doppia, essere un oggetto e servire al dialogo ‑ o al duello ‑ fra due competitori che stanno di fronte; e deve anche sostenere un ruolo, assegnato a ogni carta in quanto parte di un insieme: il gioco. Da questa complessa destinazione derivano diverse esigenze: quella della simmetria che è legata alla funzione, e quella della asimmetria che risponde al ruolo. Il problema è risolto con l'adozione di una composizione simmetrica, ma secondo un asse obliquo, che sfugge così alla formula completamente asimmetrica, che avrebbe soddisfatto al ruolo ma avrebbe contraddetto la funzione; e alla formula inversa, completamente simmetrica, che avrebbe prodotto l'effetto contrario. Anche qui si tratta di una situazione complessa corrispondente a due forme contraddittorie di dualismo, che si risolve in un compromesso, realizzato da una opposizione secondaria fra l'asse ideale dell'oggetto e quello della figura che rappresenta.

Ma, per arrivare a questa conclusione, siamo stati obbligati a oltrepassare il piano dell'analisi stilistica. Non basta, per capire lo stile delle carte da gioco, considerare il loro disegno, bisogna anche domandarsi a che cosa servono. A che cosa, dunque, serve l'arte caduvea Abbiamo risposto parzialmente alla domanda, o piuttosto gli indigeni l'hanno fatto per noi. Le pitture del viso conferiscono anzitutto all'individuo la sua dignità di essere umano; esprimono il passaggio dalla natura alla cultura, dall'animale «stupido» all'uomo civilizzato. Inoltre, diverse quanto a stile e a composizione secondo la casta, esprimono in una società complessa la gerarchia delle leggi, e possiedono così una funzione sociologica. Per quanto importante possa essere questa constatazione, non basta a spiegare i caratteri originali dell'arte indigena; tutt'al più spiega la sua esistenza.

Proseguiamo dunque l'analisi della struttura sociale. Gli Mbaya erano divisi in tre caste; ognuna era dominata da regole di etichetta. Per i nobili, e fino a un certo punto per i guerrieri, il problema essenziale era il prestigio. Le antiche descrizioni ce li mostrano paralizzati dalla preoccupazione di salvare la faccia, di non mancare alla propria dignità, e soprattutto di non mischiare il proprio sangue. Una tale società era dunque minacciata dall'isolamento. O per volontà, o per necessità, ogni casta tendeva a ripiegarsi su se stessa a spese della coesione dell'intero corpo sociale. In particolare l'endogamia delle caste e la moltiplicazione delle sfumature gerarchiche, dovevano compromettere la possibilità di unioni conformi alle necessità concrete della vita collettiva. Solo così si spiega il paradosso d'una società contraria alla procreazione che, per proteggersi dal rischio di un inquinamento interno, arriva a praticare quel razzismo all'inverso rappresentato dall'adozione sistematica di nemici o di stranieri.

In queste condizioni, significativo è l'incontrare sulle frontiere estreme del vasto territorio controllato dagli Mbaya, rispettivamente a nord‑est e a sudovest, forme di organizzazione sociale quasi identiche fra loro, a dispetto della distanza geografica. I Guana del Paraguay e i Bororo del Mato Grosso centrale possedevano (e possiedono ancora nel secondo caso) una struttura gerarchizzata, simile a quella degli Mbaya; essi erano, o sono, divisi in tre classi che, almeno in passato, si reggevano con statuti diversi. Queste classi erano ereditarie e endogame. Tuttavia il pericolo più grande segnalato presso gli Mbaya veniva parzialmente compensato, come presso i Guana e i Bororo, da una divisione del gruppo in due metà, che come sappiamo, per quanto riguarda questi ultimi, risuddividevano le classi. Così come si proibiva ai membri di classi diverse di sposarsi fra loro, l'obbligo inverso vigeva fra le metà: un uomo dì una metà doveva necessariamente sposare una donna dell'altra e reciprocamente. È dunque giusto dire che l'asimmetria delle classi si trova in certo senso equilibrata dalla simmetria delle metà.

Dobbiamo pensare che questa struttura complessa, costituita da tre classi gerarchizzate e da due metà equilibrate, sia come un sistema solidale? È possibile. E siamo anche tentati di distinguere i due aspetti e di considerarne uno come se fosse più. antico dell'altro. In questo caso non mancherebbero argomenti in favore della priorità sia delle classi che delle metà.

Ma la questione che qui ci interessa è d'altra natura. Per quanto breve sia stata la mia descrizione del sistema dei Guana e dei Bororo (che sarà ripresa più avanti, quando ricorderò il mio soggiorno presso questi ultimi) è chiaro che questo offre sul piano sociologico una struttura analoga a quella che ho illustrato sul piano stilistico, a proposito dell'arte caduvea. Ci troviamo sempre di fronte a una doppia opposizione. Nel primo caso si oppone una organizzazione ternaria a un'altra binaria, l'una asimmetrica e l'altra simmetrica, e nel secondo caso si oppongono meccanismi sociali fondati gli urti sulla reciprocità e gli altri sulla gerarchia. Lo sforzo per restare fedeli a questi principi contraddittori comporta delle divisioni e suddivisioni del gruppo sociale in sottogruppi alleati e opposti. Come un blasone che riunisce nel suo campo prerogative ricevute da diverse discendenze, la società si trova inquartata, divisa, bipartita e tagliata. Basta considerare il piano di un villaggio bororo (e lo farò più avanti) per accorgersi che è organizzato alla maniera di un disegno caduveo.

Tutto avviene dunque come se, posti di fronte alla contraddizione della loro struttura sociale, i Guana e i Bororo fossero arrivati a risolverla (o a dissimularla) con metodi propriamente sociologici. Forse già suddividevano le caste in metà prima di cadere nella sfera d'influenza degli Mbaya, e il sistema si trovava così a loro disposizione; forse lo hanno fatto posteriormente ‑ o copiando altri ‑ perché la boria aristocratica era meno accentuata in provincia; e si potrebbero fare anche altre ipotesi. Questa soluzione è mancata agli Mbaya, sia che l'abbiano ignorata (il che non è verosimile), sia che fosse incompatibile col loro fanatismo. Essi non hanno dunque avuto la possibilità di risolvere le loro contraddizioni, o almeno di potersele dissimulare grazie a delle istituzioni artificiose.

Ma questo rimedio che è loro mancato sul piano sociale, o che non hanno creduto bene di considerare, non poteva tuttavia sfuggir loro del tutto. Insidiosamente ha continuato a turbarli. E poiché non potevano prenderne coscienza e viverlo, si sono messi a sognarlo. Non sotto una forma diretta che avrebbe urtato contro i loro pregiudizi; ma sotto una forma trasposta e in apparenza inoffensiva: nella loro arte. Se questa analisi è esatta, bisognerà in definitiva interpretare l'arte grafica delle donne caduveo, e spiegare la sua misteriosa seduzione e complicazione a prima vista gratuita, come il fantasma di una società che cerca, con una passione inesausta il modo di esprimere simbolicamente le istituzioni che avrebbe potuto avere, se i suoi interessi e le sue superstizioni non glielo avessero impedito. Adorabile civiltà, la cui visione le regine racchiudono nei loro belletti: geroglifici che descrivono una inaccessibile età dell'oro, celebrata, in mancanza di codici, negli ornamenti il cui mistero esse svelano contemporaneamente alla loro nudità.” (pp. 177-185)

Non è importante, a mio avviso, che questa interpretazione corrisponda alla verità: essa, peraltro sublime, dà la misura di come Lévi-Strauss utilizzi dati apparentemente secondari per identificare una tensione che, in forme diverse, è presente in ogni cultura e società nota: la tensione, spesso rivolta nostalgicamente al passato, di un mondo in cui gli uomini sono uguali e hanno la stessa dignità.

5.

Solo incontrando i Bororo Lévi-Strauss si confronta con una popolazione la cui civiltà è rimasta intatta, a partire dalla disposizione del villaggio, ricca di significati:

“Sono nel mezzo di una radura, limitata da una parte dal fiume, e da tutte le altre da lembi di foresta che nascondono i giardini, e lasciano scorgere fra gli alberi uno sfondo di colline dai fianchi scoscesi di rossa arenaria. Tutto intorno sono disposte le capanne ‑ 26 esattamente ‑ simili alla mia e disposte in cerchio, su una sola fila. Al centro, una capanna, lunga circa 20 metri e larga 8, quindi molto più grande delle altre: è il baitemmannageo, casa degli uomini, dove dormono i celibi e dove la popolazione maschile passa la giornata quando non è occupata alla pesca o alla caccia, o in qualche pubblica cerimonia sul terreno di danza, spazio ovale delimitato da pioli, sui fianco ovest della casa degli uomini. L'accesso di quest'ultima è rigorosamente vietato alle donne; queste occupano le case più periferiche e i loro mariti fanno più volte al giorno la spola fra il loro club e il domicilio coniugale, lungo il sentiero che li collega l'uno all'altro attraverso la sterpaglia della radura. Visto dall'alto di un albero o di un tetto, il villaggio bororo è simile a una ruota di carro di cui le case familiari disegnano il cerchio, i sentieri i raggi; e al centro della quale la casa degli uomini costituisce il mozzo.” (p. 206)

La pianta del villaggio comporta una divisione di fondamentale importanza:

“Il villaggio circolare di Kejara è tangente alla riva sinistra del Rio Vermeiho. Questo scorre approssimativamente in direzione est‑ovest. Un diametro del villaggio, teoricamente parallelo al fiume, divide la popolazione in due gruppi: al nord i Cera, al sud i Tugaré. Sembra ‑ ma non è assolutamente certo ‑ che il primo termine significhi «debole» e il secondo «forte». Comunque sia, la divisione è essenziale per due ragioni: in primo luogo un individuo appartiene sempre alla stessa metà di sua madre; in secondo luogo, egli non può sposare che un membro dell'altra metà. Se mia madre è Cera, lo sono anch'io e mia moglie sarà Tugaré.

Le donne abitano ed ereditano la casa dove sono nate. Al momento del suo matrimonio un indigeno maschio attraversa dunque la radura, supera il diametro ideale che separa le due metà, e va a stabilirsi dall'altra parte. La casa degli uomini tempera questo distacco perché la sua posizione centrale si estende sul territorio delle due metà. Ma le regole di residenza spiegano che la porta che dà in territorio cera si chiama porta Tugaré, e quella che dà in territorio tugaré si chiama porta Cera. In effetti il loro uso è riservato agli uomini e tutti coloro che risiedono in un settore sono originari dell'altro e inversamente.

Con la sua famiglia, dunque, un uomo sposato non si sente mai a casa sua: la sua casa, dove è nato e a cui si ricollegano le sue impressioni d'infanzia, è situata dall'altra parte: è la casa delle sue sorelle e di sua madre, ora abitata dai loro mariti. Ciononostante vi può tornare quando vuole, sicuro di essere ben accolto. E quando l'atmosfera del domicilio coniugale gli sembra troppo pesante (per esempio se vi sono in visita i suoi cognati) può andare a dormire nella casa degli uomini dove ritrova i suoi ricordi di adolescente, il cameratismo maschile e un ambiente religioso per nulla severo di fronte a eventuali piccole tresche con ragazze non sposate.

Il principio delle metà non regola soltanto il matrimonio, ma anche altri aspetti della vita sociale. Ogni volta che un membro di una metà si trova ad esercitare o a compiere un dovere, ciò avviene a profitto o con l'aiuto dell'altra metà. Così, i funerali di un Cera sono a carico dei Tugaré e reciprocamente. Le due metà del villaggio sono dunque compagne nella stessa partita, e tutti gli atti sociali e religiosi implicano l'assistenza dell'altra parte la quale svolge il ruolo complementare a quello da essa sostenuto. Questa collaborazione non esclude la rivalità: c'è un orgoglio della metà alla quale si appartiene e ci sono gelosie reciproche. Immaginiamo dunque una vita sociale sull'esempio di due squadre di football che, invece di cercare di contrastare le loro rispettive strategie, si applicassero a servirsi l'una con l'altra e misurassero il vantaggio dal grado di perfezione e di generosità che ciascuna di esse riuscisse a raggiungere...” (pp. 206-209)

All’interno di questa divisione, la struttura sociale riconosce i clan:

“La popolazione è raggruppata in clan. Sono gruppi di famiglie che si considerano parenti per via femminile, partendo da un comune antenato di natura mitologica e a volte perfino dimenticato. Diciamo dunque che i membri di un clan si riconoscono perché portano lo stesso nome. E probabile che in passato i clan fossero in numero di 8: 4 per i Cera e 4 per i Tugaré. Ma nel corso del tempo alcuni si sono estinti, altri si sono suddivisi. In realtà la situazione è dunque piuttosto confusa. Comunque, resta il fatto che i membri di un clan ‑ ad eccezione degli uomini sposati ‑ abitano tutti la stessa capanna o le capanne adiacenti. Ogni clan ha dunque la sua posizione nel cerchio delle case: è Céra o Tugaré, della parte a monte o di quella a valle, oppure diviso, ancora in due sottogruppi a causa di quell'ultima divisione che, sia da una parte che dall'altra, passa attraverso le abitazioni di un determinato clan...

La distribuzione della popolazione in clan costituisce senza dubbio il più importante di quei regolamenti di cui la società bororo sembra compiacersi. Nel quadro del sistema generale dei matrimoni fra metà, i clan sono già stati uniti da speciali affinità; infatti, un clan Cera si allea di preferenza con uno, due o tre clan Tugaré e inversamente In più, i clan non sono tutti regolati dallo stesso statuto. Il capo del villaggio è scelto obbligatoriamente in un clan determinato della metà Cera, con trasmissione ereditaria del titolo in linea femminile, dallo zio materno al figlio di sua sorella. Ci sono dei clan ricchi e dei clan poveri. In che cosa consiste questa differenza? Fermiamoci un istante su questo punto.

La nostra concezione della ricchezza è principalmente economica; per quanto modesto sia il livello di vita dei Bororo, anche fra loro, come fra noi, esistono differenze. Alcuni sono migliori cacciatori o pescatori, più fortunati o più industriosi degli altri. Si possono osservare a Kejara degli indizi di specializzazione professionale. Un indigeno era esperto nella confezione di levigatoi di pietra, che scambiava con prodotti alimentari, vivendo, sembra, comodamente. Tuttavia queste differenze sono individuali, quindi passeggere.

La sola eccezione è costituita dal capo, che riceve delle prestazioni da tutti i clan, sotto forma di nutrimento e di oggetti manifatturati. Ma poiché ricevendo egli rimane obbligato, è sempre nella situazione di un banchiere: molte ricchezze passano nelle sue mani, senza che le possegga mai. La mia collezione di oggetti religiosi è stata realizzata in contropartita di doni immediatamente ridistribuiti dal capo fra i clan, e che gli sono serviti a sanare la sua bilancia commerciale.

La ricchezza statutaria dei clan è di altra natura. Ciascuno possiede un capitale di miti, di tradizioni, di danze, di funzioni sociali e religiose. A loro volta, i miti fondano dei privilegi tecnici che sono uno dei tratti più interessanti della cultura bororo. Quasi tutti gli oggetti sono blasonati in modo da permettere l'identificazione del clan e del sotto‑clan del proprietario. Questi privilegi consistono nell'utilizzare certe piume, o colore di piume; nel modo di tagliarle e di assottigliarle; nella disposizione di piume di specie e di colore diverso; nell'esecuzione di certi lavori decorativi; come intreccio di fibre o mosaico di piume; nell'impiego di motivi speciali, ecc. Così gli archi cerimoniali sono ornati di piume o di anelli di scorza secondo dei canoni prescritti per ogni clan; l'asta delle frecce porta alla base, fra le piume dell'impennatura, un ornamento specifico; gli elementi di madreperla dei labbretti articolati sono intagliati in figure ovali, pisciformi, rettangolari, secondo i clan; il colore delle frange varia; i diademi di piume portati nelle danze hanno un'insegna (generalmente una targhetta di legno coperta da un mosaico di piume incollate) che si riferisce al clan del proprietario. I giorni di festa, perfino gli astucci coprisesso sono sormontati da un nastro di paglia rigido, decorato o cesellato nei colori e nelle forme del clan, stendardo bizzarramente portato!

Tutti questi privilegi (che sono del resto negoziabili) sono oggetto di una sorveglianza gelosa e litigiosa. E inconcepibile, si dice, che un clan si impadronisca delle prerogative di un altro: ne nascerebbe una lotta fratricida. Ora, da questo punto di vista, le differenze fra i clan sono enormi: alcuni sono lussuosi, altri miseri; basta osservare i mobili delle capanne per convincersene. Piuttosto che in ricchi e poveri, li distingueremo in grossolani e in raffinati.” (pp. 207-211)

La tecnologia è estremamente primitiva, ma comporta una grande attenzione per gli accessori dell’abbigliamento, ridotto peraltro al minimo (l’astuccio salva-pene per gli uomini, un perizoma per le donne):

“L'equipaggiamento materiale dei Bororo è caratterizzato dalla semplicità, unita a una rara e perfetta esecuzione. Gli attrezzi sono rimasti arcaici, malgrado le asce e i coltelli distribuiti a suo tempo dal Servizio di Protezione. Pur ricorrendo agli strumenti di metallo per i lavori grossi, gl'indigeni rifiniscono ancora sia le mazze per uccidere il pesce che gli archi e le frecce di legno duro delicatamente dentate, con uno strumento per metà piccola ascia e per metà bulino, che usano in tutte le occasioni come noi facciamo con il coltello da tasca: esso consiste in un incisivo incurvato del capivara, roditore delle rive dei fiumi, fissato lateralmente con una legatura all'estremità del manico. A parte le stuoie e i panieri di vimini, le armi e gli utensili ‑ di osso o di legno ‑ degli uomini, le zappette delle donne cui sono affidati i lavori agricoli, l'equipaggiamento di una capanna consta di ben poche cose: recipienti di zucca, o in terracotta nera; catinelle emisferiche e scodelle con un manico a guisa di mestolo. Questi oggetti presentano forme purissime, messe in rilievo dall'austerità della materia...

In contrasto con l'austerità degli oggetti utilitari, i Bororo mettono tutto il loro lusso e la loro fantasia nell'abbigliamento, o almeno ‑ poiché questo è dei più sommari ‑ nei suoi accessori. Le donne posseggono veri scrigni che si trasmettono di madre in figlia: finimenti in denti di scimmia o in zanne di giaguaro montate in legno o fissate con sottili legature. Tengono per sé le spoglie della caccia ma si fanno poi depilare le tempie dagli uomini i quali confezionano, coi capelli delle loro spose, lunghe cordicelle intrecciate che avvolgono intorno alla testa come un turbante. Gli uomini portano anche, i giorni di festa, dei ciondoli a mezzaluna formati da un paio di unghie di armadillo ‑ animale scavatore le cui dimensioni sorpassano il metro e che si è trasformato solo di poco dall'èra terziaria ‑ ornate di incrostazioni di madreperla, e di frange di piume o di cotone. I becchi di tucano fissati su asticciole piumate, i fasci di aigrettes, le lunghe piume della coda degli araras, che sbocciano da fusti di bambù traforati e coperti di bianca lanugine incollata, vengono infilati dietro nelle crocchie naturali o artificiali, come grandi spilloni, equilibrando i diademi di piume che circondano la fronte. Talvolta questi ornamenti sono combinati in acconciature composite che richiedono diverse ore per essere fissate sulla testa del danzatore...

Anche se non sono in tenuta da cerimonia, il gusto dell'ornamento è così vivo che gli uomini si improvvisano continuamente acconciature. Molti portano corone: strisce di pelli ornate di piume, anelli di vimini ugualmente impiumati, corone di unghie di giaguaro montate su un cerchio di legno. Ma basta molto meno per sedurli; un nastro di paglia disseccata, raccolta in terra, rapidamente arrotolato e dipinto, ecco una fragile acconciatura sotto cui l'uomo si pavoneggerà finché non la sostituirà con un'altra fantasia diversamente ispirata; a volte, a questo scopo, spogliano un albero dei suoi fiori. Un pezzo di scorza, qualche piuma, dànno agli instancabili ideatori pretesto per creare un paio di sensazionali orecchini. Bisogna penetrare nella casa degli uomini per rendersi conto dell'attività impiegata da quei robusti giovanotti a farsi belli: in ogni angolo i taglia, si compone, si cesella, si incolla; le conchiglie del fiume vengono ridotte in frammenti e vigorosamente levigate alla mola per farne collane e labbretti; fantastiche costruzioni di bambù e di piume si accatastano. Con una applicazione degna di una ricamatrice, uomini dall'aspetto di facchini si trasformano reciprocamente in pulcini, incollandosi piume perfino sulla pelle.” (pp. 211-213)

La centralità della casa degli uomini ha profondi significati, l’ultimo dei quali del tutto inconscio:

“Pur essendo laboratorio, circolo, dormitorio e casa saltuaria, il baitemmannageo è in definitiva un tempio. In esso i danzatori sacri si preparano e alcune cerimonie vi si svolgono lontano dalla presenza delle donne; come la fabbricazione e la roteazione dei rombi. Questi sono strumenti musicali di legno, riccamente dipinti, la cui forma ricorda quella di un pesce appiattito, e la cui dimensione varia da 30 centimetri a un metro e mezzo circa...

Per l'osservatore europeo, le attività ai nostri occhi difficilmente compatibili che si svolgono nella casa degli uomini, si armonizzano in modo quasi scandaloso. Pochi popoli sono tanto profondamente religiosi quanto i Bororo, e pochi hanno un sistema metafisico così elaborato...

Nella casa degli uomini, gli atti del culto si compivano con la stessa disinvoltura di tutti gli altri, come se si trattasse di azioni utilitarie eseguite per il loro risultato, senza richiedere quell'atteggiamento rispettoso che s'impone anche a un non credente, quando entra in un santuario. Questo pomeriggio, si canta nella casa degli uomini in preparazione del rituale pubblico della sera. In un angolo, dei ragazzi strepitano o chiacchierano, due o tre uomini canticchiano e agitano i sonagli, ma se uno di essi ha voglia di accendere una sigaretta o se è il suo turno di mescolare il paiolo del mais, passa lo strumento a un vicino oppure lo fa con una mano, continuando a suonare con l'altra. Se un danzatore si pavoneggia per fare ammirare la sua ultima creazione, tutti si fermano e commentano, la funzione sembra dimenticata fino a che, in un altro angolo, il rito riprende al punto dove era stato interrotto.

Ciononpertanto, il significato della casa degli uomini, va oltre l'essere il centro della vita sociale e religiosa che ho tentato di descrivere. La struttura del villaggio non fa che favorire il giuoco raffinato delle istituzioni: essa riassume e assicura i rapporti fra l'uomo e l'universo, fra la società e il mondo soprannaturale, fra i vivi e i morti.”

“Sarebbe inesatto dire che non esiste per i Bororo la morte naturale: per loro un uomo non è un individuo, ma una persona. Egli fa parte di un universo sociologico: il villaggio, il quale esiste dall'eternità, a fianco dell'universo fisico, esso stesso composto di altri esseri animati come i corpi celesti o fenomeni meteorologici. Tutto ciò, a dispetto del carattere temporaneo dei villaggi concreti, i quali (in conseguenza dell'esaurimento dei terreni coltivabili) raramente resistono nello stesso luogo per più di 30 anni. Quello che costituisce il villaggio non è dunque né il suo terreno né le sue capanne, bensì una determinata struttura che ho già descritto e che tutto il villaggio riproduce. Si capisce dunque perché, alterando la disposizione tradizionale dei villaggi, i missionari distruggono tutto...

Se il pensiero dei Bororo (pari in questo agli etnografi) è dominato da una opposizione fondamentale fra natura e cultura, se ne deduce che, più sociologhi ancora che Durkheim e Comte, fanno dipendere la vita umana dall'ordine della cultura. Parlare di morte naturale o antinaturale è senza senso. Di fatto e di diritto, la morte è ad un tempo naturale e antinaturale. Ciò vuoi dire che, ogni volta che muore un indigeno, non soltanto i suoi prossimi, ma la società intera vengono lesi. Il danno che la natura arreca alla società comporta, a detrimento della prima, un debito, termine che traduce abbastanza bene una nozione essenziale presso i Bororo, quella cioè di mori. Quando un indigeno muore, il villaggio organizza una caccia collettiva, affidata alla metà opposta a quella del defunto: spedizione contro la natura e che ha per scopo di abbattere un grosso animale, di preferenza un giaguaro, la cui pelle, le unghie e gli artigli, costituiranno il mori del defunto.” (pp. 219-220)

La mediazione tra vivi e morti è assicurata da due diverse figure: lo stregone o bari e il padrone della via delle anime o aroettowaraare:

“I bari formano una categoria speciale di esseri umani che non appartengono completamente né all'universo fisico, né al mondo sociale, ma il cui compito è di stabilire una mediazione fra i due regni. E possibile, ma non certo, che tutti gli stregoni siano nati nella metà tugaré; era il caso del mio, perché la nostra era una capanna cera ed egli abitava, come d'uso, presso sua moglie. Si diventa bari per vocazione, e spesso in seguito ad una rivelazione il cui motivo centrale è un patto concluso con alcuni membri di una collettività molto complessa, composta di spiriti malefici o semplicemente temibili, in parte celesti (e che controllano allora i fenomeni astronomici e meteorologici), in parte animali e in parte sotterranei. Questi esseri, il cui numero si accresce regolarmente con le anime degli stregoni defunti, sono responsabili del cammino degli astri, del vento, della pioggia, della malattia e della morte. Sono descritti con apparenze diverse e terrificanti; villosi, con teste bucherellate che lasciano sfuggire il fumo del tabacco quando essi fumano; mostri aerei che emettono la pioggia dagli occhi, dalle narici o dai capelli e dalle unghie smisuratamente lunghe; oppure con un'unica gamba, con un grosso ventre e un corpo villoso di pipistrello.

Il bari è un personaggio asociale. Il legame personale che lo unisce a uno o più spiriti gli conferisce molti privilegi: aiuto soprannaturale quando parte per una spedizione di caccia solitaria, facoltà di trasformarsi in bestia e conoscenza delle malattie e dei doni profetici. La selvaggina uccisa durante la caccia, i primi raccolti dei giardini, non possono essere consumati finché essi non ne hanno ricevuto la loro parte. Questa costituisce il mori dovuto dai vivi agli spiriti dei morti; rappresenta dunque, nel sistema, una parte simmetrica e inversa di quella della caccia funebre di cui ho già parlato.

Ma il bari è dominato dal suo o dai suoi spiriti custodi i quali lo utilizzano per incarnarsi, e il bari, depositano dello spirito, cade allora in preda a trance e a convulsioni. In cambio della sua protezione, lo spirito esercita sui bari una sorveglianza continua; è il vero proprietario, non solo dei beni, ma del corpo stesso dello stregone. Questi è responsabile verso lo spirito delle sue frecce spezzate, della rottura delle sue stoviglie, del taglio delle sue unghie e dei suoi capelli. Niente di tutto questo può essere distrutto o gettato via; il bari si porta dietro i detriti della sua vita passata. Il vecchio proverbio giuridico: il morto afferra il vivo, trova qui un senso terribile e imprevisto. Fra lo stregone e lo spirito, il legame è di natura così intima che, delle due parti contraenti, non si sa mai alla fine chi sia il padrone e chi il servitore.” (pp. 220-221)

“Così, come il bari è l'intermediario fra la società umana e le anime maligne, individuali e cosinologiche (abbiamo visto che le anime dei bari morti rappresentano tutto ciò contemporaneamente), c'è un altro mediatore che presiede alle relazioni fra la società dei vivi e la società dei morti, quest'ultima benefica, collettiva e antropomorfica. Si tratta del «padrone della via delle anime» o aroettowaraare e si distingue dal bari per dei caratteri antitetici. Anzitutto si temono e si odiano reciprocamente. Il «padrone della via» non ha diritto a offerte, ma è tenuto alla stretta osservanza di certe regole: alcune proibizioni alimentari, e una grande sobrietà nel vestire. Le acconciature, i colori vivi gli sono proibiti. D'altra parte, non ci sono patti fra lui e le anime: queste sono sempre presenti e in certo modo immanenti. Non si impadroniscono di lui in trance, ma gli appaiono in sogno; e se a volte le invoca, è soltanto a beneficio di altri.

Mentre il bari prevede la malattia e la morte, il «padrone della via» cura e guarisce...

Detto questo, non sorprenderà che le cerimonie funebri si prolunghino per diverse settimane: perché le loro funzioni sono molto diverse. Sono le manifestazioni dei due piani finora considerati. Da un punto di vista individuale, ogni morto è occasione di un arbitraggio fra l'universo fisico e la società. Le forze ostili che costituiscono il primo hanno causato un danno alla seconda, e questo danno dev'essere riparato: è il compito della caccia funebre. Dopo essere stato vendicato e riscattato dalla collettività dei cacciatori, il morto verrà incorporato nella società delle anime.” (pp. 222-223)

Ma cosa c’è dietro il potere del bari e dell’aroettowaraare?

“Abbiamo visto che il mondo soprannaturale è anch'esso doppio, poiché comprende il dominio del sacerdote e quello dello stregone. Quest'ultimo signoreggia le potenze celesti e telluriche, dal decimo cielo (i Bororo credono in una pluralità dei cieli sovrapposti) fino alla profondità della terra; le forze che egli controlla e da cui dipende sono dunque disposte secondo un asse verticale; mentre il sacerdote che sovrintende al cammino delle anime, presiede all'asse orizzontale che unisce l'Oriente all'Occidente, dove sono situati i due villaggi dei morti. Ora, le numerose indicazioni a favore dell'origine immutabilmente tugaré dei bari, e cera dell'aroettowaraare, suggeriscono che la suddivisione in metà esprime anche questa dualità. E' sorprendente che tutti i miti bororo presentino gli eroi tugaré come dei creatori e dei demiurgi e gli eroi cera come pacificatori e ordinatori. I primi sono responsabili dell'esistenza delle cose: acqua, fiumi, pesci, vegetazione e oggetti manifatturati; i secondi hanno organizzato la creazione; hanno liberato l'umanità dai mostri e assegnato a ogni animale il suo speciale nutrimento. C'è anche un mito che racconta come il potere supremo appartenesse un tempo ai Tugaré che poi vi avrebbero rinunciato a favore dei Cera, come se il pensiero indigeno, con la contrapposizione delle metà, volesse significare il passaggio dalla natura scatenata alla società costituita.

Noi comprendiamo quindi l'apparente paradosso che permette di chiamare «deboli» i Cera detentori del potere politico e religioso, e «forti» i Tugaré. Questi sono più vicini all'universo fisico e quelli all'universo umano che è tuttavia il più potente fra due. L'ordine sociale non può identificarsi completamente con la gerarchia cosmica. Anche fra i Bororo, non si vince la natura che riconoscendo il suo impero e. rispettando le sue fatalità. In un sistema sociologico come il loro non c'è d'altronde altra scelta: un uomo non potrebbe appartenere alla stessa metà di suo padre o di suo figlio (poiché dipende da quella di sua madre): si trova quindi ad appartenere alla stessa metà soltanto con suo nonno e con suo nipote. E i Cera che giustificano il loro potere facendolo derivare da una stretta affinità con gli eroi fondatori, devono nello stesso tempo accettare di allontanarsi da loro, con io scarto supplementare di una generazione. In rapporto ai grandi antenati, essi diventano dei «nipoti» mentre i Tugaré sono dei «figli».

Ingannati dalla logica di questo sistema, gli indigeni lo sono anche da altro. Dopo tutto, non posso eliminare la sensazione che l'abbagliante danza metafisica a cui ho appena assistito, si ricolleghi a una farsa piuttosto lugubre. La confraternita degli uomini pretende di rappresentare i morti per dare ai vivi l'illusione della visita delle anime; le donne sono escluse dai riti e ingannate sul vero significato che hanno, senza dubbio per sanzionare il patto che concede loro la priorità in materia di stato civile e di residenza, riservando ai soli uomini i misteri della religione. Ma la loro credulità reale o supposta possiede anche una funzione psicologica: dare, a beneficio dei due sessi, un contenuto affettivo e intellettuale a quei fantocci che altrimenti gli uomini non farebbero muovere con tanto impegno. Non è soltanto per ingannare i nostri bambini che vogliamo che continuino a credere in Papà Natale: il loro fervore ci riscalda, ci aiuta a ingannare noi stessi e a credere, poiché essi ci credono, che un mondo di generosità senza contropartita è compatibile con la realtà. Ciononostante gli uomini muoiono e non tornano mai; e ogni ordine sociale si avvicina alla morte nel senso che preleva qualche cosa senza dare nulla in cambio.

La società bororo dà una lezione al moralista: ascolti gli informatori indigeni: gli descriveranno, come hanno fatto con me, quel balletto in cui le due metà del villaggio si ingegnano a vivere e respirare l'una per l'altra, l'una a mezzo dell'altra; scambiandosi le donne, i beni, e i servizi in un fervido impegno di reciprocità; sposando i loro figli fra loro; seppellendo mutualmente i loro morti; assicurandosi l'un l'altro che la vita è eterna, il mondo soccorrevole e la società giusta. Per testimoniare queste verità e sostenere queste convinzioni, i loro saggi hanno elaborato una cosmologia grandiosa e l'hanno espressa nel piano dei loro villaggi e nelle distribuzioni delle abitazioni.

Non si lasciavano scoraggiare dalle contraddizioni contro cui urtavano, e se accettavano una opposizione era solo per negarla a profitto di un'altra, dividendo e suddividendo i gruppi, associandoli e mettendoli a fronte, facendo di tutta la loro vita sociale e spirituale un blasone in cui la simmetria e l'asimmetria si equilibravano, come nei sapienti disegni con cui una bella caduveo, ancor più profondamente dominata dalla . stessa preoccupazione, sfregia il suo viso. Ma che cosa resta di tutto questo? Che cosa sussiste delle metà, delle contro-metà, dei clan, dei sotto-clan, di fronte a questa constatazione che le osservazioni recenti sembrano imporci?

In una società complicata in modo apparentemente arbitrario, ogni clan è suddiviso in tre gruppi: superiore, medio, inferiore; e al di sopra di tutti i regolamenti domina quello che obbliga un superiore di una metà a sposare un superiore dell'altra, un medio un medio, e un inferiore un inferiore; cioè a dire che sotto la maschera delle istituzioni fraterne, il villaggio bororo si riduce in ultima analisi a tre gruppi, che si sposano sempre fra loro. Tre società che, senza saperlo, resteranno per sempre distinte e isolate, prigioniere ciascuna di un orgoglio dissimulato ai loro stessi occhi da istituzioni menzognere, così ciascuna è la vittima incosciente di artifici ai quali non può più attribuire un oggetto. I Bororo hanno un bell'ostentare i loro sistemi in una vana prosopopea: come già altri, del resto, essi non sono riusciti a smentire questa verità: la rappresentazione che una società fa dei rapporti fra vivi e morti si riduce a uno sforzo per nascondere, abbellire e giustificare, sul piano del pensiero religioso, le relazioni reali che prevalgono fra i vivi.” (pp. 227-229)

6.

Dopo i Bororo, Lèvi-Strauss incontra i Nambikwara ed è una sorta di illuminazione:

“I Caduvei e i Bororo si potrebbero chiamare, a titoli diversi - e non sembri un paradosso - società sapienti. I Nambikwara riportano l’osservatore a ciò che potrebbe semrargli, ama atorto, un’infanzia dell’umanità.” (p. 258)

I tratti salienti della popolazione sono i seguenti:

“L'anno nambikwara si divide in due periodi distinti. Nella stagione delle piogge, da ottobre a marzo, ogni gruppo si raduna su una piccola altura presso un ruscello, e vi costruisce delle rozze capanne con rami di palme. Essi aprono varchi nel folto delle verdi gallerie che occupano il fondo umido delle valli, e vi piantano e coltivano giardini in cui vegetano soprattutto la manioca (dolce o amara), diverse specie di mais, tabacco, a volte fagioli, cotone, arachidi e zucche. Le donne grattugiano la manioca su tavolette incrostate di spine di palme e, se si tratta di varietà velenose, ne traggono il sugo strizzando la polpa fresca in un pezzo di scorza ritorta. Il giardinaggio dà una parte dell'alimentazione necessaria per il periodo di vita stabile. I Nambikwara conservano anche le focacce di manioca mettendole sottoterra, da dove poi le estraggono, mezzo marcite, dopo qualche settimana o qualche mese.

Al principio della stagione secca il villaggio viene abbandonato e il gruppo si spezza in diverse bande nomadi. Per 7 mesi, queste bande vanno errando attraverso la savana, in cerca di selvaggina: soprattutto piccoli animali, come larve, ragni, cavallette, roditori, serpi, lucertole; e di frutta, bacche, radici, miele selvatico, in breve qualsiasi cosa che impedisca loro di morire di fame. Gli accampamenti impiantati per uno o più giorni, a volte per qualche settimana, sono costituiti da sommari rifugi, tanti quante sono le famiglie, fatti di palme o di rami conficcati nella sabbia in semicerchi e legati alla sommità. Man mano che il giorno avanza, le palme vengono ritirate da una parte e piantate dall'altra, affinché lo schermo protettore si trovi sempre dalla parte del sole, o al caso, del vento o della pioggia. E l'epoca in cui la ricerca di cibo assorbe ogni cura. Le donne si armano di bacchette che servono a estrarre le radici e ad abbattere i piccoli animali; gli uomini cacciano con grandi archi di legno di palma e frecce di diversi tipi: quelle destinate agli uccelli, hanno la punta smussata perché non rimangano conficcate nei rami; le frecce da pesca, più lunghe, non hanno impennatura e terminano con tre o cinque punte divergenti; le frecce avvelenate la cui punta intinta nel curaro è protetta da un astuccio di bambù, sono riservate alla selvaggina media, mentre quelle per la caccia grossa - giaguaro o tapiro - hanno una-punta lanceolata fatta con una grossa scheggia di bambù, al fine di provocare l'emorragia, dato che la dose di veleno inoculata da una freccia sarebbe insufficiente.

Dopo gli splendori dei palazzi bororo, lo squallore in cui vivono i Nambikwara sembra incredibile. Né uomini né donne portano vestìti; si distinguono dalle tribù vicine sia per il tipo fisico che per la povertà della loro cultura. La statura dei Nambikwara è piccola: m. i,6o circa per gli uomini, e m. 1,50 per le donne; e per quanto queste ultime, come tante altre Indiane sudamericane, non abbiano la vita molto sottile, le loro membra sono più gracili, le loro estremità più minute, e le loro attaccature più fragili di quanto si possa pensare. Sono tutti di pelle più scura; molti sono affetti da malattie epidermiche che ricoprono il loro corpo di chiazze violacee, ma negli individui sani, la sabbia in cui amano rotolarsi dà alla loro pelle un vellutato color nocciola che, soprattutto nelle donne giovani, è estremamente attraente. La testa è allungata, i tratti spesso fini e ben disegnati, lo sguardo vivo, il sistema pilifero più sviluppato che presso le popolazioni di ceppo mongolico, i capelli raramente di un nero deciso e poco ondulati. Questo tipo fisico aveva colpito i primi visitatori, suggerendo loro l'ipotesi di un incrocio con dei negri evasi dalle piantagioni per rifugiarsi nelle quilombos, colonie di schiavi ribelli. Ma se i Nambikwara si fossero mischiati con sangue negro in un'epoca recente, sarebbe incomprensibile la loro appartenenza, che abbiamo avuto modo di verificare a suo tempo, al gruppo sanguigno O, ciò che implica, se non un'origine puramente indiana, in ogni caso un isolamento demografico prolungato per secoli. Oggi il tipo fisico dei Nambikwara ci appare meno problematico; esso si avvicina a quello di una antica razza le cui ossa si sono ritrovate in Brasile nelle Grotte di Lagoa Santa, una località nello Stato di Minas Geraes. Quanto a me, ho riscontrato con stupore in loro quasi gli stessi lineamenti caucasici di certe statue e bassorilievi della regione di Vera Cruz, che vengono attribuiti alle più antiche civiltà del Messico.

Questo ravvicinamento rendeva ancora più perplessi in quanto la povertà della cultura materiale dei Nambikwara non consentiva che questi fossero collegati alle più alte culture dell'America centrale o settentrionale, ma piuttosto a considerarli come i sopravvissuti dell'età della pietra. L'abbigliamento delle donne si riduceva a un filo di conchiglie legato attorno alla vita e a qualche altro portato a guisa di collana o di bandoliera; orecchini di madreperla o di piume, braccialetti tagliati nella corazza dell'armadillo e, a volte, qualche striscetta di paglia o di cotone (tessute dagli uomini) strette ai bicipiti o alle caviglie. La tenuta maschile era ancora più sommaria, salvo un fiocco di paglia appeso alla cintura sopra gli organi sessuali.

Oltre l'arco e le frecce, l'armamento comprende una specie di spiedo appiattito il cui uso sembra sia magico oltre che guerriero: non l'ho visto usare che per cerimonie destinate a mettere in fuga l'uragano o a uccidere, proiettandolo nella direzione giusta, gli atasu, cioè gli spiriti maligni della boscaglia. Gli indigeni chiamano con lo stesso nome le stelle e i buoi che temono grandemente (mentre uccidono e mangiano volentieri i muli, che tuttavia hanno conosciuto nello stesso tempo). Il mio orologio da polso era anche un atasu.

Tutti i beni dei Nambikwara sono contenuti nella gerla che le donne trasportano durante il periodo nomade. Queste gerle sono fatte con liste di bambù intrecciate a sei capi (due paia perpendicolari fra loro e un paio obliquo) formanti una rete a larghe maglie stellate; leggermente svasate all'apertura superiore, esse finiscono a dito di guanto in basso. La loro dimensione può raggiungere m. 1,50, cioè l'altezza della portatrice. In fondo mettono qualche focaccia di manioca coperta di foglie, e sopra le masserizie e gli utensili: recipienti di zucca, coltelli di scheggia tagliente di bambù o di pietra tagliata grossolanamente, oppure di pezzi di ferro - ottenuti con scambi - fissati, mediante cera e cordicelle, fra due tavolette di legno che formano il manico; trapani composti di un punteruolo di pietra o di ferro fissato all'estremità di un manico che si fa girare fra le palme. Gli indigeni possiedono asce e scuri di metallo, ricevute dalla Commissione Rondon, sicché le loro asce di pietra servono ormai solo da incudine, per la lavorazione della conchiglia e dell'osso; per cui inoltre usano sempre mole e levigatori di pietra. Il vasellame è sconosciuto ai gruppi orientali (da cui ho iniziato la mia ricerca) ma del resto è molto grossolano ovunque. I Nambikwara non hanno piroghe e traversano i corsi d'acqua a nuoto, aiutandosi a volte con delle fascine come salvagente.

Questi utensili sono molto rozzi e meritano appena il nome di oggetti manifatturati. La gerla nambikwara contiene soprattutto le materie prime con le quali si fabbricano gli oggetti man mano che se ne ha bisogno: legni vari, specie quelli che servono ad accendere il fuoco per sfregamento, blocchi di cera o di resina, matasse di fibre vegetali, ossa, denti e unghie di animali, frammenti di pelliccia, piume, aculei di riccio, malli di noce e conchiglie fluviali, pietre, cotone e bacche. Tutto ciò presenta un aspetto così informe da scoraggiare il collezionista, di fronte a questa esposizione che sembra essere il risultato, più che dell'industriosità umana, dell'attività, osservata alla lente d'ingrandimento, di una razza gigante di formiche. E proprio a una colonna di formiche fanno pensare i Nambikwara quando marciano in fila attraverso le alte erbe, ogni donna carica della sua gerla di vimini chiaro, come le formiche lo sono a volte delle loro uova.

Fra gli Indiani dell'America tropicale a cui si deve l'invenzione dell'amaca, la povertà è simbolizzata dall'ignoranza di questo utensile e di qualunque altro che possa servire al riposo e al sonno. I Nambikwara dormono in terra e nudi. Poiché le notti della stagione secca sono fredde, si scaldano stringendosi gli uni contro gli altri, o si avvicinano ai fuochi da campo che vanno spegnendosi, tanto che all'alba si svegliano avvoltolati nelle ceneri ancora tepide del focolare. Per questa ragione i Paressi hanno affibbiato loro un soprannome: uaikoakoré, quelli che dormono per terra.” (pp.158-161)

Sullo sfondo di questa povertà tecnologica, la ricchezza dei rapporti umani ha un risalto particolare:

“I Nambikwara si svegliano col giorno, ravvivano il fuoco e si scaldano alla meglio dal freddo della notte, poi fanno una leggera colazione con gli avanzi della sera. Un po' più tardi gli uomini partono, in gruppi o separatamente, per andare a caccia. Le donne restano all'accampamento dove attendono alla cucina. Il primo bagno lo fanno quando il sole è già alto. Le donne e i bambini si bagnano spesso insieme per gioco, e a volte accendono un fuoco davanti al quale si accoccolano per riscaldarsi uscendo dall'acqua, esagerando scherzosamente il naturale batter di denti. Faranno altri bagni durante la giornata. Le occupazioni quotidiane subiscono poche variazioni. La preparazione del cibo è quella che richiede più tempo e più cura: bisogna grattugiare e pressare la manioca, far seccare la polpa e cuocerla; oppure sgusciare e bollire le noci di cumaru che dànno un profumo di mandorla amara alla maggior parte delle vivande. Quando ce n'è bisogno, le donne e i bambini vanno in cerca di insetti e radici, o di legna. Se le provviste sono sufficienti le donne filano, accoccolate sui talloni, o in ginocchio sedute sui talloni. Oppure tagliano, levigano e infilano gusci di noce o conchiglie per farne collane, orecchini o altri ornamenti. E se il lavoro le annoia, si spidocchiano a vicenda, oziano o dormono

Nelle ore più calde l'accampamento è silenzioso; gli abitanti, muti o addormentati, godono dell'ombra labile dei ripari. Per il resto del tempo, lavorano chiacchierando. Quasi sempre allegri e ridanciani, gli indigeni lanciano motti di spirito, e a volte anche proposte oscene o escatologiche accolte da gran scoppi di risa. Il lavoro è spesso interrotto da visite o da litigi; se due cani o due volatili domestici si accoppiano, tutti si fermano e contemplano la scena con un'attenzione affascinata; poi il lavoro riprende dopo uno scambio di commenti su questo importante avvenimento.

I bambini oziano per gran parte della giornata, le ragazze si dedicano ogni tanto alle faccende delle donne adulte e i ragazzi oziano o pescano in riva ai corsi d'acqua. Gli uomini rimasti all'accampamento intrecciano vimini, fabbricano frecce o strumenti musicali, e fanno a volte qualche piccolo servizio domestico. L'accordo regna generalmente nelle famiglie. Verso le 3 o le 4 gli altri uomini tornano dalla caccia, l'accampamento si anima, le conversazioni diventano più vivaci, si formano gruppi diversi dagli agglomerati familiari. Si mangiano gallette di manioca o quanto è stato trovato durante il giorno. Quando cade la sera, alcune donne, designate giornalmente, vanno a raccogliere o a tagliare nella vicina boscaglia la provvista di legna per la notte. Si vedono tornare al crepuscolo, incespicanti sotto il peso che tende la fascia usata per il trasporto. Per scaricarsi si chinano all'indietro posando al suolo la gerla di bambù.

I rami vengono ammassati in un angolo dell'accampamento, e ognuno ne prende secondo il bisogno. I gruppi familiari si ricostituiscono attorno ai rispettivi fuochi che cominciano a brillare. La serata passa in conversazioni oppure in canti e danze. A volte questi passatempi si protraggono molto avanti nella notte, ma in generale, dopo scambi di carezze e lotte amichevoli, le coppie si uniscono più strettamente, l madri stringono a sé il figlio addormentato, tutto diventa silenzioso, e la fredda notte è animata soltanto dallo scricchiolio di un ciocco, dal passo leggero dell'addetto ai fuochi, dall'abbaiare dei cani o dal pianto di un bambino.

I Nambikwara hanno pochi bambini: come in seguito dovevo notare, le coppie senza figli non sono rare, uno o due figli sono una cifra normale ed è eccezionale trovarne più di tre in una famiglia. I rapporti sessuali sono vietati fra i genitori finché l'ultimo nato non sia svezzato, cioè spesso fino al suo terzo anno. La madre porta abitualmente il bambino a cavalcioni sulla coscia, sostenuto da una larga bandoliera di corteccia o di cotone; oltre la gerla, le sarebbe impossibile di portarne un secondò. Le esigenze della vita nomade, la loro povertà, impongono agli indigeni una grande prudenza; quando è necessario le donne non esitano a ricorrere a mezzi meccanici o a piante medicinali per procurarsi l'aborto.

Tuttavia gli indigeni provano per i loro figli e manifestano nei loro confronti un vivissimo affetto, del tutto ricambiato. Ma questi sentimenti sono spesso mascherati dal nervosismo e dalla loro instabilità. Un ragazzetto soffre di indigestione; ha mal di testa, vomita, passa metà del tempo a lamentarsi e l'altra a dormire. Nessuno gli presta la minima attenzione e lo si lascia solo per tutto il giorno. La sera, sua madre gli si avvicina, lo spidocchia delicatamente mentre dorme, fa segno agli altri di non avvicinarsi e gli allestisce nelle sue braccia una specie di culla.

Oppure, una giovane madre gioca coi suo bebé dandogli delle leggere botte sulla schiena; il bambino ride ed ella si eccita talmente al giuoco che batte sempre più forte, fino a farlo piangere. Allora smette e lo consola.

Ho visto la piccola orfana di cui ho già parlato, letteralmente calpestata durante una danza; nell'eccitazione generale era caduta senza che nessuno se ne accorgesse.

Quando sono contrariati i bambini battono spesso la madre e questa non vi si oppone. Non sono mai puniti, e non ne ho mai visto picchiare uno e neanche farne il gesto, se non per scherzo. Qualche volta un bambino piange perché si è fatto male, ha litigato o ha fame, oppure non vuole lasciarsi spidocchiare. Ma quest'ultimo caso è raro: lo spidocchiamento sembra incantare il paziente quanto divertire l'esecutore; lo si considera anche come un segno d'interesse e di affetto. Quando vuole farsi spidocchiare il bambino - o il marito - posa la testa sulle ginocchia della donna, presentandone successivamente i due lati. L'operatrice procede dividendo i capelli riga per riga e guardando le ciocche in trasparenza; i pidocchi presi sono subito schiacciati. Il bambino che piange viene consolato da un membro della sua famiglia o da un bambino più grande.

Lo spettacolo di una madre col suo bambino è pieno di gaiezza e di freschezza. La madre porge un oggetto al figlio attraverso la paglia della capanna e lo ritira nel momento in cui lui sta per afferrano: «Prendilo davanti! Prendilo di dietro!» Oppure afferra il bambino e, con gran scoppi di risa, fa finta di buttarlo a terra: Andam nom tebu, «ora ti butto!» - Ninui - risponde il bebé con voce acutissima «non voglio!».

A loro volta i bambini circondano la madre di una tenerezza inquieta e esigente; sorvegliano che riceva la sua parte di caccia. Dapprima il figlio vive con la madre. In viaggio lo porta lei finché non può camminare da solo; più tardi lui le cammina vicino. Resta con lei all'accampamento o nel villaggio mentre il padre va a caccia. Dopo qualche anno però avviene la distinzione dei sessi, e il padre si occupa principalmente dei figli maschi, insegnando loro le attività maschili; lo stesso si verifica nei rapporti fra madre e figlia. Ma le relazioni del padre coi suoi figli sono improntate a una uguale tenerezza e sollecitudine, come del resto ho già sottolineato. Il padre porta sulle spalle il figlio a passeggio e gli costruisce armi adatte al suo piccolo braccio.

Ed è sempre il padre che racconta loro i miti tradizionali, in una forma comprensibile per i bambini: «Tutti erano morti! Non c'era più nessuno! Niente uomini! Niente!» Così comincia la versione infantile della leggenda sudamericana del diluvio al quale risale la distruzione della prima umanità.

In caso di matrimonio poligamo esistono relazioni particolari tra i figli di primo letto e le loro giovani matrigne. Queste vivono con loro in grande cameratismo, specie con le bambine. Per quanto ristretto sia il gruppo, si può tuttavia osservare una particolare intimità fra le ragazze e le giovani donne; fanno insieme il bagno nel fiume, vanno insieme fra i cespugli per soddisfare i loro bisogni naturali, fumano insieme, scherzano e si abbandonano a giochi di dubbio gusto, come sputarsi in faccia l'un l'altra. Queste relazioni sono strette e sentite ma prive di ogni gentilezza, comr quelle fra maschietti della nostra società; ben raramente richiedono servizi e attenzioni ed hanno come strana conseguenza che le ragazze diventano indipendenti più presto dei ragazzi. Esse seguono le giovani donne, partecipano alle loro attività, mentre i ragazzi abbandonati a se stessi tentano timidamente di formare delle bande dello stesso tipo ma senza grande successo e restano più volentieri, almeno nella prima infanzia, accanto alle madri.

I piccoli Nambikwara ignorano il gioco. A volte si costruiscono oggetti di paglia arrotolata e intrecciata, ma non conoscono altra distrazione che le lotte e le burle che si fanno reciprocamente, e conducono una esistenza a imitazione degli adulti. Le bambine imparano a filare, oziano, ridono e dormono; i ragazzi cominciano più tardi, a 8 o io anni, a tirare con piccoli archi e a iniziarsi ai lavori maschili. Ma gli uni e le altre si rendono conto molto presto del problema fondamentale e a volte tragico della vita nambikwara, l'alimentazione, e del ruolo attivo a cui sono destinati. Collaborano alle spedizioni di raccolta con molto entusiasmo. In periodo di carestia non è raro vederli aggirarsi attorno all'accampamento, adoperandosi a sradicare radici, o camminando nell'erba in punta di piedi, un ramo sfrondato in mano, a caccia di cavallette. Le ragazze conoscono qual è il compito destinato alle donne nella vita economica della tribù, e sono impazienti di rendersene degne.

Un giorno incontro una ragazzina che porta a passeggio un cagnolino teneramente avvolto nel telo che sua madre usa per la sua sorellina, e osservo: «Carezzi il tuo cagnolino?» Lei mi risponde seriamente: «Quando sarò grande ucciderò i porci selvatici e le scimmie; tutte le ucciderò quando lui abbaierà!»

Nel dir questo, fa un errore di grammatica che il padre rileva ridendo: avrebbe dovuto dire tilondage, «quando sarò grande», invece del maschile ihondage che ha adoperato. L'errore è interessante perché illustra il desiderio femminile di elevare le attività economiche proprie di questo sesso al livello di quelle che sono privilegio degli uomini. Siccome il senso esatto del termine adoperato dalla bambina è «uccidere abbattendo con la mazza», sembra voglia inconsciamente identificare il lavoro femminile di raccolta di legna e di piccoli animali, per i quali ci si serve di un apposito bastone, con la caccia maschile fatta con l'arco e le frecce.

Inoltre bisogna tener conto con particolare attenzione delle relazioni fra i fanciulli che si trovano in quel determinato rapporto di cuginanza per cui si possono considerare mutualmente come sposa e sposo. A volte si comportano come dei veri coniugi: lasciano la sera il fuoco familiare e trasportano dei tizzoni in un angolo dell'accampamento per farsi il loro-piccolo focolare. Dopo di che si accomodano e si abbandonano come possono alle stesse espansioni degli adulti; i quali li guardano divertiti.

Prima di chiudere con i fanciulli, devo dire una parola sugli animali domestici che vivono con loro in grande intimità e sono anch'essi trattati come bambini: partecipano ai pasti, ricevono le stesse espressioni di tenerezza e di interesse - spidocchiamento, giochi, conversazioni e carezze - come gli esseri umani. I Nambikwara hanno molti animali domestici: cani anzitutto, poi galli e galline, discendenti di quelli introdotti nella regione dalla Commissione Rondon; scimmie, pappagalli, uccelli di specie diverse e, all'occasione, porci e gatti selvatici o coati. Solo il cane sembra avere un ruolo utilitario presso le donne, per la caccia col bastone; gli uomini non se ne servono mai per la caccia con l'arco. Gli altri animali vengono allevati per passatempo. Non si mangiano, né si consumano le uova delle galline, le quali del resto le depongono nella boscaglia. Ma se un giovane volatile muore durante un tentativo di addomesticamento, senza alcuno scrupolo se lo mangiano.

In viaggio, fatta eccezione per gli animali capaci di camminare, tutto il serraglio viene trasportato insieme ai bagagli. Le scimmie, aggrappate ai capelli delle donne, le incappucciano di un grazioso casco vivente prolungato dalla coda attorcigliata attorno al collo della portatrice. I pappagalli e le galline si appollaiano in cima alle gene, altri animali sono tenuti in braccio. Nessuno riceve un abbondante nutrimento ma anche nei giorni di scarsezza ciascuno ha la sua razione. In cambio, sono motivo di distrazione e di divertimento per il gruppo.

Consideriamo ora gli adulti. L'atteggiamento nambikwara verso l'amore si può riassumere in questa formula: tatnindige mondage, tradotta letteralmente, se non elegantemente: far l'amore è bello. Ho già notato l'atmosfera erotica che impregna la vita quotidiana. Gli affari amorosi attirano al più alto grado l'interesse e la curiosità indigena; sono avidi di conversazioni su questo soggetto, e le osservazioni scambiate nell'accampamento sono piene di allusioni e di sottintesi. I rapporti sessuali hanno abitualmente luogo la notte, a volte presso i fuochi dell'accampamento; più spesso la coppia si allontana un centinaio di metri nella boscaglia vicina. Questa assenza viene subito notata con estrema soddisfazione dei presenti; si scambiano commenti, si lanciano spiritosaggini, e anche i bambini prendono parte a quell'eccitazione di cui conoscono benissimo la causa. Qualche volta un piccolo gruppo d'uomini, di giovani donne e di ragazzi seguono la coppia e spiano fra i rami i particolari dell'azione, bisbigliando fra loro e soffocando le risa. I protagonisti non apprezzano affatto queste manovre ma è meglio per loro, del resto, accettane di buon grado, come pure i dispettucci e le canzonature che saluteranno il loro ritorno all'accampamento. Può accadere che una seconda coppia segua l'esempio della prima e cerchi l'isolamento nella macchia.

Tuttavia queste occasioni sono rare e le proibizioni che le limitano spiegano so}o parzialmente questo stato di cose. La responsabilità è piuttosto da attribuirsi al temperamento indigeno. Durante i giochi amorosi ai quali le coppie si abbandonano così volentieri e pubblicamente, e che sono spesso audaci, non ho mai notato un principio di erezione. Il piacere cercato sembra essere più sentimentale e giocoso che fisico. Forse per questa ragione i Nambikwara hanno abbandonato l'astuccio coprisesso, il cui uso è quasi universale fra le popolazioni del Brasile centrale. In effetti, è probabile che questo accessorio abbia la funzione, se non di prevenire l'erezione, almeno di mettere in evidenza le disposizioni pacifiche del portatore. Quei popoli che vivono completamente nudi non ignorano ciò che noi chiamiamo pudore; lo riportano ai suoi limiti. Presso gli Indiani del Brasile, come in alcune regioni della Melanesia, questo non consiste nell'esporre o no il proprio corpo, ma piuttosto nell'essere tranquilli o eccitati...

Per meglio comprendere il comportamento reciproco dei due sessi, è indispensabile tener presente il carattere fondamentale della «coppia» presso i Nambikwara; è l'unità economica e psicologica per eccellenza. In quelle bande nomadi che si formano e si disfano senza posa, la coppia è considerata come la realtà stabile (almeno teoricamente); essa sola, inoltre, permette di assicurare l'esistenza dei suoi membri. I Nambikwara vivono di una doppia forma di economia; cacciatori e giardinieri da un lato, cercatori e raccoglitori dall'altro. La prima forma è affidata all'uomo, la seconda alla donna. Mentre il gruppo maschile parte per una intera giornata di caccia, armato di archi e frecce, o lavora nei campi durante la stagione delle piogge, le donne, munite del loro bastone, errano coi ragazzi nella savana e raccolgono, sradicano, uccidono, catturano, acchiappano tutto ciò. che, sulla loro strada, può servire di alimento: grani, bacche, frutti, radici, tuberi, uova, animaletti di ogni genere. Alla fine della giornata le coppie si riuniscono attorno al fuoco. Quando la manioca è matura, e finché ce n'è, l'uomo porta un fascio di radici che la donna grattugia e schiaccia per farne gallette, e se la caccia è stata fruttuosa, si fa cuocere in fretta il pezzo di selvaggina seppellendolo sotto la cenere ardente del fuoco familiare. Ma per sette mesi dell'anno la manioca è rara; quanto alla caccia, dipende dalla fortuna, in quelle sabbie sterili dove la magra selvaggina non lascia facilmente l'ombra e i pascoli vicini alle sorgenti, distanziate le une dalle altre da spazi considerevoli di sterpaglia semideserta. Sarà quindi la raccolta femminile a mantenere la famiglia.

Ho spesso partecipato a questi diabolici e ridicoli pranzetti che, per una metà dell'anno, sono, per i Nambikwara, la sola speranza di non morire di fame.

Quando l'uomo, silenzioso e stanco, rientra all'accampamento e getta in un angolo l'arco e le frecce che non ha potuto usare, dalla gerla della donna viene fuori una commovente mescolanza: qualche frutto arancione della palma buriti, due grossi migali velenosi, minuscole uova di lucertole e alcuni di questi animali; un pipistrello, piccole noci di palme bucaiuva o uaguassu, un pugno di cavallette. I frutti polposi vengono schiacciati con le mani in una zucca piena d'acqua, le noci spaccate a colpi di sasso, gli animali e le larve nascosti alla rinfusa nella cenere; e allegramente divorano questo pasto che non sarebbe sufficiente a calmare la fame di un bianco ma che, qui, basta a una intera famiglia.

I Nambikwara hanno una sola parola per dire «grazioso» e «giovane», e un'altra per dire «brutto» e «vecchio», il loro giudizio estetico è dunque fondato soprattutto su valori umani, specialmente sessuali. Ma l'interesse che si manifesta fra 'i sessi è di natura complessa. Gli uomini giudicano le donne, nell'insieme, un po' diverse da loro; le trattano, secondo i casi, con bramosia, ammirazione o tenerezza; la fusione dei termini segnalata più sopra costituisce essa stessa un omaggio. Tuttavia, e benché la divisione sessuale del lavoro attribuisca alle donne un ruolo importantissimo (poiché il mantenimento della famiglia dipende in larga misura dalla raccolta femminile), questo rappresenta un tipo inferiore di attività; la vita ideale è concepita sul modello della produzione agricola o della caccia: avere molta manioca, e dei grossi pezzi di selvaggina, è un sogno costantemente accarezzato, sebbene raramente realizzato; mentre le provviste avventurosamente raccolte sono considerate - e in effetti lo sono - come la miseria quotidiana. Nel folclore nambikwara l'espressione «mangiare cavallette», raccolta infantile e femminile, equivale al francese manger de la vache enragée. Analogamente, la donna è considerata come un bene tenero e prezioso, ma di second'ordine. È d'uso, fra gli uomini, di parlare delle donne con un tono di pietosa benevolenza e di rivolgersi loro con un'indulgenza un p0' canzonatoria. Certi concetti ritornano spesso sulla bocca degli uomini: «I bambini non sanno, it donne non sanno, io so», e si accenna al gruppo delle doçu, le donne, alle loro spiritosaggini, alle loro conversazioni, con un tono di tenerezza e di scherzo. Ma non è che un atteggiamento sociale. Quando l'uomo si troverà solo con la sua donna, presso il fuoco dell'accampamento, ascolterà le sue lagnanze, terrà conto delle sue richieste, reclamerà il suo aiuto per cento faccende; la millanteria maschile sparisce di fronte alla collaborazione di due compagni coscienti del valore essenziale che rappresentano l'uno per l'altro.

Questa ambiguità dell'atteggiamento maschile nei riguardi delle donne ha il suo esatto contrapposto nel comportamento, anch'esso ambivalente, del gruppo femminile. Le donne si considerano come collettività, e lo dimostrano in diverse maniere; si è già visto che esse non parlano allo stesso modo degli uomini. Ciò è vero specialmente per le donne giovani che non hanno ancora avuto figli, e per le concubine. Le madri e le donne anziane sottolineano molto meno queste differenze, benché le usino anch'esse all'occasione. Inoltre le donne giovani amano la compagnia dei bambini e degli adolescenti, giocano e scherzano con loro; e sono le donne che si prendono cura degli animali in quella maniera umana propria di certi Indiani sudamericani. Tutto ciò contribuisce a creare attorno alle donne, nell'interno del gruppo, un'atmosfera speciale ad un tempo puerile, scherzosa, manierata e provocante, alla quale gli uomini si associano quando rientrano dalla caccia o dai campi.

Ben diverso è però il comportamento delle donne quando devono far fronte a una delle forme di attività che loro specialmente competono. Esse compiono il loro lavoro artigianale con abilità e pazienza, nell'accampamento silenzioso, disposte in cerchio voltandosi la schiena; durante i viaggi portano coraggiosamente la pesante gerla che contiene le provviste e le ricchezze di tutta la famiglia e ii fascio di frecce, mentre lo sposo cammina in testa con l'arco e una o due frecce, lo spiedo di legno e il bastone per scavare, pronto a inseguire un animale o attento agli alberi da frutto. Si vedono allora queste donne, la fronte cinta dalla fascia della stretta gerla a forma di campana che ricopre loro la schiena, camminare per chilometri, col loro passo caratteristico: le cosce strette, le ginocchia congiunte, le caviglie scostate, i piedi in dentro, appoggiandosi sul bordo esterno di essi e ondulando le anche; coraggiose, energiche e gaie.” (pp. 265-273)

Questa densità di umanità spiega la commozione di Lévi-Strauss:

“Nella oscura savana i fuochi dell'accampamento brillano. Attorno al fuoco, unica protezione contro il freddo che scende, e dietro il fragile paravento di palme e di rami frettolosamente piantato dalla parte del vento o della pioggia, vicino alle gene piene di povere cose che costituiscono tutti i loro beni terreni, coricati sulla nuda terra e insidiati da altre bande ugualmente ostili e timorose, gli sposi, strettamente allacciati, si considerano l'un l'altro sostegno, conforto, unico soccorso contro le difficoltà quotidiane e la trasognata malinconia che di tanto in tanto invade l'anima nambikwara. Il visitatore che per la prima volta si accampa nella boscaglia con gli Indiani, è preso dall'angoscia e dalla pietà di fronte allo spettacolo dì questa umanità così totalmente indifesa; schiacciata, sembra, contro la superfice di una terra ostile da qualche implacabile cataclisma, nuda e rabbrividente accanto a fuochi vacillanti. Egli circola a tastoni fra la sterpaglia, evitando di urtare una mano, un braccio, un torso di cui s'indovinano i caldi riflessi al chiarore dei fuochi. Ma questa miseria è animata da bisbigli e da risa. Le coppie si stringono nella nostalgia di una unità perduta; le carezze non s'interrompono al passaggio dello straniero. S'indovina in tutti una immensa gentilezza, una profonda indifferenza, una ingenua e deliziosa soddisfazione animale, e, mettendo insieme tutti questi sentimenti diversi, qualche cosa che somiglia all'espressione più commovente della tenerezza umana.”

La struttura apparentemente primitiva della società nambikwara ha un’organizzazione politica che permette a Lévi-Strauss di abbandonarsi ad una densa riflessione sul potere:

“Presso i Nambikwara, il potere politico non è ereditario. Quando un capo diventa vecchio, si ammala e si sente incapace di continuare ad assumersi le sue pesanti funzioni, sceglie lui stesso il suo successore: «Questo sarà il capo... Malgrado ciò, questo potere autocratico è più apparente che reale. Vedremo più avanti come è debole l'autorità del capo e come in ogni caso si ha l'impressione che la decisione definitiva debba essere preceduta da un sondaggio dell'opinione pubblica: l'erede designato è anche il favorito della maggioranza. Ma non sono soltanto i voti del gruppo che limitano la selezione del nuovo capo; questa deve anche rispondere ai piani dell'interessato. Non è raro che l'offerta del potere incontri un veemente rifiuto: «Non voglio essere il capo!» In questo caso bisogna procedere a una nuova scelta. In effetti, il potere non sembra costituire l'oggetto di un'ardente competizione, e i capi che ho conosciuto, più che trarne motivo di orgoglio, si lamentavano spesso dei loro pesanti incarichi e delle loro responsabilità. Quali sono dunque i privilegi del capo e quali i suoi obblighi?...

Il prestigio personale e la capacità di ispirare confidenza sono i fondamenti del potere nella società nambikwara. Entrambi sono indispensabili a colui che diverrà la guida di questa avventurosa esperienza: la vita nomade nella stagione secca. Per sei o sette mesi il capo sarà interamente responsabile della direzione della sua banda. Egli organizza la partenza, sceglie gli itinerari, fissa le tappe e la durata delle soste. Decide le spedizioni di caccia, di pesca, di raccolta, e stabilisce la politica della banda nei confronti dei gruppi vicini. Quando il capo di una banda è anche il capo di un villaggio (dando al nome di villaggio il senso ristretto di installazione semi-permanente per la stagione delle piogge) i suoi obblighi vanno più lontano. E lui che determina il luogo e l'inizio della vita sedentaria; egli dirige e sceglie le culture; in generale orienta le occupazioni in funzione dei bisogni e delle necessità stagionali.

Occorre notare subito che il capo non trova appoggio, per le sue funzioni multiple, né in un potere definito, né in una autorità pubblicamente riconosciuta. Il consenso è all'origine del potere e conserva la sua legittimità. Una condotta non irreprensibile (dal punto di vista indigeno s'intende) o delle manifestazioni di cattiva volontà da parte di uno o due malcontenti, possono compromettere il programma del capo e il benessere della piccola comunità.

In una simile eventualità tuttavia, il capo non dispone di nessun potere di coercizione; può sbarazzarsi degli elementi indesiderabili solo se è capace di fare accettare la sua opinione da tutti. Deve dunque dar prova, più che di essere un sovrano assoluto, dell'abilità tipica del politico che vuole conservarsi una maggioranza indecisa. Non basta nemmeno che mantenga la coesione nel suo gruppo. Sebbene la banda viva praticamente isolata durante il periodo nomade, essa non dimentica l'esistenza degli altri gruppi vicini. Il capo non deve soltanto far bene; deve cercare (e il suo gruppo conta per questo su di lui) di fare meglio degli altri.

Come adempie il capo a questi obblighi? Il primo e il principale strumento di potere consiste nella sua generosità. La generosità è un attributo essenziale di potere presso la maggior parte dei popoli primitivi e specialmente in America; essa sostiene una parte anche in quelle culture elementari in cui tutti i beni si riducono a oggetti grossolani. Sebbene il capo non sembri godere di una situazione privilegiata dal punto di vista materiale, egli deve avere sotto mano delle riserve di cibi, di utensili, di armi e di ornamenti che, pur essendo infimi, acquistano un valore considerevole a causa della generale povertà. Quando un individuo, una famiglia o una banda intera esprimono un desiderio o manifestano una necessità, fanno appello al capo per essere soddisfatti. Cosicché la generosità è la qualità essenziale che si richiede a un nuovo capo. E’ la corda, continuamente toccata, il cui suono armonioso o discordante determina la portata del consenso. Non ci sarà mai da dubitare che, a questo riguardo, le capacità del capo non siano sfruttate fino all'estremo...

Questa avidità collettiva conduce spesso il capo alla disperazione. Il rifiuto di dare ha pressappoco il posto, in quella democrazia primitiva, della questione di fiducia in un parlamento moderno. Quando un capo arriva a dire: Basta col dare! Basta con l'esser generoso! Che un altro lo sia al mio posto!» deve veramente essere sicuro del suo potere, perché il suo regno sta per attraversare, la più grave delle crisi.

L'ingegnosità è la forma intellettuale della generosità. Un buon capo deve dar prova di iniziativa e di accortezza. È lui che prepara il veleno per le frecce. E lui che fabbrica anche la palla di gomma selvatica per i giochi a cui i suoi: sudditi, all'occasione, si abbandonano. Ii capo dev'essere un buon cantore e, un buon danzatore, un allegro buontempone sempre pronto a distrarre la banda e a rompere la monotonia della vita quotidiana. Queste funzioni condurrebbero facilmente allo sciamanismo, e certi capi sono infatti anche guaritori e stregoni. Tuttavia, gli atteggiamenti mistici restano sempre in,,% secondo piano presso i Nambikwara e quando si manifestano, le doti magiche sono considerate attributi secondari del comando. Più spesso il potere temporale e il potere spirituale sono divisi fra due individui. Sotto questo riguardo, i Nambikwara differiscono dai loro vicini di nord-ovest, i Tupi kawahib, j presso i quali il capo è anche uno sciaman dedito ai sogni premonitori, alle visioni, alla trance e agli sdoppiamenti.

Ma per quanto orientate verso una direzione più positiva, l'accortezza e l'ingegnosità del capo nambikwara non sono perciò meno sorprendenti. Egli deve avere una conoscenza profonda dei territori frequentati dal suo gruppo e dai gruppi vicini, essere un frequentatore abituale dei terreni di caccia e dei boschi di alberi da frutto selvatici, conoscere di ciascuno di essi il periodo più favorevole, farsi un'idea approssimativa degli itinerari delle bande vicine, amiche o ostili. È costantemente in giro di ricognizione o in esplorazione e sembra volteggiare intorno alla sua banda piuttosto che comandarla.

A parte uno o due uomini senza reale autorità, ma pronti a collaborare dietro ricompensa, la passività della banda fa un singolare contrasto coi dinamismo del suo capo. Si direbbe che essa, avendogli ceduto certi vantaggi, si aspetti da lui la cura totale dei suoi interessi e della sua sicurezza...

La poligamia che praticamente è il suo privilegio, costituisce il compenso morale e sentimentale dei suoi pesanti doveri e nello stesso tempo gli dà modo di assolverli. Salvo rare eccezioni, solo ìl capo e lo stregone (quando queste funzioni sono divise fra due individui) possono avere più mogli. Ma si tratta qui di un particolare tipo di poligamia. Invece di un matrimonio plurimo nel vero senso della parola, è piuttosto un matrimonio monogamo ai quale si aggiungono delle relazioni dì natura diversa. La prima moglie copre il ruolo abituale della moglie monogama dei matrimoni ordinari. Ella si attiene agli usi della divisione del lavoro fra i due sessi, ha cura dei bambini, cucina e raccoglie i prodotti selvatici. Le unioni posteriori sono riconosciute anche come matrimoni, pur dipendendo da un altro ordine. Le donne secondarie appartengono a una generazione più giovane. La prima moglie le chiama «figlie» o «nipoti». Inoltre esse non obbediscono alla suddivisione sessuale del lavoro, ma prendono parte indifferentemente alle occupazioni maschili o femminili. Nell'accampamento esse sdegnano i lavori domestici e rimangono oziose, o giocano coi fanciulli che del resto sono della loro generazione, o carezzano il marito, mentre la prima moglie si affaccenda attorno ai fornelli. Ma quando il capo parte per una spedizione di caccia o di esplorazione, o per qualche altra impresa maschile, le mogli secondarie lo accompagnano e lo assistono fisicamente è moralmente. Queste adolescenti, scelte fra le più graziose e sane del gruppo, sono per ii capo delle amanti piuttosto che delle spose. Egli vive con loro sulla base di un cameratismo amoroso che è in evidente contrasto con l'atmosfera coniugale della prima unione.

Anche quando uomini e donne si bagnano separatamente, si vedono a volte il marito e le sue giovani mogli fare il bagno insieme, pretesto per grandi battaglie nell'acqua, girotondi e innumerevoli piacevolezze. La sera il marito scherza con loro, sia amorosamente - rotolandosi nella sabbia allacciati a due, tre o quattro-sia in maniera puerile: per esempio, il capo wakletoçu e le sue due più giovani mogli, stesi sul dorso, in modo da disegnare sui suolo una stella a tre punte, alzano in aria i piedi urtandoseli reciprocamente, pianta contro pianta, con un ritmo regolare.

L'unione poligama si presenta dunque come la sovrapposizione di una forma pluralistica di cameratismo amoroso sul matrimonio monogamo, e nei contempo come un attributo di comando dotato di un valore funzionale, sia dal punto di vista psicologico che da quello economico. Le donne vivono abitualmente in buon accordo e benché la sorte della prima moglie possa sembrare ingrata - mentre lavora sente al suo fianco gli scoppi di risa di suo marito e delle sue piccole amiche e assiste anche a più teneri sollazzi -non per questo dimostra di amareggiarsene. Questa distribuzione di compiti non è, d'altro canto, n immutabile né rigorosa, e, all'occasione, sebbene più di rado, il marito e la sua prima moglie si intratterranno anche fra di loro; ella non è in nessun modo esclusa dalla vita amorosa. Inoltre, la sua esigua partecipazione alle relazioni di cameratismo amoroso è compensata da un più grande rispetto e da una certa autorità sulle sue giovani compagne.

Questo sistema comporta gravi conseguenze per la vita del gruppo. Sottraendo periodicamente delle ragazze dal ciclo regolare dei matrimoni, il capo provoca uno squilibrio fra il numero dei giovani e quello delle fanciulle in età da marito. I giovani sono le vittime principali di questa situazione e si vedono condannati o a restare celibi per diversi anni, o a sposare delle vedove o delle vecchie ripudiate dai loro mariti.

I Nambikwara però risolvono il problema in un'altra maniera, cioè con le relazioni omosessuali che chiamano poeticamente tamindige kihandige, vale a dire «l'amore menzogna». Queste relazioni sono comuni fra i giovani e si svolgono con molta più pubblicità che le relazioni normali. I due compagni non si ritirano nella b,-.scaglia come gli adulti di sesso diverso. Si sistemano presso un fuoco dell'accampamento, sotto gli occhi divertiti dei vicini. L'incidente provoca facezie generalmente discrete; queste relazioni sono considerate come infantili e non vi si presta molta attenzione. E dubbio se questi esercizi siano protratti fino alla soddisfazione completa, o se si limitino a delle effusioni sentimentali, accompagnate da giochi erotici, come quelle che caratterizzano in larga parte le relazioni fra congiunti.

I rapporti omosessuali sono permessi solo fra adolescenti che si trovino nel rapporto di cugini incrociati, vale a dire che uno di loro è destinato a sposare la sorella dell'altro, alla quale, di conseguenza, il fratello serve provvisoriamente da sostituto. Se ci si informa presso un indigeno su rapporti di questo tipo, la risposta è sempre la stessa: «Sono due cugini (o cognati) che fanno all'amore». Nell'età adulta i cognati continuano a manifestare una grande libertà. Non è raro vedere due o tre uomini, sposati e padri di famiglia, passeggiare la sera teneramente allacciati.

Comunque si considerino queste soluzioni, il privilegio di poligamia che le rende necessarie rappresenta una concessione importante che il gruppo fa al suo capo. Ma che cosa significa dal punto di vista di quest'ultimo? La frequenza di giovani e graziose ragazze gli procura anzitutto delle soddisfazioni, non tanto fisiche (per le ragioni già esposte), quanto sentimentali. Soprattutto, il matrimonio poligamo e i suoi attributi specifici costituiscono il mezzo messo a disposizione del capo per aiutarlo a compiere i suoi doveri. Se fosse Solo, difficilmente potrebbe fare più degli altri. Le sue mogli secondarie, dispensate per il loro speciale statuto dalle servitù del loro sesso, gli dànno assistenza e conforto; sono nello stesso tempo la ricompensa del potere e il suo strumento. Dal punto di vista indigeno, si può dire che il prezzo ne valga la pena? Per rispondere a questa domanda dobbiamo esaminare il problema più in generale e scoprire quel che la banda nambikwara, considerata come una struttura sociale elementare, ci insegna sull'origine e le funzioni del potere.

Accennerò rapidamente a una prima osservazione. I metodi nambikwara si sommano ad altri per rifiutare la vecchia teoria sociologica, temporaneamente rimessa in luce dalla psicanalisi, secondo la quale il capo primitivo troverebbe il suo prototipo in un Padre simbolico, in quanto le forme elementari dello Stato, in questa ipotesi, si sono progressivamente sviluppate partendo dalla famiglia. Alla base delle forme più rozze del potere abbiamo notato un procedimento decisivo che introduce un elemento nuovo in rapporto ai fenomeni biologici: questo procedimento consiste nel consenso. Il consenso è ad un tempo l'origine e il limite del potere. Relazioni apparentemente unilaterali, come si manifestano nella gerontocrazia, nell'autocrazia e in tutte le altre forme di governo, possono costituirsi in gruppi di struttura già complessa. Esse sono inconcepibili nelle forme semplici di organizzazione sociale, come quella che ho qui cercato di descrivere. In questo caso, al contrario, le relazioni politiche si riducono a una specie di arbitraggio fra il talento e l'autorità del capo da una parte, e il volume, la coesione, la buona volontà del gruppo dall'altra; tutti questi fattori esercitano gli uni su gli altri una influenza reciproca...

Una seconda considerazione deriva dalle precedenti considerazioni: il consenso è il fondamento psicologico del potere, ma nella vita quotidiana si esprime con un gioco di prestazioni e contro-prestazioni che si svolge fra il capo e i suoi compagni, e che fa della nozione di reciprocità un altro attributo fondamentale del potere. Il capo ha il potere ma deve essere generoso. Ha dei doveri ma può avere diverse mogli. Fra lui e il gruppo si stabilisce un equilibrio continuamente rinnovato di prestazioni e di privilegi, di servizi e di obbligazioni.

Ma nel caso del matrimonio avviene qualcosa di più. Concedendo il privilegio della poligamia al suo capo, il gruppo scambia gli «elementi individuali di sicurezza» garantiti dalla regola monogama, con una «sicurezza collettiva» che si aspetta dall'autorità. Ogni uomo riceve una donna da un altro uomo, ma il capo riceve diverse donne dal gruppo. In compenso egli offre una garanzia contro il bisogno e il pericolo, non agli individui di cui sposa le sorelle e le figlie, e neanche a quelli che si trovano privi di donne in conseguenza del suo diritto di poligamia; ma al gruppo considerato come un tutto, perché è il gruppo considerato come un tutto che ha rinunziato, a profitto di lui, al diritto comune. Queste riflessioni possono rivestire un interesse per uno studio teorico della poligamia; ma soprattutto, ci ricordano che la concezione dello Stato come un sistema di garanzie, rinnovate dalle discussioni su un regime nazionale di sicurezza (come il Piano Beveridge e altri), non è una conquista puramente moderna. E un ritorno alla natura fondamentale dell'organizzazione sociale e politica.

Questo è il punto di vista del gruppo sul potere. Qual è, ora, l'atteggiamento del capo stesso di fronte alla sua funzione? Quali moventi lo spingono ad accettare un peso non sempre piacevole? Il capo della banda nambikwara si vede imporre un compito difficile; egli deve prodigarsi per mantenere il suo rango. Per di più, se non fa in modo di accrescerlo, continuamente corre il rischio di perdere quello che ha conquistato dopo mesi e anni. Si spiega così che molti uomini si sottraggono al potere. Ma perché altri lo accettano e perfino lo ricercano? E sempre difficile giudicare i moventi psicologici, e diventa quasi impossibile quando si tratta di una cultura tanto diversa dalla nostra. Ciononostante si può dire che il privilegio della poligamia, qualunque sia la sua attrattiva dal punto di vista sessuale, sentimentale e sociale, sarebbe insufficiente ad ispirare una tale vocazione. Il matrimonio poligamo è una condizione tecnica del potere; dal lato delle soddisfazioni intime ha solo un'importanza accessoria. Ci deve essere qualcosa di più; se si cerca di enumerare i tratti morali e psicologici dei diversi capi nambikwara e se si tenta di afferrare le sfumature della loro personalità (che sfuggono all'analisi scientifica, ma che acquistano valore dal senso intuitivo della comunicazione umana e dall'esperienza dell'amicizia) si arriva inevitabilmente a questa conclusione: ci sono dei capi perché ci sono, in ogni gruppo umano, uomini che, a differenza dei loro compagni, amano il prestigio per se stesso, si sentono attratti dalle responsabilità e per i quali la cosa pubblica, pur essendo un peso, porta con sé la sua ricompensa. Queste differenze individuali sono certamente sviluppate e realizzate dalle diverse culture in misura ineguale. Ma la loro esistenza, in una società così poco animata da spirito di competizione come la società nambikwara, fa pensare che la loro origine non sia esclusivamente sociale. Esse fanno parte piuttosto di quei materiali psicologici bruti per mezzo dei quali si edifica qualunque società. Gli uomini non sono tutti uguali e anche nelle tribù primitive, che i sociologi hanno dipinto come schiacciate da una tradizione onnipotente, queste differenze individuali vengono messe in evidenza con tanta finezza e sfruttate con tanta applicazione, quanto nella nostra civiltà cosiddetta «individualista».

Sotto altra forma, è proprio questo il «miracolo» di cui parla Leibniz a proposito dei selvaggi americani i cui costumi, riportati dagli antichi esploratori, gli avevano insegnato a «non prender mai per dimostrazioni le ipotesi della filosofia politica». Quanto a me, sono andato fino in capo al mondo in cerca di quel che Rousseau chiama «il progresso quasi insensibile degli inizi». Sotto il velo delle leggi troppo sapienti dei Caduvei e dei Bororo, avevo perseguito la mia ricerca di uno stato di cose che - dice ancora Rousseau «non esiste più, forse non è mai esistito, e probabilmente non esisterà mai e di cui ciononostante è necessario avere una giusta nozione per ben giudicare il nostro stato presente». Più fortunato di lui, credevo di averlo scoperto in una società agonizzante, ma della quale era inutile chiedersi se era o non era un relitto: tradizionale o degenerata, essa mi metteva comunque in presenza di una delle forme sociali e politiche più povere che si possa immaginare. Non avevo bisogno di rivolgermi alla storia particolare che l'aveva mantenuta in quella condizione elementare o che, più verosimilmente, ve l'aveva ricondotta. Bastava considerare l'esperienza sociologica che si svolgeva sotto i miei occhi.

Ma proprio questa mi sfuggiva. Avevo cercato una società ridotta alla sua forma più semplice. Quella dei Nambikwara lo era a un punto tale che vi trovai solo degli uomini.” (pp. 295-304)

7.

L’ultima spedizione di Lèvi-Strauss lo porta nel cuore vergine della foresta, ove vivono i Tupi Kawahib:

“Nel pomeriggio raggiungemmo un castanhal, gruppo di castagni attorno ai quali gli indigeni (che sfruttano metodicamente la foresta) avevano aperto una piccola radura per raccogliere più agevolmente i frutti caduti. Qui si trovava accampata la popolazione del villaggio, uomini nudi salvo che per il coprisesso già osservato sul compagno del capo, donne ugualmente nude salvo che per una guaina di cotone, già tinto di rosso con l'eirucu e diventato rossastro con l'uso, che cingeva loro i fianchi.

Si contavano in tutto 6 donne, 7 uomini di cui un adolescente, e 3 bambine dell'apparente età di I, 2 e 3 anni; senza dubbio, uno dei gruppi più piccoli che siano riusciti, durante almeno 13 anni (cioè dopo la scomparsa del villaggio di Abaitara), a sussistere pur restando tagliati da qualsiasi contatto coi mondo esteriore. Il numero, d'altronde, comprendeva due paralitici delle membra inferiori: una giovane donna che si sosteneva con due bastoni, e un uomo, ugualmente giovane, che si trascinava al suolo come uno storpio. Le sue ginocchia sporgevano sulle gambe scarnite, gonfie nella parte interna e come piene di siero; le dita del piede sinistro erano paralizzate mentre quelle del piede destro avevano conservato la loro mobilità. Tuttavia i due infermi riuscivano a spostarsi nella foresta e anche a compiere lunghi percorsi con un'apparente facilità. Era forse la poliomielite, o qualche altro virus, a precedere il futuro e durevole contatto con la civiltà? Era doloroso ricordare vedendo quegli infelici abbandonati a se stessi nella natura più ostile che l' uomo possa affrontare, queste pagine di Thevet, che visitò i Tupi della costa nel XVI secolo, nelle quali si compiace che questo popolo, «composto elementi uguali ai nostri... mai... viene attaccato dalla lebbra, dalla paralisi, dall'encefalite, dalle malattie cancerose né ulcerose, né da altri vizi del corpo da potersi osservare esteriormente e superficialmente». Egli non si rendeva conto che lui e i suoi compagni erano le avanguardie di questi mali.” (pp. 33.334)

“L'aspetto più sorprendente dell'organizzazione sociale dei nostri Indiani era il quasi monopolio esercitato dal capo sulle donne del gruppo. Su sei donne che avevano superato la pubertà, quattro erano sue spose. Se si considera che, delle due rimanenti, l'una - Penhana - è sua sorella quindi proibita, e l'altra - Wirakaru - una vecchia che non interessa più nessuno, è evidente che Taperhai possiede tante donne quante gli è materialmente possibile. Nella sua famiglia la parte principale spetta a Kunhatsin che, ad eccezione di lanapamoko l'inferma, è anche la più giovane ed è - il giudizio indigeno conferma quello dell'etnologo - una grande bellezza. Dal punto di vista gerarchico, Maruabai è una sposa secondaria e sua figlia ha la precedenza su di lei.

La moglie principale sembra assistere suo marito più direttamente delle altre. Queste attendono alle faccende domestiche: la cucina, i bambini che sono allevati in comune, passando indifferentemente da un seno all'altro, senza che mi sia stato possibile stabilire con certezza quali fossero le rispettive madri. Invece la moglie principale accompagna il marito nei suoi spostamenti, l'aiuta a ricevere gli ospiti, conserva i doni ricevuti, governa la casata. E la situazione inversa di quella che avevo osservato presso i Nainbikwara, dove è la moglie principale che ha il ruolo di guardiana del focolare, mentre le giovani concubine sono strettamente associate all'attività maschile.

Il privilegio del capo sulle dorme del gruppo sembra basato anzitutto sull'idea che il capo ha una natura fuori del comune. Gli si riconosce un temperamento eccessivo; è soggetto a trance nel corso delle quali è a volte necessario tenerlo e controllarlo per impedirgli di abbandonarsi ad atti omicidi (ne darò più avanti un esempio); possiede il dono profetico ed altri talenti; infine il suo appetito sessuale è al di sopra dell'ordinario e richiede, per soddisfarsi, un grande numero di spose...

In secondo luogo, il privilegio poligamo del capo è compensato in certo modo dal prestito delle donne ai suoi compagni e agli stranieri...

Un altro correttivo all'ineguaglianza nella ripartizione delle donne era dal levirato - l'eredità della vedova del fratello...

Il problema posto dalle prerogative del capo in materia coniugale, venivano dunque risolte, presso i Tupi Kawahib, con una combinazione di poliginia e poliandria. Solo poche settimane dopo aver preso congedo dai Nainbikwara era impressionante constatare fino a che punto dei gruppi geograficamente molto vicini potevano dare soluzioni così diverse a problemi identici. Perché anche presso i Nainbikwara, come abbiamo visto, il capo ha un privilegio poligamo da cui risulta lo stesso squilibrio fra il numero dei giovani e quello delle spose disponibili. Ma invece di ricorrere come i Tupi Kawahib alla poliandria i Nambikwara permettevano agli adolescenti la pratica dell'omosessualità. I Tupi Kawahib si riferiscono a tali usi con delle ingiurie e li condannano.” (pp. 342-345)

8.

Sulla via del ritorno, Lèvi-Strauss si abbandona ad una serie di riflessioni sulle sue esplorazioni, sul significato dell’antropologia e, da ultimo, dell’esistenza umana:

“Come può l'etnografo salvarsi dalla contraddizione che risulta dalle circostanze della sua scelta Egli ha sotto gli occhi, e a sua disposizione, una società, la sua; perché decide di ripudiarla e di dedicare ad altre società - scelte fra le più lontane e le più diverse - una pazienza e una devozione che la sua decisione nega ai suoi concittadini Non è un caso che l'etnografo abbia raramente di fronte al suo gruppo un atteggiamento neutrale. Se egli è missionario o amministratore, se ne può dedurre che ha accettato di identificarsi a un ordine, al punto di consacrarsi alla sua divulgazione; e quando esercita la sua professione sul piano scientifico o universitario, vi sono grandi probabilità che si possano trovare nel suo passato fattori oggettivi che lo dimostrano poco o per nulla adatto alla società in cui è nato. Accettando il suo compito egli ha cercato, sia un modo pratico di conciliare la sua appartenenza ad un gruppo e la riserva che pone al suo riguardo, sia, semplicemente, la maniera di mettere a profitto uno stato iniziale di distacco che gli conferisce un vantaggio per avvicinarsi a società diverse, dalle quali già si trova a mezza strada. Ma se egli è in buona fede, un interrogativo gli si pone: il valore che attribuisce alle società esotiche - tanto più grande, sembra, quanto più sono tali non ha un fondamento proprio; esso è in funzione del disprezzo, e talvolta dell'ostilità, che gli ispirano i costumi in vigore nel suo ambiente. Spesso sovversivo fra i suoi e ribelle agli usi tradizionali, l'etnografo appare rispettoso fino al conservatorismo, appena la società in questione si trova ad essere diversa dalla sua. C'è però qui molto di più e di diverso che una deformazione; conosco degli etnografi conformisti. Ma lo sono in una maniera derivata, in virtù di una specie di assimilazione secondaria della loro società a quelle che essi studiano. La loro simpatia va sempre a queste ultime, e se si sono ricreduti sulla propria rivolta iniziale di fronte alla loro, è perché fanno alle prime la concessione supplementare di trattare la propria società come vorrebbero che fossero trattate tutte le altre. Non si sfugge al dilemma: o l'etnografo aderisce alle norme del suo gruppo e le altre non possono ispirargli che una curiosità passeggera da cui la disapprovazione non è mai assente; o e riesce ad abbandonarsi totalmente ad esse, e la sua obiettività resta viziata dal fatto che, volendo o non volendo, per darsi a tutte le società si è rifiuta almeno ad una. Egli commette dunque lo stesso peccato che rimprovera a coloro che contestano il senso privilegiato della sua vocazione...

Manifestando, con la nostra vocazione, la predilezione che ci spinge verso forme sociali e culturali molto diverse dalle nostre - e, sopravalutando quelle a spese di queste - noi daremmo prova di una incoerenza fondamentale; come potremmo proclamare valide quelle società se non fondandoci sui valori della società che ci ispira nelle nostre ricerche Incapaci per sempre a sfuggire alle norme che ci hanno formato, i nostri sforzi per mettere a fuoco le diverse società, compresa la nostra, sarebbero ancora una vergognosa maniera di confessare la sua superiorità su tutte le altre.

Dietro gli argomenti di questa specie di apostoli non c'è che un cattivo gioco di parole: essi pretendono di far passare la mistificazione (alla quale si abbandonano) per il contrario del misticismo (che ci rimproverano a torto). La ricerca etnologica o etnografica dimostra che certe civiltà, contemporanee o scomparse, hanno saputo e sanno risolvere meglio di noi alcuni problemi, sebbene noi ci siamo affannati ad ottenere gli stessi risultati...

La difficoltà non è qui. Se giudichiamo le realizzazioni dei gruppi sociali in funzione di fini paragonabili ai nostri, dovremo a volte inchinarci davanti alla loro superiorità; ma noi otteniamo nello stesso tempo il diritto di giudicarli, e quindi di condannare tutti gli altri fini che non coincidono con quelli che noi approviamo. Riconosciamo implicitamente una posizione privilegiata alla nostra società, ai suoi usi e alle sue norme, mentre un osservatore proveniente da un altro gruppo sociale darà sugli stessi esempi giudizi diversi. In queste condizioni, come potranno i nostri studi aspirare al titolo di scienza? Per ritrovare una posizione obbiettiva noi dovremmo astenerci da ogni giudizio di questo tipo. Bisognerà ammettere che, nella gamma di possibilità aperte alle società umane, ciascuna ha fatto una certa scelta, e che queste scelte non sono paragonabili fra loro: si equivalgono. Ma allora sorge un nuovo problema: se nel primo caso eravamo minacciati dall'oscurantismo sotto forma di un cieco rifiuto di ciò che non è nostro, noi corriamo il rischio ora, di cedere a un eclettismo che c'impone l'accettazione di una qualsiasi cultura nella sua totalità, ivi compresa la crudeltà, l'ingiustizia e la miseria contro le quali protesta a volte la stessa società che le subisce. E poiché questi abusi esistono anche fra noi, che diritto abbiamo di combatterli, se basta che si producano altrove perché ci inchiniamo dinanzi ad essi

La contraddizione fra i due atteggiamenti dell'etnografo: critico a domicilio e conformista al di fuori, ne cela dunque un'altra a cui gli è ancora più difficile sfuggire. Se vuole contribuire al miglioramento del suo sistema sociale, deve condannare, dovunque esistano, le condizioni analoghe a quelle che combatte, o perde la sua imparzialità e la sua oggettività. Per contro, il distacco impostogli dallo scrupolo morale e dal rigore scientifico, gli impedisce di. criticare la sua propria società, dato che non vuole giudicarne nessuna al fine di conoscerle tutte. Restando a casa propria ci si priva di conoscere il resto, ma se si vuole comprendere tutto si rinunzia ad operare dei cambiamenti.

Se la contraddizione fosse insormontabile, l'etnografo non dovrebbe esitare sui termini dell'alternativa che gli si presenta: egli è etnografo e ha voluto esserlo; ch'egli accetti dunque la mutilazione inevitabilmente associata alla sua vocazione. Ha scelto gli altri e deve subire le conseguenze di questa opzione: il suo compito sarà soltanto di comprendere questi altri, nel nome dei quali non saprebbe agire, poiché il solo fatto che essi sono «altri» gli impedisce di pensare, di volere in loro vece, il che lo porterebbe ad identificarsi con loro. Inoltre, rinunzierà all'azione nella sua società, per paura di prendere posizione di fronte a valori che rischiano di ritrovarsi in società diverse, e quindi di introdurre il pregiudizio nel suo pensiero. Sussisterà soltanto la scelta iniziale, per la quale rifiuterà qualsiasi giustificazione: atto puro, non motivato; o, se può esserlo, da considerazioni esteriori, derivate dal carattere o dalla storia di ciascuno.

Fortunatamente non siamo a questo; dopo aver contemplato l'abisso che noi sfioriamo, ci sia concesso di ricercarne la conclusione. Questa può essere raggiunta a certe condizioni: moderazione del giudizio e divisione della difficoltà in due tappe.

Nessuna società è perfetta. Ognuna include per natura una impurità incompatibile con le norme che proclama e che si traduce concretamente in una certa dose di ingiustizia, d'insensibilità, di crudeltà. Come valutare questa dose? La ricerca etnografica ci riesce. Perché, se è vero che lo studio comparato di un certo numero di società le fa apparire molto diverse fra loro, queste differenze si attenuano quando il campo d'investigazione si allarga. Si scopre allora che nessuna società è profondamente buona e nessuna è assolutamente cattiva; offrono tutte certi vantaggi ai loro membri, tenuto conto di un residuo di iniquità che sembra più o meno costante e che corrisponde forse a un'inerzia specifica in contrasto, sul piano della vita sociale, agli sforzi di organizzazione.

Ciò che ho detto sorprenderà l'amatore di racconti di viaggi, commosso al ricordo dei costumi «barbari» del tale o tal altro gruppo. Tuttavia queste reazioni a fior di pelle non resistono a un apprezzamento corretto dei fatti e al loro collocamento in una prospettiva allargata. Prendiamo il caso dell'antropofagia che, di tutti gli usi selvaggi, è senza dubbio quello che ci ispira più orrore e disgusto. Bisognerà prima di tutto dissociarne le forme propriamente alimentari, cioè quelle per cui l'appetito della carne umana si spiega con la mancanza di altro nutrimento animale, come in alcune isole polinesiane. Da quella fame violenta nessuna società è moralmente protetta; la fame può spingere gli uomini a mangiare qualsiasi cosa e ne è prova l'esempio recente dei campi di sterminio.

Restano allora le forme di antropofagia che si possono chiamare positive, quelle che derivano da cause mistiche, magiche o religiose: così l'ingestione di una particella del corpo di un ascendente o del frammento del cadavere nemico, può permettere l'assimilazione delle virtù del primo o la neutralizzazione del potere del secondo; del resto, poiché tali riti si compiono il più delle volte in maniera molto discreta, limitandosi a piccole quantità di materia organica polverizzata o mescolata ad altri alimenti, si riconoscerà, anche quando assumono forme più evidenti, che la condanna morale di tali costumi implica, sia una credenza nella resurrezione dei corpi che sarebbe compromessa dalla distruzione materiale del cadavere, sia l'affermazione di un legame fra l'anima e il corpo e il dualismo corrispondente, convinzioni cioè che sono della stessa natura di quelle in nome delle quali viene praticata la consumazione rituale, e che non abbiamo nessun motivo di preferire. Tanto più che la disinvoltura di fronte alla memoria del defunto, che potremmo rimproverare ai cannibali, non è certo più grande, anzi al contrario, di quella che noi tolleriamo nelle sale di vivisezione.

Ma dobbiamo soprattutto persuaderci che certi usi nostri, ad un osservatore proveniente da una società diversa, apparirebbero della stessa natura dell’antropofagia che a noi sembra tanto estranea al concetto di civiltà. Penso a nostri usi giudiziari e penitenziari. A studiarli dal di fuori, si sarebbe tentati di opporre due tipi di società: quelle che praticano l'antropofagia, cioè che vedono nell'assorbimento di certi individui dotati di pericolose forze, il solo modo di neutralizzare queste ultime e anche di metterle a profitto; e quelle che, come la nostra, adottano ciò che potrebbe chiamarsi anthropoémia (dal greco émein, vomitare); poste di fronte allo stesso problema, esse hanno scelto la soluzione inversa, consistente nell'espellere questi esseri pericolosi dal corpo sociale, tenendoli temporaneamente o definitivamente isolati, fuori di ogni contatto con l'umanità, in stabilimenti destinati a questo scopo. Alla maggior parte delle comunità da noi chiamate primitive, quest'uso ispirerebbe un orrore profondo; esse ci giudicherebbero barbari, come noi siamo tentati di fare a loro riguardo, in ragione dei loro costumi simmetrici.

Società che ci sembrano feroci sotto certi aspetti, sanno essere umane e benevole sotto altri punti di vista. Consideriamo ad esempio gli Indiani delle pianure dell'America del Nord, a questo proposito doppiamente interessante sia per il fatto che hanno praticato certe forme moderate di antropofagia, sia perché offrono un raro esempio di gente primitiva dotata di una polizia organizzata. Questa polizia (che amministrava anche la giustizia) non avrebbe mai concepito che il castigo del colpevole dovesse tradursi in una rottura dei legami sociali. Se un indigeno contravveniva alle leggi della tribù era punito con la distruzione di tutti i suoi beni: tenda e cavalli. Ma nello stesso tempo la polizia contraeva un debito nei suoi riguardi; e doveva organizzare la riparazione collettiva del danno di cui il colpevole era stato, per castigo, la vittima. Questa riparazione faceva di quest'ultimo il debitore del gruppo, al quale egli doveva dimostrare la sua riconoscenza con dei regali che la collettività intera - e la stessa polizia - aiutava a raccogliere, il che invertiva di nuovo i rapporti; e così di seguito finché, dopo tutta una serie di regali e controregali, il disordine precedente veniva progressivamente cancellato e restaurato l'ordine iniziale. Non solo tali usi sono più umani dei nostri, ma persino più coerenti, anche a voler formulare il problema nei termini della nostra moderna psicologia: logicamente, l'infantilizzazione del colpevole, implicita nell'idea di punizione, esige che gli si riconosca un diritto correlativo a un compenso, senza il quale il primo procedimento perde la sua efficacia, se pure non porta a risultati inversi di quelli sperati. Il colmo dell'assurdità consiste nel trattare contemporaneamente il colpevole come un bambino per essere autorizzati a punirlo, e come un adulto per potergli rifiutare la consolazione e nel credere che abbiamo compiuto un grande progresso spirituale perché, invece di divorare alcuni nostri simili, preferiamo mutilarli fisicamente e moralmente.

Queste analisi, condotte sinceramente e metodicamente, raggiungono due risultati: istillano un elemento di misura e di buona fede nell'apprezzamento dei costumi e dei sistemi di vita più lontani dai nostri, senza peraltro riconoscere in loro le virtù assolute che nessuna società, del resto, possiede. Esse spogliano i nostri usi di quella evidenza che il fatto di non conoscerne altri - o di averne una conoscenza parziale e tendenziosa - è sufficiente ad attribuire loro. E dunque vero che l'analisi etnologica, rivalutando le società differenti, svaluta quella dell'osservatore; essa è in questo senso contraddittoria. Ma se riflettiamo bene su quello che avviene, vedremo che questa contraddizione è più apparente che reale.

Si è detto a volte che la società occidentale è stata la sola ad aver prodotto degli etnografi e che questa era la sua grandezza, in difetto di altre superiorità che essi le contestano, l'unica che li obbliga ad un riconoscimento, poiché senza di essa gli etnologi non esisterebbero. Si potrebbe anche sostenere il contrario: se l'Occidente ha prodotto degli etnografi è perché un cocente rimorso doveva tormentano, obbligandolo a confrontare la sua immagine con quella delle società differenti, nella speranza di vedervi riflesse le stesse tare, o di averne un aiuto per spiegarsi come le proprie si fossero sviluppate. Ma anche se è vero che il confronto della nostra società con tutte le altre, contemporanee o scomparse, provoca il crollo delle sue basi, altre subiranno la stessa sorte. Questa media generale che ho testé presentata, mette in risalto qualche orco: ci accorgiamo che anche noi siamo tali, non per caso; se non lo fossimo stati e se non avessimo in questo triste concorso meritato il primo posto, l'etnografia non sarebbe nata fra noi: non ne avremmo sentito il bisogno. L'etnografo non può disinteressarsi della sua civiltà né sconfessarne gli errori, in quanto la sua stessa esistenza è comprensibile solo se considerata come un tentativo di riscatto: egli il simbolo dell'espiazione. Ma altre società hanno partecipato dello stesso peccato originale; non molto numerose senza dubbio, e tanto più rare quanto più discendiamo la scala del progresso. Mi basterà citare gli Aztechi, piaga aperta nel fianco dell'americanismo, che un'ossessione mnaniaca per il sangue e la tortura (universale in verità, ma evidente in essi sotto quella forma «eccessiva» che il confronto permette di definire) - per quanto spiegabile con la necessità di addomesticare la morte - pone al nostro lato, non già soltanto come iniqui, ma per esserlo stati a nostro modo, e cioè in maniera «smisurata».

Ciononpertanto questa condanna di noi stessi, da noi stessi inflittaci, non implica che noi accordiamo un valore straordinario alla tale o tal altra società presente o passata, localizzata in un punto determinato del tempo o dello spazio. Qui sarebbe la vera ingiustizia; poiché, così procedendo, noi negheremmo che, se ne facessimo parte, questa società ci sembrerebbe intollerabile; noi la condanneremmo allo stesso titolo di quella a cui apparteniamo. Arriveremo dunque a mettere sotto processo tutti gli stati sociali, qualunque essi siano? e alla glorificazione di uno stato naturale al quale l'ordine sociale non avrebbe portato che la corruzione «Diffidate di chi viene a mettere ordine», diceva Diderot il quale appunto la pensava così. Per lui, la storia breve dell'umanità si riassumeva così: «Esisteva un uomo naturale; in quest'uomo hanno introdotto un uomo artificiale; ed è cominciata nella caverna una guerra continua che dura per sempre.» Questo concetto è assurdo. Chi dice uomo dice linguaggio, e chi dice linguaggio dice società. Nel Supplemento al viaggio nel quale Diderot espone questa teoria, i Polinesiani di Bougainville non erano meno associati di noi. Sostenere il contrario vuol dire andar contro all'analisi etnografica, e non nella direzione nella quale essa ci spinge ad esplorare.

Ponendomi questi problemi, mi convinco che non hanno risposta, se non quella che ha dato loro Rousseau: criticato, più che mai misconosciuto, esposto all'accusa ridicola che gli attribuisce la glorificazione dello stato di natura dove si può vedere l'errore di Diderot ma non il suo - Rousseau ha detto esattamente il contrario e resta il solo a insegnarci come uscire dalle contraddizioni in cui vaghiamo al seguito dei suoi avversari; la documentazione di Rousseau, il più etnologo dei filosofi, anche se non aveva mai viaggiato in terre lontane, era tanto completa quanto era possibile a un uomo del suo tempo, ed egli la vivificava - a differenza di Voltaire - con una curiosità piena di simpatia per i costumi paesani e per il pensiero popolare; Rousseau, il nostro maestro, Rousseau, il nostro fratello, verso cui abbiamo dimostrato tanta ingratitudine, ma al quale ogni pagina di questo libro potrebbe esser dedicata, se l'omaggio non fosse indegno della sua grande memoria. Potremo uscire dalla contraddizione inerente alla posizione dell'etnografo, solo rifacendo per nostro conto il cammino da lui seguito per passare dalle rovine del Discorso sull'origine dell'ineguaglianza all'ampia costruzione del Contratto sociale di cui l'Emilio rivela il segreto. Dobbiamo a lui il sapere come, dopo aver annullato tutti gli ordini, si possano ancora scoprire i principi che permettono di edificarne uno nuovo.

Mai Rousseau ha commesso l'errore di Diderot che consiste nell'idealizzare l'uomo naturale. Egli non rischia mai di confondere lo stato di natura con lo stato di società; egli sa che quest'ultimo è inerente all'uomo; ma comporta dei mali; la sola questione è di sapere se questi mali sono a loro volta inerenti allo stato. Dietro gli abusi e i delitti, ricercheremo dunque la base incrollabile della società umana.

Il paragone etnografico contribuisce in due modi a questa ricerca. Prima di tutto dimostrando che questa base non si potrebbe trovare nella nostra civiltà: di tutte le società osservate, è quella senza dubbio che più se ne allontana. D'altra parte, sviluppando i caratteri comuni alla maggior parte delle società umane, essa contribuisce a costituire un tipo che non è riprodotto fedelmente da nessuna, ma che precisa la direzione verso cui l'investigazione deve orientarsi. Rousseau pensava che il genere di vita che noi oggi chiamiamo neolitico, ne offre l'immagine sperimentale più vicina. Si può essere o non essere d'accordo con lui. Io propendo a credere che avesse ragione. Nel periodo neolitico l'uomo ha fatto già la maggior parte delle invenzioni indispensabili per procurarsi la sua sicurezza. Si è visto perché se ne deve escludere la scrittura; dire che essa è un'arma a doppio taglio non è un marchio di primitivismo; la moderna cibernetica ha riscoperto questa verità. Nel neolitico, l'uomo si è messo al riparo dal freddo e dalla fame; ha conquistato la possibilità di pensare; lotta male contro le malattie, senza dubbio, ma è probabile che i progressi dell'igiene non abbiano fatto altro che scaricare queste su altri meccanismi: grandi carestie e guerre di sterminio, il cui compito è di mantenere un equilibrio demografico al quale le epidemie contribuivano in una maniera non più spaventosa delle altre.

In quell'epoca mitica l'uomo non era più libero di oggi; ma la sua stessa umanità faceva di lui uno schiavo. Poiché la sua autorità sulla natura era molto ridotta, egli si trovava protetto - e in un certo senso affrancato - dal cuscino ammortizzatore dei suoi sogni. A mano a mano che questi si trasformavano in conoscenza, il potere dell'uomo si è accresciuto; ma mettendoci- se così si può dire - «in presa diretta» con l'universo, questo potere di cui siamo tanto orgogliosi che cos'è in verità, se non la coscienza soggettiva d'una progressiva saldatura dell'umanità con l'universo fisico, i cui grandi determinismi agiscono ormai non più come estranei e temibili, ma, per tramite dello stesso pensiero, come colonizzatori a profitto di un mondo di cui noi tutti siamo divenuti gli agenti?

Rousseau aveva senza dubbio ragione di credere che, per la nostra felicità, sarebbe stato meglio che l'umanità si attenesse a «un giusto mezzo fra l'indolenza dello stato primitivo e la petulante attività del nostro amor proprio»; che questo stato era «il migliore per l'uomo» e che per uscirne si è dovuto di necessità verificare «qualche funesto caso» in cui si può riconoscere quel fenomeno doppiamente eccezionale - perché unico e perché tardivo - dell'avvento della civiltà meccanica. Resta tuttavia chiaro che questo stato medio non è affatto uno stato primitivo, ma presuppone e tollera una certa dose di progresso; e che nessuna società descritta ne presenta l'immagine privilegiata, anche se «l'esempio dei selvaggi, quasi tutti trovati a questo punto, sembra confermare che il genere umano era fatto per restarci sempre».

Lo studio di questi selvaggi ci ha dato ben altro che la rivelazione di uno stato di natura utopistica o la scoperta della società perfetta nel cuore delle foreste; esso ci aiuta a costruire un modello teorico della società umana, che non corrisponde a nessuna realtà osservabile, ma con l'aiuto del quale noi riusciremo a distinguere «quello che c'è di originale e di artificiale nella natura attuale dell'uomo e a ben conoscere uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai, e di cui tuttavia è necessario avere delle nozioni giuste per ben giudicare il nostro stato presente». Ho già citato questa formula per spiegare il senso della mia inchiesta presso i Nambikwara; perché il pensiero di Rousseau, sempre in anticipo sul suo tempo, non disgiunge la sociologia teorica dalla ricerca in laboratorio o sul posto, di cui ha ben compreso l'importanza. L'uomo naturale non è né anteriore né esteriore alla società. E’ nostro compito ritrovare la sua forma immanente nello stato sociale fuori del quale la condizione umana è inconcepibile; e quindi, di tracciare il programma delle esperienze che «sarebbero necessarie per riuscire a conoscere l'uomo naturale» e di determinare «i mezzi per fare queste esperienze nel seno della società». Ma questo modello - conclude Rousseau - è eterno e universale.

Le altre società non sono forse migliori della nostra; anche se siamo inclini a crederlo, non abbiamo a disposizione nessun metodo per provarlo. Conoscendole meglio, acquistiamo tuttavia un mezzo per staccarci dalla nostra, non perché questa sia del tutto o la sola cattiva, ma perché è l'unica da cui dobbiamo affrancarci: dalle altre lo siamo già naturalmente. Noi ci mettiamo così in grado di affrontare la seconda tappa che consiste nell'utilizzarle tutte senza nulla assimilarne, per sviluppare quei principi della vita sociale che ci sarà possibile applicare alla riforma dei nostri propri costumi, e non di quelli delle società straniere: grazie a un privilegio inverso al precedente, possiamo trasformare senza rischiare di distruggerla soltanto la società a cui apparteniamo, poiché questi cambiamenti che noi vi apportiamo provengono anche da essa.

Ponendo fuori del tempo e dello spazio il modello a cui ci ispiriamo corriamo certamente il rischio di sottovalutare la realtà del progresso. La nostra posizione ci dimostra che gli uomini hanno sempre e dovunque intrapreso lo stesso compito assegnandosi il medesimo oggetto e che, nel corso del loro divenire, solo i mezzi sono diversi. Confesso che questa prerogativa non mi preoccupa; essa sembra la più conforme ai fatti, tali come ce li rivelano la storia e l'etnografia; e soprattutto mi sembra più feconda. I fanatici del progresso si espongono a misconoscere, per il poco conto in cui le tengono, le immense ricchezze accumulate dall'umanità da un lato e dall'altro dello stretto solco sul quale fissano il loro sguardo; sopravvalutando l'importanza degli sforzi passati, essi svalutano quelli che ci restano da compiere. Anche se gli uomini non perseguono che un solo scopo, cioè di produrre una società adatta a viverci, le forze che hanno animato i nostri lontani antenati sono anche presenti in noi. Nulla è perduto; possiamo riguadagnare tutto. Ciò che fu fatto e sbagliato può essere rifatto: «L'età d'oro che una cieca superstizione aveva posto dietro (o davanti) a noi, è in noi.» La fraternità umana acquista un senso concreto presentandoci nella più povera tribù la nostra immagine stessa, e un'esperienza di cui, aggiunta a tante altre, possiamo assimilarci le lezioni. Ritroveremo perfino in queste un'antica freschezza. Sapendo che dopo millenni l'uomo non è riuscito che a ripetersi, raggiungeremo quella nobiltà del pensiero che consiste, al di là di tutte le ripetizioni, nel dare come punto di partenza alle nostre riflessioni la grandezza indefinibile degli inizi. Poiché essere uomo significa, per ciascuno di noi, appartenere a una classe, a una società, a un paese, a un continente e a una civiltà; e che per noi, Europei e terrestri, l'avventura nel cuore del Nuovo Mondo significa anzitutto che esso non era il nostro e che noi siamo responsabili della sua distruzione; e infine che non ce ne saranno altri: ricondotti in noi stessi da questo confronto, cerchiamo almeno di esprimerlo nei suoi termini originari - rifacendoci a un tempo in cui il nostro mondo ha perduto l'occasione che gli era offerta di scegliere la sua missione.” (pp. 371-382)

A queste riflessioni sul rapporto tra le culture, ne seguono altre, che concludono il libro, ispirate dai viaggi fatti da Lévi-Strauss in Oriente, negli anni 50 del secolo scorso:

“Gli uomini hanno fatto tre grandi tentativi religiosi per liberarsi dalla persecuzione dei morti, dal maleficio dell'al di là e dalle angosce della magia. A distanza approssimativamente di mezzo millennio, essi hanno concepito successivamente il Buddhismo, il Cristianesimo e l'Islam; ed è sorprendente che ogni tappa, lungi dal segnare un progresso sulla precedente, testimoni piuttosto un regresso. Non c'è al di là per il Buddhismo: tutto in esso si riduce a una critica radicale, quale l'umanità non sarebbe stata in seguito più capace di fare, il cui termine è il saggio sfociare in un rifiuto del senso delle cose e degli esseri: disciplina che abolisce l'universo e se stessa come religione. Cedendo di nuovo alla paura, il Cristianesimo ristabilisce l'altro mondo, le sue speranze, le sue minacce e il suo giudizio finale. Non resta più all'Islam che incatenarlo: il mondo temporale e il mondo spirituale si trovano accomunati. L'ordine sociale si adorna dei prestigi dell'ordine soprannaturale, la politica diventa teologia. In fin dei conti, si sono sostituiti degli spiriti e dei fantasmi a cui neanche la superstizione poteva dare vita, con dei padroni già troppo reali, ai quali in più si permette di monopolizzare un al di là che aggiunge il suo peso a quello già schiacciante della vita su questa terra.

Questo esempio giustifica l'ambizione dell'etnografo, quella cioè di risalire sempre alle origini. L'uomo non crea cose veramente grandi che al principio; in qualunque campo, solo il primo frutto è integralmente valido. Quelli che seguono sono esitanti e balbettanti, e si affannano pezzo per pezzo a ricuperare il territorio superato. Firenze, che ho visitato dopo New York, dapprima non mi ha sorpreso: nella sua architettura e nelle sue arti plastiche riconoscevo Wall Street del XV secolo. Paragonando i primitivi ai maestri del Rinascimento e i pittori di Siena a quelli di Firenze, avevo il senso della decadenza: che avevano fatto questi ultimi se non esattamente quello che non si sarebbe dovuto fare? E tuttavia essi restano ammirevoli. La grandezza propria degli inizi è così certa che anche gli errori, a condizione di essere nuovi, ci abbagliano ancora con la loro bellezza.

Oggi io contemplo l'India attraverso l'Islam; quella di Buddha, prima di Maometto, il quale per me europeo e perché europeo, si erge fra la nostra riflessione e le dottrine che gli sono più vicine, come un villano che impedisce un giro tondo in cui le mani, predestinate ad allacciarsi, dell'Oriente e dell'Occidente, siano state da lui disunite. Quale errore stavo per commettere sulla traccia di quei Musulmani che si proclamano cristiani e occidentali e pongono nel loro Oriente la frontiera fra i due mondi! I due mondi sono più vicini che ciascuno di essi non lo sia alloro anacronismo. L'evoluzione razionale è inversa a quella della storia: l'islam ha tagliato in due un mondo più civile. Quello che gli sembra attuale proviene da un'epoca già compiuta, esso quindi vive in uno spostamento millenario. Ha saputo compiere un'opera rivoluzionaria; ma poiché questa si applicava a una frazione arretrata dell'umanità, seminando il reale ha sterilizzato il virtuale: ha determinato un progresso che l'inverso di un programma.

Che l'Occidente risalga alle fonti del suo laceramento: interponendosi fra il Buddhismo e il Cristianesimo, l'islam ci ha islamizzati; quando l'Occidente si è lasciato trascinare dalle crociate ad opporglisi e quindi ad assomigliargli, piuttosto che prestarsi se non fosse mai esistito - a quella lenta osmosi col Buddhismo che ci avrebbe cristianizzati di più e in un senso tanto più cristiano in quanto saremmo risaliti al di là dello stesso Cristianesimo. Fu allora che l'Occidente ha perduto la sua opportunità di restare femmina.

Sotto questa luce, comprendo meglio l'equivoco dell'arte mogol. L'emozione che essa ispira non ha nulla di architettonico: essa deriva dalla poesia e dalla musica. Ma non è forse per le ragioni suddette che l'arte musulmana, doveva restare fantasmagorica? «Un sogno di marmo», si dice del Taj Mahal; questa formula da Baedeker ricopre una verità molto profonda. I Mogol hanno sognato la loro arte, essi hanno creato letteralmente palazzi dai loro segni; non hanno costruito ma trascritto. Così che questi monumenti possono turbare simultaneamente per il loro lirismo e per un certo aspetto vacuo di castelli di carte e di conchiglie. Piuttosto che palazzi solidamente fissati alla terra, sono dei bozzetti che cercano invano di esistere con la rarità e la durezza dei materiali.

Nei templi dell'India l'idolo «è» la divinità; là essa risiede, la sua presenza reale rende il tempio prezioso e terribile, e giustifica le precauzioni devote: ad esempio il tenere le porte sprangate, salvo che nei giorni di udienza del dio.

A questa concezione, l'Islam e il Buddhismo reagiscono in maniera diversa. Il primo esclude gli idoli e li distrugge, le sue moschee sono nude, solo la congregazione dei credenti le anima. Il secondo sostituisce le immagini agli idoli e non ha difficoltà a moltiplicare queste immagini poiché nessuna è effettivamente il dio ma solo lo evoca, e quindi il numero stesso favorisce l'opera dell'immaginazione. Accanto al santuario indù che ospita un idolo, la moschea è deserta, salvo di uomini, e il tempio buddhista contiene una folla di effigi. I centri greco-buddhisti dove si circola a fatica in una fungaia di statue, di cappelle e di pagode, annunziano l'umile kyong della frontiera birmana, dove sono allineate delle figurine tutte uguali e fabbricate in serie.

Mi trovavo in un villaggio mogli del territorio di Chittagong nel mese di settembre 1950; da più giorni guardavo le donne portare ogni mattina il cibo dei bonzi al tempio; nelle ore di siesta, sentivo i colpi di gong scandire le preghiere e le voci infantili canterellare l'alfabeto birmano. Il kyong era situato ai margini del villaggio, in cima a una piccola collinetta selvosa, simile a quello che i pittori tibetani amano rappresentare nei loro sfondi. Ai suoi piedi si trovava il jedi, cioè la pagoda; in quel povero villaggio essa si riduceva a una costruzione di terra a piano circolare, che si elevava in sette ripiani concentrici disposti a gradini, in un recinto quadrato di graticcio di bambù. Noi ci eravamo scalzati per arrampicarci sulla collinetta la cui argilla sottile stemperata era dolce ai nostri piedi nudi. Da una parte e dall'altra del viottolo si vedevano le piante di ananasso sradicate la sera prima dagli abitanti del villaggio, scandalizzati che i loro preti si permettessero di coltivare i frutti, dato che la popolazione laica provvedeva ai loro bisogni. La sommità offriva l'aspetto di una piazzetta circondata da tre lati da tettoie di paglia, sotto cui stavano riposti dei grandi oggetti di bambù ricoperti di carta multicolore, specie di cervi volanti, destinati a ornare le processioni. Sul quarto lato si elevava il tempio, costruito su palafitte come le capanne del villaggio da cui differivano appena per le sue più grandi dimensioni e il corpo quadrato con il tetto di paglia che dominava la costruzione principale. Dopo l'arrampicata nel fango, le abluzioni prescritte sembravano del tutto naturali e sprovviste di ogni significato religioso. Entrammo. La sola luce era quella che cadeva dall'alto della lanterna formata dalla gabbia centrale, proprio al di sopra dell'altare, da cui pendevano gli stendardi di stracci e di stuoia, e quella che filtrava attraverso la paglia delle pareti. Una cinquantina di statuette di latta si affollavano sull'altare accanto al quale era appeso un gong; sulle pareti, qualche cromolitografia sacra e una scena nella quale era riprodotta l'uccisione di un cervo. Il pavimento di grosse canne di bambù spaccate e intrecciate, lucido per lo strofinio dei piedi nudi, era, sotto nostri passi, più soffice di un tappeto. Regnava una tranquilla atmosfera di granaio e l'aria era profumata di fieno. Quella sala semplice e spaziosa che sembrava un pagliaio vuoto, la cortesia dei due bonzi in piedi presso i loro pagliericci posati su delle lettiere, la commovente attenzione che aveva presieduto alla raccolta o alla confezione degli oggetti di culto, tutto contribuiva ad avvicinarmi più di quanto non lo fossi mai stato, all'idea che potevo farmi di un santuario. «Voi non avete bisogno di fare come me», mi disse il mio compagno prosternandosi quattro volte dinanzi all'altare, e io accettai il suo consiglio. Ma era meno per amor proprio che per discrezione: egli sapeva che non appartenevo alla sua confessione e io avrei temuto di abusare dei gesti rituali facendogli credere che li consideravo solo dalle convenzioni: una volta tanto, non avrei avuto nessuna difficoltà ad osservarli. Fra me e quel culto nessun malinteso si era stabilito. Non si trattava più di inchinarsi davanti a degli idoli o di adorare un preteso ordine soprannaturale, ma solo di rendere omaggio alla riflessione decisiva che un pensatore, o la società che creò la sua leggenda, realizzò 25 secoli fa, e alla quale la mia civiltà non poteva contribuire che confermandola.

Che cos'altro ho appreso infatti dai maestri che ho ascoltato, dai filosofi che ho letto, dalle società che ho visitato e da quella scienza stessa da cui l'Occidente trae il suo orgoglio, se non frammenti di lezioni che, messi uno accanto all'altro, ricostruiscono le meditazioni del Saggio ai piedi dell'albero? Qualsiasi sforzo per comprendere distrugge l'oggetto al quale eravamo dedicati, a profitto di un oggetto la cui natura è diversa; esso richiede da parte nostra un nuovo sforzo che lo annulla a profitto di un terzo, e così di seguito fino a che noi accediamo all'unica presenza durevole, che è quella in cui svanisce la distinzione fra il senso e l'assenza di senso: la stessa da cui eravamo partiti. Da ben 2500 anni gli uomini hanno scoperto e formulato questa verità. Da allora non abbiamo trovato niente se non - tentando una dopo l'altra tutte le vie d'uscita - altrettante dimostrazioni della conclusione alla quale avremmo voluto sfuggire.

Naturalmente, vedo anche i pericoli di una rassegnazione troppo affrettata. Questa grande religione del non-sapere non si fonda certo sulla nostra incapacità di comprendere. Essa anzi prova la nostra capacità e ci eleva fino al punto in cui scopriamo la verità sotto forma di un'esclusione reciproca dell'essere e del conoscere. Con un'audacia supplementare, essa ha - unica oltre il marxismo - riportato il problema metafisico a quello della condotta umana. Il suo scisma si è prodotto sui piano sociologico, essendo la differenza fondamentale fra il Grande e il Piccolo veicolo, quella di sapere se la salvezza di un solo dipende o no dalla salvezza dell'umanità intera.

Tuttavia, le soluzioni storiche della morale buddhista portano a una tremenda alternativa: colui che ha risposto affermativamente alla precedente domanda si chiude in un monastero; l'altro si soddisfa a buon conto praticando una virtù egoistica.

Ma l'ingiustizia, la miseria, la sofferenza esistono; esse forniscono un termine mediatore a questa scelta. Noi non siamo soli, e non dipende da noi restare sordi e ciechi di fronte ai nostri simili, o di considerare l'umanità esclusivamente in rapporto a noi stessi. Il buddhismo può rimanere coerente pur accettando di rispondere ai richiami dal di fuori. Fors'anche, in una vasta regione del mondo, esso ha trovato la maglia che mancava alla catena. Poiché, se l'ultimo momento della dialettica che porta all'illuminazione è importante, lo sono anche tutti gli altri che lo precedono e gli somigliano. Il ripudio assoluto del senso è l'ultima di una serie di tappe ciascuna delle quali conduce da un senso minore a uno più grande. L'ultimo passo, che ha bisogno degli altri per compiersi, li convalida tutti. A suo modo e sul suo piano, ognuno corrisponde a una verità. Fra la critica marxista che libera l'uomo dalle sue prime catene - insegnandogli che il senso apparente della sua condizione sparisce quando accetta di allargare l'oggetto che considera - e la critica buddhista che completa la liberazione, non c'è né opposizione né contraddizione. Fanno tutte e due la stessa cosa a un livello diverso. Il passaggio fra i due estremi è garantito da ogni progresso della conoscenza, che un movimento di pensiero indissolubile dall'Oriente all'Occidente e che si è spostato dall'uno verso l'altro - forse soltanto per confermare la sua origine - ha permesso all'umanità di compiere nello spazio di due millenni. Come le credenze e le superstizioni si dissolvono quando si affrontano i rapporti ideali fra gli uomini, la morale cede alla storia, le forme fluide cedono il posto alle strutture e la creazione al nulla. Basta invertire la marcia per scoprire la sua simmetria; le sue sono sovrapponibili; le tappe superate non distruggono il valore di quelle le hanno preparate: esse le collaudano.

Spostandosi nel suo quadro, l'uomo trasporta con sé tutte le posizioni man mano occupate, e tutte quelle che occuperà. Egli è simultaneamente dappertutto, è una folla che avanza, ricapitolando in ogni istante un insieme di tappe. Perché noi viviamo in diversi mondi, ognuno più vero di quello da esso tenuto, esso stesso falso in rapporto a quello che lo contiene. Gli uni si riconoscono dai fatti, gli altri si vivono pensandoli, ma la contraddizione apparente insita nella loro coesistenza si risolve nella necessità da noi subita di accordare un senso ai più vicini e di rifiutarlo ai più lontani; mentre la verità è in una dilatazione progressiva del senso, ma in ordine inverso e spinta fino all'esplosione.

In quanto etnologo, io non sono dunque più il solo a soffrire di una contraddizione che è comune all'umanità intera e che porta in sé la sua ragione. La contraddizione sussiste soltanto quando isolo gli estremi: a che serve agire se il pensiero che guida l'azione conduce alla scoperta dell'assenza di senso? Ma questa scoperta non è immediatamente accessibile: bisogna che io la pensi e non posso pensarla in un sol tratto. Che le tappe siano dodici, come nella Boddhi; che esse siano più o meno numerose, esse esistono tutte insieme e per raggiungere il termine, sono continuamente chiamato a vivere delle situazioni ciascuna delle quali esige qualcosa da me: io «mi devo» agli uomini come «mi devo» alla conoscenza. La storia, la politica, l'universo economico e sociale, il mondo fisico e lo stesso cielo, mi stanno intorno a cerchi concentrici da cui non posso evadere col pensiero senza concedere a ciascuno una particella di me. Come il sasso che cade nell'acqua traccia sulla superficie infiniti anelli concentrici, per raggiungere il fondo devo buttarmi nell'acqua.

Il mondo è cominciato senza l'uomo e finirà senza di lui. Le istituzioni, gli usi e i costumi che per tutta la vita ho catalogato e cercato di comprende sono un'efflorescenza passeggera d'una creazione in rapporto alla quale e non hanno alcun senso, se non forse quello di permettere all'umanità di sostenervi il suo ruolo. Sebbene questo ruolo sia ben lontano dall'assegnarle un posto indipendente e sebbene lo sforzo dell'uomo - per quanto condannato - sia di opporsi vanamente a una decadenza universale, appare anch'esso come una macchina, forse più perfezionata delle altre, che lavora alla disgregazione di un ordine originario e precipita una materia potentemente organizzata verso un'inerzia sempre più grande e che sarà un giorno definitiva. Da quando ha cominciato a respirare e a nutrirsi fino all'invenzione delle macchine atomiche e termonucleari, passando per la scoperta del fuoco - e salvo quando si riproduce - l'uomo non ha fatto altro che dissociare allegramente miliardi di strutture per ridurle a uno stato in cui non sono più suscettibili di integrazione.

Senza dubbio ha costruito delle città e coltivato dei campi; ma, se ci si pensa, queste cose sono anch'esse macchine destinate a produrre dell'inerzia a un ritmo e in una proporzione infinitamente più elevata della quantità di organizzazione che implicano. Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all'uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso.

Cosicché la civiltà, presa nel suo insieme, può essere definita come un meccanismo prodigiosamente complesso in cui saremmo tentati di vedere la possibilità offerta al nostro universo di sopravvivere, se la sua funzione non fosse di fabbricare ciò che i fisici chiamano entropia, cioè inerzia. Ogni parola scambiata, ogni riga stampata, stabiliscono una comunicazione fra due interlocutori, rendendo stabile un livello che era prima caratterizzato da uno scarto d'informazione, quindi una organizzazione più grande. Piuttosto che antropologia, bisognerebbe chiamare «entropologia» questa disciplina destinata a studiare nelle sue manifestazioni più alte, questo processo di disintegrazione.

Eppure, io esisto. Non certo come individuo; perché, che cosa sano io, sotto questo rapporto, se non la posta, ad ogni istante rimessa in gioco, della lotta fra un'altra società formata di qualche miliardo di cellule nervose raccolte nel formicaio del mio cranio, e il mio corpo che le serve da robot Né la psicologia né la metafisica né l'arte possono servirmi da rifugio, miti ormai passibili, anche all'interno, d'una sociologia di nuovo genere che nascerà un giorno, e che non sarà per loro più benevola dell'altra. L'IO non è soltanto odioso: esso non ha posto fra un «noi» e un «nulla». E se finalmente scelgo questo «noi», benché sia ridotto a un'apparenza, è perché, a meno di non distruggermi - atto che sopprimerebbe le condizioni dell'opzione - non ho che una sola scelta possibile fra questa apparenza e il nulla. Ora, basta che io scelga perché, a causa di questa stessa scelta, io assuma senza riserve la mia condizione di uomo: liberandomi così di un orgoglio intellettuale di cui misuro, da quella del suo oggetto, tutta la vanità, accetto anche di subordinare le sue pretese alle esigenze oggettive della liberazione di una moltitudine a cui i mezzi una tale scelta sono sempre negati.

Come l'individuo non è solo nel gruppo e ogni società non è sola fra altre, così l'uomo non è solo nell'universo. Quando l'arcobaleno delle culture umane si sarà inabissato nei vuoto scavato dal nostro furore; finché noi saremo ed esisterà un mondo - questo tenue arco che ci lega all'inaccessibile resisterà: e mostrerà la via inversa a quella della nostra schiavitù, la cui contemplazione, non potendola percorrere, procura all'uomo l'unico bene c sappia meritare: sospendere il cammino; trattenere l'impulso che lo costringe a chiudere una dopo l'altra le fessure aperte nel muro della necessità e a compiere la sua opera nello stesso tempo che chiude la sua prigione; questo bene che tutte le società agognano, qualunque siano le loro credenze, il loro regime politico e il loro livello di civiltà; in cui esse pongono i loro piaceri e i loro ozi, il loro riposo e la loro libertà; possibilità, vitale per la vita, di distaccarsi e che consiste - addio selvaggi! addio viaggi! - durante i brevi intervalli cui la nostra specie sopporta d'interrompere il suo lavoro da alveare, nell'afferrare l'essenza di quello che essa fu e continua ad essere, al di qua del pensiero e al di là della società; nella contemplazione di un minerale più bello tutte le nostre opere; nel profumò, più sapiente dei nostri libri, respirato nel cavo di un giglio; o nella strizzatina d'occhio, carica di pazienza, di serenità e di perdono reciproco che un'intesa volontaria permette a volte di scambiare con un gatto.” (pp. 397-404)

9.

E’ difficile restituire antologicamente la ricchezza di un testo maturato a lungo, anche se scritto febbrilmente in soli quattro mesi. A tratti, l’impressione è che la scrittura, sempre lucida, fluisca sulla base di una sorta di trance creativa che produce i più arditi nessi simbolici.

Al di là dell’eleganza del testo, sono i contenuti ad esprimere il suo valore. C’è una chiave che può ricondurli ad un senso unitario. Io penso di sì.

Annovererei senza incertezze Lèvi-Strauss tra i Grandi Demistificatori, e mi sembra in particolare che si imponga un parallelismo con Freud. Questi, in virtù della scoperta dell’inconscio e dei meccanismi di mistificazione che pongono gli esseri umani al riparo dalla consapevolezza di come sono realmente - più o meno contraddittori e dissociati - ha praticamente abbattuto la barriera tra normale e anormale. In questa ottica, l’anormalità psichica è null’altro che l’affiorare di aspetti profondi della vita mentale presenti, in qualche misura, in tutti gli esseri umani.

Lévi-Strauss ha abbattuto un’altra barriera: quella che separa e oppone il civile e il selvaggio. Tutte le culture sono una combinazione di questi due aspetti, che, in termini semplici, possono essere ricondotti rispettivamente all'assumere l'uomo come fine e non come mezzo, sia dentro che fuori il gruppo di appartenenza.

Adottando questa categoria, come si può collocare la nostra civiltà occidentale? Lèvi-Strauss, in più passi del saggio, esprime a riguardo un giudizio molto severo. Lo si può condividere, a patto di aggiungere ad esso un ulteriore criterio che, forse, specifica in maniera precisa la singolarità della nostra civiltà. Essa è, al tempo stesso, troppo civile e troppo selvaggia.

Su questo ossimoro occorrerebbe soffermarsi a lungo per chiarirne il senso. Forse, in onore e in memoria di Lèvi-Strauss, occorrerà farlo.