Nicola Ghezzani: il ritratto di Luigi Anepeta

Luigi Anepeta è un personaggio sul quale varrebbe la pena riflettere: la cultura psicologica e psicopatologica ne sarebbe grandemente arricchita. E invece è - per così dire - un intellettuale «rimosso». Scomodo per un verso per la radicalità della sua innovazione teorica, lo è altresì, per altro verso, per l’intransigenza morale mai occultata nei confronti dei compromessi che psichiatria biologica e psicoterapie colluse hanno compiuto col potere economico, accademico e mediatico.

Luigi Anepeta è stato il mio primo maestro, nel periodo immediatamete successivo ai brevi contatti di carattere personale avuti con Silvano Arieti a Pisa e a Roma, fra il 75 e il 77.

C’incontrammo la prima volta nel settembre del 1976 che io avevo ventuno anni e lui trentaquattro, tredici appena più di me. Essendo io giovanissimo non colsi la sua giovane età (all’epoca aveva un paio di baffi molto seri di cui in seguito, evidentemente pentito, non ha mai più portato traccia). Gli fui inviato - sempre attraverso la mediazione di Arieti - da Franco Paparo, psicoanalista romano esuberante e fuori dalle righe, aperto a ogni tipo di innovazione.

Feci con lui un’analisi non particolarmente lunga (cinque anni), ravvivata dai suoi e miei molteplici interessi culturali. Da parte sua: l’antipsichiatria di Basaglia e di Laing, lo strutturalismo di Levi-Strauss, l’anarchismo post-strutturalista di Lacan (almeno nel suo versante tributario della lezione di Saussurre e appunto di Levi-Strauss), la letteratura di Borges e, sul piano filosofico, l’incorruttibile amore per Marx. Da parte mia: la lunga consuetudine con l’arte figurativa, la letteratura del novecento, la filosofia esistenziale ed ermeneutica da Kierkegaard ad Heidegger e più tardi Foucault, la psichiatria fenomenologica di Laing e la psicoanalisi culturalista di Arieti e Fromm.

Il razionalismo di Luigi mi fu subito di grande utilità (su suo suggerimento, mi misi presto a divorare, con enorme soddisfazione, le limpide opere di Levi-Strauss e degli storici francesi); allo stesso tempo, ebbi modo di apprezzare, con crescente gratitudine, la sua straordinaria e disinteressata capacità accuditiva.

Nell’83, circa un anno dopo l’avvio della mia attività psicoterapeutica privata, tradito da un personaggio della psicoanalisi romana di quegli anni (poi trasferitosi a Milano), il quale aumentò in modo esponenziale il prezzo al quale mi subaffittava il suo studio, dove avevo appena cominciato a ricevere i miei primi pazienti, Luigi mi accolse nel suo studio, a Torrevecchia, uno dei quartieri più «rossi» di Roma. Nel frattempo, aveva inaugurato l’avventura dei seminari, durata circa dieci anni, dall’82 al 91, terminata poi con la pubblicazione presso l’editore Armando del libro La politica del super-io, libro difficile, geniale e di assoluto insuccesso.

I Seminari furono per me un’indimenticabile esperienza formativa. L’organizzazione logica della mia cultura è stata posta lì, durante quelle fondamentali serate. In precedenza possedevo una cultura ricca, vasta e disorganica, tendente all’irrazionalismo, appena mitigata da una forte passione per la storia. Grazie ai Seminari presi atto che Freud, che pur tanto ammiravo e che aveva potentemente influenzato, attraverso le scuole e i circoli di psicoanalisi, l’insegnamento della psicologia, aveva peccato di uno psicologismo gravido di conseguenze nefaste: in primis, la creazione di una casta di psicoanalisti auto-investiti d’un ruolo sacerdotale, messisi a capo di una cultura dove l’interpretazione poggia di fatto sull’arbitrio assoluto dell’interprete. Luigi, poco incline a quella sgradevole miscela di personalismo intuizionista e baronaggio accademico, si oppose e volle mediare la cultura psicoanalitica e psicodinamica con l’apporto dello strutturalismo, della storia della cultura materiale di origine francese (da Braudel a Le Goff a Duby ecc.) e della biologia evoluzionista, affrontata in tutte le sue più complesse diramazioni. I testi dei primi anni dei Seminari costituiscono un documento incancellabile di quella ubiquitaria ricerca. Per parte mia, io non ebbi difficoltà a spingermi in ciascuno di questi territori e a intavolare col «maestro» un dialogo fondato su una sintonia completa e - aggiungo oggi - pressoché «mimetica» (per adottare un termine caro a René Girard).

La psicopatologia struttural-dialettica, la nuova disciplina di analisi della psiche e dei fatti sociali che sortì da quei ricchissimi anni, presenta concetti di una novità assoluta, i quali, se accolti nella loro radicalità, pongono la psicopatologia in un campo epistemico affatto diverso rispetto a quello in cui è oggi rinchiusa e svilita.

Se oggi il paradigma della psicopatologia dominante è medico e, per il versante psicologico, è tecnicistico, la psicopatologia struttural-dialettica (o, come la chiamo io, la psicodialettica) istituisce e fonda un paradigma che indica la genesi e la struttura delle «malattie» del carattere e della mente nel punto d’incrocio fra una soggettività organica (un corpo umano frutto di un raffinato evoluzionismo) e il sistema storico-sociale nel quale quell’organismo è nato, vive e interagisce, sistema sociale rappresentato ai livelli minimi dai care-takers (genitori, parenti, tutori sociali) e ai massimi dai valori sociali interiorizzati. La psicopatologia, dunque, benché si esperisca come un evento intimo, interno al proprio sé, non è tuttavia un evento riducibile all’interiorità. Essa è la manifestazione soggettiva (mentale e psicosomatica) di una configurazione di fatti e circostanze di ordine storico e sociale. Impossibile venirne a capo (quanto meno su un piano esplicativo) se non si ha un’idea abbastanza chiara e abbastanza profonda della potenza che i sistemi sociali esercitano sugli individui e di come i sistemi sociali vengono a loro volta modificati da quel flusso di omogeneità e discontinuità che è la storia.

Con evidenza, il progetto struttural-dialettico è scientifico quant’altri mai, tale da necessitare di una profondità e versatilità culturali che non molti specialisti oggi, in Italia e nel mondo, mostrano di possedere.

A titolo di promemoria del paradigma psicodialettico valga la menzione di almeno tre concetti fondamentali:

1) la dotazione binaria di bisogni psicobiologici (bisogno di integrazione sociale/appartenenza; bisogno di opposizione/individuazione);

2) l’identità umana uniduale;

3) la doppia identità psicopatologica: alienata e antitetica.

Alla luce dell’analisi anepetiana, l’inconscio freudiano - e psicodinamico tout court - viene riletto come un sistema organico, di natura biologica e sociostorica, le cui ragioni vanno analizzate nel contesto di pertinenza (che è appunto storico e sociale) perché possano essere rese oggetto di consapevolezza riflessiva, dando così luogo ad una coscienza dialettica.

Personalmente mi ritengo un commentatore non lineare del pensiero di Luigi. Volendo essere un po’ auto-ironico e un po’ presuntuoso (del resto, perché no?), direi che il rapporto che mi lega al mio vecchio maestro potrebbe essere assimilato a quello di Plotino nei confronti di Platone o a quello dello stesso Platone nei confronti di Socrate (o anche - e forse con maggior modestia - al rapporto puntuale di Marco Aurelio nei confronti di Epitteto o di Epitteto nei confronti del suo caposcuola Crisippo). Lungi da me la tentazione di occupare il posto del thèios anèr (il saggio assoluto, privo di maestri e antecendenti), amo un pensiero che è naturale commento al pensiero altrui, alla maniera, appunto, dell’antica filosofia greca, o - al limite - della bottega artistica rinascimentale, dove l’originalità si fondeva armonicamente con l’apprendimento, che - come ogni apprendimento - è ammirativo e imitativo. Una sintesi, dunque, felicemente libera dalla moderna ossessione per l’originalità assoluta e la rivoluzione permanente, che, a ben vedere, potrebbero essere soltanto una pulsione mascherata, e perciò imperfetta, al nichilismo.

Nicola Ghezzani

Roma, dicembre 2006

 

3. Post Scriptum. L’antica e sempre nuova Therapeia

Una personalità poliedrica come quella di Luigi Anepeta non può essere descritta adeguatamente in poche piccole pagine, sia pure di estrema sintesi affettiva. La tentazione di abbandonare la sfida è forte quanto la volontà di persistere. Quanto sarà adeguato il ritratto che un uomo può fare di un altro uomo? Quanto veritiero, dal momento che esso sarà profilato secondo un punto di vista personale? La memoria rappresenta la forma migliore del ritratto, o non dovremmo piuttosto affidarci all’oggettività dell’opera scritta e dei documenti?

Mi convince alla fine il pensiero che ciò che resterà di noi per un breve lasso di tempo dopo la nostra prevedibile scomparsa sarà nient’altro che un lampo di memoria nel cuore di un pugno di vivi, lampo di memoria che tutto risolve e unisce. Non importa, dunque, quanto si riesca a dire e quanto bene; conta solo la forza che il nostro scomparire riuscirà a imprimere a quel lampo. La persistenza dello sforzo di ricordare farà più bianca quella luce.

Luigi non è solo uno psicopatologo; è sempre stato – e questo in parte era sfuggito alla mia precedente riflessione –, forse innanzi tutto, un medico. Il ricordo più antico, a proposito di questo suo profondo e radicale essere medico è questo che ora racconto.

Un giorno, all’epoca in cui lavoravo nel suo studio di via Cogoleto ed ero un giovane di circa trent’anni, venne da me e mi disse che la madre stava morendo. Nel lungo periodo di agonia dell’anziana donna, Luigi la accudì giornalmente mantenendo quanto possibile gli impegni coi suoi pazienti. Il suo volto era solo un po’ più pallido e tirato del solito. Poi, un altro giorno, mi disse che era morta. Me lo disse con serenità, e prevenendo il mio turbamento mi disse: “Nicola, della morte si può parlare”. Aveva accudito la madre, aveva tenuto il suo posto di fronte ai suoi pazienti e s’era preoccupato che il suo allievo trentenne – ma lui stesso doveva averne non più di quarantacinque –, non ancora toccato da gravi lutti, non avesse a turbarsi dell’evento.  

Dunque, Luigi Anepeta è stato uno psicopatologo in quanto è stato in primo luogo un medico, medico nel senso alto stabilito fin dai tempi più remoti dalla medicina greca, per la quale therapeia era la sintesi degli atti compiuti per accompagnare con amore la vita dell’uomo. Da qui, da questa vocazione nascostamente filosofica, nasce il suo impegno di psicopatologo, ossia di colui che – almeno fino ai tempi della sua e della mia formazione – si dotava di una cultura e di una vocazione ad accompagnare la vita di un essere umano per lunghi tratti di percorso.

Oggi la psichiatria biologica e la psicoterapia cognitivo-comportamentale nella volontà onnipotente di moltiplicare all’infinito i propri consumatori accorciano i tempi dell’incontro col paziente fino ad annullare del tutto la mediazione umana. Ma nella misura in cui la techne (l’ambito della mera scoperta scientifica) avanza a ritmi prodigiosi, tanto da porsi come la nuova potenza del mondo, è sempre e ancora la therapeia (e il logos telpnos della philia, il discorso amorevole della solidarietà) a rappresentare la mediazione giusta per fare del mondo sociale alienato un mondo compiutamente umano.

In questo senso, dunque, oggi più che mai può definirsi terapeuta solo colui che adegua all’umano i processi neutri della natura e che soggettiva, cala nel profondo dell’anima soggettiva, l’oggettività delle scoperte tecniche, di per se stesse prive di un valore affettivo, dunque di significato umano. Terapeuta è colui che più s’impegna a riunire in se stesso scienza e amore: il procedere oggettivo delle tecniche di indagine sul reale e la direzione soggettiva, personale, affettiva che l’uomo dà a quelle tecniche. Allo stesso titolo, terapeuta è solo colui che non può derogare dall’imperativo di umanizzare i processi sociali quando questi deviano dall’uomo assunto come meta e fine dell’affettività reciproca. 

Per quanto il mondo possa aprire scenari nei quali processi oggettivi s’impongono con una violenza neutra e perciò più impressionante, l’uomo si sforza di dare al caos – quello della natura e ancor più quello da lui stesso prodotto – un senso affettivo coerente, un senso umano. Il terapeuta è parte di questo sforzo, attore della ricerca di senso all’interno dei processi socio-storici e nelle persone in carne e ossa. 

Su questo punto credo che l’evoluzione del mio pensiero trovi con quello di Luigi, dopo anni di ricerche divergenti, una nuova e ricchissima convergenza: l’idea che la specie umana – non volendo perire – stia sviluppando l’anticorpo necessario a guarire dall’infezione narcisistico-individualista, intessuta di onnipotente sadismo espropriativo, che va sempre più pervadendo il mondo contemporaneo. Questo anticorpo è per Luigi, tout court, l’individuo introverso e per me l’individuo sensibile, che può avere una dotazione introversiva o iperempatica.

Nell’epoca competitiva fino alla spietatezza in cui ci troviamo, il mondo sociale si va spingendo sempre più nella direzione di creare gerarchie di potere e modelli di comportamento che da una parte impongono l’insensibilità a fini di autopotenziamento e di profitto, e dall’altra impongono e universalizzano il sentimento della vergogna: la vergogna d’essere inadatti, deboli, sensibili, malati... Poiché, operando in tal modo, il mondo contemporaneo rischia la disgregazione di quel tessuto affettivo che costituisce il tratto più distintivo e prezioso della specie umana, che, come insegna la biologia da Darwin in poi, è una specie sociale e cooperativa, l’evoluzione sociobiologica dell’uomo risponde partorendo individui ricchi di capacità empatiche, riflessive, idealistiche, solidaristiche. Individui la cui attitudine psicologica è appunto a ricucire, nel mondo delle idee o in quello degli affetti, ciò che la realtà sociale attuale va lacerando. Alla ybris, al delirio di superbia del mondo moderno e dei suoi attori, la specie, col solo persistere nei suoi caratteri specie-specifici, oppone la nascita di individui il cui fine biologico è sentire e trasmettere il benessere personale come parte di quello collettivo, quindi lo sviluppo di valori etici, estetici e pratici coerenti con questo bisogno.  

Questa tesi, che io ho espresso nei capitoli conclusivi di Volersi male del 2002 e di La logica dell’ansia del 2008, Luigi l’ha pubblicata a sua volta nel libro Sei introverso? del 2005, ampliato nel 2008 col titolo Timido, docile, ardente... e l’ha concretizzata infine nella fondazione della sua Associazione, la LIDI.

Lampo di luce che seguirà alla mia e alla sua fine, eco della memoria per un manipolo di volti perduti, questa intuizione – l’iperumanità, come io da oggi la chiamo – è poco più che una visione ideale, concetti che circolano fra pochi idealisti, niente per cui io possa, allo stato attuale, fare uno sforzo maggiore di quello lasciato – come tracce di sangue – in queste brevi, fragili righe.

(Nicola Ghezzani, Roma, Aprile 2008.)