Ho già pubblicato un file comprendente tutti gli articoli scritti sul Super-Io. Pubblico adesso quelli scritti sull’Io antitetico e sulle substrutture dell’Io, che completa il quadro di come la teoria struttural-dialettiva si rapporta al mondo interiore nei suoi aspetti prevalentemente inconsci.
L’Io antitetico è stato intuito da Freud, alluso da Jung nel principio di individuazione e, in una certa misura, riconosciuto anche da J. Bowlby, M. Malher e D.Winnicot. Esso, però, non è mai stato teorizzato, tanto meno riconoscendo in esso una substruttura dell’Io che si edifica su di un bisogno di opposizione/individuazione ed esercita una funzione dialettica e complementare rispetto al Super-Io.
La teoria dell’Io antitetico, oltre che la riformulazione di quella concernente il Super-Io, è l’unica intuizione “luminosa” che posso attribuire a me stesso come ricercatore. Luminosa perché essa getta una luce nuova sull’intero universo psicopatologico, permettendo, per un verso, di comprenderne e spiegarne la fenomenologia e, per un altro, di identificare nel conflitto psicodinamico l’intrappolamento di potenzialità che, disalienate e investite diversamente, possono essere utilizzate per riavviare lo sviluppo della personalità.
Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante perché consente di recuperare, in un’ottica scientifica, l’intuizione antipsichiatrica secondo la quale la “malattia” è un tentativo di guarigione, almeno nel senso che essa interviene spesso a sancire la fine di una normalità meramente apparente.
Il discorso sulle substrutture, per quanto, mi concerne è arrivato al termine. Rimane solo un problema da affrontare: quello dei correlati neurobiologici del Super-io e dell’Io antitetico. Un giorno, forse, riuscirò a scrivere qualcosa a riguardo.
Bisogno di opposizione/individuazione
Forma affettivo-cognitiva innata che organizza i dati dell’esperienza soggettiva sulla base di una logica che, facendo capo ad una coscienza viscerale di sé, promuove lo sviluppo e la differenziazione dell'individualità, nella direzione dell’auto-nomia, vale a dire di una responsabilità che comporta scelte dettate dalla volontà propria siano esse consensuali o in conflitto con i valori culturali del gruppo di appartenenza.
Originariamente, e complementarmente al definirsi dell'Io sul registro dell'identificazione alienata, si esprime sotto forma di opposizione, il più spesso apparentemente irrazionale, della volontà propria alla volontà altrui. Nel corso delle fasi evolutive, in seguito all’integrazione dei dati emozionali e cognitivi nella forma a priori, il bisogno di opposizione si ripresenta fasicamente e criticamente inducendo catastrofi dell'identità sociale alienata, ciascuna delle quali promuove, attraverso una ristrutturazione delle mappe cerebrali e dei sistemi di significati che categorizzano sé, l'altro e le reciproche relazioni, una differenziazione dell'Io autocosciente e un aumento del grado di libertà e di autonomia — sia morale che ideologica — dell'individuo rispetto al sistema sociale di appartenenza. Nel tempo, dunque, l'opposizione diventa sempre più funzionale all'individuazione, e cioè al definirsi di una personalità dotata di un sistema di valori assimilati e di una coscienza morale critica, capace di dar conto a se stessa prima che agli altri dei propri comportamenti.
Al di là delle fasi evolutive, l'individuazione, nonché estinguersi, può dar luogo a ulteriori ristrutturazioni dei sistemi di significati che definiscono l'autonomia e la libertà dell'individuo in rapporto al sistema sociale. La massima espressione del bisogno di individuazione è rappresentata dall'integrazione nella forma a priori di valori culturali che estendono a tutta l'umanità i diritti di pari dignità, giustizia e libertà riconosciuti e vissuti come irrinunciabili per sé.
Io antitetico
Funzione psichica in gran parte inconscia che codifica i contenuti dell’esperienza soggettiva e relazionale sulla base di una logica che valorizza i diritti individuali (libertà, senso di dignità, ecc.), sollecitando il soggetto verso l’auto-nomia, vale a dire il vivere agendo in maniera conforme alla volontà propria.
La matrice originaria dell’Io antitetico è il bisogno di opposizione/individuazione, che programma l’individuo a sentire e a definire un’identità sua propria distinta da tutte le altre. Dato che la prima identità che si organizza nel corso della fase evolutiva è necessariamente normalizzata, vale a dire caratterizzata dalla interiorizzazione dei desideri, delle aspettative e delle norme sociali, l’Io antitetico si manifesta a livello infantile e adolescenziale sotto forma di opposizione, talora apparentemente irrazionale e capricciosa, della volontà propria a quella altrui.
L’opposizione è funzionale a promuovere l’individuazione, vale a dire la definizione di un’identità individuale caratterizzata da un sistema di valori che integra i doveri sociali e i diritti individuali.
Quando questo obiettivo programmato non si realizza, l’Io antitetico residua al fondo della personalità assumendo una configurazione sempre più trasgressiva rispetto ai valori proscrittivi e prescrittivi del Super-Io. E’ questo aspetto, che si rende evidente nelle esperienze psicopatologiche, a confermare che si tratta di una funzione distinta dall’io cosciente, dunque una substruttura.
Socrate è stato un filosofo del tutto particolare. Primo perché non ha mai messo nero su bianco le cose che gli giravano per la testa, ritenendo che gli uomini, per intendersi e fraintendersi, devono guardarsi nelle palle degli occhi. Nemico giurato ante litteram, dunque, dei telefonini e della posta elettronica. Secondo, perché aveva una tale fiducia negli esseri umani da assumere come interlocutori privilegiati, un bel pezzo prima che inventassero la televisione, oltre ai giovani, la gente di strada, ciabattini, falegnami, fabbri e perdigiorno. Filosofare, per Socrate, significava andare in giro per la città e mettere in crisi la gente, dimostrando che il senso comune non la conta giusta e che coloro che credono di essere sapienti in realtà non sanno nulla. Di intellettuali del genere, evidentemente, si è perso il calco. Anche all'epoca, però, il potere non andava d'accordo con i rompiscatole.
Atene è stata la culla della democrazia. La libertà d'opinione, di pensiero e di parola era riconosciuta al punto tale che, già prima di Socrate, era attivo un manipolo di filosofi - passati alla storia col nome di sofisti - i quali insegnavano che con la parola è possibile dimostrare tutto e il contrario di tutto. Mettevano insomma confusione nella testa della gente che, allora come oggi, aveva bisogno di certezze (vale a dire di menzogne in cui credere). Quasi nessuno di essi è stato perseguitato, anche se i conservatori, sempre fermi al principio per cui esiste una e una sola verità, non li vedevano di buon occhio. Socrate, invece, fu portato in tribunale con l'accusa di corrompere i giovani, mettendogli in testa delle idee contrarie alle tradizioni e ai principi religiosi su cui si fondava la comunità, processato e condannato a morte. Perché?
Il problema è che, mentre i sofisti si limitavano a insegnare a mettere tutto in discussione a livello retorico, tanto per parlare, Socrate sosteneva che se qualcosa è ritenuto convenzionalmente vero, buono, giusto e non lo è, va contestato. Rispetto ai sofisti, che avevano mangiato la foglia, limitandosi alla chiacchiera da salotto era tanto ingenuo da ritenere che ciò che è giusto e vero va affermato e testimoniato anche contro le tradizioni e il senso comune.
Agli atti, il processo non c'è. Ma l'allievo ne ha riferito l'essenziale in un libro che vale più di tutti quelli di educazione civica che girano per le scuole e che nessuno legge. Esso riporta la difesa opposta da Socrate in prima persona (l'avvocato allora non s'usava) ai capi d'accusa. Lo stile tradisce l'uomo. Se uno ci tiene a farsi condannare, di meglio non può fare.
Socrate riconosce che dietro le accuse è in gioco la stabilità di Atene, delle sue istituzioni e delle sue tradizioni. Non è un rivoluzionario, almeno in apparenza. Alla Patria ci tiene, tanto da aver rischiato la vita sui campi di battaglia per difenderla. Inoltre la ama, e sa che ad essa deve tutto: l'esser calzato, vestito e in grado di ragionare da uomo libero. Ma - e qui viene il bello - è proprio questo amore che lo tormenta. Egli la vorrebbe ancora più saggia, più giusta, più consapevole di quanto essa sia. Quest'utopia lo spinge a criticare come vuote e fuorvianti molte delle tradizioni su cui essa si fonda, e a ridicolizzare i sapientoni che le sostengono. Egli si rammarica di dover agire come un rompiscatole, ma è obbligato a farlo - dice - in nome di un dio interno, il daimon , a cui deve rendere conto. Questo dio gli impone di affermare ciò che ritiene giusto prescindendo dal giudizio della gente e dall'inimicizia dei sapientoni smascherati nella loro ignoranza.
Per questo - sostiene - dovrebbero dargli un premio, un vitalizio, piuttosto che una condanna, dato che, tra l'altro, nonostante il suo gran darsi da fare, è rimasto povero. Se lo lasciano in vita, però, - sia chiaro - continuerà il suo mestiere: andare in giro aiutando la gente a ragionare con la propria testa. Per correggersi gli manca il servomeccanismo. Rispetta lo Stato, le Leggi e le tradizioni, ma non può sacrificare ad essi la libertà di pensiero e la fedeltà al suo dio interno. E' più forte di lui .
Che sia avvenuta o no nei termini in cui la riporta il discepolo, la vicenda rappresenta l'atto ufficiale di nascita, nel corso della storia, di uno strano bisogno: il bisogno d'opposizione e d'individuazione, in nome del quale un individuo singolo può giungere a differenziare il suo modo di sentire, di pensare e di agire in rapporto alla comunità cui appartiene e alle sue tradizioni.
Solo qualche secolo prima, qualcosa del genere sarebbe stato impensabile perché, se anche gli individui avevano una coscienza distinta di sé, non avrebbero mai potuto rivendicare un'autonomia tale da contrapporsi al gruppo.
Se il congegno è stato sempre lo stesso da quando si è definita la specie umana, le sue modalità di funzionamento sono cambiate nel corso del tempo. Questo è vero soprattutto per quanto riguarda la coscienza e, in particolare, il suo rapporto col mondo esterno e con quello interno. All'inizio, e per un periodo sterminato di tempo, la coscienza deve essere stata assoggettata ad un controllo sociale pressoché totale. Uno psicologo canadese ha avanzato addirittura l'ipotesi che, dalla preistoria sino ad una determinata epoca storica, tale controllo era assicurato da "voci" (vale a dire da allucinazioni acustiche) che gli uomini sentivano normalmente e alle quali si attenevano considerandole messaggi degli dei, dei capi, dei morti, in breve delle autorità. L'ipotesi ovviamente non è verificabile, ma è suggestiva se si pensa alla quantità di persone, per esempio, che nella Bibbia sentono le "voci".
Sia vera o no questa ipotesi, è certo (perché attestato da tutti gli studi di antropologia) che il controllo sociale si è, ad un certo punto, interiorizzato. Le persone non sentivano più le voci, ma assecondavano la voce della coscienza, vale a dire il super-io, che manteneva all'interno della personalità il primato del sociale. Né il controllo sociale né l'interiorizzazione del controllo hanno mai scongiurato del tutto la possibilità che gli uomini trasgredissero le norme. Ciò però avveniva di sicuro raramente e mai in nome del diritto di pensare con la propria testa.
Tale diritto, esemplificato dalla vicenda di Socrate, è da ricondurre al fatto che, con la nascita dello spirito critico, la voce della coscienza sociale deve avere cominciato a fare i conti con la voce della coscienza individuale, espressione del bisogno d'individuazione.
A differenza del bisogno d'appartenenza, che si è imposto immediatamente in conseguenza della vita associativa, il bisogno d'individuazione ha richiesto per manifestarsi il maturare di determinate circostanze culturali che hanno reso possibile la diminuzione della dipendenza dell'individuo dal gruppo.
Con la nascita dell'individuazione, la programmazione del congegno è giunta - per dire così - a regime. All'appartenenza, che promuove l'interiorizzazione dei valori culturali propri dell'ambiente con cui un individuo interagisce, si è associata l'individuazione, che promuove una certa differenziazione del modo di vedere, di pensare e di agire dell'individuo in rapporto alle tradizioni, alle convenzioni e alle mode. Si tratta, con evidenza, di due bisogni geneticamente programmati che sottendono lo sviluppo di ogni personalità e della cultura stessa, impegnata a riconoscerli e a trovare un punto di equilibrio tra di essi.
La programmazione è ingegnosa, ma la sua realizzazione comporta però degli aspetti critici. Il primo è che l'individuazione dipende dalle circostanze ambientali, vale a dire dal grado di libertà che una cultura ed un gruppo riconoscono all'individuo. Il secondo è che la differenziazione individuale comporta uno stato di transizione in negativo: l'opposizione più o meno radicale rispetto all'autorità e ai valori culturali che essa trasmette. Il terzo è che essa richiede un potere critico che, in parte, può essere connaturato alla predisposizione costituzionale, in parte deve essere alimentato dall'educazione e dalla cultura.
Se si tiene conto di questi aspetti critici, non è sorprendente che, anche nella nostra società, che mitizza i diritti dell'individuo, soggetti individuati, vale a dire autonomi, siano piuttosto l'eccezione che la norma. Gran parte della gente, ormai, ritiene di pensare e di agire di testa propria, ma, se si considera la cosa con uno spirito critico, diventa immediatamente chiaro che il modo di pensare e di agire dei più è una miscela (spesso tossica) di tradizioni, luoghi comuni e influenze mediatiche .
Posto che esiste e svolge una funzione complementare rispetto a quello di appartenenza, è giusto chiedersi come si esprime sul piano psicologico il bisogno di individuazione. Jung, al quale va il merito di averlo scoperto, non è stato molto chiaro a riguardo. Egli ha scritto: "(l'individuazione) generalmente parlando è il processo di formazione e di particolarizzazione dell'individuo, e più specificamente dell'individuo psicologico come essere distinto dall'insieme, dalla psicologia collettiva… E' dunque un processo di differenziazione che ha per scopo lo sviluppo della personalità individuale ed è una necessità naturale … L'individuazione è sempre più o meno in opposizione con la norma collettiva, perché è separazione e differenziazione dall'insieme, formazione dell'originalità, non di un'originalità ricercata, ma di quella che è data a priori nella disposizione del soggetto". Intuizioni preziose ma un po' vaghe. Che significa che l'individuazione è una necessità naturale? In quale modo essa è data a priori nella costituzione del soggetto? Infine, come si realizza nel corso dell'evoluzione della personalità?
Mi attribuisco (una tantum) il merito di avere tentato di dare una risposta esauriente a questi quesiti.
Il fondamento naturale dell'individuazione è dato dal fatto che ogni uomo (eccezion fatta per i gemelli che nascono dalla fecondazione dello stesso uovo e per i cloni che si vanno preparando in qualche laboratorio) viene al mondo con un corredo genetico unico e irripetibile, che comporta una norma di reazione, vale a dire un insieme finito di possibilità evolutive, alcune delle quali e non altre si realizzano nell'interazione con un determinato ambiente. La norma di reazione rappresenta la vocazione ad essere di un determinato soggetto. Tale vocazione deve però fare i conti con le esigenze della società che, per rimanere coesa e perpetuarsi, deve proporre a tutti e favorire l'interiorizzazione di un sistema di valori normativo.
Le richieste della società vengono interiorizzate in misura direttamente proporzionale alla sensibità sociale e danno luogo alla strutturazione del super-io. La vocazione ad essere individuale è un bisogno complementare rispetto a quello di appartenenza, e in concorrenza con esso. Definirlo come bisogno di opposizione è reso lecito dal fatto che, in rapporto alla tendenza omologante della cultura, l'opposizione rappresenta il fondamento dell'individuazione. Sia la psicologia evolutiva sia lo SMT lo attestano inconfutabilmente.
La psicologia evolutiva riconosce molteplici fasi di opposizione che, se tutto va bene, si concludono con la grande crisi adolescenziale. Analizzare una di queste fasi permette di capire parecchie cose.
Intanto la crisi d'opposizione sopravviene da un giorno all'altro e questo prova che si tratta dell'espressione di una programmazione genetica. In secondo luogo, essa altera globalmente l'assetto comportamentale del bambino che si attesta sul no più o meno sistematico alle sollecitazioni dell'ambiente. La capricciosità, per cui sembra che egli, rifiutando di fare il suo dovere (dormire, mangiare, lavarsi, ubbidire, ecc.), sia intenzionato solo a fare innervosire i genitori, è apparente. Il bambino non sa perché si comporta così. E' preda di una forza che lo spinge ad opporsi. In questa forza traspare la necessità di affermare la propria volontà contro la volontà dei grandi. Ma com'è possibile che egli, casomai pur sentendosi in colpa, non avverta più la paura di essere rimproverato, di perdere la stima dei suoi e giunga ad affrontarli provocatoriamente alla pari? Com'è che la sua coscienza sembra affrancata dalla soggezione che lo dominava sino a qualche giorno prima? C'è una sola risposta. Nel corso della crisi, l'io cosciente è assoggettato ad un io oppositivo che detta e governa i suoi comportamenti.
Questo io oppositivo è un calco in negativo della personalità che, se tutto va bene, è destinata a definirsi nel corso dell'adolescenza sotto forma di un modo di vedere, di sentire e di agire in qualche misura differenziato rispetto alle richieste ambientali. L'individuazione, insomma, comincia dal no sistematico e apparentemente irrazionale per giungere, alla fine dell'evoluzione, all'io non voglio questo ma quest'altro, alla definizione di una volontà propria, che implica la possibilità di consentire o di dissentire rispetto alla cultura d'appartenenza.
Così almeno dovrebbe essere. Il problema è che la dipendenza dell'individuazione dall'appartenenza pone diversi ostacoli alla differenziazione della personalità. Spesso, come si è detto, l'opposizione semplicemente abortisce favorendo, in molte persone, l'adattamento al mondo così com'è e al dover essere. In altri casi, essa non riesce ad evolvere fino al punto di dare luogo ad un io differenziato, dotato di un modo di vedere, di sentire e di agire suo proprio, e rimane attiva a livello inconscio. In che modo? Sotto forma di un io antitetico che rivendica la libertà boicottando più o meno sistematicamente le richieste sociali normative e il senso del dovere veicolato dal super-io.
Devo sottolineare che la nozione di un io antitetico, vale a dire di una soggettività autonoma rispetto all'io cosciente, che fa da controaltare al super-io e può entrare in conflitto anche con l'io cosciente, se questi non ne recepisce il senso, è del tutto estranea alle scienze psicologiche, compresa la psicoanalisi. Jung stesso non è andato al di là dell'affermazione per cui l'individuazione compensa le richieste sociali che mirano all'omologazione. Questa lacuna, che mi arrogo il merito di avere colmata, è sorprendente, dato che l'attività dell'io antitetico, evidente nei claustrofobi come in tante altre esperienze di SMT, consente di spiegare una serie di fenomeni altrimenti incomprensibili. Questo aspetto risulterà chiaro ulteriormente. Lo si può ricavare però immediatamente dall'esperienza già citata di A.
Rubare i soldi dal portafogli del padre è solo il primo indizio di una protesta oppositiva contro il modello di vita piccolo-borghese proposto dal padre, a cui hanno aderito i fratelli maggiori. Si tratta, ovviamente, di una protesta confusa, data l'età del soggetto e i limiti culturali dell'ambiente di appartenenza. Sottesa dalla vaga intuizione di una vita ricca e piena di senso, essa si esaurisce nell'intrupparsi in un gruppo di estrema destra, fieramente avverso al sistema di vita borghese, che coltiva il sogno di un'esperienza elitaria. E' in nome del mito del superuomo - espressione patetica di un forte bisogno d'individuazione - che A. rifiuta di lavorare, dedica parte del tempo alla lettura di opuscoletti di stampo neonazista e passa la sera a coltivare con gli amici il sogno di un ordine nuovo. I duri contrasti col padre, che legge nei suoi comportamenti il pericolo della devianza, attivano il delirio.
Ad un certo punto, A. capisce che non può farcela contro il mondo intero e, per non essere perseguitato, tende a rimettersi in carreggiata. Comincia a lavorare svegliandosi presto la mattina, esce la sera solo di sabato. Le voci superegoiche si affievoliscono e scompaiono, ma ne compaiono altre. Si tratta di voci che lo ridicolizzano: guarda come ti sei ridotto - gli dicono -, ti sei arreso a fare il benzinaio, ti sei fatto mettere sotto da papà, bell'eroe che si piscia sotto! A. le attribuisce agli "amici". Il problema è che le sente giorno e notte, perfino nel chiuso della sua camera.
E' l'io antitetico che parla e si rivolge all'io cosciente dandogli del tu e rimproverandogli il tradimento di un progetto di vita differenziato (per quanto estremamente confuso). Né più né meno, mutatis mutandis, come il super-io.
La teoria psicopatologica struttural-dialettica si incentra, per molti aspetti, sul conflitto inconscio tra volontà altrui e volontà propria, vale a dire tra doveri sociali e diritti (e bisogni) individuali. Nella misura in cui tale conflitto non è riconosciuto a livello cosciente, o perché l’io identifica la sua volontà con quella altrui, imponendosela, o perché assume come propria una volontà estremizzata per effetto del conflitto, la quale trascende di gran lunga, mortifica o addirittura perverte i suoi bisogni, esso non può agire che sotto forma sintomatica.
Come è noto, a livello inconscio la volontà altrui è rappresentata dalla funzione superegoica, la volontà propria dall’Io oppositivo e antitetico.
Ho rilevato più volte, nei saggi, che il concetto di un io antitetico inconscio, che si edifica su un bisogno di opposizione/individuazione geneticamente determinato, rappresenta forse il concetto più innovativo della teoria psicopatologica struttural-dialettica. Ho anche riconosciuto, particolarmente negli ultimi lavori (dalla Miseria della neopsichiatria a SMT), che esso rappresenta lo sviluppo di un’intuizione junghiana, quella riferita al principio d’individuazione. Per quanto concerne Freud, ho sempre ritenuto che la sua concezione pulsionale gli abbia impedito di prendere seriamente in considerazione un concetto del genere. Tanto più che la sua polemica con Jung, e il suo rifiuto di riconoscere una tensione progettuale soggettiva, incompatibile con un rigido determinismo psichico del passato sul presente, lo ha portato nel corso degli anni a radicalizzare la teoria pulsionale.
Non ho motivo di cambiare opinione. Per onestà intellettuale, devo però riconoscere che in Freud non mancano indizi di un’intuizione il cui sviluppo avrebbe potuto indurlo a teorizzare un Io antitetico, che egli ha lasciato cadere. Non faccio tanto riferimento agli Studi sull’isteria, nei quali la dissociazione determinata dal conflitto lascia affiorare due personalità, una integrata con la normalità e un’altra tendenzialemnte malvagia anarchica. A posteriori, la seconda personalità può essere facilemente interpretata come espressiva di un Io antitetico. La fenomenologia delle sue manifestazioni è però tale che non c’è da sorprendersi che Freud l’abbia assunta piuttosto come una prova a favore della teoria pulsionale.
Faccio piuttosto riferimento ad un termine - controvolontà - che Freud ha utilizzato in uno dei suoi primi lavori (Un caso di guarigione ipnotica, Opere, vol. 1, pp. 128-133), ha ripreso più volte nella Psicopatologia della vita quotidiana (Opere, vol. 4, p. 188 sg., p. 192 sg.) e che cita infine un’ultima volta nella quarta lezione dell’Introduzione allo studio della psicoanalisi (vol. 8, pp. 251-253).
In Un caso di guarigione ipnotica Freud riferisce la vicenda di una giovane madre che, nonostante un vivo desiderio di allattare i figli, sviluppa tre volte consecutivamente (in rapporto a tre bambini nati nel giro di cinque anni) una difficoltà di realizzare quel desiderio per via di sintomi (latte scarso, suzione dolorosa, ripugnanza nei confronti dei cibi, vomito, nervosismo, insonnia) che glielo impediscono. Analizzando il meccanismo psichico dei disturbi, Freud parte dal presupposto che in ogni soggetto cosciente si diano rappresentazioni che esprimono i suoi propositi e le sue aspettative volontarie. Tali rappresentazioni sono sottese da uno stato affettivo riferito all’importanza dei fatti cui si rivolgono i propositi e le aspettative, e al grado di sicurezza soggettivo di potere fare fronte ad esse. Laddove il grado di sicurezza è basso è facile che si produca “una somma di rappresentazioni che possiamo designare come “penose rappresentazioni di contrasto”” (p. 126). Nell’isteria “la rappresentazione di contrasto si erige per così dire come “controvolontà”, mentre il malato è cosciente, con stupore, di una volontà decisa ma priva di forza” (p. 128). Questo meccanismo, secondo Freud, può spiegare non solo isolati attacchi isterici ma una considerevole parte del quadro sintomatico dell’isteria: “Se riteniamo stabilito che proprio le moleste rappresentazioni di contrasto, represse e inibite dalla coscienza normale, hanno prevalso nel momento della disposizione isterica, trovando la strada dell’innervazione corporea, allora possediamo anche la chiave per la peculiaritò degli attacchi isterici deliranti. Non a caso i deliri isterici delle monache nelle epidemie medioevali consistevano in gravi bestemmie er erotismo sfrenato, così come non è per caso che ragazzi a modo, beneducati - come rileva Charcot - presentano attacchi isterici in cui ogni monelleria, ogni birbonata e sgrabatezza viene attuata con estrema facilità. Sono le serie di rappresentazionirepresse, e a stento represse, che, in conseguenza di una specie di controvolontà, vengono convertite in azione” (pp. 130-131).
Freud intuisce che questo meccanismo non è esclusivo dell’isteria, ma, a prova di ciò, cita solo il tic convulsivo nel quale le smorfie, la coprolalia, l’ecolalia, i pensieri coatti oggettivano le rappresentazioni di contrasto. In realtà fenomeni del genere si ritrovano quasi costantemente nel corso delle esperienze ossessive, sotto forma di pensieri e di fantasie coatte che spingono ad agire comportamenti assolutamente rifiutati dalla coscienza.
Il problema viene ripreso nella Psicopatologia della vita quotidiana, soprattutto in riferimento alle dimenticanze e alle omissioni: “Io ho raccolto i casi osservati su me stesso di omissione per dimenticanza, e ho cercato di spiegarli, e ho trovato che quasi tutti potevano farsi risalire all’interferenza di motivi ignoti o non confessati oppure, come si può anche dire, a una controvolontà. In parecchi di questi casi mi trovavo in una situazione simile a un rapporto di servitù, sotto una costrizione contro la quale non avevo del tutto cessato di essere riluttante, cosicché protestavo contro di essa con la dimenticanza” (pp. 188-189). Analizzando i motivi delle dimenticanze, Freud giunge alla conclusione che esse fanno capo a situazioni sociali che impongono di manifestare formalmente, e in maniera esagerata, sentimenti non provati autenticamente, e commenta: “Da quando ho riconosciuto di avere spesso scambiato in altri per simpatia sincera quel che era soltanto finzione, mi trovo in uno stato di ribellione contro queste dimostrazioni convenzionali, pur riconoscendone l’utilità sociale… là dove la mia attività sentimentale non ha più nulla a che fare con i doveri sociali, la sua espressione non è mai inibita dalla dimenticanza” (p.189).
Nella stessa opera, a p. 259, Freud riferisce del piacere chiestogli dal fratello di prestargli delle illustrazioni scientifiche, che evidentemente non è gradito. Egli si impone di rispondere comunque alla richiesta, ma incorre in una serie di atti mancati, che attestano che sta forzando la sua volontà personale in nome del dovere parentale.
Nella lezione quarta dell’Introduzione allo studio della psicoanalisi, dedicata agli atti mancati, Freud, in riferimento alla dimenticanza di propositi, non fa altro che ribadire la coclusione cui è in precedenza pervenuto: “la tendenza che perturba il proposito è ogni volta una controintenzione, un non volere, di cui ci resta solo da sapere perché non si manifesti diversamente e in modo non dissimulato. La presenza di questa controvolontà è comunque indubbia” (p. 251).
E’ difficile minimizzare questi riferimenti. Se, analizzando i fenomeni isterici, Freud si ritrova di fronte ad una controvolontà che, per il modo in cui si esprime, può fare pensare ad un’interferenza meramente negativa, espressiva di un fondo pulsionale irrazionale, analizzando i suoi atti mancati (e, a dire il vero, anche quelli di altri riportati nel libro) si trova invece di fronte ad una volontà oppositiva che boicotta quella cosciente in nome non già di pulsioni, bensì di bisogni di libertà personale rispetto a doveri sociali coercitivi o a convenzioni comportamentali non sentite come autentiche. Se fosse stato in grado di cogliere in pieno il significato della controvolontà, Freud sarebbe pervenuto senz’altro ad intuire, se non a teorizzare, l’esistenza di un bisogno che fa riferimento ai diritti individuali e di una funzione - l’Io antitetico appunto - che li rappresenta a livello inconscio e, laddove essi risultano frustati, non cessa, a modo suo, di rivendicarli.
Ciò però non è accaduto. A partire dal 1901 il tema della controvolontà viene abbandonato. Il cenno che risulta nella quarta lezione dell’Introduzione alla psicoanalisi, del 1915-17, è semplicemnte una ripetizione di quanto già scritto nella Psicopatologia della vita quotidiana.
Spiegare questa “rimozione”, il cui peso a livello di teoria e di pratica psicoanalitica è stato ed è assolutamente rilevante, non è difficile. Attestatosi sin dall’epoca degli Studi sull’isteria sulla teoria pulsionale, Freud ha sistematicamente minimizzato i dati psicopatologici in contrasto con essa. Egli ha costantemente elaborato i dati di cui disponeva con una metodologia epistemologica non popperiana, orientata piuttosto a cercare delle conferme della teoria pulsionale che a tenere conto e a valorizzare aspetti che la falsificavano. Le critiche di Jung e di Adler, vissute come autentici attentati all’edificio analitico, sono state non solo respinte, ma hanno avuto l’effetto di radicalizzare l’orientamento pulsionale freudiano, spingendolo infine nel vicolo cieco dell’istinto di morte.
Paradossalmente, almeno per un aspetto, il principio d’individuazione junghiano e la protesta virile adleriana riecheggiavano il tema della controvolontà. Nessuno dei due autori è stato comunque in grado di pervenire ad una teoria strutturale dell’inconscio adeguata a spiegare i fenomeni psicopatologici.
Il concetto di io antitetico non appartiene alla tradizione analitica. Se ne può ritrovare di certo qualche anticipazione nelle opere di Jung, Adler, M. Malher, Winnicot, ecc. ma la sua teorizzazione definitiva, almeno per quanto ne sappia, spetta a me e rappresenta il maggior contributo personale al sapere psicodinamico.
Se ripercorro le tracce di questa “scoperta” non è per enfatizzarne la portata (peraltro difficile da minimizzare), bensì perché penso che questa ricostruzione possa aiutare il lettore a comprenderne meglio il significato.
Come ho accennato nell’Autobiografia intellettuale, la mia ricerca è nata dall’insoddisfazione sviluppata nel corso degli anni di formazione e di training nei confronti della teoria psicoanalitica. Ciò che mi turbava in particolare riguardava il modo piuttosto disinvolto con cui i Maestri dell’analisi affrontavano il problema della natura umana. Freud vedeva in essa un impasto di pulsioni ereditate dagli animali e vincolate al principio della scarica, dunque sostanzialmente in conflitto con le esigenze della vita sociale. Jung rifiutava la teoria delle pulsioni, ma, attraverso il concetto di Ombra, ratificava, in ultima analisi, la presenza, negli strati più profondi della mente, di una turbolenza caotica e sostanzialmente irrazionale. Adler intuiva che nell’uomo cíè una spinta verso l’affermazione di sé e la differenziazione, ma la riteneva espressiva di una sorta di volontà di potenza nietzschiana. Margaret Mahler ammetteva, nell’evoluzione infantile,un forte “impeto” verso la separazione decisivo al fine di sciogliere il legame simbiotico con le figure genitoriali e proponeva di assumerlo come una pulsione, ma le sue intuizioni rimanevano vincolate ad un piano sostanzialmente descrittivo.
Su queste basi, mi sembrava che la scoperta formidabile di Freud dell’inconscio e delle sue logiche, fosse destinata a non tradursi mai in una teoria attendibile e coerente dello sviluppo e dell’organizzazione della personalità, normale e patologica.
Allorché avviai le mie prime esperienze terapeutiche, peraltro impegnative concernendo due adolescenti affetti da gravi disturbi ossessivi e un giovane psicotico, mi sembrò estremamente pertinente il concetto freudiano di Super-io. In tutti i casi infatti l’incidenza di sensi di colpa imponenti sembrava trasparente. Dato che la mia formazione comportava già all’epoca il riferimento al fatto che la soggettività ha e non può avere una dimensione storica e culturale, cercai di approfondire la tematica dei sensi di colpa.
Si trattava, con tutta evidenza, di vissuti soggettivi. Nessuno dei pazienti, tranne lo psicotico che in alcune circostanze maltrattava la madre, aveva mai fatto male ad alcuno. Essi sembravano, compreso lo psicotico, inermi. Le loro storie interiori comportavano numerosi riferimenti ad aggressioni o prepotenze di vario genere subite senza reagire.
Da ciò sarebbe stato facile giungere alla conclusione, in accordo con la teoria analitica tradizionale, che il Super-io confonde le fantasie e le emozioni con le azioni, sulla base del principio dell’onnipotenza del pensiero che sarebbe costitutiva degli strati primordiali della mente umana.
In efferri tutti i soggetti erano pieni di emozioni negative (rabbie, odi, rancori, fantasie di vendetta, invidia, disprezzo, ecc.). Agli occhi di Freud essi sarebbero apparsi come testimoni probanti dell’intensità del loro bagaglio pulsionale. Tale bagaglio, sulla base dell’angoscia legata alla rappresaglia sociale, avrebbe attivato l’inibizione dell’aggressività, ritorcendola contro il soggetto.
C’era un punto però che non quadrava. Per quanto drammaticamente intense, le emozioni negative dei soggetti apparivano giustificate dalla loro difficoltà di interagire con gli altri su di un registro conflittuale. Essi tendevano univocamente ad accondiscendere o a subire la volontà altrui. Anche lo psicotico che, ogni tanto, maltrattava la madre, diventava aggressivo a scoppio ritardato, ogniqualvolta scopriva di aver ceduto alla volontà materna (cosa che avveniva regolarmente).
Mi chiesi se l’intensità e la drammaticità delle emozioni negative, anziché ad una dotazione pulsionale originaria, non fosse più facilmente interpretabile facendo riferimento all’inibizione di un bisogno: quello di sentire di essere dotati di una volontà propria capace di interagire con la volontà altrui sia sul piano del consenso che del dissenso, o al limite del conflitto. Di quale bisogno però si trattava, e perché se esso era tanto intenso,non riusciva ad esprimersi nel modo di essere e di porsi dei soggetti in rapporto al mondo?
Non sarei probabilmente giunto ad alcuna conclusione nell’immediato se non mi fossi imbattuto in un libro di psicologia evolutiva (mi pare fosse di Zazzo) nel quale si descrivevano le crisi di opposizione infantili, a partire dalla grande crisi dei tre anni. Nel corso di esse, si realizza qualcosa di assolutamente sorprendente. Per quanto piccolo e totalmente dipendente dai suoi, il bambino in fase oppositiva manifesta in genere una capacità di tenere testa alla loro volontà assolutamente sorprendente. Dice “no” alle loro richieste, o semplicemente si oppone strenuamente ad esse, rimanendo attestato sulla sua posizione come se repentinamente si fosse liberato da ogni soggezione. Alcuni bambini, addirittura, non cedono alla volontà genitoriale neppure se vengono picchiati.
Approfondendo questo problema, mi riuscì chiaro che le fasi oppositive, che punteggiano periodicamente l’evoluzione della personalità sino alla grande crisi adolescenziale, rappresentano momenti critici nel corso dei quali l’affermazione della volontà propria avviene sul registro significativo per quanto apparentemente irrazionale dell’antitesi alla volontà altrui. La loro insorgenza periodica e il cambiamento comportamentale radicale che esse determinano mi convinsero che esse corrispondessero ad una programmazione neurobiologica il cui fine ultimo è la definizione di un’identità personale dotata di una volontà autonoma rispetto agli altri.
Riflettendo sulle esperienze dei soggetti che avevo in terapia, venne fuori infatti che, ad eccezione di uno di essi che aveva avuto una violenta crisi di opposizione in rapporto all’inserimento asilare, poi abortita, nessuno di essi aveva mai sperimentato fasi oppositive.
La conclusione risultò ovvia. Occorreva ammettere l’esistenza, nel programma che sottende l’evoluzione della personalità, di un bisogno di opposizione che in tutti i soggetti in questione era rimasto represso. Le cause della repressione erano ovvie considerando il fatto che in tutti i soggetti che avevo in analisi, il bisogno in questione era venuto ad urtare contro una strutturazione superegoica estremamente rigida. Freud era pienamente consapevole di questo ma attribuiva la rigidità del Super-Io alla necessità di arginare una pressione pulsionale anarchica, asociale e antisociale di ordine costituzionale.
Se il bisogno in questione, configurando l’opposizione alla volontà altrui (degli altri ma anche della cultura che rappresenta una volontà collettiva) come premessa indispensabile per pervenire a disporre di una volontà propria, capace di consentire e di dissentire rispetto a quella altrui, corrispondeva ad una programmazione necessaria al fine di promuovere la definizione di un’identità personale, vale a dire l’individuazione, l’interpretazione freudiana risultava infondata. Veniva piuttosto da pensare che la strutturazione del Super-Io ne avesse promosso e ne mantenesse la repressione.
All’epoca, lo studio delle opere di Freud mi aveva già portato alla conclusione che la sua scoperta del Super-Io, che ritenevo straordinaria, era stata mortificata nel suo valore epistemologico dalla concezione pulsionale della natura umana cui egli faceva riferimento. In conseguenza di questo postulato ideologico, Freud riconduceva il Super-Io all’interiorizzazione dei valori culturali trasmessi attraverso le generazioni e alla paura dell’individuo di dare libero sfogo alle sue pulsioni associata alla consapevolezza di andare incontro ad una rappresaglia sociale. In questa ottica, il Super-Io diventava il rappresentante dell’ordine sociale e della civiltà contro il disordine selvaggio delle pulsioni. A me sembrava chiaro viceversa che l’esistenza e l’universalità del Super-Io fosse la prova incontrovertibile di un bisogno primario di appartenenza/integrazione sociale, e che la sua strutturazione, vale a dire i valori interiorizzati di cui, come Giudice, si faceva garante, producendo sensi di colpa per segnalare vissuti o comportamenti non conformi ad essi, avevano un significato storico-culturale: erano insomma semplicemente valori normativi prodotti dalla tradizione, non necessariamente universali.
Certo, anche la strutturazione del Super-Io è riconducibile ad una programmazione psicobiologica, vale a dire ad un bisogno di socialità che non può prescindere dalla condivisione di un quadro di valori culturali comuni al gruppo o alla società di appartenenza. Il Super-Io è necessario al fine di assicurare ad ogni società umana un certo grado di coesione culturale. Il suo limite però consiste nel sovrapporre la Norma alla diversità individuale nel tentativo di uniformare i comportamenti umani all’interno di un gruppo e nell’assolutizzare valori culturali che, in quanto prodotti storici, possono anche risultare repressivi della libertà individuale e lesivi della dignità umana o poco o punto congeniali con la vocazione personale ad essere.
Mi era chiaro dunque che se il bisogno di appartenenza/integrazione sociale, su cui si erigeva il Super-Io, non fosse stato contrastato e compensato da un altro bisogno - quello, appunto di opposizione/individuazione -, l’individuo semplicemente non sarebbe mai potuto pervenire all’autonomia e alla definizione di un’identità personale differenziata agli altri, capace di consentire ma anche di dissentire con i valori culturali dominanti.
In quest’ottica, il bisogno di appartenenza/integrazione sociale assicurava la stabilità e la coesione della società e dei valori di riferimento in cui essa si riconosceva, mentre il bisogno di opposizione/individuazione assicurava la differenziazione individuale e, in conseguenza di questo, l’evoluzione culturale.
Si trattava solo dunque di trovare un termine adeguato per caratterizzare la funzione psichica che si edificava sul bisogno di opposizione/individuazione. Dopo parecchi dubbi, decisi infine di utilizzare il termine Io antitetico per sottolineare: primo, che esso era integrato con l’Io individuale in opposizione al Noi, che riconosceva nell’individuo semplicemente la parte di un Tutto; secondo, che esso comportava l’opposizione alla logica sistemica del Noi in nome delle potenzialità di differenziazione e dei diritti del singolo individuo.
Per amore di verità, devo aggiungere che la definizione dei due bisogni e del loro carattere geneticamente determinato di programmi, delle funzioni - il Super-io e l’Io antitetico - che si edificano a partire da essi e della tensione intrinseca alla diversa logica che le sottende è giunta a compimento solo nel 1983, a distanza di una decina d’anni dall’avvio della ricerca. Le diverse tappe attraverso cui questa è passata sono almeno in parte testimoniate dai Seminari.
2.
Il vantaggio teorico del concetto di Io antitetico è tanto elevato che riesce difficile esporlo in maniera compiuta. Il vantaggio maggiore è che esso consente di dare finalmente una definizione strutturale compiuta delle polarità di qualunque conflitto psicopatologico. Come noto, Freud ipotizzò che tali polarità fossero riconducibili al Super-Io, rappresentante dei valori morali e culturali essenziali per assicurare un minimo di convivenza tra esseri umani, e all’Es, rappresentante delle pulsioni asociale a morali. La fedeltà degli analisti ortodossi a questa ipotesi sostanzialmente rozza è sorprendente. Anche coloro, però, che la contestano, da Sullivan a Fromm, non hanno fornito alcun’altra ipotesi scientificamente attendibile.
Affermare che il conflitto psicopatologico, in tutte le sue varianti, riconosce come polarità il Super-Io e l’Io antitetico significa, né più né meno, riconoscere che la sua matrice implica una scissione tra il bisogno di appartenenza/integrazione sociale e il bisogno di opposizione/individuazione, vale a dire tra i “doveri” sociali e i “diritti” individuali. Tale scissione si realizza nel corso delle fasi evolutive della personalità, in conseguenza dell’interazione con l’ambiente. Per quanto i due bisogni possano essere rappresentati, infatti, in un corredo genetico individuale in una combinazione poco equilibrata, è impossibile ammettere che questa comporti una predisposizione alla scissione. Qualunque combinazione non può infatti escludere una mediazione tra i bisogni, una configurazione potenziale di equilibrio, sia pure essa spostata dalla parte dei doveri sociali o dei diritti individuali.
Il conflitto psicopatologico, in quest’ottica, si articola dunque su di una tematica universale che ogni cultura in qualche modo affronta e che fa capo alla doppia natura dell’uomo, essere radicalmente sociale per un verso e per un altro dotato di una consapevolezza della sua identità individuale.
Una conseguenza immediata di questa concezione è che la ricostruzione della vita interiore del soggetto, necessaria ad identificare le cause e la genesi del conflitto psicopatologico, giunge ad avvalersi di un riferimento prezioso. Si tratta infatti di volta in volta di capire quali circostanze di interazione con l’ambiente, mediate dai vissuti soggettivi, possano avere determinato la scissione.
Un’altra conseguenza, non meno importante, consiste nello spiegare le conseguenze della scissione. In sé e per sé, in virtù delle diverse logiche che li sottendono, i bisogni intrinseci al corredo genetico sono in tensione tra di loro. La tensione non esclude però, per opera dell’Io, la possibilità di una mediazione tra doveri sociali e diritti individuali secondo formule comportamentali che possono essere diverse in rapporto alle diverse circostanze di vita. In alcune, per esempio, il soggetto può essere motivato a privilegiare i diritti, i bisogni o le aspettative degli altri rispetto alle sue, in altre, viceversa, a privilegiare le proprie esigenze individuali.
La scissione tra i bisogni determina invece una contrapposizione frontale tra la logica del Noi e la logica dell’Io, vale a dire un conflitto irriducibile tra Super-Io e Io antitetico, che si irrigidiscono progressivamente e si autoalimentano. In conseguenza di questo i vissuti e il comportamento del soggetto tendono o a cristallizzarsi rigidamente su di una modalità sociocentrica o egocentrica o a fluttuare dall’una all’altra senza alcuna mediazione.
La contrapposizione tra Super-Io e Io antitetico ha anche un’altra conseguenza. La quota di bisogni che, per effetto del conflitto non riesce a dispiegarsi o rimane repressa e/o rimossa, va incontro ad un processo di ridondanza. In altri termini, un bisogno frustrato si infinitizza. l’infinitizzazione corrisponde alla pressione che esso esercita per sormontare la rimozione o la repressione. Un bisogno infinitizzato però si traduce in emozioni, fantasie e pensieri consci e inconsci che non possono essere riconosciuti dal soggetto nel loro autentico significato. Un bisogno frustrato di appartenenza/integrazione sociale, per esempio, può tradursi in un’angoscia di colpa di estrema intensità, in un vissuto soggettivo di cattiveria, asocialità, antisocialità, ecc. Un bisogno frustrato di opposizione/individuazione può, viceversa, tradursi sotto forma di spinte motivazionali, fantasie e pensieri anarchici e trasgressivi di ogni genere.
Ignorando il principio di ridondanza, Freud è caduto nell’abbaglio di scambiare la fenomenologia del bisogno d’individuazione frustrato come espressione della dimensione pulsionale dell’Es.
3.
L’ipotesi dell’esistenza a livello inconscio di un io antitetico non ha avuto alcuna risonanza al di fuori della cerchia ristretta della mia “scuola”, che peraltro non conta più di una decina di allievi.
Da coloro che, estranei alla scuola, hanno dedicato un poí di tempo alla lettura dei miei saggi, sono venute fondamentalmente due critiche. La prima fa capo al fatto che riproporre la teoria del Super-Io come se non fossero accaduti straordinari cambiamenti culturali rispetto all’epoca di Freud non avrebbe senso. Il Super-Io, secondo loro, sarebbe tramontato con la cultura repressiva e gerarchica che lo ha prodotto, e di esso non si darebbe alcuna traccia nelle esperienze psicopatologiche giovanili contemporanee.
Ho discusso questa critica nell’articolo sul Super-io e negli articoli dedicati all’adolescenza di oggi. Non mi affanno a ripeterle se non per sottolineare che essa confonde il Super-Io in quanto funzione strutturale dell’assetto mentale umano, che assicura, di generazione in generazione, la replicazione della cultura, con i contenuti che esso veicola, vale a dire i valori culturali che sono determinati storicamente.
L’altra critica è appena un poco più credibile. Essa contesta che la straordinaria varietà dei vissuti, dei sintomi e dei comportamenti psicopatologici possa essere ricondotta a due soli fattori dinamici. A livello mentale - si sostiene - si danno molteplici se non indefinite motivazioni che possono entrare in confitto tra loro. l’ipotesi monistica per cui ogni conflitto interverrebbe tra Super-Io e Io antitetico, da questo punto di vista, sembra schematica. Non si esclude che essa possa essere valida in alcuni casi, ma sicuramente non in tutti.
La risposta a questa critica è complessa. Occorre considerare anzitutto che è vero che nella mente umana si agitano di continuo motivazioni diverse in competizione tra di loro per influenzare e determinare il comportamento. Ma quale di queste motivazioni può prescindere dal fatto che l’esperienza umana si intrattiene sul registro della relazione tra Io e Altro? Se questo è vero, ogni motivazione può essere ricondotta ad una logica sociocentrica o egocentrica e, in conseguenza di questo, al Super-Io e all’Io antitetico.
E’ ancora più importante considerare il fatto che il preteso schematismo della teoria struttural-dialettica viene meno se si tiene conto che il Super-io e l’Io antitetico sono due funzioni variabili, tra le quali si danno infinite combinazioni. E’ la varietà del conflitto che da ciò discende a permettere di comprendere la varietà dei vissuti, dei sintomi e dei comportamenti psicopatologici. Penso di avere esaurientemente illustrato questo aspetto in Psicologia strutturale e dialettica.
Nessuno dei miei critici ha rilevato, invece, un’evidente lacuna della teoria struttural-dialettica. Varie volte ho avuto occasione di scrivere che il Super-Io e l’Io antitetico sono substrutture dell’Io, la cui attività dinamica si svolge con assoluta prevalenza a livello inconscio. Ciò significa che esse forniscono all’io spinte motivazionale, rispettivamente sociocentriche e egocentriche, che egli deve impegnarsi a mediare. In quest’ottica, la difficoltà dell’io può derivare solo dal fatto che esso, investito da spinte motivazionali, radicalmente opposte può fallire nella sua funzione di mediazione. E’ vero, ma non è tutta la verità.
Una delle scoperte più profonde di Freud, che basterebbe da sola ad invalidare il cognitivismo coscienzialista, verte sul fatto che anche l’Io è rappresentato a livello inconscio. Tenendo conto di questo, riesce immediatamente evidente che, in conseguenza di una scissione tra i bisogni intrinseci e di una contrapposizione tra Super-Io e Io antitetico, l’Io stesso si scinde: una parte di esso si allea con il Super-Io, un’altra con l’io antitetico. Tale scissione ha anchíessa modalità che variano da un’esperienza all’altra: la parte alleata con il Super-io può essere più o meno rilevante, come pure complementarmente quella alleata con l’Io antitetico.
E’ la somma di tutte queste variabili che consente di definire una teoria del conflitto psicopatologico che è, nello stesso tempo, semplice, epistemologicamente elegante e flessibile quanto basta a comprendere la varietà dei sintomi, dei vissuti e dei comportamenti psicopatologici.
4.
E’ impossibile illustrare lo spettro espressivo dell’attività dell’Io antitetico in conseguenza di un conflitto. Occorre leggere Star Male di Testa per avere un quadro sufficientemente chiaro per quanto approssimativo di tale spettro.
Qui penso sia opportuno insistere sul fatto che la cultura contemporanea, con la sua perpetua insistenza sull’individualismo e sull’autorealizzazione (narcisistica), ha prodotto in effetti dei cambiamenti a livello di psicopatologia giovanile. Si danno ancora molti casi di crisi giovanili all’interno delle quali, in conseguenza spesso di un’educazione e di una pratica religiosa, l’attività di un Super-io rigido e colpevolizzante è del tutto evidente. E’ vero però che sempre più spesso l’adolescenza determina la rimozione o la repressione del Super-Io e il definirsi di un orientamento di personalità irretita dall’Io antitetico. Si definiscono, in conseguenza di questo spesso esperienze caratterizzate da una rivendicazione di libertà totale dal controllo parentale e sociale, che assumono anche precocemente una configurazione trasgressiva; esperienze narcisistiche contrassegnate dall’esigenza di dominare gli altri con cui si è in rapporto e dalla pretesa di essere confermati nel proprio valore a qualunque costo; esperienze di falsificazione dell’io sul registro dell’indurimento, del cinismo e dell’aggressività; ecc.
E’ evidente in tutti questi casi che il bisogno d’individuazione, se si realizza solo sotto la spinta dell’Io antitetico, realizza una crisi adolescenziale che può perpetuarsi, cronicizzare e non evolvere mai in una direzione dialettica.
Sono tali esperienze, al di sotto delle quali si danno vissuti di colpa e d’inadeguatezza di ogni genere, che comprovano la teoria dell’Io antitetico. Se questa fosse riconosciuta nel suo valore epistemologico, i trattamenti terapeutici otterrebbero migliori risultati di quelli attuali.
Aprile 2005
1.
Ho dedicato due articoli al Super-Io e all’Io antitetico con la pretesa di illustrare quello che, nell’ottica struttural-dialettica, appare il sottofondo di ogni esperienza soggettiva, caratterizzato da una tensione intrinseca tra la logica sistemica del bisogno di appartenenza/integrazione sociale, su cui si edifica il Super-io, e la logica differenziante del bisogno di opposizione/ individuazione, su cui si edifica l’Io antitetico. Ricondurre tale tensione al modo in cui sono rappresentati a livello inconscio i doveri sociali e i diritti individuali è una semplificazione, peraltro significativa.
Un punto fermo della teoria struttural-dialettica è che qualunque esperienza di disagio psichico, eccezion fatta per le reazioni psicologiche immediatamente comprensibili (come una modica depressione reattiva in conseguenza di circostanze negative di vita o una reazione ansiosa riferita a situazioni oggettive precarie), si definisce a partire da una scissione dei bisogni intrinseci e delle substrutture che su di essi si edificano. La scissione inconscia tra il Super-Io e l’Io antitetico, dunque, che può avere uno spettro molto ampio, è la chiave dinamica dell’universo psicopatologico.
E’ implicito in questo punto di vista che tale scissione si realizza e produce i suoi effetti in gran parte al di fuori dello spazio cosciente.
Da ciò si può essere però troppo facilmente indotti a ritenere l’Io una funzione psicologica che subisce passivamente ciò che avviene al di sotto del livello della coscienza, e il cui ruolo psicopatologico, si riduce ad adottare delle difese che lo mettono al riparo dal contatto con i contenuti psichici inconsci e ad interpretare, in maniera solitamente sbagliata, i messaggi che provengono dall’inconscio.
Ritengo che questo equivoco sia una lacuna piuttosto seria del modello struttural-dialettico, che va rimediata.
Il problema, da questo punto di vista, è che il termine Io, chiaro nella sua accezione corrente, che lo identifica con l’autoconsapevolezza che ogni soggetto ha di sé come individuo differenziato da tutti gli altri e dotato di una vita interiore incentrata su di un senso di unità che si mantiene nel corso del tempo, diventa estremamente complesso allorché si cerca di definirlo in maniera più precisa.
Di questa complessità fa fede sia la filosofia che la psicoanalisi e la psicologia. In ambito filosofico, lo spettro concettuale va dall’identificazione cartesiana dell’Io con la capacità di pensare alla radicale contestazione di Nietzsche, per il quale l’Io è una finzione o addirittura ìun prodotto della grammaticaî. In ambito psicoanalitico alla concezione freudiana, per cui l’Io è semplicemente una differenziazione dell’Es dovuta al contatto con la realtà esterna si contrappone la concezione hartmanniana, per cui esso gode di una qualche autonomia che comporta un processo di sviluppo e di maturazione orientato all’adattamento al mondo. In ambito psicologico o psicosociologico ad una tradizione che assume l’Io come luogo dell’autopercezione che va dall’immagine di sé alla consapevolezza delle proprie capacità, inclinazioni, avversioni fino alla coscienza dell’essere qui ed ora si contrappone la teoria di Mead, secondo la quale l’Io è semplicemente la risposta che il soggetto fornisce all’interiorizzazione di ruoli proposti dal processo sociale (il Me).
Non è certo opportuno, ai fini di questo articolo, cercare di giungere ad una definizione coerente dell’Io. Dal punto di vista struttural-dialettico, è importante piuttosto tenere conto di due aspetti che si possono ritenere essenziali, e che, per semplicità, definisco l’Io-vissuto e l’Io-funzione.
Sotto il profilo del vissuto, come ciascuno può sperimentare raccogliendosi in se stesso, l’Io, fin dal suo precoce esordio infantile, coincide con l’avere una qualche coscienza di sé, di esserci, di avere una realtà psicofisica distinta dagli altri, un mondo interiore di pensieri, emozioni, fantasie, desideri privati, di avere una continuità nel corso del tempo. L’io-vissuto, in breve, coincide con quello che un soggetto sente e pensa di essere, nonché quello che egli ritiene gli altri pensino di lui.
L’immediatezza di questo vissuto fa sì che, a livello soggettivo, l’Io sembra avere una realtà sostanziale: ciò significa che il soggetto egoicosi sente al centro del mondo e ha difficoltà a capire come il mondo potrebbe essere senza di lui.
L’Io-vissuto, che a livello cosciente sembra avere una dimensione sostanziale, è però l’espressione di una struttura più ampia - l’io-funzione, appunto - il cui fine è quello di trovare un punto di equilibrio adattivo tra il mondo interno e quello esterno. La necessità di questa funzione è presto detta.
Considerato nella sua realtà, che va presunta oggettiva e preesistente l’uomo, il mondo esterno ha due diverse dimensioni. Sotto il profilo fisico, quello che si offre alle modalità sensoriali, esso è un flusso caotico e perennemente mutevole di informazioni. Sotto il profilo culturale, viceversa, esso ha una struttura piuttosto stabile strutturata da regole, norme e valori che, in una certa misura, vincolano il comportamento soggettivo.
Sul primo fronte, l’Io-funzione deve categorizzare percettivamente e cognitivamente le informazioni in maniera tale da trasformare il flusso caotico delle informazioni in una visione del mondo che gli consenta di orientarsi e di agire in esso e su di esso.
Sul secondo fronte, esso deve integrare le regole, le norme e i valori culturali proposti dall’ambiente con la duplice esigenza, programmata a livello inconscio, di appartenere ad un gruppo e di essere da esso riconosciuto e, allo stesso tempo, di differenziarsi e di assumere uníidentità distinta da tutti gli altri.
E’ questo secondo aspetto funzionale che interessa più da vicino la psicopatologia.
2.
A differenza dell’Io-vissuto, rappresentato a livello cosciente e subconscio, l’Io-funzione esiste a tutti i livelli della personalità, quindi anche a livello inconscio.
L’intuizione dell’esistenza di un Io inconscio è dovuta a Freud. Nell’ottica freudiana, tale esistenza è attestata dalle difese che l’Io assume in rapporto ad un mondo interiore che non è meno caotico di quello esterno, ed è gravato, peraltro, dalla minaccia delle pulsioni che promuovono un disadattamento rispetto alla realtà sociale.
Dal punto di vista struttural-dialettico, viceversa, le difese che diaframmano l’Io rispetto al mondo interiore hanno due diverse componenti. Alcune di esse sono di natura neurofisiologica, vale a dire non hanno un significato psicodinamico. Servono unicamente a proteggere la coscienza dall’irruzione di un flusso di informazioni prodotte e attive a livello inconscio che sarebbe intollerabile. Altre difese hanno di certo un carattere psicodinamico. Se si prescinde però dall’ipotesi che esistano le pulsioni così come le ha definite Freud, è evidente che il loro significato va riformulato.
Non c’è bisogno ovviamente di escludere che tali difese proteggano l’Io dal contatto e dalla presa di coscienza di contenuti psichici disturbanti, poco o punto compatibili con l’immagine che l’Io ha di sé o, se si vuole, con il suo Ideale, vale a dire con ciò che egli desidererebbe essere. Ma che senso ha questa esigenza protettiva se essa non concerne le pulsioni?
Occorre a questo punto tenere conto, come ho scritto numerose volte, che la teoria pulsionale si fonda su di un abbaglio: Freud ha scambiato la fenomenologia dei vissuti che si reperiscono nell’analisi di persone affette da un disagio psichico per la loro essenza. Ha scambiato, in breve, le fantasie e desideri erotici e aggressivi di particolare intensità come prova dell’esistenza delle pulsioni. Se si utilizza viceversa il principio di ridondanza, per cui qualunque bisogno frustrato nel suo dispiegamento e nel suo appagamento, si infinitizza a livello inconscio, la fenomenologia pulsionale può essere agevolmente e univocamente ricondotta alla frustrazione di una quota di bisogni.
In nome di che, però, si realizza tale frustrazione? In nome dell’attività dinamica dei bisogni intrinseci e delle funzioni costruite su di essi, il Super-Io e l’Io antitetico.
Definire tali funzioni come substrutture dell’Io significa che, a livello inconscio, data la diversa logica di riferimento dei bisogni intrinseci, l’Io è normalmente scisso in due componenti: l’una che privilegia i doveri sociali e i bisogni dell’altro, l’altra, viceversa, che privilegia i diritti individuali e i bisogni dell’Io.
Questa scissione si può ritenere costitutiva della soggettività umana, in quanto strutturata a livello inconscio da due programmi che, in nome delle loro logiche, comportano rispettivamente la dissoluzione dell’Io nella rete degli obblighi sociali inerenti i ruoli che egli assume nel corso della vita e la dissoluzione dei doveri sociali in nome dell’esigenza primaria di agire solo in nome della libertà e della volontà personale.
Tale scissione può essere rappresentata anche a livello cosciente sotto forma di dubbio su come si debba agire nel rispetto di sé e degli altri, sotto forma cioè di conflitto tra l’Io e il suo ego-centrismo e la coscienza morale e il suo socio-centrismo. Essa però non assume se non raramente a livello cosciente un carattere drammatico. Le esigenze di unità e di coerenza dell’Io-vissuto, infatti, sono tali che, tranne nei casi in cui la sensibilità morale comporta una viva scrupolosità, l’Io cosciente può agire, e di fatto spesso agisce, in maniera contraddittoria, oscillando a livello comportamentale tra l’egocentrismo e il socio-centrismo, quasi senza accorgersene.
A livello inconscio, invece, la scissione in questione ha sempre un carattere drammatico poiché essa rimane vincolata alle due nature dell’uomo, quella per cui egli è un essere radicalmente sociale e quella per cui egli è un ente differenziato da tutti gli altri e dotato di una volontà sua propria.
Ora è senz’altro vero che la scissione riconosce come polarità dinamiche il Super-Io e l’Io antitetico. Se si ammette però che l’Io sia rappresentato a livello inconscio, è ovvio che, quale sia la sua unità e coerenza a livello conscio, esso non può sovrapporsi ad essa come un tuttíuno. Occorre dunque riconoscere che, normalmente, una parte dell’io sia connivente e alleata del Super-Io e uníaltra parte connivente e alleata dell’Io antitetico.
Se si volesse rappresentare la struttura di una personalità umana in generale occorrerebbe dunque ricondursi ad una raffigurazione simbolica del seguente tipo:
Lo schema è approssimativo, ma, a occhio e croce, rende l’idea di un Io sufficientemente integrato a livello cosciente che a livello inconscio riconosce comunque due componenti: l’una alleata con il Super-Io e l’altra con l’io antitetico. Il grado di integrazione dell’io è necessario per mediare le diverse logiche che caratterizzano le sue componenti inconsce.
A partire da questo schema è più facile capire quello che avviene, nella struttura della personalità, allorché tra Super-Io e Io antitetico, anziché una tensione, si dà un conflitto psicodinamico.
In misura direttamente proporzionale alla sua intensità, si produce a livello inconscio una scissione dell’Io. In conseguenza di questo, una parte dell’io inconscio diventa connivente con il Super-io, e uníaltra parte connivente con l’io antitetico. Su questa base, non è difficile capire le fluttuazioni che avvengono a livello coscio sotto forma di vissuti, sintomi e comportamenti psicopatologici, anche laddove l’Io cosciente continua ad apparire sufficientemente integrato.
Via via che il conflitto psicodinamico si incrementa, però, la scissione dell’Io tende ad amplificarsi e a situarsi ad un livello sempre maggiore. In tale caso, l’Io cosciente non va incontro solo a fluttuazioni, ma a cambiamenti funzionali, nel senso che talora esso assume il punto di vista del Super-Io, talaltra quello dell’Io antitetico.
Un conflitto psicodinamico estremamente attivo e a circolo vizioso può produrre, infine, la scissione dell’Io cosciente e fare affiorare, come avviene nelle esperienze psicotiche, pensieri, emozioni, fantasie e azioni che sembrano provenire da due diverse personalità.
Questa situazione può essere rappresentata graficamente nello schema seguente.
Nello schema la scissione dell’Io inconscio affiora in una certa misura a livello cosciente. Ciò significa che l’Io cosciente, pur mantenendo un qualche grado di integrazione, può ritrovarsi a sentire, a pensare e ad agire secondo due logiche diverse.
Il grado di scissione dell’Io può però variare in rapporto alla dinamica del conflitto fino a realizzare, in situazioni estreme, una scissione completa, vale a dire l’assoggettamento dell’Io al Super-Io per un verso e all’Io antitetico per un altro.
3.
L’importanza di questi concetti sul piano teorico e su quello pratico non sarà mai abbastanza sottolineata.
Sul piano teorico, essi comportano una riformulazione della teoria dell’Io che riconosca la tendenza dell’Io cosciente verso l’unità e l’integrità (con il rischio costante della mistificazione) e l’esistenza, a livello inconscio, di un Io che, in qualche misura, è diviso in due componenti, l’una catturata dalla logica del Super-Io, l’altra dalla logica dell’Io antitetico. Tale divisione non è di ordine psicodinamico ma funzionale: serve cioè solo mantenere l’Io in tensione in nome della necessità di soddisfare entrambi i bisogni intrinseci che fanno capo alla doppia natura umana.
E’ solo in conseguenza di un conflitto che la divisione dell’io si trasforma in una scissione e assume un significato psicodinamico. Questo significa che le componenti inconsce dell’Io si scindono in misura direttamente proporzionale all’intensità del conflitto, e che ciascuna di essa comincia a funzionare con un certo grado di autonomia. Superata una certa soglia, la scissione investe anche l’Io cosciente che quindi giunge pensare a sentire e ad agire secondo due logiche diverse, alternativamente o contemporaneamente.
Sotto il profilo pratico, questa concezione permette di comprendere una quantità indefinita di fenomeni psicopatologici, l’evoluzione spontanea positiva o negativa delle esperienze psicopatologiche, e l’evoluzione in conseguenza di un intervento psicoterapeutico.
Non è il caso di dilungarmi ora su queste complesse tematiche. Basterà fare un esempio.
In molte esperienze di disagio la sofferenza promuove, consciamente e inconsciamente, la ricerca del colpevole. A livello cosciente il colpevole può essere univoco: il soggetto stesso o qualcun altro (di solito un familiare). A livello inconscio, la scissione dell’Io giunge sempre ad identificare contemporaneamente due colpevoli: il soggetto stesso e qualcun altro. In conseguenza di questo si realizza spesso un circolo vizioso per cui la rabbia orientata verso l’esterno viene ritorta contro il soggetto stesso e viceversa. Se questa dinamica si incrementa senza controllo è ovvio che la condizione psicopatologica è destinata progressivamente a peggiorare.
Ciò che avviene nel corso dell’analisi è che il soggetto di solito difende a spada tratta il verdetto dell’Io cosciente, criminalizzando se stesso o l’altro. Solo lentamente egli si accorge che più si dà addosso, più cresce la rabbia inconscia verso l’altro, e più dà addosso all’altro più cresce il senso di colpa. Questa consapevolezza non serve però a nulla finché l’io cosciente non accede ad una logica congiunturale per cui la sofferenza viene riferita ad una somma di fattori - ambientali, soggettivi, intersoggettivi, comunicativi, ecc. - che escludono in senso proprio la colpa. l’adozione di tale logica crea però le premesse per cui l’Io cosciente si integra. Questa integrazione di solito promuove una presa di posizione in rapporto al conflitto che scioglie la connivenza dell’io inconscio con il Super-Io e l’Io antitetico.
Tornerò altrove su questo aspetto di somma importanza, praticamente misconosciuto anche a livello di pratica analitica corrente.
1.
Ho rilevato più volte, nei miei scritti, che il cosiddetto tramonto del Super-io, benché ormai avallato da parecchi psicoanalisti, è un abbaglio teorico e ideologico. Torno su questo tema perché, dal mio punto di vista, la teoria del Super-Io non è un argomento specialistico, ma un concetto fondamentale per la fondazione di una panantropologia.
Fin dal mio primo saggio pubblicato a stampa, ho insistito sul fatto che la “scoperta” del Super-io da parte di Freud consiste nell’identificazione di una funzione psichica, in gran parte attiva a livello inconscio, che mantiene in vigore, vita natural durante, il primato della società e dei valori culturali su cui essa si fonda sull’individuo. Sia la teorizzazione freudiana che quella psicoanalitica successiva a Freud hanno contribuito, però, a svilire piuttosto che a valorizzare tale scoperta.
Nell’Enciclopedia della psicanalisi J. Laplanche e J-.B. Pontalis riassumono lo “stato dell’arte “a riguardo nelle voci Super-io, ideale dell’Io, Io ideale. L’Enciclopedia risale al 1968, ma gli sviluppi ulteriori non hanno aggiunto alcunché di nuovo, eccezion fatta per il progressivo abbandono del concetto di Super-Io da parte di un certo numero di psicoanalisti, che lo ritengono “tramontato” in virtù di una sorta di epidemia narcisistica diffusa prevalentemente tra i giovani.
Per affrontare un problema cruciale, riporto anzitutto le voci integrali dell’Enciclopedia omettendo solo le note:
“Super-Io.
= 1).: Uber-Ich. - En.: super-ego. - Es.: superyò. - Fr.: surmoi. - P.: superego.
Una delle istanze della personalità quale è stata descritta de Freud nel quadro della suaseconda teoria dell’apparato psichico: il suo ruolo è assimilabile a quello di un giudice o di uncensore nei confronti dell’lo. Freud considera come funzioni del Super-io la coscienzamorale, l’autosservazione, la formazione di ideali.
Classicamente, il Super-io è definito come l’erede del complesso di Edipo; esso si costituisceper interiorizzazione delle esigenze e dei divieti dei genitori.
Alcuni psicanalisti fanno risalire più in là la formazione del Super-io, attribuendo a questaistanza un’attività già negli stadi preedipici (Melanie Klein) o perlomeno cercando comporzamenti e meccanismi psicologici molto precoci, che costituirebbero dei precursori deiSuper-io (Clover, Spitz, per esempio).
Il termine di Uber-Ich è stato introdotto da Freud in L’lo e l’Es (1923), ove rileva che la funzione critica così designata costituisceuna istanza che si è separata dall’Io e sembra dominarlo, come è mostrato dagli stati di luttopatologico o di melanconia in cui il soggetto si vede criticato e svalutato: “Vediamo come unaparte dell’Io si opponga all’altra, la giudichi criticamente e in un certo senso la assuma comeoggetto”.
La nozione di Super-io appartiene alla seconda topica freudiana. Ma, già prima di darle questo nome e questo senso, l’esperienza clinica e la teoria psicanalitiche avevano individuato la parte svolta nel conflitto psichico dalla funzione che mira a vietate l’appagamento e la presa di coscienza dei desideri: la censura del sogno per esempio. Freudaveva perfino riconosciuto - e ciò distingueva nettamente la sua concezione da quelleclassiche sulla coscienza morale - che questa censura poteva operare in modo inconscio. Egliaveva notato pure che gli autorimproveri nella nevrosi ossessiva non sono necessariamenteconsci: «...il soggetto che soffre di coazioni e di divieti si comporta come se fosse dominato daun senso di colpa, di cui tuttavia egli ignora tutto, di modo che possiamo chiamarlo un sensodi colpa inconscio, nonostante l’apparente contraddizione in termini”.
Ma è lo studio dei deliri di osservazione, della melanconia, del lutto patologico che indurràFreud a distinguere in seno alla personalità, come una parte dell’Io eretta contro un’altra, unSuper-io che assume per il soggetto il valore di modello e la funzione di giudice. Tale istanza èdapprima descritta da Freud negli anni 1914-15, come un sistema comprendente duestrutture parziali: l’ideale dell’Io propriamente detto e un’istanza critica.
Se si assume il concetto di Super-io in un senso lato e poco differenziato, come avviene inL’Io e l’Es - in cui il termine figura per la prima volta - essa comprende le funzioni didivieto e di ideale. Se si conserva, almeno come sottostruttura particolare, l’ideale dell’Io,allora il Super-io appare soprattutto come un’istanza che incarna una legge e vieta che la sitrasgredisca.
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Secondo Freud, la formazione del Super-io corrisponde al declino del complesso di Edipo: ilbambino, rinunciando al soddisfacimento dei suoi desideri edipici colpiti da divieto, trasforma il suo investimento nei genitoriin identificazione coi genitori, egli interiorizza il divieto.
Freud ha rilevato la differenza a questo proposito tra l’evoluzione del bambino e quella dellabambina: nel bambino il complesso di Edipo urta irrimediabilmente contro la minaccia dicastrazione: « ...gli succede un Super-io rigoroso”. Nella bambina invece «...ilcomplesso di castrazione, invece di distruggere il complesso di Edipo, ne preparal’apparizione [...]. La bambina rimane in tale complesso durante un periodo indeterminato elo demolisce soltanto tardi e in modo incompleto. Il Super-io, la cui formazione è, in questecondizioni, compromessa, non può giungere né alla potenza ne all’indipendenza che li sononecessarie dal punto di vista culturale”.
Alla base della formazione del Super-io vi è quindi la rinuncia ai desideri edipici amorosi eostili; tuttavia, il Super-io viene arricchito, secondo Freud, dagli apporti ulteriori delleesigenze sociali e culturali (educazione, religione, moralità). D’altro canto, vi è stato chi hasostenuto l’esistenza sia di un Super-io precoce sia di stadi precursori del Super-io primadel momento classico della formazione del Super-io. Diversi autori infatti insistono sul fattoche l’interiorizzazione dei divieti precede di molto il declino dell’Edipo: i precettidell’educazione sono adottati molto presto e in particolare, come è stato notato da Ferenczi nel1925, quelli dell’educazione sfinterica (Psicanalisi delle abitudini sessuali). Per la scuola di M. Klein, già nella fase oraleesisterebbe un Super-io che si formerebbe per introiezione degli oggetti “buoni” e «cattivi» e che il sadismo infantile, allora al suo acme, renderebbe particolarmente crudele.Altri autori, pur non parlando di un Super-io preedipico, mostrano come la formazione delSuper-io sia un processo che comincia molto presto. R. Spitz per esempio reperisce treprimordia del Superio nelle azioni fisiche imposte, nel tentativo di dominio mediantel’identificazione coi gesti, nell’identificazione con l’aggressore (quest’ultimo meccanismoavrebbe il ruolo più importante).
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E difficile determinare tra le identificazioni quelle che sarebbero specificamente in azione nella costituzione del Super-io, dell’ideale dell’Io,dell’Io ideale e perfino, dell’Io.
“La formazione del Super-io può essere considerata come un caso di identificazione riuscita con l’istanza parentale”, scrive Freud nelle Nuove lezioni di introduzione alla psicanalisi. L’espressione di istanza parentale indica già di per sé che l’identificazione costitutiva del Super-io non va intesa come una identificazione con persone. In un passo particolarmente esplicito Freud ha precisato quest’idea: «il Super-io del bambino non siforma a immagine dei genitori, bensì a immagine del loro Super-io; esso si empie dellostesso contenuto, diventa il rappresentante della tradizione, di tutti i giudizi di valore, checosì persistono attraverso le generazioni”.
E per lo più a proposito del Super-io che viene denunciato l’antropomorfismo dei concetti della seconda topica freudiana. Ma, come è stato notato da D. Lagache, è appunto un apporto della psicanalisi quello di aver messo in evidenza la presenza dell’antropomorfismo nelfunzionamento e nella genesi dell’apparato psichico e di aver scoperto delle «enclavesanimistiche». L’esperienza clinica psicanalitica infatti mostra che il Super-io funziona secondo un modo «realista» e come un’istanza “autonoma” (“oggetto cattivo interno”, “vocegrossa” (a), ecc.); vari autori dopo Freud, hanno sottolineato che il Super-io è molto distante dai divieti e dai precetti realmente pronunciati dai genitori e dagli educatori, alpunto che la “severità» del Super-io può essere inversamente proporzionale a quella esterna.
(a) Freud ha insistito sull’idea che il Super-io comporta essenzialmente rappresentazionidi parole e che i suoi contenuti provengono dalle percezioni uditive, dai precetti, dalla lettura.
Ideale dell’Io.
= 0.: Ichideal. En.; ego ideal, Es.: ideal del yo. Fr.; idéal du moi. P.: ideal do ego.
Termine usato da Freud nel quadro della sua seconda teoria dell’apparato psichico: istanza della personalità risultante dalla convergenza del narcisismo (idealizzazione dell’lo) e delle identificazioni con i genitori, coi loro sostituti e con gli ideali collettivi. In quanto istanza differenziata, l’ideale dell’io costituisce un modello a cui il soggetto cerca di conformarsi.
E difficile delimitare in Freud un senso univoco del termine “ideale dell’ Io”. Le variazioni di questo concetto derivano dal fatto che esso è strettamente connesso con la graduale elaborazione della nozione di Super io e più in generale della seconda teoria dell’apparato psichico. In L’Io e l’Es (1923) ideale dell’Io e Super io sono usati come sinonimi, mentre in altri testi la funzione dell’ideale è attribuita a un’istanza differenziata o per lo meno a una sottostruttura particolare in seno al Super io.
Il termine di « ideale dell’Io » compare per la prima volta nell’Introduzione al narcisismo (1914) per designare una formazione intrapsichica relativamente autonoma che serve all’Io come riferimento per valutare le sue realizzazioni effettive. La sua origine è principalmente narcisistica: “Ciò che egli [l’uomo] proietta dinanzi a sé come suo ideale è il surrogato del narcisismo perduto della sua infanzia, in cui egli era il suo proprio ideale”. Questo stato di narcisismo, che Freud paragona a un vero delirio di grandezza, è abbandonato soprattutto a causa della critica esercitata dai genitori nei confronti del bambino. Va notato che tale critica, interiorizzata sotto forma di una istanza psichica particolare, l’istanza di censura e di auto osservazione, è distinta, nell’insieme del testo, dall’ideale dell’Io: essa “...osserva continuamente l’Io attuale e lo commisura all’ideale”.
In Psicologia delle masse e analisi dell’io (1921), la funzione dell’ideale dell’Io è posta in primo piano. Freud vede in esso una formazione nettamente differenziata dall’Io che consente di spiegare, tra l’altro, il fascino amoroso, la dipendenza dall’ipnotizzatore e la sottomissione al leader: tutti casi in cui una persona estranea è messa dal soggetto al posto del suo ideale dell’Io.
Tale processo è alla base della costituzione del gruppo umano. L’ideale collettivo trae la sua efficacia da una convergenza degli “ideali dell’Io” individuali: “...un certo numero di individui hanno messo uno stesso oggetto al posto del loro ideale dell’Io e si sono quindi identificati tra loro nel proprio lo”; inoltre, questi individui, in seguito a identificazioni con i genitori, gli educatori, ecc., sono i depositari di un certo numero di ideali collettivi: « Ogni individuo fa parte di vari gruppi, è legato per identificazione da vari lati e ha costruito il suo ideale dell’Io secondo i modelli più vari».
In L’io e l’Es, in cui figura per la prima volta il termine di Superio, quest’ultimo è considerato come sinonimo dell’ideale dell’Io; è un’unica istanza, formata per identificazione con i genitori correlativamente al declino dell’Edipo, che riunisce le funzioni di divieto e di ideale. « I rapporti [del Super io] con l’Io non si limitano al precetto: “Devi essere così” (come il padre), ma comprendono anche il divieto: “ Non devi essere così “ (come il padre), cioè non puoi fare tutto ciò che egli fa; molte cose sono riservate a lui”.
Nelle Nuove conferenze sulla psicanalisi (1932), è introdotta un’altra distinzione: il Super io appare come una struttura globale comprendente tre funzioni: “auto osservazione, coscienza morale e funzione di ideale”. La distinzione tra queste due ultime funzioni è illustrata in particolare dalle differenze che Freud cerca di stabilire tra senso di colpa e senso di inferiorità. Questi due sentimenti sono il risultato di una tensione tra l’Io e il Super io, ma il primo è in rapporto con la coscienza morale, il secondo con l’ideale dell’Io, in quanto è amato anziché temuto.
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La letteratura psicanalitica mostra che il termine di Super-io non. ha fatto cadere in disuso quello di ideale dell’lo e che i due termini non sono in generale considerati sinonimi.
Esiste una certa concordanza sul significato dell’espressione “ideale dell’io”, mentre sussistono divergenze di opinioni circa la sua relazione con il Super-io e la coscienza morale. Il problema è ulteriormente complicato dal fatto che gli autori chiamano Super-io ora, come Freud nelle Nuove conferenze, una struttura complessiva comprendente diverse sottostrutture, ora più specificamente la «voce della coscienza» nella sua funzione proibitrice. Per Nunberg per esempio, ideale dell’Io e istanza proibitrice sono nettamente separati. Egli li distingue in base alle motivazioni indette nell’Io: «Mentre l’Io obbedisce al Super-io per paura della punizione, si sottomette all’ideale dell’Io per amore»; e anche in base alla loro origine (l’ideale dell’Io sarebbe modellato principalmente sull’immagine degli oggetti amati, mentre il Super-io su quella dei personaggi temuti).
Tale distinzione, pur sembrando giustificata al livello descrittivo, può difficilmente essere mantenuta in modo rigoroso dal punto di vista metapsicologico. Molti autori pertanto, seguendo l’indicazione data da Freud in L’lo e l’Es, sottolineano la compenetrazione dei due aspetti dell’ideale e del divieto. D. Lagache, per esempio, parla di un sistema Super-io - ideale dell’lo all’interno del quale egli stabilisce una relazione strutturale: “…il Super-io corrisponde all’autorità e l’ideale dell’Io al modo in cui il soggetto deve comportarsi per corrispondere all’attesa dell’autorità”.
Io ideale
I) D: Idealich. - En,: ides ego. - Es.: yo ideal. - Fr.: moi ideal. - P.: ego ideal.
Formazione intrapsichica che alcuni autori, distinguono dall’ideale dell’lo definendola comeun ideale di onnipotenza narcisistica costruito sul modello del narcisismo infantile.
Freud ha coniato il termine di Idealich che si incontra nell’ Introduzione al narcisismo (1914) e in L’lo e l’Es (1923). Ma in lui non si trova una distinzione concettuale traIdealich, (Io ideale) e Ichideal (ideale dell’Io).
Dopo Freud, alcuni autori hanno ripreso la coppia formata da questi due termini perdesignare due formazioni intrapsichiche differenti.
Nunberg in particolare fa dell’Io ideale una formazione geneticamente anteriore al Super-io:“L’Io ancora inorganizzato, che si sente unito all’Es, corrisponde a una condizione ideale...”. Nel corso del suo sviluppo, il soggetto lascerebbe dietro di sé questo ideale narcisistico easpirerebbe a ritornarvi, il che si verifica soprattutto, ma non esclusivamente, nellepsicosi.
D. Lagache ha sottolineato l’interesse di una distinzione fra il polo di identificazionerappresentato dall’Io ideale e quello che è costituito dalla coppia ideale dell’Io - Super-io. Sitratta per lui di una formazione narcisistica inconscia, ma la concezione di Lagache non coincide con quella di Nunberg: «L’lo ideale concepito come un ideale narcisistico di onnipotenza non si riduce all’unione dell’Io con l’Es, ma comporta una identificazione primaria con un altro essere, investito dell’onnipotenaa, cioè alla madre”. L’lo ideale serve da supporto a ciò che Lagache ha denominato identificazione eroica (identificazione con personaggi eccezionali e prestigiosi): “L’lo ideale è inoltre rivelato dall’ammirazione appassionata per grandi personaggi della storia o della vita contemporanea, che sono caratterizzati dalla loro indipendenza, dal loro orgoglio, dal loro ascendente. Col progredire della cura, si vede delinearsi ed emergere l’Io ideale come una formazione irriducibile all’ideale dell’lo”. Secondo D. Lagache la formazione dell’Io ideale ha implicazioni sado-masochistiche, in particolare la negazione dell’altro correlativa all’affermazione di sé.
Anche per J. Lacan l’io ideale è una formazione essenzialmente narcisistica che trova la sua origine nella fase dello specchio e appartiene alla dimensione dell’immaginario.
Al di là della divergenza, delle prospettive, questi vari autori si incontrano sia nell’affermazione che è utile specificare nella teoria psicanalitica la formazione inconscia dell’Io ideale, sia nell’accento posto sul carattere narcisistico di tale formazione. Va notato peraltro che il testo in cui Freud introduce il termine pone, all’origine della formazione delle istanze ideali della personalità, il processo di idealizzazione con cui il soggetto si propone di riconquistare lo stato detto di onnipotenza del narcisismo infantile.”
E’ evidente che, nel campo psicoanalitico, si dà, a partire da Freud, una grande confusione terminologica e concettuale, che giustifica il sostanziale abbandono di un piano teorico che sembra irriducibile o aperto solo ad ipotesi inverificabili.
2.
Il mio sforzo di riflessione teorico è partito da quella che ritengo una delle più profonde intuizioni freudiane, espressa nelle Nuove lezioni di introduzione alla psicoanalisi:
“Il Super-io del bambino non si forma a immagine dei genitori, bensì a immagine del loro Super-io; esso si empie dello stesso contenuto, diventa il rappresentante della tradizione, di tutti i giudizi di valore, che così persistono attraverso le generazioni.”
Quando la lessi per la prima volta, tale affermazione rievocò in me uno splendido aforisma di Marx: “il peso di tutte le generazioni passate grava come un incubo sul cervello dei viventi.”
Devo, dunque, a Freud e a Marx l’intuizione, sulla quale si è articolata tutta la mia ricerca, che il Super-io rappresenta l’anello di congiunzione tra soggettività e storia sociale, rappresentando, a livello inconscio non solo la totalità della società originariamente identificata con le figure dei genitori assunti come rappresentanti di essa, ma anche le norme, le regole, i valori presenti nella coscienza e ancor più nell’inconscio genitoriale, ereditati dalle generazioni precedenti e dalle tradizioni storiche.
Nel mio primo saggio a stampa, il cui intento era di portare alle estreme conseguenze la scoperta del Super-io freudiano, riassumevo in questi termini l’importanza scientifica di quella intuizione:
“L’attenzione ai contenuti culturali, che storicizzano le forme psicopatologiche, fa della psicopatologia dialettica uno strumento privilegiato di indagine sulle ideologie sociali e su come esse si rifrangono, attraverso la mediazione del gruppo di appartenenza, a livello soggettivo. Tale indagine è importante sotto il profilo pratico non meno che teorico. Per un verso, infatti, essa, permettendo di oggettivare i sistemi di valore superegoici e gli effetti alienanti che producono quando vengono ad urtare contro un’opposizione, offre ai soggetti disagiati la possibilità di avviare un processo di soppressione dialettica, e cioè di liberazione e integrazione dell’Io; per un altro, consente, sul piano di una psicopatologia dinamica, di mettere a fuoco i codici mentali di normalizzazione che organizzano e danno coerenza alla struttura sociale e i motivi “locali”, legati a particolari situazioni di interazione con l’ambiente, per cui quei codici falliscono nella loro finalità.”
E aggiungevo, cercando di dare un ordine alla confusione concettuale esistente nel campo psicoanalitico:
“In ogni struttura psicopatologica, si possono individuare tre diversi sistemi di significazione correlati: le convinzioni del soggetto riguardo al suo essere profondo, ricavate dalla fenomenologia dei bisogni alienati e restituiti dalla immagine interna; i valori, le norme, le regole che rappresentano il quadro di riferimento utilizzato dal Super-Io per giudicare il soggetto dal livello del comportamento a quello delle fantasie; gli ideali dell’Io, che configurano i modelli di normalità verso i quali i soggetti si orientano vedendo in essi una possibile soluzione del conflitto strutturale tra Super-Io e bisogni alienati.
Tutti e tre questi sistemi di significazione sono appresi. Il primo muove dalla percezione destorificata dei bisogni alienati la cui fenomenologia accredita soggettivamente la teoria degli “istinti”, che, ancora oggi, a livello di mentalità non meno che di ideologie scientifiche, rappresenta il quadro mentale dominante sulla natura umana. Questa significazione viene rinforzata progressivamente dalla pressione dei bisogni frustrati, che a livello profondo si intensificano e si disordinano.
Il secondo sistema di significazione è dato dal codice di norme, regole e valori introiettato nelle fasi evolutive della personalità in conseguenza della identificazione con gli adulti.
Questo codice, il più spesso eterogeneo, produce l’alienazione dei bisogni, in conseguenza di una colpevolizzazione del bisogno di opposizione che viene significato in termini di tradimento rispetto al gruppo di appartenenza e, in senso lato, di asocialità e amoralità. Tale alienazione attiva la forma superegoica a priori, con i contenuti specifici ricavati dall’introiezione dei valori trasmessi culturalmente, e dà luogo dunque allo strutturarsi di un Super-Io su un registro di severità che può apparire incommensurabile rispetto alle matrici ambientali.
Gli ideali dell’Io rappresentano il sistema di significazione più complesso. La loro connotazione, spesso dereistica, può facilmente indurre a pensare che si tratti di prodotti meramente soggettivi, residui di precoci identificazioni immaginarie o espressioni di sterili fantasie. Ma, intanto, quand’anche si tratti di identificazioni immaginarie, è sempre possibile ricondurle a pretese o aspettative ambientali che irretiscono il soggetto. In secondo luogo, le soluzioni offerte dagli ideali dell’Io al conflitto strutturale, nonostante il fascino che esercitano sul soggetto, mortificano il corredo dei bisogni umani, poiché promuovono la realizzazione dell’uno — integrazione sociale o l’individuazione — al prezzo della frustrazione dell’altro. Ciò permette di comprendere perché esse non solo non si realizzano, ma producono un effetto paradossale: più il soggetto si impegna a perseguirle, più il bisogno frustrato si attiva, esercitando una pressione destrutturante.
Gli ideali dell’Io, in altri termini, esercitano sui soggetti un’attrazione direttamente proporzionale all’opposizione che suscitano. Opposizione inconsapevole, ma nondimeno insormontabile.
L’esempio più chiaro a riguardo è fornito dalla struttura ossessiva: per quanto minacciato dalle pulsioni asociali e amorali e risucchiato da un modello di assoluto controllo relazionale sulle emozioni, l’Io tende a mantenere, in rapporto alle polarità conflittuali, una posizione il più possibile statica e simmetrica. A livello fenomenologico, esso sembra rifuggire fobicamente dalle pulsioni, ma, identificando in esse la libertà, si oppone strenuamente alla cattura della normalità, che rimane nulla più che una maschera. Ciò impone di introdurre a livello teorico, riguardo agli ideali dell’Io, una distinzione complementare a quella enunciata tra Super-Io e coscienza morale critica. Da questo punto di vista, gli ideali dell’Io psicopatologici sarebbero ideali superegoici, ideali cioè che fanno capo a sistemi di valori propri del mito gerarchico nelle sue diverse versioni, e si impongono all’Io come miraggi di normalità. Occorre ammettere pertanto che essi funzionano all’interno di strutture che non manifestano alcun disagio psichico, poiché ad essi si conformano. Nelle esperienze psicopatologiche, invece, la cattura ideologica esercitata dagli ideali dell’Io sarebbe ostacolata e vanificata da un irriducibile opposizionismo, dovuto alla pressione dei bisogni frustrati.
Agli ideali superegoici — impropriamente, dunque, definiti ideali dell’Io, in quanto essi sono riconosciuti solo dalla parte scissa dell’Io che si identifica con il Super-Io — occorrerebbe contrapporre gli ideali critici dell’Io, che possono essere formulati solo in virtù di una soppressione dialettica dell’alienazione dei bisogni e della scissione dell’Io.
Se ciò è vero, gli ideali superegoici, nella misura in cui si amplificano e diventano osservabili all’interno delle strutture psicopatologiche, rappresenterebbero una spia preziosa dei sistemi di valori che sottendono il mito gerarchico, e, in ultima analisi, un valido strumento di decrittazione della storia e della evoluzione dei “recinti” mentali entro i quali il mito gerarchico tenta di ingabbiare le coscienze.”
C’è del vero in queste affermazioni, ma non è tutta la verità, perché, all’epoca, se avevo già identificato nella pressione dei bisogni alienati dal Super-Io l’espressione meramente oppositiva di un potenziale di individuazione, non avevo ancora capito che tale potenziale si esprime sulla base di una funzione psichica substrutturale che successivamente ho denominato Io antitetico, per sottolineare il fatto che esso si oppone alla pressione normalizzante dell’ambiente, esercitata interiormente dal Super-Io sotto forma di doveri sociali imprescindibili, in nome dei diritti individuali e in particolare del diritto di perseguire la realizzazione in maniera conforme alla propria vocazione ad essere (individuazione).
Con la concettualizzazione dell’Io antitetico, i problemi legati all’ideale dell’Io e all’Io ideale si sono chiariti quasi spontaneamente.
Mi è risultato, infatti, immediatamente evidente che se il Super-Io giudica il soggetto sulla base di ciò che egli dovrebbe essere per adempiere pienamente i suoi doveri sociale o, meglio, per essere un buon cittadino in un determinato contesto storico, anche l’Io antitetico può assumere una funzione giudicante sulla base di ciò che egli dovrebbe essere per realizzare pienamente i suoi diritti individuali e la sua vocazione ad essere.
Esistono, dunque, ideali dell’Io superegoici e ideali dell’Io antitetici.
Se tra di essi, e i bisogni cui fanno riferimento (rispettivamente di appartenenza/integrazione sociale e di opposizione/ individuazione), si realizza un equilibrio dinamico la personalità adempie i suoi doveri sociali ma dà spazio anche ai suoi diritti, nella misura in cui questo è necessario per realizzare un’esperienza partecipativa ma differenziata e originale, vale a dire non conformistica.
Purtroppo, un equilibrio del genere è piuttosto raro, perché la pressione dei codici culturali normativi è tale che, nei casi in cui essa reprime il potenziale di individuazione, dà luogo ad esperienze conformistiche, e, nei casi in cui s’imbatte in una valenza oppositiva conscia o inconscia piuttosto intensa, dà luogo ad una scissione per cui l’io antitetico rimane più o meno vincolato al conflitto con i doveri sociali piuttosto che orientato a realizzare la vocazione ad essere personale.
L’attività dell’io antitetico, in questo ultimo caso, si traduce o in un insabbiamento più o meno rilevante nei casi in cui l’esperienza del soggetto ha avuto un’evoluzione lineare sino all’adolescenza o in una rivendicazione di libertà anarchica e trasgressiva nei casi in cui la valenza oppositiva si è espressa sin dall’infanzia.
Il pericolo legato ad una scissione dinamica dei bisogni, delle substrutture che su di essi si edificano (Super-Io e Io antitetico) e degli ideali dell’Io cui fanno riferimento è che si instauri un circolo vizioso per cui la pressione dei doveri sociali, boicottati dall’opposizionismo e dal negativismo, e quella dei diritti individuali, colpevolizzati dall’istanza normativa, si incrementa progressivamente dando luogo ad una crescente alienazione degli uni e degli altri.
Il significato psicopatologico della scissione dinamica in questione è una chiave esplicativa dell’insorgenza dei sintomi e delle loro vicissitudini nel corso del tempo di enorme portata.
In questa ottica, c’è da chiedersi se trovi spazio il concetto di Io ideale. Io penso di sì, a patto che s’intenda con tale termine l’alleanza che l’Io stabilisce, consciamente o inconsciamente, con il Super-Io e con l’Io antitetico nonché con gli ideali cui essi fanno riferimento. Il Super-Io sollecita il soggetto a conformarsi ai valori culturali correnti: se il soggetto recepisce questa spinta normalizzante e la fa propria, l’ideale dell’Io superegoico diventa un Io ideale. L’Io antitetico sollecita il soggetto a rivendicare la sua libertà sul registro dell’opposizionismo e del negativismo rispetto alla volontà altrui: se il soggetto fa propria questa spinta “deviante” ( non solo rispetto alla normalità ma anche al suo bisogno di autorealizzazione), l’ideale dell’Io antitetico diventa un Io ideale.
La differenza tra ideale dell’Io e Io ideale va mantenuta perché mentre l’ideale dell’Io spinge coercitivamente il soggetto in una determinata direzione, la connivenza dell’Io, conscio o inconscio, traduce quella spinta in un modello riconosciuto, con gradi diversi di consapevolezza, come espressivo dei propri bisogni e delle proprie aspirazioni. E’ superfluo aggiungere che si tratta in entrambi i casi di un modello alienato che comporta la repressione, la mortificazione o addirittura la rimozione di un bisogno intrinseco a favore dell’altro.