L’intento originario dei Seminari era quello di ricavare dall’universo psicopatologico le chiavi dell’interazione tra soggettività e storia sociale. Tale intento era nel contempo antipsicologista e antisociologista: antipsicologista, perché esso implicava il rifiuto di riconoscere nell’esperienza soggettiva le ragioni della forma che essa assume, e antisociologista, perché, pur considerando la potente influenza delle condizioni ambientali sull’esperienza umana, esso si riconduceva al fatto che la natura umana è plasmabile ma non indefinitamente, avendo una sua struttura intrinseca.
Identificata questa struttura nella teoria dei bisogni intrinseci (che risale al Seminario sull’Uomo dei topi di Freud), la ricerca si è naturalmente ritrovata sulla via di un’analisi della fenomenologia di tali bisogni attraverso la storia sociale. Su questa via, essa non poteva non imbattersi nel problema dei codici di normalizzazione, vale a dire dei modelli consci e inconsci che ogni società seleziona, nell’universo dei valori culturali possibili, per assicurare la sua identità, la sua unità e la sua persistenza nel corso del tempo (riproduzione sociale).
I codici mentali sono, per l’appunto, codici culturali di normalizzazione che qualificano, all’interno dell’universo dei modi di essere possibili per l’uomo, valori positivi e valori negativi, vale a dire obbiettivi o scopi che vanno perseguiti e obbiettivi o scopi che vanno rifuggiti.
La presenza di tali codici nella soggettività umana, assicurata dal Super-Io e dall’ideale dell’Io, e gli effetti di frustrazione che essi determinano in rapporto alla natura umana e al patrimonio genetico individuale, è l’anello che salda la storia sociale con l’esperienza individuale.
L’analisi dei codici mentali, realizzatasi in gran parte tra il 1985 e il 1987, ha un significato del tutto particolare. Essa, infatti, per caso, si è realizzata nel periodo storico in cui i valori tradizionali di matrice religiosa, fatti propri e resi formali dall’originaria ideologia borghese, cominciavano a mutare per effetto degli sviluppi neoliberisti di tale ideologia, che hanno avviato il processo che oggi prende il nome di secolarizzazione.
I valori tradizionali facevano riferimento ad un ordine trascendente e sociale all’interno del quale il soggetto doveva subordinarsi alla volontà altrui (di Dio o dei più), accettare la costrizione dei vincoli morali e sociali che sovrappongono al bene dell’individuo il bene comune, aspirare alla felicità, intesa come stato di coscienza tranquillo, rinunciando all’egoismo degli istinti, e, infine, perseguire, attraverso la pratica dell’altruismo, l’obbiettivo di essere riconosciuto come appartenete al gruppo. Essi integravano dunque un codice di normalizzazione i cui sottocodici erano il pedomorfismo, la claustrofilia, la rupofobia morale e la coltivazione della sensibilità sociale.
L’avvento della borghesia ha contrassegnato l’epoca in cui tali codici, di matrice religiosa, già utilizzati dalla Chiesa per mantenere un assetto medievale della società, sono stati ulteriormente usati per assicurare la subordinazione ad un nuovo ordine socio-culturale incentrato sulla meritocrazia (formale). Il rilievo assunto dall’individuo nell’ambito di quella ideologia già conteneva, però, i germi di uno sviluppo destinato a sovvertire i codici tradizionali in nome dell’adultomorfismo (affermazione senza limiti della volontà di potenza individuale), della claustrofobia (rivendicazione della libertà al di là dei confini della moralità e nel rispetto solo della legalità), della rupofobia sociale (culto dell’immagine) e dell’anestesia affettiva ( rimozione dell’ampatia).
All’epoca cui ho fatto riferimento, i nuovi codici neoliberisti cominciavano a trasparire attraverso la psicopatologia. Averli colti e analizzati utilizzando l’osservatorio dell’analisi, penso che sia uno dei risultati più importanti della ricerca.
Tali codici, oggi, sono giunti a un livello di sviluppo esasperato e integrano il modello normativo che, di recente, ho definito estrovertito. Il rapporto tra questo modello e il nichilismo che affligge la soggettività contemporanea, ed ha un particolare rilievo a livello giovanile, dovrà essere ulteriormente approfondito.
Rimane, come punto fermo, la fondatezza dell’ipotesi originaria secondo la quale la strutturazione della personalità, normale e patologica, risulta incomprensibile se si trascura il peso delle ideologie sociali e dei codici culturali attraverso i quali esse penetrano nella profondità dell’apparato mentale umano.
3.
Come afferma Eco, nella cultura contemporanea, da qualche decennio, la nozione di codice ha assunto una valenza onnivora. Si parla di codice genetico e, all’estremo opposto, di codice della moda. Né il perenne né l’effimero sembrano potersi sottrarre alla codificazione. Per spiegare questo fenomeno culturale, che investe tutte le scienze che hanno rapporto con l’umano, esclusa la possibilità che “alla base di tutta l’attività mentale, e forse dell’attività biologica stessa, vi sia un codice unico, un Codice dei codici “- esclusione resa necessaria dalla storicità dei codici e dalla mutevolezza delle loro apparizioni e organizzazioni -, basta ammettere - scrive Eco - che “l’uomo sia un animale che codifica là dove può e non appena può. Se è mosso da una legge universale, questa sarà la legge della Tendenza al Codice “.
Non è azzardato vedere in questa tendenza un’espressione del bisogno ideologico costitutivo della mente umana. Codificazione ed ideologizzazione sembrano essere le due facce di una stessa medaglia, il cui valore si esprime nello sforzo - da cui non può prescindere né l’umanità né ogni individuo - di organizzare in modo significativo i dati complessi del reale. La differenza tra i due processi è, forse, individuabile nel fatto che la codificazione può investire ambiti settoriali della realtà umana, mentre l’ideologizzazione non può prescindere dal tentare di offrire una chiave di comprensione di tutta la realtà umana nei suoi molteplici aspetti.
Questa differenza significa che la codificazione non postula necessariamente l’ideologizzazione, mentre questa non può prescindere dal far ricorso ad uno o più codici.
La distinzione tra codificazione ed ideologizzazione può aiutarci ad ordinare i prodotti della mente, dal livello collettivo a quello individuale. La cultura è un’ideologia, ricavata da processi di codificazione, al cui interno avvengono di continuo rimaneggiamenti dovuti alla pressione di codici selettivi. Per convincersi di ciò, basta pensare al conflitto che anima la nostra cultura, contesa tra ideologie religiose, ideologie politiche e ideologie scientifiche, la prima attestata su codici fissi ed immutabili, la seconda su codici dialettici - che si adattano all’evoluzione storica e tentano di adattarla -, la terza su codici che, per essere sperimentati, non ricusano la possibilità di repentine rivoluzioni .
Se, dal livello collettivo si passa a quello individuale, il discorso si semplifica. La radicale storicità dell’esperienza umana comporta il fatto che ogni individuo si inserisce e si costruisce in un contesto culturale ideologizzato e codificato. Data la natura totalizzante delle ideologie, egli può rifiutarle: è questa libertà di cui il soggetto dispone nei confronti della visione del mondo, come un tutto organizzato, a confutare, in maniera indubbia, ogni volgare determinismo culturale.
Ma, nel contempo, nessun soggetto può prescindere dai codici culturali che gli vengono offerti dall’ambiente, poiché essi sono necessari per organizzare le sue esperienze private e trasformarle in visione del mondo. Bisognoso com’è di ideologia, di trasformare il suo punto di vista in visione del mondo, il soggetto può ricusare le ideologie belle e fatte che gli vengono offerte, dalle istituzioni pedagogiche, ma non può ricusare tutti i codici che le sottendono, poiché questi sono gli strumenti in virtù dei quali si giunge ad oggettivare la visione del mondo.
E’ quasi superfluo aggiungere che - a livello familiare come a livello sociale - le ideologie possono configurarsi come diverse o addirittura in opposizione e riconoscere come matrici gli stessi codici. Il pluralismo ideologico, a tutti i livelli, è un insignificante indice di libertà mentale, poiché questa è assicurata solo dalla capacità di mettere in discussione i codici che sottendono le ideologie. L’utilità e il potere dei codici si fonda, dunque, sulla capacità che essi hanno di agevolare e rendere possibile, a partire dai dati dell’esperienza soggettiva, che sono sempre pochi e parziali, l’elaborazione di una visione del mondo che si configura come oggettiva, poiché è vissuta come un riflesso del reale, in uno specchio - la mente - neutrale. Ma questo potere è anche un potere di alienazione, poiché allontana l’individuo dalla possibilità di discriminare, nella sua visione del mondo, le matrici esperienziali e quelle culturali. Nella misura in cui affrancano dal rischio di un relativismo soggettivo, che comporterebbe un vissuto di dubbio radicale e incessante riguardo allo stato delle cose, i codici possono precipitare in una condizione di ingenuo realismo. La tendenza alla codificazione e all’ideologizzazione rivelano la ricchezza e la miseria della mente umana: la ricchezza consistendo nella capacità che ogni mente manifesta di dotarsi, nel corso di pochi anni, di una visione integrata e coerente del mondo; la miseria nella difficoltà che essa ha di discriminare quanto, nella sua visione del mondo, c’è di esperienziale, di culturale e di oggettivo.
E’ questa precarietà della mente, perennemente in bilico tra la possibilità di comprendere il mondo e di stringere il vuoto, pensando però di aver trovato la chiave di quello, al centro del discorso che stiamo elaborando. Ma, per non cadere nell’errore dello psicologismo di marca psicoanalitica o esistenzialista, occorre aggiungere due osservazioni.
La prima, è che questa ambivalenza della mente è orientata, nel senso di poter essere strumentalizzata o viceversa dialettizzata, dai contesti sociostorici e culturali, e che quindi l’orientamento che di fatto essa realizza non può mai essere ricondotto a scelte arbitrarie del soggetto. Rifiutare il determinismo culturale, che riduce gli individui a marionette, non significa negare l’evidenza della cultura: basta riconoscere che questa funziona, nel complesso, come una scorciatoia verso la normalità, e che, nel contempo, la sua stessa logica utilitaristica comporta numerose possibilità di alienazione.
La seconda osservazione riguarda l’attività soggettiva che, spinta dalla necessità di interpretare il mondo, non può rimanere neutrale di fronte alla complessità del reale: un certo grado di distorsione è imposto dal bisogno ideologico. Assumere questo bisogno come una forma a priori del funzionamento mentale non significa però accreditare la teoria dei fantasmi psicoanalitica. Sembra piuttosto vero che, fino all’ideologizzazione adolescenziale, siano i limiti dell’attrezzatura mentale a definire il grado di distorsione della realtà, mentre, al di là dell’adolescenza, siano i codici mentali appresi ed elaborati ad imporre una lettura del mondo più o meno fedele alla realtà. La distorsione del reale sembra, insomma, in una prima fase, dovuta ad una carenza di attrezzatura mentale che postula l’eteronomia ideologica, cioè il vedere il mondo in virtù della fiducia accordata a coloro che sanno; in una seconda fase, inaugurata dall’adolescenza, ad un eccesso, dovuto alla pressione del bisogno ideologico, in conseguenza del quale il soggetto presume di sapere come stanno le cose, ma non sa quali lenti ideologiche soccorrano la sua miopia.
4. Disagio psichico e codici mentali
Le teorie del disagio psichico, oggi, sono ancora tutte deterministiche. Il determinismo - sia esso biologista, psicologista o culturale - non sempre è esplicitato, né mancano, nell’eterogenea letteratura psichiatrica, tentativi di mediazione e di integrazione. Ciononostante, la teorizzazione psichiatrica sembra imbrigliata in un codice mentale: il codice mentale deterministico, il quale postula che data una causa - un disordine biochimico cerebrale, un’evoluzione abnorme della personalità (dovuta a gravi traumi psicologici o a distorsioni fantasmatiche dell’esperienza infantile), una costellazione familiare patogena - non possa seguirne che un effetto, il disagio psichico. Per quanto nessuna di queste teorie sia stata né verificata né falsificata, è difficile rinunciare all’ipotesi che il disagio psichico, come ogni fatto umano, debba riconoscere una qualche causalità.
Ma, vien da chiedersi, perché ossessionarsi nell’uso di una categoria limitata a solo due dimensioni dell’esistenza: il passato e il presente? Perché insistere nel cercare le cause del disagio nel passato remoto esperienziale, nell’interazione attuale con il sistema familiare o nel funzionamento hic et nunc della struttura cerebrale? E se la causalità saldasse il passato e il presente al futuro; se essa fosse da attribuirsi non al passato e al presente, quali che siano, bensì al progetto che, a partire da essi, l’individuo elabora; se, infine, il disagio psichico fosse riconducibile meno all’esperienza vissuta che al progetto al quale il soggetto affida la soluzione dei problemi ad essa residuati?
Se queste ipotesi potessero essere verificate, il discorso sulla genesi del disagio andrebbe rovesciato rispetto alle teorie deterministiche. Ogni vicenda umana andrebbe considerata come un insieme di possibilità genetiche, psicologiche ed ambientali l’interazione tra le quali - fermo restando che la qualità delle interazioni va da un estremo positivo ad uno negativo - determinerebbe un sottoinsieme necessariamente più limitato - la concreta realtà delle persone intesa come integrazione dell’ambiente biologico, psicologico e sociale -, che, però, in nessun caso, si ridurrebbe ad una modalità necessaria di esistenza. Ogni individuo, da questo punto di vista, rappresenterebbe un insieme, sia pure limitato dalle circostanze microstoriche, di possibili modi di esistenza. Escluso il determinismo, questo insieme non potrebbe mai essere concepito come tale da poter produrre solo un’esperienza di disagio psichico. Se, da quell’esperienza, affiora un disagio psichico, occorre ammettere una causalità per spiegare il realizzarsi di una sola delle possibilità iscritte in essa. Ma questa causalità dovrebbe ricavarsi dalla progettazione dell’esperienza, orientata alla soluzione di problemi che il passato ed il presente pongono al soggetto, ma, di fatto, determinata da un codice di normalità che egli utilizza senza sufficiente consapevolezza. Sarebbe questo, infine, nella sua astrattezza, ad avviare il soggetto nel vicolo cieco psicopatologico, offrendo soluzioni adialettiche a problemi che possono invece essere affrontati solo in virtù di una dialettica interna, relazionale e sociale.
La funzione propria dei codici mentali, di offrirsi come scorciatoie verso una normalità astratta, fallirebbe laddove l’esperienza microstorica dei soggetti comporta problemi che non possono essere risolti se non in virtù di una formulazione dialettica di un progetto di vita che tenga conto più dei dati concreti dell’esperienza che non di astratti obiettivi di normalità. Da questo punto di vista, il disagio psichico sarebbe la somma di due errori di progettazione, il primo sociale, il secondo soggettivo.
L’errore sociale consisterebbe nella proposizione di codici mentali normalizzanti astratti, i cui valori cioè prescindono dalle concrete possibilità che vengono offerte dalle strutture sociali agli individui - sia nella fase evolutiva della personalità che successivamente - per realizzare i bisogni fondamentali. Questo errore, ovviamente, non è casuale: esso mira a mascherare le disfunzioni del sistema sociale nella sua capacità di rispondere ai bisogni umani, assegnando ad ogni individuo degli obiettivi da raggiungere per conseguire uno statuto di normalità, e una qualche felicità, del tutto indipendenti dalla sua carriera microstorica.
L’errore soggettivo, invece, consisterebbe nella introiezione dei codici sociali come aventi valore per l’individuo. L’introiezione, favorita dalla necessità di integrare le proprie esperienze in un sistema di valori, e, in pratica, dal bisogno ideologico, servirebbe, nell’immediato, a rimuovere i dati dell’esperienza microstorica che, nella loro problematicità, minacciano la normalizzazione: ma questa rimozione, in virtù della quale la coscienza si aliena dalle memorie, e in particolare da quelle dolorose, progettandosi in un modello astratto di normalità, rappresenterebbe l’ avviarsi in un vicolo cieco al cui fondo l’individuo scopre l’insolubilità dei problemi residuati alle sue esperienze concrete di vita.
In ultima analisi, il disagio psichico esprimerebbe la connivenza di un soggetto che rifiuta di prendere atto e di farsi carico delle contraddizioni prodottesi in virtù della sua interazione con l’ambiente - non importa, per ora, che questo rifiuto si traduca nella negazione dei problemi o nella loro proiezione all’esterno -, con una società che, offrendogli dei codici normalizzanti astratti, tende a mascherare le disfunzioni delle sue strutture, imponendo al soggetto il compito impossibile di normalizzarsi quale che sia la sua carriera nel mondo. E’ evidente che questa doppia rimozione può essere facilmente misconosciuta, sia a livello teorico che pratico, se si adotta un punto di vista riduzionistico, psicologico o sociologico. La conseguenza è vagare alla ricerca di dinamiche soggettive e/o di costellazioni ambientali patologiche. La verità, dal nostro punto di vista, è più semplice: è la struttura stessa della mente con il suo corredo di bisogni fondamentali che non possono realizzarsi se non in virtù di un rapporto dialettico con il mondo a portarla in un vicolo cieco, laddove questo rapporto produce problemi per i quali non si danno che false soluzioni. Le false soluzioni, offerte dai codici mentali, sono ideologiche e servono a mascherare la drammaticità del rapporto tra i bisogni umani e le strutture sociali. Come scrive Confucio, l’uomo può sviluppare la norma, ma non necessariamente la norma sviluppa l’uomo.
Nell’esplorazione dei codici sottesi alle esperienze di disagio psichico, non c’è da aspettarsi, dunque, alcuna scoperta. Essi sono gli stessi che integrano il quadro della mentalità contemporanea, per quanto concerne la natura umana, la persona, le relazioni sociali e i valori morali.
L’utilità della ricerca consiste nel mettere in luce il significato ideologico di quei codici in rapporto alle condizioni reali entro le quali si svolge la vita degli individui; e, soprattutto, gli effetti paradossali che essi producono su coloro che, introiettandoli, li portano alle estreme conseguenze.
L’estremo polimorfismo dei codici postula, però, un quadro di riferimento. Cercheremo di definirlo introducendo la nozione di codice adultomorfo, inteso come codice dei codici della società industriale avanzata. Successivamente, definito il quadro di riferi mento, il discorso potrà essere articolato in forma meno sistematica.
5. Il codice adultomorfo
Ogni esperienza psicopatologica riconosce, nella sua struttura, un momento difensivo e un momento progettuale. Comunque si articolino, le difese hanno come oggetto un dolore che va scongiurato poiché il suo realizzarsi potrebbe dar corpo alla paura di morire, di impazzire o di esplodere in maniera inconsulta. Fenomenologicamente, in rapporto alla configurazione del conflitto tra i bisogni fondamentali, il dolore riconosce due forme: la costrizione - perdita della libertà personale - e l’abbandono - perdita del contatto con il mondo.
Il progetto fa invece riferimento ad un modello di normalità ideale, la cui realizzazione appare subordinata alla funzionalità delle difese, e il cui obiettivo è una qualche felicità. Evitare il dolore e tendere verso il piacere è una formulazione sintetica di questa dinamica difensiva e progettuale, ma, per quanto essa sia riconoscibile come espressione di bisogni radicalmente umani, non basta a porre il disagio psichico al riparo da critiche pregiudiziali.
La più famosa è quella freudiana della fissazione al principio del piacere, che individua nel rifiuto della frustrazione la causa dell’arresto evolutivo della personalità e dei sensi di colpa. La severità tremenda del Super-io, scoperta successivamente da Freud in tutte le esperienze di disagio psichico, non ha indotto una revisione critica della teoria della fissazione, poiché è stata assunta come necessaria e funzionale al contenimento di pulsioni rimaste allo stato primario, tendenti cioè alla scarica e ribelli al principio di realtà. Dal punto di vista freudiano, le pulsioni rappresentano la minaccia e il Super-io la difesa. Ancora oggi, a livello di senso comune, le connotazioni distintive del disagio psichico appaiono ancora meramente negative: l’immaturità, l’infantilismo, la scarsa volontà per un verso; la mancanza di autocontrollo, l’aggressività, l’immoralità per un altro.
Dal nostro punto di vista, ciò che caratterizza il disagio psichico è il ricorso, che avviene per ovviare a problemi residuati a vicissitudini avvenute durante la fase evolutiva dello sviluppo, a codici normativi che, per essere resi risolutivi, vengono portati alle estreme conseguenze, traducendosi essi in un progetto irrealizzabile. Questo ricorso finisce con il produrre una doppia alienazione, poiché, in conseguenza di esso, il soggetto rimuove la sua sofferenza passata e inattiva la sua potenzialità di porre ad essa rimedio progettandosi in un modello di normalità astratta che postula, secondo modalità diverse, l’affrancamento dal dolore e la sua estinzione.
Già a questo punto si può intuire in quale misura c’è un continuum tra le esperienze psicopatologiche e una società che, per misconoscere il dolore ch’essa produce, ha sviluppato, a livello di mentalità, un atteggiamento fobico nei confronti del dolore, e il cui progetto esplicito è l’estinzione del dolore.
Ma, dato che quell’intuizione potrebbe essere solo suggestiva, vale la pena di introdurre una più approfondita riflessione teorica tratta da esperienze reali. Delle quattro che seguono, tre sono già note, ma verranno considerate in una luce diversa.
A 5 anni, già ferito per il rapporto con una madre che profondeva tutte le sue energie nel lavoro e trascorreva chiusa in camera il tempo libero in una sorta di perenne esaurimento, Enrico si oppone al progetto di andare all’asilo. Viene accusato dalla madre di essere un debole, un pusillanime, un incapace. Si piega e decide di non manifestare più i suoi bisogni. Comincia qui una lunga carriera di dolore interiore, accuratamente celata da un’apparente freddezza di carattere. Nella sua anima, Enrico vive nella solitudine e nella disperazione. Più volte, nel corso dell’adolescenza, formula propositi di suicidio mai attuati per timore di un fallimento, che avrebbe smascherato la sua drammatica condizione interiore. Ha cercato conforto in grandi sogni d’amore, ma finendo poi col rinunciare ad essi per una profonda diffidenza nei confronti delle donne. Ha aderito infine all’ideologia nazista, nel cui modello di uomo nuovo, immune da ogni sentimento e votato alla estirpazione di ogni forma di debolezza, egli è giunto a identificarsi totalmente. Alla luce di questa fede, le sofferenze che egli ha attraversato sono state vissute come uno strumento di perpetuo perfezionamento. A 18 anni, alle soglie dell’esame di maturità, nonostante si senta troppo carico di emozioni e di pensieri, è pronto a lanciarsi in una vita che vede come una spedizione punitiva contro tutte le debolezze umane: gli affetti, le mollezze del capitalismo, l’appiattimento comunista dell’individuo. Il giorno stesso dell’esame orale, mentre è di fronte allo specchio, avverte una violenta scarica che dalla testa investe tutto il corpo. D’improvviso, la mente si svuota di ogni problema, e affiorano disturbi fisici: un’estrema stanchezza con crisi ricorrenti di energia che lo paralizzano a letto; annebbiamenti frequenti della vista; impotenza completa e crisi di dolore folgorante agli arti. Il dolore interiore lascia il posto ad una totale anestesia affettiva. Enrico è dunque pronto a realizzare il progetto di vita: quanto ai disturbi fisici egli non può farci niente. Sono i medici che non riescono a liberarlo da essi.
La vicenda di Rossella - en passant, la più suggestiva sotto il profilo del determinismo culturale - è segnata, come si ricorderà, da un peccato carnale , la coniunctio dei genitori prima del matrimonio, che la definisce, prima ancora che nasca, come frutto di una colpa. I vissuti persecutori di rifiuto, di disprezzo e di abominio sociale che affiorano a 14 anni sembrano immediatamente riferibili all’introiezione della colpa. Ma essi insorgono in conseguenza del fatto che Rossella ha progettato di aprirsi alla relazionalità e di vendicarsi del rifiuto parentale in virtù di una vita sregolata.
Questo progetto è impossibile da realizzare non solo perché esso contrasta con i bisogni di moralità ma soprattutto perché esso muove da un presupposto errato: l’aprirsi agli altri e l’intrattenere liberamente rapporti sessuali non viene vissuto, a livello cosciente, con disagio poiché Rossella è convinta di essere arida di cuore, impassibile e dotata comunque di un controllo che impedirà ogni fatuo cedimento sentimentale. In pratica, è convinta di non poter più provare dolore. Ma quale può essere la prova dell’ insensibilità totale se non quella di ricercare il dolore, di somministrarselo e di non sentire alcunché?
Questa necessità strategica si realizza a due livelli. A livello relazionale, familiare e non familiare, Rossella, tende, con atteggiamenti di inaudita durezza, a provocare l’ostilità e l’odio, e a rimanere indifferente. A livello personale - è un segreto confessato con enorme fatica -, essa sottopone il suo corpo a incessanti torture con spilli, lamette, cerini, mozziconi di sigaretta, imponendosi di non lamentarsi e per apprendere sempre più a non sentire nulla.
L’esperienza di Francesco, totalmente incentrata sull’esigenza di scongiurare una precarietà identificata nelle condizioni socioeconomiche della famiglia, attribuita all’irresponsabilità di un padre dedito periodicamente alle facili avventure, si articola su una strategia di ascesa sociale che sacrifica, in nome della sicurezza economica e del prestigio sociale, ogni umano bisogno. Impegnato in una guerra per sopravvivere che, nelle sue leggi spietate, postula, in una sorta di reminiscenza hobbesiana, uno stato d’allarme permanente, votato alla difesa e all’attacco, Francesco teme che qualunque abbandono, distrazione, cedimento possa provocare una catastrofe. L’etica del lavoro, rivolta solo ai fini del potere, del benessere e del prestigio, ingombra tutta l’esperienza di Francesco, e la sottopone ad una tensione costante.
Per questo sistema di vita, la minaccia è rappresentata dal piacere, inteso però in modo molto estensivo. Il pericolo della sessualità è scongiurato dall’impotenza, la quale, a sua volta, mette al riparo, per via della vergogna che produce, dalle relazioni sentimentali. Ma, al di là di questi ambiti, la logica che sottende l’esperienza è priva di sfumature: piacere è tutto ciò che non è dovere. Logica elementare, ma non di facile realizzazione, e che costringe Francesco a sottoporsi ad un ipercontrollo assoluto, la cui funzionalità è assicurata dalla sofferenza: solo avvertendo il dolore della costrizione e della mortificazione Francesco e sicuro di non stare per cedere alle insidie del piacere.
L’esperienza di Mario sembra l’opposto di quella di Francesco e, in apparenza, una riprova inconfutabile della fissazione al principio del piacere. Mario trascorre le sue giornate masturbandosi, ascoltando musica rock, divorando cibo a tutte le ore, dormendo quando gli va. La fissazione sembra comprovata da un progetto di vita completamente edonistico: in nome del piacere, Mario rifiuta lo studio, il lavoro e un qualunque impegno pratico o intellettuale. Ma, nella trama dell’esperienza, troppi indizi confutano la rispondenza di questa ideologia ai suoi bisogni. Il disagio, innanzitutto, è stato avviato da angosce di morte claustrofobiche: costretto da esse a ripiegare, Mario ha tentato di ideologizzare e di progettare la sua esperienza in nome di una libertà illimitata. Ma ripiegare rispetto a cosa, infine? Rispetto al mondo delle relazioni umane, ma da ogni relazione a tonalità affettiva. La radicale dipendenza dai suoi e il segnale dell’esistenza e della pressione dei bisogni di legame e di amore. Ma non è un caso che Mario aliena a se stesso questi bisogni con atti di aggressione rivolti ai suoi, che talora sfiorano il confine del danno irreversibile. Non è un caso che egli assume, nei confronti della madre che sta morendo, un atteggiamento cinico e persino provocatorio.
Gli ideali d’amore che Mario coltiva sono un tentativo di compensare la sua tremenda cattiveria: ma egli non sa che questa cattiveria è rivolta meno contro la sua famiglia che contro i suoi bisogni di relazione d’amore. Il principio del piacere serve solo a mascherare quella cattiveria, e a illuderlo che la vita possa essere goduta senza relazioni con gli altri.
Nonostante la diversità dei contenuti, queste esperienze hanno una matrice comune: esse alludono all’incombenza di memorie di dolore relazionale, comportano una strategia difensiva mirante a scongiurarne una ripetizione, e si orientano progettualmente verso un modo di vivere che, agli occhi dei soggetti, rappresenta la soluzione del problema originario. Se si considerano solo gli aspetti difensivi delle esperienze, la possibilità di un’interpretazione meramente psicologica sussiste. Se si prendono in esame i progetti, il discorso diventa più complesso. L’impassibilità ed il cinismo, l’anestesia affettiva, l’ etica calvinista del lavoro, l’edonismo sfrenato sono infatti la radicalizzazione di presupposti ideologici espliciti: per Enrico il sentire è indegno di un uomo vero; per Rossella esso definisce l’aspetto deteriore della femminilità; per Francesco il piacere è una droga che, assunta una volta, dà assuefazione e dipendenza; per Mario esso è l’espressione unica della libertà intesa come pura istintualità.
Ma da dove derivano quei presupposti e dove tendono i modelli di normalità che da essi vengono ricavati? La genesi è evidente: in tutte le esperienze urgono memorie di dolori relazionali intollerabili, subìti in virtù della dipendenza infantile. Il progetto che muove da queste memorie è univoco, e tende ad un’indipendenza caratterizzata dalla eliminazione dei bisogni relazionali affettivi. Sperimentati nel corso delle fasi evolutive come cause di dolore, questi bisogni vanno estirpati. Il cinismo, l’anestesia affettiva, il dovere assoluto, il piacere senza limiti rappresentano obiettivi al di là dei quali sarebbe possibile per i soggetti una relazione col mondo immune dal rischio di soffrire. In questi progetti c’e un errore, comprensibile in riferimento alle esperienze vissute, ma la cui logica non è prodotta dai soggetti, poiché appartiene ad un codice mentale, il codice adultomorfo: l’errore consiste nell’identificazione del bisogno di cura, di protezione, di legame con un bisogno tipicamente infantile, destinato ad esaurirsi nel corso della crescita.
Ora, se è vero che quel bisogno si manifesta, nel corso dell’infanzia, con modalità particolari, è pur vero che esso, in sé e per sé, in quanto bisogno di socialità e di contatto con il mondo, non solo non si esaurisce con la crescita, ma assume nell’adulto una diversa configurazione, sostanzialmente più drammatica rispetto all’infanzia. Ciò che nel bambino infatti è una potenzialità di dolore che viene solo avvertita quando si attualizza, nell’adulto diventa, in virtù dell’allargamento del campo di coscienza e del suo situarsi in sospeso tra un passato carico di memorie e un futuro percepito nella sua pienezza, un vero e proprio corredo psicologico.
La precarietà delle relazioni umane e della salute fisica, la consapevolezza del decadimento fisico e della morte rappresentano elementi costitutivi della coscienza adulta: il rimedio all’ansia che questi elementi producono non può essere che la socialità, sia essa intesa come patrimonio introiettato che come bilancio delle relazioni attuali con il mondo.
L’indipendenza, come capacità di affrontare da sé quei nuclei di ansia è un mito, poiché essa, se pure si dà, non è l’espressione della forza di carattere o delle qualità individuali, bensì di un patrimonio sociale ricco e positivo accumulato nel corso della vita.
Nei progetti psicopatologici che comportano una chiusura affettiva il progetto ha dunque un referente mitico: proprio perché l’individuo ha subìto delle ferite relazionali, e dunque ha un bilancio sociale ancora fortemente negativo, egli non può chiudersi al mondo, se non al prezzo del dolore. Se lo fa è perché si inganna in virtù dello stesso progetto che dovrebbe porlo al riparo dal dolore.
Un progetto astratto che fa riferimento ad un codice astratto. Di questo, infine, occorre parlare.
Pur riconoscendo che l’evitare il dolore e il tendere verso il piacere rappresentano un orientamento proprio della natura umana, ciò non significa che ogni codice culturale che si fa carico di tali istanze sia adeguato ai bisogni umani. Il dolore e la felicità sono, in ultima analisi, categorie astratte. Storicizzarle significa muovere dai bisogni fondamentali della natura umana e analizzare in quale misura le strutture del reale offrono agli individui la possibilità di soddisfarli attivamente. Ogni ostacolo che viene frapposto all’individuazione e all’integrazione sociale, e alla dialettica tra mondo interno e mondo esterno si può ritenere causa di dolore; la promozione di quei bisogni e della dialettica tra essi provoca felicità. Ma la felicità va inteso in senso concreto, e cioè postula sia la realizzazione dei bisogni fondamentali che la capacità di farsi carico dei problemi dell’esistenza. L’apprendere a soffrire e la lotta contro le cause della sofferenza sono un elemento costitutivo della felicità, e fanno riferimento alla condizione naturale dell’uomo come essere bisognoso che, in virtù della sua appartenenza ad un contesto sociale, lotta per conseguire un certo potere sul mondo; per raggiungere, a partire da una condizione di dipendenza e impotenza assolute, una condizione di interdipendenza attiva. Questa concezione antropologica, che individua nella socializzazione e nella socialità gli strumenti in virtù dei quali l’uomo può giungere a padroneggiare il dolore dell’esistenza radicato nella sua precarietà, nel suo essere esposto perpetuamente al rischio di soffrire, è già essa stessa un codice culturale. Non si può ignorare che esistono altre possibilità di ideologizzare lo scarto e la dialettica conflittuale tra l’uomo come essere bisognoso, e dunque dolente, e il mondo.
Di fatto, noi apparteniamo ad una civiltà che ha scelto di privilegiare l’attività e la socialità come elementi propulsori di una dialettica mirante ad adattare il mondo ai bisogni umani, vedendo in ciò la possibilità di produrre felicità e di contenere o lottare il dolore. Di questo progetto si fanno carico tutte le strutture del reale. Ma, nel corso della storia recente, è avvenuto qualcosa di singolare: più infatti le strutture economiche e sociali sono venute rivelando la loro inadeguatezza in rapporto ai bisogni umani, più, a livello di mentalità, si è venuta organizzando un’ideologia astratta, che impone agli uomini una normalità che, prescindendo dalle condizioni reali di vita e dalle opportunità offerte a ciascuno per realizzarsi, è divenuta una sorta di requisito individuale per l’integrazione sociale. Non penso sia azzardato definire adultomorfo questo codice normativo, nel senso che esso assume come modello una figura astratta di self made man, di individuo che si autorealizza quali che siano le condizioni reali in cui si trova a vivere. L’astrattezza del modello è rafforzata dall’ideologia della crescita e della maturazione, intesi come processi naturali che attualizzano le potenzialità proprie di ogni individuo.
Da questo punto di vista, l’individuo è null’altro che la manifestazione di ciò ch’egli poteva essere; l’espressione delle sue qualità e dei suoi limiti, non della fenotipizzazione del suo corredo originario in rapporto all’ambiente e alle opportunità da questo offerte.
Questa concezione adultomorfa astratta è il codice antropologico proprio della civiltà borghese, e, come cercheremo di documentare, esso è la matrice di tutti i codici normalizzanti astratti, che alienano le esperienze di disagio psichico e rendono, in misura diversa, precarie tutte le altre.
A conclusione di un libro che riporta i risultati di un’inchiesta sociologica sui valori del tempo presente in Europa, J. Stoetzel giunge a definire questi codici con precisione.
Egli scrive:
”E’ innanzitutto ben chiaro che per molti europei il valore centrale risiede nella persona, cioè nella propria persona... Questa nozione di un individuo che è strettamente mio, porta con sé una varietà di valori che le sono legati, la felicità, la sicurezza, la libertà d’azione e di decisione e la libertà in sé e per sé, la padronanza del proprio destino, la realizzazione di sé, la considerazione sociale, nonché delle attività piacevoli...”
Il valore di questo modello antropologico non può essere misconosciuto: è l’intuizione di come l’uomo potrebbe e dovrebbe essere. Ma, nel momento in cui esso, anziché come strumento critico di analisi delle condizioni reali di vita, si pone come obiettivo individuale e metro di misura del valore individuale, i suoi effetti di alienazione sono facilmente intuibili. Anziché promuovere una socialità che permetta l’espressione delle potenzialità personali, che produca una felicità condivisa e strumenti culturali di lotta contro il dolore, quel codice diventa un codice individualista, edonista e algofobico, nel senso che esso pone sulle spalle dell’individuo le responsabilità del suo modo di essere, lo orienta verso un piacere codificato - passivo e consumistico o ricavato dall’assolvimento del dovere - e lo induce a vivere il dolore come una minaccia alla propria identità fisica e psichica da rimuovere con mezzi tecnici.
La libertà e la felicità, assunti come valori astratti, che prescindono dalla necessità di liberarsi per mezzo dei legami con gli altri e di perseguire la felicità anche attraverso la capacità di apprendere a soffrire - criteri in virtù dei quali la lotta per l’umanizzazione dovrebbe rivolgersi contro la costrizione e non contro i legami, contro l’infelicità prodotta dalle condizioni reali di vita e non contro la condizione di naturale esposizione dell’uomo alla sofferenza -, diventano potenti strumenti di alienazione della coscienza sia collettiva che individuale.
Questa alienazione produce, a livello dell’immaginario collettivo, un vero e proprio fantasma che si carica di valenze persecutorie: è il fantasma del bambino come essere totalmente dipendente, privo di qualunque potere sulla realtà, radicalmente bisognoso di protezione, di cure e di legame, pauroso ed esposto, per la sua precarietà, a tutte le possibili sofferenze; essere in cui non si coglie la radicale socialità e il bisogno del mondo come espressioni ultime della natura umana, poiché si vede in esso solo una minaccia alla possibilità di diventare adulti secondo il codice adultomorfo.
E’ questo fantasma, che sottende il codice normativo adultomorfo, a rappresentare il continuum tra le esperienze normali e le esperienze di disagio psichico. Continuum che si rintraccia nella genesi delle esperienze di disagio psichico ma che viene negato in virtù della scissione, che è costretta ad operare la coscienza sociale per affrancarsi dal suo precario statuto, tra debole e forte, immaturo e maturo, dipendente ed indipendente, malato e sano. Il paradosso da cui si origina il disagio psichico è rappresentato dal fatto che chi vive con maggiore drammaticità la condizione infantile, è sollecitato più di ogni altro ad adottare il codice adultomorfo come modello di normalità. E’ nel tendere verso una normalità astratta, ed esasperata dai presupposti a partire dai quali essa dovrebbe essere realizzata, ch’egli rimane schiacciato tra un passato carico di memorie dolorose, che va rimosso, e un futuro sul quale non può far presa; tra il dolore prodotto dalla sua concreta vicenda umana e quello prodotto dall’irrealizzabilità del progetto. Se torniamo a riflettere sulle esperienze riferite, apparirà chiaro la vacuità di un approccio meramente psicologico. L’onnipotenza dei progetti che le animano va riferita infatti all’inganno in virtù del quale una normalità precaria, quella parentale, si è offerta mascherata da codici astratti.
La madre di Enrico, con la sua durezza di donna indipendente, pagata al prezzo di un cronico esaurimento riferito ai ruoli domestici, gli ha fatto vivere come orribile il bisogno di cure, di protezione e di legame.
I genitori di Rossella, con il loro legame obbligato e claustrofobico, sono giunti a criminalizzare il suo bisogno di legame.
La famiglia di Francesco, con la madre ripiegata nel ruolo sacrificale di mater dolorosa che ignora ogni gioia e il padre sfrenato nella ricerca del piacere e insensibile ai doveri familiari, lo ha stato posto di fronte ad un modello privo di dialettica, alla luce del quale il senso del dovere e il piacere si oppongono radicalmente.
Mario, infine, si è confrontato con un modello familiare univoco, e sostanzialmente ascetico, anche se mascherato da un’ideologia di raffinato intellettualismo: ma l’ascesi egli l’ha vissuta come una negazione del bisogno di contatto con il mondo.
I progetti che i soggetti hanno ricavato dalle loro esperienze sono astratti in quanto ricavati da un’esperienza vissuta ma elaborata in virtù di codici astratti: l’indipendenza, la libertà dai bisogni affettivi, il senso del dovere, la fuga dal dolore nel piacere.
Tutti i progetti hanno una matrice univoca, nel senso che sono riconducibili ad un codice adultomorfo sotteso dal fantasma persecutorio del bambino con i suoi bisogni: bisogni radicalmente umani, rifuggendo dai quali la normalità diventa sempre più precaria, finché qualcuno, assumendosi il compito impossibile di piegare ad essa la sua concreta umanità carica di storia e di memorie, si destina al vicolo cieco.
Esemplare, per la sua trasparenza, è l’esperienza di Rita.
Figlia di un capitano dei carabinieri e di una insegnante elementare, fino a 8 anni vive nella cittadina originaria dei suoi, gli impegni lavorativi dei quali sono sopperiti da una ricca rete di parentela.
Dedita completamente al lavoro, la madre ignora le incombenze domestiche, affidate alla nonna. Quando Rita ha 8 anni, al padre viene offerto un trasferimento a Roma e un avanzamento di grado. E’ un’occasione da non perdere, nonostante lo sdradicamento e l’ inserimento in un contesto nuovo. La nuclearizzazione della famiglia produce immediatamente una condizione di precarietà: Rita ha un fratellino di 5 anni. I turni di lavoro della madre, che, tra l’altro, ha accettato il tempo pieno, cambiano di settimana in settimana. L’affidamento dei bambini è un problema perpetuo. Per fortuna, mentre il più piccolo si ribella alla governante e rifiuta il cibo, Rita ha un comportamento dignitoso, da donnina. A 11 anni è essa stessa a proporre la soluzione: in assenza dei suoi, accudirà lei il fratellino. Il sollievo che questa assunzione di responsabilità arreca alla vita familiare è pagata ad un duro prezzo: in assenza dei suoi, Rita vive con il cuore in gola, prevedendo il realizzarsi, per sé e soprattutto per il fratellino, di situazioni alle quali non sarebbe in grado di fronteggiare. La gratificazione che riceve dai suoi è un motivo sufficiente per inghiottire l’ansia e la paura.
La mortificazione dei suoi bisogni, protraendosi negli anni, giunge infine a rappresentare la matrice di un progetto di vita incentrato sull’indipendenza e sul far da sé. Allentandosi le responsabilità familiari, Rita si chiude in un modo di essere orgoglioso, che viene confermato dai genitori. A scuola rende bene, ma mantiene le distanze rispetto agli altri; il tempo libero lo trascorre in casa a studiare e a leggere. Rifiuta ogni distrazione, e giunge a disprezzare il modo fatuo di vivere dei coetanei. Il rifiuto dei bisogni di relazione, soprattutto riferito agli affetti, è impercettibile, poiché è coperto da un’ideologia partecipata e ostentata. I genitori, anziché preoccuparsi, sono entusiasti di questa diversità.
Il crollo avviene quando Rita affrontando l’ambiente universitario perde il ruolo prestigioso che ha mantenuto nel corso del liceo, e scopre che la sua diversità la isola e la emargina, senza che questo possa assumere alcun significato. La frustrazione dei bisogni affettivi, vissuta fin’allora come scelta, viene avvertita come una costrizione soffocante.
Tornando a casa dall’università, Rita accusa una crisi d’angoscia somatizzata - con palpitazioni, capogiri, senso di oppressione respiratoria, malore - vissuta con il panico di star male agli occhi degli altri. In conseguenza di questa crisi, Rita si chiude in casa, e regredisce in una situazione di penosa dipendenza: non può star da sola, e, le rare volte che esce, deve essere accompagnata. L’angoscia di poter star male è amplificata dall’ esibire socialmente una vergognosa debolezza. Ma ormai la trappola è scattata: i bisogni relazionali lungamente rifiutati hanno la meglio su un progetto disumanante. Rita può solo scegliere tra il rimanere vincolata alla famiglia su una modalità regressiva e rivendicativa - intrappolando con se stessa la madre - o farsi carico della sua debolezza, cioè dei suoi umani bisogni affettivi, e tentare di realizzarsi con essi, non contro di essi.
Non occorrono molti commenti. Un dato di esperienza vissuto - il peso dei bisogni infantili - riferito a circostanze reali di vita che lo rendono intollerabile, si è trasformato, in Rita, in un dato ideologico, in un attributo vergognoso dell’infanzia e della natura umana. Il progetto che viene elaborato, a partire da questo dato, non può essere che adultomorfo, non può tendere che all’eliminazione dei bisogni di cure, di protezione, di legame. Gratificante soggettivamente, per 1° capacità ch’esso ha di rimuovere le esperienze dolorose di solitudine e di abbandono, questo progetto viene rafforzato dalle gratificazioni familiari e sociali (dagli amici di famiglia e dai docenti) e dà luogo ad una sorta di ebbrezza della propria diversità rispetto agli altri. Nel reggere tanto a lungo un ruolo cosi frustrante rispetto ai bisogni umani, Rita manifesta autentiche qualità, ma le investe in un codice di normalità la cui elevatezza morale è pari all’astrazione.
Ma questo paradosso - di qualità elevate investite in progetti irrealizzabili - e la cifra di ogni esperienza di disagio psichico.
6. EXCURSUS
La nozione di codice adultomorfo non schiude l’accesso alla verità. E’ una chiave cui, nella mente e nel cuore di chi soffre, non sembra corrispondere alcuna toppa. Se la si utilizza brutalmente, comunicando a chi vive un’esperienza di disagio ch’egli soffre in quanto si impone di essere così come non può né deve essere - verità inconfutabile -, l’effetto è univoco: il soggetto interpreta il messaggio come un invito a rassegnarsi ad essere cosi com’è, a vivere cioè nell’infelicità.
A che serve, dunque, quella chiave? L’adozione di un codice adultomorfo astratto è la causa per cui un soggetto, con il suo carico di sofferenza microstorica, finisce con il chiudersi in una struttura psicopatologica. Le strutture psicopatologiche - lo si è intuito, lo si è affermato - sono false soluzioni di problemi umani: promesse di una soluzione che non c’è, armature ideologiche che, psicologizzandole, contengono e frustrano una sofferenza le cui radici stanno nello scarto tra i bisogni umani e le strutture sociali.
La tendenza dei soggetti a farsi catturare da questi messaggi di normalità, nonostante gli esiti mortificanti cui perviene, è, però, densa di significato, poiché attesta la loro vocazione verso un modello antropologico di completo sviluppo delle potenzialità umane. Definire in termini di narcisismo o di onnipotenza questa vocazione, nonostante l’evidenza del sacrificio che essa promuove, è la prova più inquietante dell’ideologia astratta dello psicologismo di marca analitica. Mortificate dall’interazione con l’ambiente, quelle potenzialità tendono a riproporsi naturalmente in un progetto di realizzazione e, in difetto di strumenti critici, non possono esprimersi che facendo riferimento a valori astratti: l’indipendenza, la libertà, la potenza, l’amore, il piacere, il dovere, la socialità, ecc. Tutti valori che integrano il modello dell’individuo adulto, maturo, sviluppato: cresciuto, insomma, secondo l’etimologia stessa del termine adulto.
In che senso questi valori possono definirsi astratti? In sé e per sé, essi sono autentici valori. L’inganno ideologico consiste nell’identificarli con la felicità prescindendo dagli ostacoli che vanno superati per realizzarli concretamente, e cioè della necessità di disporre di modi e di mezzi reali per analizzare ed eliminare le fonti della sofferenza.
Il problema, per quanto riguarda il disagio psichico, è che i soggetti sono alienati in quei modi e da quei mezzi proprio in virtù della loro esperienza microstorica: avendo sofferto, essi non vogliono più soffrire. E’ questo che li orienta verso un modello astratto di felicità, verso un miraggio che si può raggiungere senza più soffrire né rievocare e storicizzare le sofferenze.
Il paradosso cui si giunge è di straordinaria importanza: il potere alienante che esercitano i valori astratti di felicità è direttamente proporzionale alla sofferenza prodotta dall’inadeguatezza delle strutture sociali in rapporto ai bisogni umani, e cioè della sofferenza reale che esse producono e che i soggetti vivono.
Non è chi non veda in quale misura questo paradosso definisce un continuum tra i fenomeni di disagio psichico e l’alienazione umana, intesa come espropriazione delle capacità di capire criticamente e rimuovere attivamente le cause della miseria umana nella misura in cui questa è riconducibile allo scarto tra strutture sociali e bisogni umani.
Il discorso può essere approfondito, tenuto conto delle intuizioni precorritrici di Foucault.
In Microfisica del potere, si contesta la pertinenza, oggi, del concetto di ideologia dominante come espressione diretta e immediata del potere dominante, come ideologia, cioè, che viene imposta dall’alto e corroborata con sanzioni repressive nei confronti di chi ad essa si ribella. Il dominio, secondo Foucault, si eserciterebbe con strumenti più raffinati, sotto forma di irretimento della coscienza, facendo leva piuttosto sul bisogno ideologico della mente che non sulla repressione della sua volontà di sapere: proponendo cioè l’ideologia come visione del mondo inconfutabile e non come inganno. Non solo: mentre in passato, l’ideologia concerneva quasi esclusivamente i rapporti di potere tra uomo e uomo, e riverberava passivamente nella struttura della soggettività, essa, oggi, non potrebbe più accontentarsi di giustificare i rapporti pubblici, avendo bisogno, ed è questa la sua forza, di modellare l’esperienza privata in tutte le sue manifestazioni.
Cosa esiste, per esempio, di più privato della sessualità, non tanto sotto il profilo dell’esercizio - che ha sempre riconosciuto vincoli sociali -, quanto sotto il profilo del significato e del valore che essa assume per ogni soggetto? Proprio questo ambito - il privato per eccellenza - è stato l’oggetto dell’ analisi dell’ultimo Foucault, orientata a documentare come la liberazione della sessualità, avvenuta nel corso del ‘900 e tuttora in atto, rappresenti, da un punto di vista ideologico, uno dei più potenti strumenti di alienazione della coscienza contemporanea, poiché, potendo essa funzionare come meccanismo di fuga dal dolore, di ricerca del piacere e di socialità, può incanalare univocamente le frustrazioni dei bisogni umani, quale ne sia l’origine. Offrendosi come paradiso artificiale, la sessualità assolverebbe dunque la funzione di cui un tempo si faceva carico la religione, con la promessa del paradiso all’al di là, e, più di recente, la politica, con la promessa del paradiso terrestre. Il bisogno è sempre lo stesso, ed è un bisogno di felicità, ma in quale misura, offrendo ad esso una realizzazione possibile nell’immediato e sul piano privato, le coscienze sono alienate dalla complessità delle cause della sofferenza umana?
Il potere politico non avrebbe, pertanto, più bisogno di formidabili apparati di repressione poliziesca né di un’attrezzatura ideologica granitica, bensì di un’ideologia dispersa, frammentata, morbida, atta ad insinuarsi nelle pieghe delle coscienze e ad orientarle verso forme di felicità che, per essere perseguibili privatamente e psicologicamente, catturano insidiosamente, facendo leva su quello che appare il punto debole dell’umanità: il suo bisogno di felicità.
E’ difficile non essere d’accordo con Foucault, e non recepire la portata culturale di un progetto che vede nello spazio della soggettività, con il suo carico di bisogni, lo spazio in cui si gioca, oggi, la lotta per il dominio dell’uomo sull’uomo. Non c’è alcun motivo, ovviamente, di isolare questo spazio psicologico dagli altri ambiti della realtà. Ma questo approccio, che conferma che il privato è politico, consente di esplorare la soggettività alla luce di un’ipotesi che ridà ad essa una dignità perduta: la dignità di uno sforzo di venire alla luce, con il suo carico di sofferenza microstorica, frustrato dai codici mentali, che, promettendo la felicità, promuovono un impossibile parto indolore.
Ciò detto, non ci si sorprenderà del fatto che i codici, che tenteremo di esplorare, siano, all’apparenza, psicologici. Con i presupposti che abbiamo sin qui elaborati, lo psicologico, sia sul versante soggettivo che intersoggettivo, non solo non va messo tra parentesi, ma va acquisito in tutto il suo spessore da una nuova scienza del disagio psichico: per quanto alienato, è esso, infine, che denunzia lo scarto tra i bisogni umani e le risposte inadeguate offerte dall’ambiente e dalle strutture sociali.
7. Di alcuni codici:
1. Il codice pedomorfo
La scissione che il codice adultomorfo introduce nella realtà umana produce, nell’ambito del disagio psichico, degli effetti paradossali. Il più rilevante tra questi è il rifiuto di crescere, il rifiuto, cioè, di abbandonare atteggiamenti infantili di dipendenza. L’effetto è paradossale poiché sembra attestare una fissazione dello sviluppo, e, dunque, l’adozione di un codice pedomorfo. Ma l’apparenza inganna, poiché il codice pedomorfo è complementare del codice adultomorfo: basta cercarli e li si trova entrambi nelle strutture dell’esperienza. Non solo: si trova anche che è i1 codice adultomorfo ad alimentare quello pedomorfo.
Esemplare, da questo punto di vista, è, ancora una volta, l’esperienza di Mario. Dall’epoca del suo ritiro in casa, egli, pur conducendo una vita totalmente sregolata, manifesta una dipendenza totale dai suoi. Non può star solo né essere abbandonato un solo minuto. Quando è atterrato dalle angosce psicosomatiche, dalla paura di morire e, se non muore, di perdere il controllo della mente, egli sequestra per ore ed ore un parente al quale chiede continue rassicurazioni. Il suo atteggiamento nei confronti della madre, malata e moribonda, è sprezzante, derisorio e cinico.
Un atteggiamento, dunque, tipicamente adultomorfo, senza nessuna comprensione per le debolezze umane. A distanza di alcuni anni, quando il suo unico sostegno è il padre, il suo atteggiamento non sembra mutato affatto. Per quanto lo riguarda, egli si abbandona a qualsivoglia debolezza, a patto che questa sia giustificata dalla necessità di procurarsi del piacere; per quanto riguarda il padre, invece, è spietato. Costui è un uomo apprensivo e, provato dalle vicende familiari, deve far ricorso - per sostenersi - a degli psicofarmaci; talora denuncia vuoti di memoria, malesseri e una intensa neurastenia. Mario, che da lui dipende totalmente, non può ammettere queste debolezze: invade la sua camera e getta gli psicofarmaci dalla finestra, lo forza ad alzarsi dal letto e a dimostrarsi forte e vigoroso. Se le sollecitazioni non bastano, giunge a picchiarlo al fine di scuoterlo e di vedere che resiste ancora bene al dolore!
Il suo essere dipendente postula dunque che colui dal quale dipende incarni un modello adultomorfo, perché questo è il modello verso cui gravita il progetto di Mario e, nell’attesa che egli lo realizzi, qualcuno deve realizzarlo.
E’ chiaro che la dipendenza e gli atteggiamenti infantili di Mario, che sembrano esprimere un codice pedomorfo (nel caso in questione l’apparenza concorda, tra l’altro, con il fantasma freudiano del bambino come perverso polimorfo ), in tanto non possono cambiare in quanto egli fa riferimento ad un modello adultomorfo irrealizzabile: è questo, infine, che blocca lo sviluppo. Ma Mario non lo sa e, nella misura in cui si aliena in quel modello, imponendo al padre di essere all’altezza di questo, aliena se stesso in un’interminabile dipendenza.
Non è chi non comprenda che questa stessa logica sottende le patetiche esperienze, esposte alla pietas collettiva e alla propaganda strumentale, di ‘psicotici’ più o meno giovani che convivono con genitori anziani sottoponendoli ad ogni sorta di tortura. Una di queste esperienze mi è stata riferita da un parente anni fa, e mi sembra degna di nota.
Un giovane di 26 anni, ultimo di quattro figli, malato da 8 anni, più volte ricoverato in cliniche private e considerato irrecuperabile, viveva con i genitori ormai in età avanzata, senza praticamente comunicare con loro. Ogni giorno, dopo pranzo, nel salotto, si svolgeva la stessa scena. La madre sferruzzava, il padre leggeva il giornale, e il figlio, seduto di fronte a quest’ultimo, senza proferire parola, cominciava a torcere il giornale con la punta del piede. Il padre tentava di ritrarsi e il gioco irritante continuava implacabile, finche egli, paonazzo di rabbia, e tremante di paura per via di un recente infarto, non reagiva accapigliandosi con il figlio, che si lasciava facilmente gettare a terra. Quando si ergeva su di lui, tenendogli un piede sul petto, questi pronunciava poche parole, sempre le stesse: ‘Basta! Basta! Sei tu il più forte!” Era questa l’unica comunicazione che intercorreva tra di loro.
Non sempre, però, il codice pedomorfo, con il complementare che lo genera, hanno un’evidenza relazionale. Talora il primo sembra funzionare autonomamente. Anche in questi casi, però, è possibile dimostrare che si tratta solo di un’apparenza.
L’esperienza che segue è di estremo interesse. Maria Luisa ha 28 anni, ed è sposata. Fin dall’adolescenza soffre di una depressione strisciante, sottesa da vissuti di solitudine e di vuoto interiore che giungono,periodicamente, a livelli intollerabili, e da ricorrenti preoccupazioni ipocondriache. A livello cosciente, ha sempre attribuito questa sua condizione a carenze affettive e, di conseguenza, si è progettata nella ricerca di un amore totale atto a colmarle. Dopo numerose, e sofferte, delusioni, l’incontro con il futuro marito le ha portato una qualche serenità. Ma, dopo il matrimonio, il marito ha rivelato il suo vero carattere: è buono ma superficiale, e sostanzialmente freddo. I vissuti depressivi e le preoccupazioni ipocondriache sono ricomparsi, con un’intensità maggiore, poiché è venuta meno la speranza del grande amore. La storia familiare accredita l’ipotesi delle ‘carenze affettive’.
La madre di Maria Luisa, impegnata a suo modo in una rivoluzione femminista ante litteram, ha sempre rifiutato i ruoli tradizionali in nome di un lavoro gratificante, che le assicurava una piena indipendenza economica. Non ha mai fatto mistero di non aver desiderato che i primi due figli: gli altri due - Maria Luisa è la terza - sono nati per imposizione del marito.
Questi, gravato per suo conto da una storia personale triste (è figlio naturale di una donna che ha condotto sino ad età avanzata una vita eccentrica, tutta dedita alla seduzione), ha sposato la moglie, nonostante il carattere piuttosto ribelle, con il chiaro proposito di metterle la testa a posto, di assoggettarla cioè ai doveri domestici. Incentrata su questa sfida, la vita coniugale e familiare è stata travagliata (un inferno, nel ricordo di Maria Luisa). I figli sono cresciuti affidati alle governanti, in un clima di guerra fredda che, periodicamente, si accendeva. Ciascuno si è difeso a suo modo: Maria Luisa cercando di accattivarsi l’amore dei suoi così come le sembrava possibile, assumendo il ruolo di angioletto sereno, senza bisogni e che non crea alcun problema.
Da un punto di vista deterministico, sembrerebbe tutto chiaro. Ma il determinismo - è bene ripeterlo - spiega tutto, eliminando le contraddizioni che danno ad ogni storia familiare e personale uno spessore ed una dignità. Il conflitto familiare si è incentrato sul tema di chi dovesse farsi carico del peso dei bambini da allevare: conflitto non risolto poiché ciascuno dei genitori aveva i suoi motivi per rifiutare quel peso, la costrizione e il vincolo che esso determina.
Il padre, minacciato da un sentimento atavico di precarietà, vedeva nel lavoro la possibilità di raggiungere la sicurezza. La madre ha trovato nel lavoro la possibilità di rendersi indipendente dal marito. Maria Luisa ha partecipato a questa dinamica, incentrata sull’indipendenza, alleggerendo precocemente il peso dei suoi bisogni di cura, di protezione e di affetto, frustrandoli. Possiamo pensare che, in rapporto alla situazione familiare, non ci fosse altro da fare. Ma il problema è spiegare perché questa frustrazione sia stata assunta come l’asse di cristallizzazione della costruzione della personalità, soprattutto sotto il profilo relazionale, e dell’elaborazione della visione del mondo.
Durante tutta l’adolescenza, infatti, Maria Luisa mantiene, nei confronti dei coetanei, un atteggiamento chiuso, scostante e altezzoso. L’atteggiamento non coincide con i suoi desideri: ma cosa lo determina, dunque, se non una insormontabile vergogna dei bisogni relazionali? Il sogno del grande amore, dell’amore totale, si fa carico di questi bisogni, ma, nella misura in cui se ne fa carico, li orienta verso una inesorabile frustrazione.
La visione del mondo che Maria Luisa elabora, infine, incentrata sull’attribuzione alla natura umana di qualità meramente negative (egoismo, materialismo, aggressività, ecc.), sembra mirare ad escludere ogni possibilità di una relazione ricca e significativa con gli altri. Infine, può essere un caso che Maria Luisa si vincoli ad un uomo superficiale, poco protettivo e poco sensibile alle sue istanze profonde? Tutti questi elementi risulterebbero più comprensibili se si ammettesse che, sollecitata dalle circostanze familiari a frustrare i suoi bisogni infantili, Maria Luisa, adottando un codice adultomorfo, al fine di porsi al riparo dalla possibilità di regredire in una situazione di dipendenza e, dunque, di esporsi alla sofferenza, abbia continuato a frustrarli anche quando essi si sono riproposti come bisogni relazionali.
La prova di questa frustrazione, prodotta dal codice adultomorfo, consisterebbe nell’amplificarne la connotazione infantile, lasciandoli affiorare a livello cosciente come bisogni radicali, ma in una forma cosi regressiva da non poter produrre che un rifiuto. Vivendoli come intollerabili, anziché integrarli nella personalità adulta e dare ad essi una configurazione qualitativamente diversa - di amore, ma anche di amicizia, di solidarietà e di socialità -, Maria Luisa tende ad isolarli, ad infantilizzarli, a drammatizzarli. La sua richiesta ch’essi siano soddisfatti urta contro l’ostacolo che, per soddisfarli, qualcuno deve accettare di esserne catturato, ricattato e svuotato. Chi non rifiuterebbe di farsi carico di questo peso?
Quest’interpretazione può apparire arbitraria. Ma essa è confermata dalla ricorrenza di un tema onirico e da un episodio reale. Nei sogni di Maria Luisa compaiono, quasi costantemente, neonati o bambini in completo stato di abbandono, nudi, sporchi, infreddoliti, affamati e, talora, moribondi per incuria. La madre, sempre presente, appare fredda e insensibile come una malata di mente. Maria Luisa non riesce a spiegare questi sogni in rapporto alle sue esperienze: se essa ha sofferto, infatti, è avvenuto per la relativa assenza della madre, che, però, indipendentemente dal poco tempo disponibile, era di carattere dolce ed espansivo, sostanzialmente affettuosa.
Il mistero è chiarito da un sogno trasparente:
”Al 6° mese partorisco senza doglie un bambino che pesa tre kg. e mezzo. Mia madre si prende cura di lui. Quando lo prendo in braccio, mi accorgo che è nudo e sporco. Vorrei lavarlo e coprirlo, ma la vista annebbiata mi impedisce di farlo. Il bambino, infreddolito, piange.”
L’episodio reale conferma l’insostituibilità di un peso che Maria Luisa si è assunto troppo precocemente, e che l’ha indotta poi ad un radicale rifiuto.
Al terzo anno di matrimonio, Maria Luisa rimane incinta. La gravidanza procede senza difficoltà nei primi mesi. Nel corso di una visita di controllo, dopo il 90° giorno, l’ostetrico conferma che il bambino è vitale e ben sviluppato e che, ormai, l’attecchimento è definitivo. La notte stessa, senza dolori, si realizza un aborto spontaneo sine causa: è con sgomento che l’ostetrico deve formulare, per esclusione, la diagnosi di aborto psicogeno.
Abbiamo dunque esplorato la pregnanza del codice adultomorfo e del suo complementare in alcune esperienze di disagio psichico. Gli esiti sono suggestivi, e definiscono un nuovo ambito di ricerca, decisivo per una nuova scienza del disagio psichico che, in nome della radicale storicità dell’esperienza umana, cerchi di ricavare l’organizzazione della mente dall’essere sociale, sia pure non deterministicamente ma attraverso tutte le possibili mediazioni tra la ricchezza dei bisogni umani e le risposte ambientali. E’ chiaro che, su questo piano, c’è un lavoro infinito da fare. Accontentiamoci, per ora, di alcune riflessioni ulteriori.
Se assumiamo il codice adultomorfo come modello, risulta evidente che esso si fonda su una scissione ideologica della realtà umana, che assume due momenti dell’esperienza - l’essere bambino e l’essere adulto - come momenti di opposizione, li qualifica negativamente e positivamente, e, in virtù di ciò, esercita una pressione che mira all’eliminazione del negativo. A livello di mentalità, la qualificazione negativa dell’esser bambino discende dall’assumere la schiavitù imposta dai bisogni di dipendenza come espressione non già di un bisogno radicale di socialità, che deve evolversi integrandosi via via che si afferma l’individuazione, ma che è, in sé e per sé, inestinguibile, bensì come espressione di un difetto ontologico da superare.
A livello di esperienza vissuta, questo quadro di mentalità incide, paradossalmente, proprio nei casi in cui, quella schiavitù avendo prodotto dolore e frustrazione, il bisogno di socialità andrebbe riformulato in termini ancora più radicali, qualitativamente.
La conseguenza invece è che i soggetti, rimuovendo la loro esperienza microstorica, e il dolore esperito, si orientano verso un modello di felicità astratta, e ,cioè, o verso una socialità di superficie o verso una socialità duale totalizzante. La progettazione astratta è ulteriormente rafforzata da quadri di mentalità che offrono come modelli di felicità sia una socialità estroversa e non coinvolgente sia l’esperienza del grande amore corrisposto.
Non si sottolineerà mai abbastanza la potenziale patogeneticità di un sistema sociale le cui ideologie prescindono dal farsi carico del problema della precarietà come espressione della radicale socialità dell’uomo e, Cionondimeno, offrono modelli di felicità il cui significato è l’affrancamento da quel problema.
2. Pulito/sporco. Il codice rupofobico
Per cogliere tutte le implicazioni di questo codice, occorre prescindere dai valori oggettivi cui esso sembra far riferimento, e ricostruirne la genesi a partire dalla polarità negativa.
Sporco è ciò che determina repulsione e promuove atteggiamenti di evitamento o di distanziamento. Questa definizione implica che esista qualcosa di pulito da salvaguardare e che ciò possa avvenire solo in virtù di una separazione, di un venir meno del contatto. Il codice in questione è, dunque, un codice fobico, definibile come rupofobico. In linea generale, la paura del contatto può investire aspetti dell’ambiente fisico, dell’ambiente sociale e del mondo interiore. Non occorre grande competenza per ricostruire che, nella nostra civiltà, il codice rupofobico si è strutturato per stratificazioni successive, interiorizzandosi progressivamente.
Originariamente (ne fa fede l’etimologia) codice igienico, mirante a scongiurare i contagi, esso, a partire dal ‘700; si è definito come codice di status sociale, devoluto a sottolineare la differenza di classe, soprattutto in rapporto alla necessità o meno di sporcarsi lavorando (i colletti bianchi , oggi, proseguono la tradizione), e, infine, è giunto a delinearsi come codice morale, atto a separare, nell’individuo stesso, ciò che vi è di basso e di elevato nella natura umana. Lo sporco, dunque, si è identificato con l’infetto, il volgare, il miserabile, l’istintivo, l’immorale. Complementarmente, nella categoria del pulito si sono venuti stratificando e condensando l’immune, il nobile, il raffinato, lo spirituale, l’ incorrotto.
Non è difficile capire la funzione ideologica del codice rupofobico. Proponendo valori che coincidono con lo stare in alto socialmente e moralmente, esso tende a squalificare tutto ciò che sta in basso come primitivo, selvaggio, non evoluto: a destoricizzarlo, insomma, in virtù di una capziosa connessione simbolica con il regno animale. Complementarmente, lo stare in alto viene assunto come l’espressione di elevate qualità individuali o di classe, in riferimento ad un quadro mentale che è l’evoluzionismo sociale darwiniano
La matrice ideologica del codice rupofobico, quale che sia l’ambito in cui questo si applica, è riconducibile all’attribuzione alla natura umana di qualità negative - sostanzialmente gli istinti - ereditate filogeneticamente, che impongono ad ogni individuo un salto di qualità sotto forma di repressione: solo rinunciando a quanto c’è di bestiale nella natura umana, l’uomo si umanizza e accede alla civiltà, ripulendosi dalle scorie di una triste eredità. Ma la pulizia interiore non basta, poiché essa non può essere controllata socialmente che sul versante comportamentale: occorre, dunque, che essa si esprima esteriormente, nella cura del corpo e nel contegno, nel modo di porsi a livello interpersonale e nel rapporto con l’ambiente circostante.
La concezione istintualista che sottende il codice rupofobico è, sia sul piano pedagogico che sociologico, una trappola ideologica di enorme significato, poiché essa promuove un’interpretazione elementare e meccanicistica del modo di essere e di porsi in rapporto degli individui, del tutto indifferente alla radicale storicità dell’esperienza umana e alle risposte o alle opportunità che l’ambiente offre alla soddisfazione e alla integrazione dei bisogni umani. Ciò che è sporco, infatti, risulta essere null’altro che l’espressione diretta di una natura che si è ribellata alle leggi della civilizzazione, ed è rimasta, almeno per alcuni aspetti, tale quale essa è originariamente.
L’universo psicopatologico - ed è ciò che intendiamo dimostrare -, nonostante le apparenze, offre la prova più clamorosa delle valenze ideologiche del codice rupofobico. Ma, al solito, le offre su un registro paradossale, adottando, per difetto di consapevolezza microstorica, questo codice e portandolo alle estreme conseguenze.
Il progetto psicopatologico, che si origina dall’identificare gli effetti della frustrazione dei bisogni con delle oscure ed incontrollabili forze istintuali, mira alla soluzione totale, all’affrancamento dall’esistenza delle scorie istintuali. Ma è proprio nel perseguire questo progetto di umanizzazione e di civilizzazione che l’individuo svela, disumanizzandosi, le sue elevate qualità, le sue istanze morali fuorviate dalle circostanze ambientali e dall’adozione del codice rupofobico.
C’é una chiave costante in tutte le esperienze psicopatologiche che, in virtù di questa adozione, si votano a mortificare piuttosto che a soddisfare e ad integrare il bisogno di contatto con il mondo, inteso come espressione primaria e radicale del bisogno di socialità. La chiave è rappresentata dalla necessità di difendere l’identità personale, quel tanto di individuazione che si è riusciti a conseguire, da contatti sociali che potrebbero indurre una contaminazione o una disintegrazione. E’ vero che, talora, la paura è riferita ad aspetti del mondo interiore: ma, anche in questo caso, ciò che l’individuo teme è che quegli aspetti possano entrare in rapporto con il mondo esterno e determinare una perdita dell’identità raggiunta. Se si considerano le condizioni di socializzazione forzata che presiedono all’evoluzione e alla strutturazione di ogni personalità, non si stenta a capire che in esse sono da ricercare i motivi per cui i bisogni fondamentali, anziché integrarsi dialetticamente, sono giunti ad opporsi irriducibilmente. La paura del contatto denuncia, dunque, inconfutabilmente un’ esperienza sociale contagiosa, per quanto riguarda sia i rapporti interpersonali sia i codici che all’interno di essi sono stati veicolati. L’inadeguatezza, insomma, dell’ambiente familiare e culturale a favorire l’umanizzazione.
Ma l’adozione del codice rupofobico tiene lontano l’individuo da questa consapevolezza: inducendolo a viversi come vittima di istinti bestiali, lo rende paradossale testimone degli effetti alienanti e disumananti di una cultura astratta.
Alcune microstorie già riferite potrebbero essere rivisitate alla luce del codice rupofobico. Penso soprattutto all’esperienza di Maria, votata alla schiavitù di conservare immacolato il suo piccolo mondo antico - la stanza verginale, la biancheria, gli animali di pelouche - dalla minaccia di un bisogno di relazione con il mondo, che, per essersi configurato, in reazione alle frustrazioni familiari, come un desiderio di gettarsi allo sbaraglio, affettivamente e ses sualmente, è giunto a porsi come una minaccia alla sua identità e alla sua dignità.
Penso, ancora, all’esperienza di Mauro, drammaticamente incentrata sul tema di una sporcizia - la follia, l’ accattonaggio, ecc. - che dovrebbe essere eliminata perché egli possa vivere tranquillo, e che non è in grado di vedere in essa l’espressione di un disordine interiore che è stato l’unico modo che egli ha trovato di scampare ad un processo educativo che, profittando dell’intensità dei suoi affetti, ha rischiato di trasformarlo in un robot.
Queste, ed altre rivisitazioni, possono essere affidate alla riflessione personale. Le storie che seguono sono nuove: l’elaborazione, che muove da un punto di vista più ampio rispetto al precedente, le rende, infatti, ancora più significative.
Iole ha 42 anni, è sposata con un muratore divenuto un piccolo imprenditore, ha due figli giovani. Il problema che la tormenta da 12 anni è un dolore perpetuo al basso ventre, che comporta uno stimolo continuo ad orinare, giorno e notte. Il dolore e lo stimolo si attenuano, senza scomparire, solo quando si dedica ai lavori domestici. Ogni qualvolta tenta di lasciarsi andare su di una poltrona o di notte, quando si mette a letto per riposare, i disturbi si accentuano, costringendola a far la spola tra la poltrona o il letto e il bagno.
Il problema di Iole e divenuto anche un problema familiare: sia il marito che i figli sono esasperati da un continuo affaccendarsi, che, talora, sembra assolutamente privo di senso (caratteristicamente, Iole pulisce sul pulito), e, per conto loro, vivono nel terrore di sporcare e sporcarsi. E’ inutile aggiungere che in casa non si può ricevere nessuno, poiché, solo a sentir parlare di ospiti, Iole è presa da una frenesia che la induce a trascorrere la notte in piedi, a pulire e a lucidare. Non è possibile distrarla in alcun modo, poiché essa giudica inutili perdite di tempo e di denaro l’andare in gita, al ristorante, al cinema o il concedersi una vacanza. Il tempo non basta mai per fare tutto quello che c’è da fare; quanto al denaro, l’unico consumo che Iole ammette è per cose utili, mobili o oggetti di arredo per la casa, capi d’abbigliamento per i figli.
La giustificazione che essa fornisce per questo modo di vivere totalmente sacrificale, è realistica: nonostante un certo benessere, il marito svolge un’ attività autonoma redditizia ma saltuaria, e non ha alcuna copertura previdenziale. Occorre, dunque, pensare solo al futuro: e, dato che il futuro si configura in Iole ingombrato da aspettative catastrofiche, non ci si può concedere alcun abbandono.
Non ci vuole molto a capire perché Iole vive nel dolore. Né è difficile cogliere le suggestive ambivalenze di un sintomo che, nel contempo, la costringe a non riposare e a rilasciarsi. Ma l’ossessione per la pulizia non si può interpretare se non tenendo conto dei dati microstorici.
Prima di quattro figli, Iole cresce nella miseria e nell’abbandono. I suoi stanno fuori dall’alba alla sera per lavorare: e non si fermeranno mai più, neppure raggiunta la sicurezza economica e un’età avanzata. I figli crescono affidati ad una nonna in malandate condizioni di salute. Intorno ai 6-7 anni Iole si sente investita dalle responsabilità di accudire alla nonna e ai fratelli: come può, al ritorno da scuola, fa da mangiare, spiccia casa e lava i panni.
Il ruolo che assume, indispensabile, la affranca dal sentirsi sola e abbandonata. Per i genitori, la vita non è altro che una lotta per la sopravvivenza. Non fanno mistero entrambi di aver messo al mondo i figli per farli lavorare finché non metteranno su famiglia per conto proprio. Sono convinti, anzi, che il trattarli con durezza sia l’unico modo per prepararli ad affrontare la vita così com’è. Essendo la prima, Iole è anche la più duramente investita da questo atroce codice educativo. Del quale non comprende molto, se non che vivere nella miseria, nel disordine, nell’abbandono - così come, nonostante la sua dedizione, vivono lei e i suoi fratelli - è orribile. C’è dignità e orgoglio nel suo accettare la sfida che la vita le ha posto. Non si lamenta mai, neppure quando il padre la sveglia alle quattro del mattino per farle preparare la colazione e perché, prima di andare a scuola, si dia da fare.
Un solo sintomo, l’enuresi notturna, che si protrae sino ai dodici anni, attesta la ribellione inconsapevole di Iole contro un modo di vivere disumano. Ma Iole non è in grado di percepire la rabbia che la anima: si vergogna atrocemente di questa debolezza e, ignara di tutto, comincia ad odiare il suo corpo. Lo odia quando lo sente stremato mentre c’è ancora da fare, lo odia quando si sveglia al mattino nel tanfo dell’urina. Ancor più giunge ad odiarlo quando i dolori mestruali, intensissimi, la immobilizzano a letto, e le fanno vivere drammaticamente l’abbandono in cui essa versa e il suo venir meno agli obblighi nei confronti della casa e dei fratelli. L’odio giunge al culmine quando Iole percepisce che il suo corpo alberga sporchi istinti che tenderebbero ad invalidarla.
Il codice adultomorfo, adottato precocemente, si associa, a questo punto, al codice rupofobico: la necessità di lottare contro la miseria sociale - la scarsa igiene, la sporcizia, il disordine -, resa ancora più drammatica da una condizione di abbandono, impone di lottare contro la miseria morale, la miseria di un corpo che - con le sue debolezze e i suoi istinti - fa incombere la minaccia di una miseria totale, sociale e morale.
A questa minaccia Iole reagisce chiudendosi per anni nel circuito casa, ambiente di lavoro, chiesa. Alla prospettiva del matrimonio si apre solo per il rancore nei confronti dei suoi, che pretendono ch’essa affidi loro tutto il salario. Nei primi anni, la precarietà della situazione economica le permette di continuare a vivere come sempre ha fatto: lavorando come una bestia da soma, senza concedersi nulla. L’obiettivo, sul quale il marito concorda, è il riscatto dalla miseria, il raggiungimento della sicurezza, l’ascesa sociale per sé e soprattutto per i figli. Naturalmente, Iole è frigida, e tollera a mala pena i rapporti coniugali: ma lo stato di guerra permanente, estenuando entrambi, fa sì che questo problema si ponga appena. Quando il benessere è raggiunto e i figli sono grandicelli, viene meno la giustificazione oggettiva di un modo di vivere completamente sacrificale: è a questo punto che Iole scopre di non poter lasciarsi andare, di dover continuare a lottare contro una miseria che non c’è più - ma il cui venir meno mette in luce i vissuti di precarietà e di abbandono - e contro una miseria, quella degli istinti, che essa non riconosce dentro di sé ma che le è riproposta dal marito, che comincia ad avere più pretese e si ritiene in diritto di doversi godere un po’ la vita.
E’ presumibile che un’atroce stanchezza e un vago bisogno di lasciarsi andare pervadano anche Iole: ma, per la pressione congiunta del codice adultomorfo e di quello rupofobico, entrambi si trasformino in minacce catastrofiche. Occorre, dunque, reagire ad esse, senza più motivi apparenti. Imporsi un regime ancora più severo di vita, per impedire che la miseria sociale e quella morale riaffiorino. Nella casa non ci deve essere neppure un granello di polvere né un oggetto fuori posto che evochi il fantasma dell’indigenza e dell’abbandono. Quanto alla miseria morale, Iole affida per anni il suo corpo che minaccia l’incontinenza alle cure dei medici. I quali, infine, non sopportando lo scacco di una sintomatologia che si sottrae alla diagnosi e alla cura, propongono, prendendo spunto da una banale fibromatosi uterina e dalla presenza di una modesta cisti ovarica, un intervento chirurgico radicale, promettendo la guarigione. Jole, a 36 anni, non oppone alcuna difficoltà. Ma - è inutile dirlo - il sacrificio dell’utero e delle ovaie non modifica il suo dolore né incide in alcun modo sull’ incessante desiderio di liberarsi di un peso.
Giuseppe nasce da uno strano connubio di classi sociali e di mentalità, il cui conflitto segnerà fortemente la strutturazione della sua personalità.
Entrambi originari di un paesino limitrofo a Roma, i genitori cercano nel matrimonio la fuga da un destino di solitudine diversamente motivato. Figlia unica di una famiglia di commercianti, che, facendo fortuna dal nulla, si è imborghesita, la madre ha ricevuto una buona educazione: la cultura, i modi raffinati e un certo sussiego hanno finito, però, con l’isolarla rispetto all’ambiente paesano.
Il padre è un giovane di bell’aspetto, di origini contadine, che, in virtù di un rozzo credo politico vagamente anarcoide, ha rifiutato di integrarsi: vive solo, nel casolare avito ormai fatiscente, coltivando e vendendo fiori, in rotta con i paesani e i familiari che lo considerano strambo. Il matrimonio, praticamente, è combinato. La convivenza risulta subito difficile: nonostante l’offerta di un appartamento di proprietà dei suoceri, il marito insiste nel voler risiedere nel casolare. La madre di Giuseppe ha difficoltà ad adattarsi alla vita di campagna, al tempo delle bestie e ai modi del marito che usa un linguaggio colorito, mangia senza etichetta alcuna a crepapelle ed è sessualmente piuttosto esuberante. Dopo la nascita del figlio il conflitto di mentalità si esaspera progressivamente. La madre tende ad essere iperprotettiva, scrupolosa nell’alimentazione e ossessiva per la pulizia. Il padre non vuole che Giuseppe venga su come un signorino: non appena comincia a camminare, lo porta con sé in campagna, lo lascia giocare con la terra e gli animali e lo ingozza di salumi.
La madre comincia ad esaurirsi: per evitare il peggio, quando Giuseppe ha tre anni, va via con lui dal paese, e fissa a Roma la sua dimora. Per l’epoca, si tratta di un reato. Il conflitto privato tra i genitori diventa un conflitto giudiziario, che si trascina per alcuni anni. Nell’attesa del giudizio, Giuseppe vive, con la madre e i nonni, come un sequestrato, per il timore di una rappresaglia paterna. Si tenta di recuperare il tempo perduto imponendogli un codice comportamentale di buona maniera piuttosto rigido. La madre è terrorizzata dall’idea che nel figlio possano affiorare delle tendenze ereditate dal padre: il terrore, ovviamente, la induce a prevenirle e a correggere di continuo Giuseppe. Oltre a ciò, c’è anche il peso di una responsabilità enorme, vissuta con ansia: Giuseppe è stato separato dal padre perché, crescendo, non facesse una brutta fine.
Ma come scongiurare questo fantasma se non imponendogli precocemente una sorta di ipernormalità? A 8 anni, l’impresa sembra compiuta: Giuseppe è pulito (nel senso che ci tiene), ordinato, scrupoloso, misurato nelle parole e nei gesti, studioso e ossequioso. Un bambino che suscita l’ammirazione degli adulti e la diffidenza dei coetanei.
Ma a Giuseppe i contatti con questi sembrano interessare ben poco: egli si sente diverso e superiore. In effetti, il suo mondo interiore, alimentato da una sensibilità e da un’intelligenza fuori della norma, ha degli aspetti singolari.
Giuseppe, che legge avidamente tutto quello che gli capita sottomano, intesse singolari fantasie cosmologiche, incentrate su un universo di esseri spirituali regolato da un’armonia suprema. Il mondo in alto, lo definisce, chiuso e inaccessibile rispetto al mondo in basso, che è quello terreno. C’è un solo problema irrisolto: Giuseppe mangia con un’avidità paurosa e irrefrenabile, e ingrassa di continuo. Benché sconvolta da questo comportamento, la madre non se la sente di frustrarlo.
Il conflitto giudiziario si compone: Giuseppe rimane affidato alla madre ma al padre viene riconosciuto il diritto di tenerlo con sé il fine settimana. Il pendolarismo riaccende il conflitto educativo: Giuseppe si ritrova a vivere sotto il fuoco incrociato di due culture radicalmente in opposizione. A Roma egli vive come un bambino ipercivilizzato, il padre lo sollecita a profittare della libertà che gli concede: lo inforza di ogni ben di dio , lo spinge a scorrazzare per i campi e a sporcarsi, gli insegna le parolacce, dissacra le sue credenze religiose facendogli balenare un modo di vivere incentrato sui piaceri terreni. E’ un rozzo comunista, ma ha buon gioco nell’aiutare il figlio a capire che i valori trasmessi dalla famiglia materna sono falsi, riducendosi essi alla paura degli occhi della gente e alla difesa egoistica della roba.
Provato da questa doppia vita, Giuseppe comincia ad avere dei dubbi su come si debba essere. E’ solo l’adolescenza che gli fornisce una chiave ideologica, che lo pone al riparo dalle manipolazioni parentali. Le categorie ch’egli adotta sono religiose: alla luce di esse, il padre si configura come il rappresentante di una istintualità animalesca e priva di controllo; la madre come una piccolo-borghese, ammantata di buoni principi, ma, di fatto, dedita solo alla cura dei suoi interessi e dei beni terreni.
Per trascendere questi modelli, Giuseppe si orienta verso il rifiuto radicale di tutto ciò che è materiale, e si propone di vivere coltivando elevati valori morali, intellettuali e spirituali. Questo progetto non sorprende: lo spazio interiore, la mente è l’unico ambito in cui Giuseppe ha sperimentato la sua potenza e la sua libertà, l’unico spazio di individuazione. Avendo vissuto il corpo come oggetto di appropriazione - la sentenza di affidamento alla madre insisteva sulle capacità di questa di assicurargli le ne cessarie cure fisiche - e il cuore come spazio di contesa tra opposti egoismi, egli progetta di affrancarsene, identificandosi con la sua mente.
Questa scissione tra il corpo, con i suoi istinti e i suoi bisogni di cure; il cuore, con i suoi affetti che intrappolano ed espongono alla manipolazione; e la mente, l’anima, lo spirito che sono in grado di trascendere entrambi e di permettere l’accesso al regno della libertà, è gravida di significati. Operandole, Giuseppe si aliena, con il corpo e con il cuore, rispetto alla sua esperienza microstorica: nella misura in cui privilegia il bisogno di individuazione, egli si astrae.
L’ideologia alla quale perviene vede il bambino e l’adulto, il corpo e la mente, gli istinti e lo spirito, gli altri e l’io in opposizione radicale. Il codice adultomorfo è rafforzato da quello rupofobico, che postula la necessità di trascendere tutto ciò che è basso, volgare, materiale, istintuale, sporco. Per sciogliersi dai lacci della carne e del cuore, che minacciano una perpetua regressione, Giuseppe deve tendere all’assoluto: libertà, isolamento, solitudine finiscono, da questo drammatico punto di vista, con il coincidere.
La realizzazione di questo progetto è segnata da tre momenti di destrutturazione-ristrutturazione, che gravitano verso un impossibile equilibrio. Il primo momento è critico e coincide con un episodio delirante. In viaggio da solo verso il paese del padre, dove è programmata una riunione di famiglia mirante alla ricomposizione della coppia genitoriale, Giuseppe, che ha 16 anni, comincia a sentire che gli altri proferiscono nei suoi confronti oscure minacce di morte, alludendo ad una condanna che va eseguita. Anziché sfumare, il delirio fiorisce in famiglia: Giuseppe è certo che i suoi hanno deciso di eliminarlo e che la madre lo avvelenerà. Rifiuta per tre giorni il cibo e ogni comunicazione. Solo quando il progetto di ricomposizione della coppia viene accantonato, Giuseppe recupera l’equilibrio. L’episodio, però, ha fatto affiorare un vissuto persecutorio riferito alla madre che egli ignorava.
Il secondo momento, che si inaugura dopo qualche mese, è una conseguenza di questo vissuto, e rappresenta un ulteriore passo verso la risoluzione dei legami di dipendenza. Giungendo repentinamente all’ipercontrollo della fame, Giuseppe diventa anoressico, e si riduce a pesare 36 kg. Uno scheletro (tra l’altro, è molto alto), con una mente vivacissima, che, quando non si dedica agli studi, rivolge tutte le sue attenzioni al computo delle calorie. Benché sfiori più volte il rischio del collasso, Giuseppe è letteralmente inebriato dalla capacità di tenere sotto controllo gli istinti. Le minacce mediche, incentrate sui danni irreversibili che il corpo potrebbe subire in una fase evolutiva, lo lasciano del tutto indifferente.
Giuseppe contrappone ad esse una fede inattaccabile: il corpo - afferma con assoluta serietà - è, come sostenevano gli antichi, la cella dello spirito. Se esso muore, l’anima si libera.
Dopo due anni, l’anoressia si risolve. Giuseppe legge su di una rivista che difetti alimentari possono comportare danni al cervello. La paura di rimanere vivo ma mentalmente handicappato, e di precipitare dunque in una dipendenza irreversibile, ha un effetto terapeutico critico. L’anoressia scompare, ma, al suo posto, lentamente, subentra una nevrosi ossessivo-fobica incentrata sulla paura del contatto con lo sporco. La categoria dello sporco è riferita immediatamente ai contatti umani: Giuseppe non esce quasi più di casa per la paura di essere sfiorato dalle persone, e di poter toccare cose (per esempio la maniglia di sostegno sugli autobus) che hanno toccato gli altri. Abbigliandosi in maniera particolare e indossando dei guanti, la paura si riduce.
Ma c’è un contatto inesorabile: uscendo, bisogna pur camminare. Il pensiero di toccare, sia pure indirettamente, la terra è intollerabile. Ma l’isolamento non basta. Rimane il problema di dover rimanere attaccati al corpo, alla carne, a questa materia resa ancora più degradante dagli istinti che la animano. Occorre sterilizzarla. La vita di Giuseppe diventa un interminabile rituale di purificazione: quando non è immerso nello studio, egli trascorre ore e ore a strofinare la pelle con l’alcool (lo spirito, appunto). Non sa di essersi votato ad un compito impossibile: ciò che egli intende rinnovare sono gli istinti bestiali, ciò che, di fatto, urge dentro di lui, e lo estenua, sono i suoi bisogni di contatto con il mondo. Nel tentativo di trascendere questi, che nella sua esperienza si sono identificati con ciò che è basso e volgare, egli deve investire le sue qualità in un progetto disumanante.
Come risulta evidente, il codice rupofobico è una specificazione del codice adultomorfo: esso cioè in tanto esiste in quanto esiste questo. Ciò che ha di specifico consiste nell’incrementare la scissione tra ciò che è basso e ciò che è alto in virtù di un’ulteriore degradazione del primo elemento, che viene omologato alla bestialità. Questo incremento si traduce in una repulsione, che comporta un atteggiamento di allontanamento e di distanziamento ancora più marcato rispetto al codice adultomorfo.
3. Libertà/costrizione. Il codice claustrofobico
L’aspetto più inquietante del codice adultomorfo è che, pur originandosi da una visione della realtà umana che comporta un tentativo di eliminazione di alcune parti di essa ritenute meramente negative, ideologicamente esso si maschera di valori autentici e sembra offrire una risposta a bisogni radicali.
I valori, come si è accennato, sono diversi, ma si aggregano tutti intorno alla libertà, l’indipendenza, l’autonomia. Il fantasma del bambino è, a livello immaginario, omologabile alla figura dello schiavo; in opposizione ad esso, l’uomo libero non può definirsi che come padrone di sé stesso e del suo destino. L’evoluzione dal bambino all’adulto, dal regno della necessità al regno della libertà, non viene concepita come una diversa configurazione dello stesso bisogno sociale, che definisce la schiavitù del bambino e, quando giunge a realizzarsi in virtù di scelte personali, la libertà dell’adulto, bensì come un superamento definitivo dei bisogni di cura, di protezione e di legame infantili in nome di bisogni adulti - l’indipendenza, la libertà, l’autonomia - il cui fattore univoco è la capacità dell’individuo di far da sé.
In questo mito ideologico, traspare ancora, in maniera esasperata, un bisogno autentico, il bisogno di individuazione: ma traspare in forma alienata, come attributo individuale scisso dalla microstoria sociale e in opposizione al bisogno di socialità, che assume delle valenze persecutorie, poiché il suo riconoscimento, restituendo al soggetto il bisogno dell’altro come bisogno radicale, fa crollare quel mito o lo rende irrealizzabile.
Autentico valore in sé e per sé, la libertà diventa vuota ideologia quando, anziché essere coltivata in opposizione ad ogni forma di costrizione e di oppressione dall’esterno, essa giunge a sentirsi minacciata dai bisogni di integrazione sociale, il cui carattere costrittivo è, in sé e per sé, naturale, poiché il loro misconoscimento, la negazione o la repressione promuovono non già l’identità individuale, ma l’angoscia della solitudine e dell’esclusione.
Il bisogno di integrazione sociale è, dunque, un bisogno naturalmente costrittivo: ma, nella misura in cui le risposte ambientali giungono a farlo percepire come una minaccia - di sofferenza o di manipolazione, esso, pur persistendo, può diventare persecutorio, e promuovere tutta una serie di strategie miranti a liberarsi di esso.
Tutto l’universo psicopatologico, come si è avuto occasione più volte di affermare, si incentra sul conflitto adialettico tra libertà individuale e legge. Ma, quali che siano le circostanze ambientali che lo hanno prodotto (ed è inutile insistere sul fatto che esse sono sempre ricostruibili) l’insolvibilità del conflitto si fonda sull’alienazione dei bisogni che lo anima, il bisogno di individuazione essendo giunto a configurarsi come bisogno anarchico di una libertà affrancata da ogni legame significativo, e il bisogno di integrazione sociale come una necessità esterna identificata o in rapporti interpersonali di potere o in norme, regole, valori privi di significato per l’individuo.
Alla luce di quest’alienazione, la libertà viene a porsi solo come negativa, come capacità di affrancarsi o di far a meno dei legami, e mai come capacità di vincolarsi significativamente; e il bisogno di integrazione sociale come costrizione, oppressione, mortificazione dall ‘esterno.
Esploreremo con cura le varie modalità in cui si manifesta, nelle esperienze di disagio psichico, questa alienazione dei bisogni fondamentali. E’ inutile anticipare che essa fa sempre capo ad interazioni con l’ambiente avvenute nel corso del processo di socializzazione. Non è affatto inutile, invece, insistere che, a questo, come ad ogni altro livello di discorso sulla genesi del disagio psichico, il piano puramente psicologico - soggettivo, intersoggettivo, relazionale - se basta a comprendere i presupposti da cui muove un’esperienza psicopatologica, non basta a comprenderne l’attualizzazione né la struttura.
Il precipitarsi di un’esperienza in un vicolo cieco psicopatologico è imprescindibile da una progettualità che, nell’ imbocco di quel vicolo, vede la soluzione dei problemi residuati all’esperienza microstorica. Dobbiamo ammettere dunque che, nonché una determinazione causale, l’esperienza di disagio psichico si strutturi in virtù di un miraggio ideologico.
E’ agevole definire, da questo punto di vista, il codice in questione: esso postula la possibilità di liberarsi da costrizioni naturali, dalla schiavitù dei bisogni di integrazione sociale, vissuta come una minaccia alla libertà individuale, in nome di una individuazione che va perseguita sino all’autosufficienza. Condizione, questa, ritenuta preliminare, perché l’individuo possa aprirsi alla relazione con gli altri senza incorrere nel pericolo della dipendenza.
La logica di questo codice vede nell’individualità la condizione sine qua non della libertà, e di una socialità perseguita a partire da una posizione di forza: supplementare e complementare, dunque, rispetto alla personalità, che ha il centro di gravità dentro di se.
La matrice storica di questo codice, e il suo significato funzionale all’interno del sistema sociale occidentale, sono ricostruibili con precisione, fermo restando che, per limiti di competenza, il nostro discorso non può essere che approssimativo.
Libertà umana e dignità dell’individuo sono le due facce di una stessa medaglia, coniata con l’avvento della borghesia e con l’avvio della civiltà industriale. Medaglia - letteralmente - ipocrita poiché la sua patina dorata, che sembra veicolare valori autentici, nasconde un’ideologia grezza: la libertà in questione, infatti, è riferita non alla natura umana, bensì alle esigenze di un sistema produttivo che, affrancato da vincoli anacronistici e parassitari, e usufruendo dunque di un libero mercato, può mirare a svilupparsi, facendosi carico, in nome degli interessi immediati dei ceti dominanti, del sogno secolare dell’umanità di affrancarsi dal bisogno inteso come miseria.
La dignità umana, affermata di diritto, viene negata di fatto, poiché la maggioranza degli uomini, per partecipare alla costruzione dell’utopia, deve entrare nel sistema industriale, secondo leggi che si pretende siano imposte dalla realtà.
La degradazione umana e sociale che segna, nel corso dell’ ‘800, lo sviluppo industriale è stata analizzata da Marx con una profondità che richiede una lettura diretta. Ciò che a noi interessa più da vicino sono i presupposti antropologici che sottendono quello sviluppo, e che Marx ha identificato nel l’assunzione dell’individuo autonomo e padrone del suo destino come ente che preesiste alla società, sicché questa si riduce ad essere null’altro che una somma di individui, costretti a competere e ad interagire, ciascuno proseguendo ciecamente il fine della soddisfazione dei propri bisogni personali.
Alla luce di questi presupposti, la libertà e la dignità individuali non servono ad altro che ad allentare e a rendere persecutori i legami comunitari e sociali, e ad avviare un processo di universale individuazione fondato sul principio della lotta per la sopravvivenza e per la felicità personale.
In altri termini, fin dalle origini della civiltà industriale, la libertà individuale viene a porsi in opposizione con la socialità. La tensione che ne risulta, e che fa dell’altro un potenziale nemico, viene attenuata solo da regole che formalizzano i rapporti, svuotandoli di significato - la regola aurea, da questo punto di vista, è quella in virtù della quale il confine della libertà individuale è seguito dal rispetto della libertà dell’altro - e della definizione di uno spazio privato familiare all’interno del quale l’altro viene riconosciuto come oggetto d’amore.
Questa scissione dell’universo sociale in due ambiti, l’uno - quello pubblico - sostanzialmente persecutorio e sottoposto a rigide regole formali, l’altro - il privato familiare - aperto all’espressione dei bisogni di socialità in termini di investimenti affettivi, non poteva reggere all’infinito alla spinta di un processo sociale e culturale di individuazione, il cui intento originario era di rendere l’uomo schiavo del bisogno di cose - produttore e consumatore - per indurlo a partecipare all’utopia di uno sviluppo il cui obiettivo era - e rimane - l’affrancamento da quel bisogno.
Quel processo postula infatti, un progressivo allentamento e svuotamento dei legami sociali significativi, necessario e funzionale al fine di sostituire il bisogno radicale di socialità, dell’altro, con il bisogno di cose. Di questo processo, si possono definire alcuni momenti di fondamentale importanza ai fini del nostro discorso: l’urbanizzazione, la nuclearizzazione della famiglia, l’estraneazione dell’uomo dagli impegni familiari in conseguenza di un totale assorbimento nella produzione economica, la frustrazione delle casalinghe e l’inserimento della donna nel mondo del lavoro extradomestico, la sempre più precoce istituzionalizzazione - a tempo pieno - dei bambini.
Ognuno di questi momenti - attivati dall’utopia della libertà dal bisogno e dall’indipendenza - ha avuto e continua ad avere i suoi riflessi devastanti proprio in quello spazio - il privato familiare - che, nel progetto originario, doveva rimanere libero da conflitti: unico spazio disponibile per investimenti affettivi, dacché la socialità pubblica si è definita come persecutoria. Tutti quei momenti corrispondono a bisogni reali di libertà e di indipendenza, che, però, anziché tradursi in una riorganizzazione della vita sociale e familiare a misura dei bisogni umani, vengono ad essere falsati dal bisogno onnivoro di disporre del proprio tempo a fini produttivi. Ciò che la società sembra essersi dimenticato letteralmente è che, oltre ai beni materiali, anche gli uomini si producono: e che il processo di produzione di un uomo libero - sia esso affidato alla famiglia, alle istituzioni pedagogiche o sociali - richiede un tempo infinito, apparentemente improduttivo.
Rifiutati come bisogni radicalmente umani, come bisogni di socialità significativa, i bisogni di dipendenza sono venuti a ricadere sull’infanzia, che li veicola drammaticamente, dando luogo ad un rifiuto di cui non siamo ancora in grado di cogliere l’entità. L’indice di questo rifiuto è il calo della natalità, fenomeno che investe tutti i paesi occidentali, e il cui significato, come spia di un mondo che si va organizzando su un modello adultomorfo, è difficile sottovalutare.
Ma il problema dei bisogni di dipendenza infantili - vissuti come una minaccia alla libertà degli adulti e come una minaccia alla possibilità dei bambini di diventare indipendenti - investe ovviamente coloro che sono nati. I quali si trovano esposti ad una situazione paradossale: in conseguenza di una percezione persecutoria dei bisogni di dipendenza che essi veicolano, la loro individuazione viene perseguita secondo due modelli estremi, tra cui si pone un continuum.
Il primo modello pedagogico comporta l’accelerazione dei ritmi di sviluppo in nome di modelli normativi che vedono nel bambino indipendente e capace di far da sé una sorta di prefigurazione del futuro uomo indipendente; il secondo modello, all’opposto, postula che lo sviluppo possa avvenire solo in virtù di una soddisfazione così ampia dei bisogni di dipendenza che essi possano estinguersi per sazietà, dando luogo magicamente all’avvento dell’individuo maturo e padrone di sé.
Questi modelli, accomunati dalla percezione persecutoria dei bisogni infantili come bisogni che devono morire perché nasca l’individuo autonomo, circolano sotterraneamente nella nostra società, fanno parte di un quadro mentale che postula un salto qualitativo dal bambino all’adulto. Ma essi non sono adottati casualmente: il più spesso, coincidono con l’organizzazione della famiglia e con la disponibilità di tempo degli adulti. In ogni caso, essi producono un effetto univoco: i bisogni di dipendenza infantili, siano essi frustrati o manipolati, danno luogo ad un vissuto persecutorio, per cui nel corso della crescita i soggetti sono sollecitati a liberarsene, o per non soffrire più o per affermare la propria individualità.
L’alienazione dei bisogni di socialità, costitutiva della società occidentale, filtra così nei processi di produzione degli uomini, e ne orienta alcuni a perseguire astrattamente la propria libertà individuale in opposizione ai legami significativi. Da questo punto di vista, il disagio psichico è la punta di un iceberg, il cui corpo è rappresentato da un codice mentale che vede nei bisogni sociali, identificati come bisogni di dipendenza, costrizioni da cui affrancarsi per diventare liberi. In virtù di un paradosso che ormai è noto, sono proprio coloro che, in conseguenza dell’esperienza evolutiva, veicolano quei bisogni in forma intensa, ad essere sollecitati, piuttosto che a farsene carico e a soddisfarli, a liberarsene. L’esito univoco di questo inganno ideologico è di finire in un vicolo cieco psicopatologico, del quale dovremo considerare ora gli effetti molteplici secondo un gradiente segnato dal radicalismo del progetto liberatorio.
Partiremo, dunque, dalla superficie, e cioè da esperienze nelle quali il bisogno di socialità si aliena secondo forme che appaiono abbastanza normali, coincidendo esse con forme proprie della società, e procederemo in profondità, analizzando esperienze nelle quali l’alienazione, pur essendo promossa dalle stesse forme, sembra giungere a negarle.
L’alienazione del bisogno di socialità in bisogno di consumo, e quindi immediatamente di denaro o di prodotti, è un tema sul quale la critica sociologica ha insistito da molto tempo. L’espressione contemporanea più drammatica di questa alienazione è la tossicodipendenza, che va interpretata però come un continuum di un’esperienza che muove dall’alcool e passa attraverso gli analgesici, i tranquillanti e le droghe leggere. Dato che in questi casi la libertà dal bisogno dell’altro si pone come libertà dal dolore interiore, ci si soffermerà su di essi ulteriormente.
Ci interesseremo, qui, pertanto, di esperienze più sfumate, ma non meno significative.
Cristina ha 33 anni, lavora come funzionaria presso un ente parastatale, e sposata ed ha un figlio di 6 anni. Da due anni, lamenta delle crisi di angoscia repentine caratterizzate da un malore che la blocca a letto in uno stato d’inerzia completa associato alla paura di morire. L’insorgenza delle crisi è avvenuta in rapporto ad una circostanza specifica: la donna che, da anni, accudiva la casa, preparava il pranzo e si dedicava al bambino, si è licenziata. Per alcuni giorni, dopo il licenziamento, Cristina si è sentita liberata da un peso: in conseguenza di una lunga familiarità, quella donna infatti spadroneggiava. Poi, sono insorte le crisi, che hanno alterato gli equilibri familiari.
Il marito di Cristina è un uomo pieno di impegni lavorativi, culturali e politici: le crisi della moglie lo hanno letteralmente risucchiato. Solo quando egli è in casa, Cristina non ha paura di star male, poiché sa che, in ogni caso, c’è chi pensa al bambino. La costrizione che impone al marito, insomma, rende libera Cristina. Ma c’è di più: dacché sta male, Cristina rifiuta ogni rapporto intimo con il marito, ed ha un atteggiamento assolutamente intollerante nei confronti del bambino. Si giudica una cattiva moglie ed una pessima madre.
Ma i veri problemi stanno altrove. Cristina, educata - è inutile dirlo - secondo la più rigida tradizione in una famiglia numerosa e disagiata economicamente, che non poteva menare altro vanto che l’onore delle figlie, ha sempre avvertito un bisogno che essa definisce nevrotico di libertà: il giudizio sottolinea un’esigenza fine a se stessa. Cristina non tollera alcuna costrizione, ma, nel contempo, non utilizza in alcun modo la libertà. Non frequenta né amici né amiche, non ha interessi al di là della famiglia e del lavoro, è tremendamente timida, arrossisce per un nonnulla e rifugge da ogni occasione di interazione sociale. Questa rigidità, che la vincola allo spazio familiare, è riferita da Cristina alla paura di sbandare, di innammorarsi di qualcuno e di venir meno all’obbligo della fedeltà.
L’ipercontrollo morale cede solo in una direzione: ogni giorno, dacché lavora, Cristina deve uscire dall’ufficio e andare in giro per i negozi per regalarsi qualcosa. Acquista spesso merci di cui non sa che fare: ma, nonostante un costante autorimprovero per queste spese pazze che assorbono la metà dello stipendio, non può trattenersi. E’ l’atto dell’acquisto che la fa felice, non ciò che acquista. Il possesso, ovviamente, le è del tutto indifferente. Dacché sta male, questo bisogno si è incrementato paurosamente. Nonché cattiva moglie e pessima madre, Cristina si giudica radicalmente egoista: tutto il suo guadagno, infatti, è sperperato per soddisfare i suoi bisogni. Cristina interpreta questo comportamento - che definisce una droga - riferendolo alla condizione di disagio socioeconomico vissuto nella famiglia originaria. C’e ovviamente del vero.
Ma, nella trama della sua esperienza, incide ancora di più una miseria educativa, che, per difendere il suo onore, l’ha praticamente isolata dal mondo, inducendola a precipitarsi nel matrimonio. In questo, nonostante l’atteggiamento aperto del marito, Cristina ha continuato a coltivare quel valore, reprimendo del tutto il suo bisogno di socialità: nevroticamente libera per un verso, e cioè incapace di accettare e vivere le costrizioni dei suoi ruoli, essa, per un altro, è rimasta schiava della paura di aprirsi ad un contatto significativo con il mondo, vedendo in esso la possibilità di una perdita di controllo sentimentale e sessuale. Quel bisogno, alienato, si è tradotto in un rifiuto dei legami familiari e in una mercificazione del rapporto con il mondo. Nonché un insieme di possibilità relazionali, per Cristina, il mondo è null’altro che un mercato: e la gioia dell’acquisto, nella sua fatuità, tenta di esaurire vanamente il bisogno di un libero scambio.
Ad un livello ancora di superficie, il bisogno di socialità può alienarsi nella sicurezza economica, nella proprietà, nel lavoro, nel denaro: strumenti tutti in cui l’individuo può individuare la liberazione da quel bisogno, inteso come minaccia legata ad una condizione di miseria. In questo caso, è la confusione tra la condizione sociale e precarietà della condizione umana a precipitare inaspettatamente nella sofferenza.
A 42 anni, Lorenzo sembra aver realizzato le sue aspirazioni borghesi: è un alto funzionario di banca, ha una casa prestigiosa, una moglie efficiente e due figli senza problemi. Ha conseguito da poco una laurea in legge, e progetta, raggiunto il minimo di pensione, di dedicarsi ad una libera attività professionale. A ciò Lorenzo è pervenuto anche in virtù della minaccia di frustrazioni antiche.
La sua famiglia originaria era disagiata, e Lorenzo ha conosciuto la fame. Ha dimenticato un vissuto cronico di abbandono, dovuto al fatto che i suoi reagivano al disagio in una maniera singolare: spendendo per sé il poco che guadagnavano, indifferenti ai bisogni dei figli. Essi facevano parte di un gruppo associativo molto diffuso come istituzione a livello popolare, fino agli anni ‘60: un gruppo spontaneo di amici che versavano ciascuno una quota mensile, che veniva amministrata da un cassiere per organizzare modeste feste, uscite fuori porta, balli, ecc. Il gruppo si incontrava praticamente ogni sera in una modesta trattoria, ove si passava il tempo a chiacchierare, consumando bruschette, supplì e vino.
Lorenzo ha pagato la socialità dei suoi in termini di solitudine e di dolore, ripiegandosi nello studio e alimentando, nel corso degli anni, un progetto incentrato su valori opposti rispetto a quelli dei suoi: il lavoro, la famiglia, la sicurezza economica, l’avvenire dei figli.
Ciò che egli non ha considerato è il carattere di estraneazione rispetto non solo alla socialità ma anche agli affetti che ha assunto il lavoro. Vissuto come strumento di liberazione dal bisogno, esso ha finito per assumere il significato di una droga.
In realtà, al di là della sicurezza economica, nel lavoro Lorenzo soddisfa i suoi bisogni profondi di essere apprezzato: ma, rivolgendosi questi bisogni ai superiori, egli ha assunto, agli occhi dei dipendenti, la fama di essere un tedesco. La responsabilità del ruolo che ricopre è, del resto, tale che egli non può permettersi di sbagliare: un errore significherebbe, infatti, la catastrofe personale. Nonché strumento di liberazione, il lavoro è dunque una trappola, che comporta un dispendio di energie tali da azzerare ogni altro investimento relazionale, sia familiare che extrafamiliare.
La crisi insorge quando Lorenzo scopre che la sua dedizione al lavoro lo ha reso un estraneo in famiglia. I segni premonitori della crisi sono onirici. In un sogno Lorenzo si vede nel salotto di casa, solo, in poltrona, fasciato dal calore del camino acceso: ma, poco dopo, avverte strani fruscii nel muro tappezzato di stoffe. Appoggia l’orecchio e intuisce che, nell’intercapedine, scorre dell’acqua: il muro è, dunque, marcio e prossimo al crollo. In un altro sogno, si trova su di una macchina che, pur procedendo su di un ponte rettilineo, tende a sbandare sotto le sue mani e a dirigersi verso il precipizio.
La crisi affiora quando la moglie gli comunica di non provare più nulla per lui, e, quasi aprendo gli occhi, scopre che i figli lo vivono come “colui che porta i soldi a casa”. Lorenzo precipita nella disperazione di essere solo al mondo. Repentinamente, è preda di paure ipocondriache, che lo assoggettano ad infinite consultazioni mediche. Subisce un intervento per una minuscola cisti tiroidea, ritenuta da un chirurgo causa di tutti i suoi mali. Ovviamente, i disturbi persistono e danno man mano luogo ad una depressione sempre più profonda.
Paradossalmente, mentre la depressione rende Lorenzo sempre più estraneo alla vita familiare, il suo rendimento lavorativo rimane immutato. Il fatto è che, in Lorenzo, il lavoro è giunto ad assorbire tutti i suoi bisogni di socialità. Quasi folgorato da una repentina intuizione, egli giunge a pensare che ciò che gli manca non è la sicurezza economica, ma un rapporto significativo con gli altri. Questa intuizione ricade però in una forma ideologica: quella dell’amore duale.
Lorenzo avvia una relazione con una collega d’ufficio, e giunge a progettare l’abbandono della famiglia e del lavoro, e un cambiamento radicale di vita. Ma, nel periodo in cui è vicino a prendere decisioni di somma importanza, i disturbi psicosomatici aumentano a tal punto da indurlo ad una precipitosa marcia indietro. Lorenzo prosegue a lavorare come un automa e a trascorrere il tempo libero inerte nel salotto della villa. La sicurezza raggiunta, meramente materiale, che lo ha isolato dagli affetti familiari ed estraniato rispetto ad ogni forma di socialità significativa - eccezion fatta per i rapporti gratificanti con i superiori - è ormai una gabbia, un bozzolo soffocante entro il quale i bisogni di socialità di Lorenzo soffocano, affiorando solo sotto forma di sintomi ipocondriaci, dai quali egli vorrebbe essere liberato.
A un livello ancora di superficie, l’alienazione del bisogno di integrazione sociale può esprimersi, nella trama di esperienze giovanili, in virtù di una dedizione totale allo studio, vissuto, o per senso del dovere o per ambizione, come strumento univoco di un futuro inserimento sociale, che richiede, di fatto, la sospensione o il rimando di ogni pratica sociale. Gran parte dei disagi che insorgono caratteristicamente nel passaggio dalle scuole ordinarie - che permettono di mantenere sotto controllo la pressione dei bisogni sociali vuoi per l’impegno quotidiano vuoi per la gratificazione di un ruolo fisso microsocietario (quello di primo della classe) - all’università o dagli insabbiamenti che avvengono nei primi anni di studi universitari, sono riconducibili ad una distorsione del significato dello studio.
Abbiamo analizzato già l’esperienza di Rita. Nel materiale precedentemente elaborato, numerose esperienze, e in particolare quella di Paolo, potrebbero essere rilette da questo nuovo punto di vista.
Ne riportiamo una nuova, la cui trasparenza è rilevante. Enza è la terza figlia di un medico condotto, che, pur avendo accumulato una vera fortuna, è rimasto gravato di una sorda (e ricorrente, per la categoria...) frustrazione, riferita a originarie ambizioni di carriera universitaria.
Nel piccolo centro in cui risiede, la famiglia di Enza è una delle famiglie in luce: e ciò basta a giustificare l’ansia dei genitori per un comportamento socialmente conveniente della figlia, che ha indotto un certo isolamento ambientale. Enza, da questo punto di vista, non ha dato mai problemi: ha studiato sempre con un rendimento eccellente, ma non ha mai manifestato irrequietezze, né espresso bisogni inopportuni di socialità. Anzi, nelle poche occasioni che le si sono offerte, ha manifestato una verginale timidezza e una manifesta ritrosia nei confronti dei ragazzi.
Il suo progetto di vita è estremamente impegnativo: Enza intende laurearsi, dopo il liceo, in lettere antiche e dedicarsi alla carriera universitaria. All’inizio dell’ultimo anno di liceo, i genitori cominciano a nutrire qualche preoccupazione per il modo di vivere della figlia troppo chiusa: ma la preoccupazione riguarda solo le capacità di Enza di andare a vivere da sola nella città già prescelta per gli studi universitari.
Questa preoccupazione si avvera con anticipo. Un giorno, mentre è a scuola, e segue con attenzione la lezione di greco (l’insegnante di lettere è, ovviamente, il suo modello ..), Enza avverte violenti dolori addominali che si associano alla paura di un’incontenibile scarica intestinale. La crisi di angoscia somatizzata esita in un malore.
La vita di Enza cambia radicalmente: rifiuta di andare a scuola per il terrore di sporcarsi con le feci e di star male agli occhi degli altri. Costretta contro la sua volontà dai genitori, che pensano trattarsi di un capriccio, scopre che la paura si attiva in occasione della lezione di lettere. Un periodo di riposo a casa non vale a nulla. Enza, anzi, scopre che i disturbi insorgono ogni qualvolta pone mano ai libri. Comincia a trascorrere il tempo sfogliando riviste femminili, che non ha mai letto e ascoltando musica leggera. Cerca di distrarsi uscendo con una compagnia di amici della sorella, che non ha mai frequentato: ma scopre che il contatto con i ragazzi suscita in lei un vergognoso turbamento, che si traduce in angoscia. Si blocca in casa, e regredisce paurosamente, pencolando tutto il giorno tra la camera da letto e il divano del salotto.
Estremamente dotata sotto un profilo introspettivo, Enza sa qual’e il problema: un blocco relazionale, soprattutto sotto il profilo sentimentale, che essa vive come un ostacolo insormontabile. Alla luce di questa consapevolezza, il progetto di vita elaborato in precedenza risulta svuotato di significato. Che senso avrebbe destinarsi a vivere come una talpa, accecarsi sui libri - come è accaduto alla sua professoressa - e diventare come lei: un essere sensibile che si commuove quando legge i lirici greci, ma che, nei rapporti umani, appare rigida, fredda e anafettiva?
L’alternativa sarebbe quella di abbandonarsi ai sentimenti, di vivere e di amare. Ma questo Enza non può farlo, poiché, per anni, ha vissuto i bisogni affettivi alla luce di un’insormontabile vergogna, e si è costruita differenziandosi dalle coetanee, come un essere autonomo, padrone di sé, indifferente alle leggerezze e agli svaghi. In rapporto a questo modello, l’affiorare dei bisogni radicali di integrazione sociale, nella forma propria della giovinezza, che è quella dell’amore, è vissuto come una minaccia di perdere la dignità e di apparire come non vorrebbe essere: bisognosa dell’altro.
Paradossalmente, la forma più normale di alienazione del bisogno di socialità è, pero, il porsi di questo bisogno nei termini di una relazione duale d’amore vissuta in termini totalizzanti. Il discorso, a questo livello, diventa complesso, poiché si tratta di comprendere il paradosso in virtù del quale quel bisogno, esprimendosi nella forma più elevata, giunge a negarsi. Nei casi in cui ciò si realizza, la distorsione psicopatologica sembra rilevante: ma, di fatto, lo è meno di quanto appaia, se si tiene conto che la relazione duale d’amore è giunta, nel tempo, a sovraccaricarsi di significati compensatori rispetto ad una socialità vissuta in termini persecutori. Che questo sovraccarico animi la relazione d’amore di significati persecutori, e che il soggetto, calandosi in essa, manifesti il desiderio di mortificare l’ultima espressione del bisogno di socialità, non sorprende.
Per illustrare questa dinamica, dovremo far riferimento ancora una volta all’esperienza di Mario. Per anni, Mario ha giustificato la sua rivolta anarchica contro il mondo - il rifiuto dello studio, del lavoro e di ogni regola - come espressione di un difetto d’amore. E’ sopravvissuto alle angosce dell’isolamento, puntando tutte le sue energie sul mito di una relazione duale che, soddisfacendo i suoi bisogni profondi, lo avrebbe infine riappacificato con il mondo.
Dopo otto anni di crisi perpetue, la sorte sembra favorirlo: si innamora ed è ricambiato. Ma la ragazza con cui entra in rapporto ha una storia personale incentrata su valori opposti rispetto a quelli di Mario: si è separata precocemente dalla famiglia, destinandosi ad una vita di stenti economici, resa significativa da un lavoro di ricerca gratificante quanto poco remunerativo. E’ una ragazza indipendente che ha il culto del lavoro. Nel rapporto con Mario, che vuole piegarla ad una concezione della vita incentrata sull’amore, manifesta rapidamente un atteggiamento difensivo, una sorta di claustrofobia per un rapporto troppo coinvolgente e totalizzante. Mario reagisce a questo atteggiamento aumentando le sue richieste d’affetto; egli pensa che una risposta d’amore basterebbe a sedare la sua angoscia.
Ma la verità del progetto che persegue è attestata da due fatti. Il primo è che, proprio nelle circostanze in cui la ragazza sembra abbandonare ogni difesa, partecipare interiormente al rapporto e confessare il suo amore, Mario ha delle crisi di depressione: diventa lamentoso e piagnucoloso, poiché non crede al suo amore sottopone la ragazza ad un vero e proprio interrogatorio, si blocca a casa sua incapace di abbandonarla. Manifesta, insomma, proprio in rapporto ad una risposta d’amore, una dipendenza che egli stesso definisce vergognosa, e la cui esibizione agli occhi della ragazza non potrà, a suo avviso, che produrre la fine del rapporto. Naturalmente, questa previsione, che porta in luce il modo in cui Mario vive i suoi bisogni d’affetto, viene delegata, nella realizzazione, alla ragazza.
L’altro fatto inerisce i rapporti sessuali: Mario, che ha avuto in passato qualche dubbio sulla sua potenza, scopre di essere affetto da un’eiaculazione tanto ritardata dal non sopravvenire, in pratica, mai. Dopo un iniziale entusiasmo per la prestazione che riesce a fornire, intuisce che si tratta di un sintomo. E’ la ragazza che, con delicatezza, glie ne restituisce il senso: nonostante i suoi discorsi sull’amore totale, egli non riesce a lasciarsi andare, a prescindere dal modello dell’uomo potente che non cede mai. Ad un livello più profondo, la sessualità stessa può caricarsi di significati liberatori che rendono impossibile o procastrinano al massimo un legame significativo con l’altro.
Foucault lo ha intuito: la liberazione sessuale, nonostante un autentico valore, è servita in gran parte a compensare ideologicamente una progressiva alienazione sociale, che rende i contatti interpersonali sempre più carichi di valenze persecutorie. L’incontrarsi liberamente con l’altro, a livello sessuale, può essere un modo per occultare una quota di bisogni di cui profondamente ci si vergogna.
Questo tema è di così vasta portata che meriterebbe un discorso a parte. Per ora, ci si limiterà a esemplificarlo, alla luce del codice in questione.
Gianna è la seconda figlia di una famiglia piccolo-borghese di origine meridionale. Educata nella più rigida tradizione, essa, fino a 20 anni, è timida, riservata e apparentemente indifferente alle sollecitazioni affettive. A 20 anni incontra un ragazzo e se innamora. Dopo due mesi, esce quasi casualmente con un altro ragazzo e, non appena questi le fa capire che la desidera, cede e fa l’amore con lui. Il tradimento la fa sentire indegna e, nonostante il suo ragazzo appaia disposto a perdonarla, lo abbandona.
Si avvia cosi una singolare esperienza. Gianna non riesce più a tollerare la solitudine, ma, nel contempo, certa di essere per natura infedele, non vuole un legame stabile. Ogni volta che esce con un ragazzo, il sentirsi desiderata dà luogo ad un repentino cedimento. Solo per un anno, Gianna riesce a giustificare questo comportamento alla luce di un’ideologia libertaria. Poi il carattere costrittivo dell’esperienza le appare chiaro, poiché quel comportamento si realizza in maniera quasi automatica, prescindendo del tutto dal fatto che l’altro eserciti o no su di lei una qualche attrazione. Più di una volta, è disgustata dal dover far l’amore con persone che la ripugnano.
Ciò che affiora dall’analisi di questa esperienza è di estremo interesse. Gianna ha un bisogno radicale di essere amata. Questo bisogno si esprime a molteplici livelli, ma sempre sotto una forma atta a negare la sua dipendenza: come una disponibilità totale alla quale non può non corrispondere una risposta in termini di gratitudine.
Questa dinamica è evidente sia a livello familiare che nel lavoro e nelle amicizie: Gianna si prodiga per tutti, ed è profondamente stimata. Nel lavoro, delicato - rieducazione al linguaggio di bambini handicappati - e scelto per vocazione, Gianna dà il meglio di sé. Ma questo bisogno radicale di amore viene negato quando esso, all’interno di una relazione, postula di accettare la propria dipendenza dall’altro. Offrendosi, anche senza desiderio, come oggetto di consumo, Gianna soddisfa l’altro. Il suo cedimento ogni qualvolta sente di essere desiderata esprime in maniera evidente il suo bisogno. Ma esso mortifica ogni possibilità di relazione e di legame stabile: nonostante la soddisfazione che ne ricava, ogni partner, dopo averla usata, se ne allontana, talora con un atteggiamento di disgusto. Nessuno si lega a una donna di così facili costumi. Attraverso una infinita serie di rapporti, Gianna realizza, ad un prezzo elevato, il progetto di non star sola e di rimanere libera.
All’interno di altre esperienze, la sessualità, che mira a mantenere la relazione con l’altro a livelli di superficie, non viene neppure avvertita come problema, poiché essa si integra in una concezione della vita che vede nella libertà, a tutti i livelli, il valore supremo. La costrizione ad essere liberi non viene percepita, finché una qualche circostanza non la restituisca traumaticamente al soggetto.
Giorgio è figlio di due militanti comunisti, che dedicano all’attività politica gran parte del loro tempo libero. Essi hanno nei confronti dei figli un atteggiamento aperto e permissivo, che postula, però, da parte di quelli una continua risposta che confermi la validità del modello pedagogico e dei valori adottati: l’indipendenza, l’autonomia, l’anticonformismo.
La bontà dei valori si integra con la necessità dei genitori di non sentirsi limitati e vincolati dai figli. Tra tutti, Giorgio è quello che sembra realizzare in maniera esemplare le aspirazioni parentali. Fin dall’età di 10-11 anni, riesce a stare in casa da solo e a provvedere a se stesso. A 13 anni comincia a partecipare, d’estate, a dei campeggi che lo tengono lontano dalla famiglia per due mesi, senza nessuna apparente difficoltà. E’ estremamente socievole e maturo per la sua età. A 15 anni si dà anch’egli alla militanza politica, su posizioni un po’ più estremiste rispetto ai suoi. Entra a far parte di un gruppo dell’autonomia operaia e si imbeve letteralmente di miti libertari.
Rende bene a scuola, d’estate comincia a viaggiare per l’Europa con il sacco a pelo, ha infiniti amici ed amiche, pratica la sessualità libera senza problemi. La sua vita è inquieta ma non turbolenta, ispirata al principio di vivere intensamente e liberamente.
A 20 anni, per la prima volta, si innamora di una ragazza che condivide i suoi stessi valori. Le regole del rapporto sono ovvie: rispetto dell’indipendenza e della libertà reciproca, nessuna chiusura sociale nel rapporto di coppia, nessun condizionamento. In conseguenza di queste regole, entrambi si impongono di non intrattenere rapporti sessuali finché non maturi la certezza dei reciproci sentimenti. Dopo qualche mese, l’ideologia del rapporto libero comincia a svelare i suoi limiti: via via che si innamora, Giorgio si chiude, diventa taciturno e scontroso, è perpetuamente arrabbiato, comincia a sentirsi geloso e possessivo, e pone in atto insidiose strategie che tendono ad instaurare un controllo sulla ragazza. Alla fine, decidono concordamente che il modo migliore per verificare il loro rapporto è far l’amore. Ed è a questo punto che scoppia il dramma: Giorgio, che non ha mai avuto problemi, scopre di essere divenuto impotente. La vergogna che lo investe determina un cambiamento radicale: egli tronca il rapporto e si chiude in casa, respingendo le sollecitazioni degli amici. Comincia a scrivere freneticamente un diario alla ricerca della verità: trascorre insonne le notti, rifiuta il cibo, maltratta i genitori. Infine, il suo comportamento giunge a configurarsi come strano (mai i genitori oserebbero dire malato): ha lo sguardo allucinato, esplode ogni tanto in crisi furibonde nel corso delle quali rompe ogni oggetto che ha a portata di mano, bofonchia parole incomprensibili, comincia a scrivere sui muri. Il messaggio, rivolto ai genitori, è drammatico: “Assassini, mi avete rovinato. Sono un uomo finito”. Lo è, di fatto, in rapporto ad un modello di libertà che esclude che questa si eserciti nella capacità di legame.
Un’ulteriore forma alienata del bisogno di socialità, la cui apparenza è ancora normale, è quella che riproduce, aggiornandola, la dinamica del rapporto servo-padrone: formula che postula la schiavitù dell’altro come fondamento della propria libertà.
La fenomenologia di questa forma investe molti ambiti della vita di relazione e delle strutture sociali. Gran parte dell’analisi transazionale ha per oggetto questa forma, così come essa si esercita a livello familiare, della quale però sfuggono tutte le valenze non psicologiche, che fanno capo al problema del potere e dei rapporti di potere. Ad un problema che investe, insomma, la storia della nostra civiltà, nella quale la libertà degli uni è stata sempre pagata al prezzo della schiavitù degli altri.
L’esemplificazione di questa forma prescinderà, pertanto, da logori schemi familiari, utilizzando un’esperienza di significato molto più profondo.
Ottava e unica figlia femmina di una famiglia di modeste condizioni, resa precaria dal numero dei componenti, Giovanna vive con intensa partecipazione il dramma della madre sfinita dai sacrifici, dalla dedizione ai lavori domestici e dall’assillo per i figli. Non appena raggiunge l’uso della ragione, il suo atto d’amore si esprime nel tentativo di pesare il meno possibile: mangia come un uccellino, non gioca per non sporcarsi i vestitini, si affanna a dare una mano in casa.
Il sacrificio è inutile: la madre, precocemente invecchiata, muore quando Giovanna ha dieci anni. Il padre ed i fratelli, consapevoli delle sue capacità intellettuali, le consentono di frequentare, dalle medie in su, una scuola signorile privata. Giovanna scopre il peso delle differenze di classe sociale e reagisce primeggiando nello studio e sviluppando un atteggiamento, freddo, altezzoso e chiuso. Lentamente, matura in lei un progetto di riscatto sociale, che postula la frustrazione degli affetti e di ogni forma di svago. La sua inaccessibilità, in associazione alla bellezza, la rendono affascinante.
Ma Giovanna, intimamente gratificata dai corteggiamenti, non pensa che allo studio: ha in mente un modello di vita signorile incentrato sulla dignità e sulla raffinatezza , valori che vede costantemente traditi da coloro che appartengono a classi agiate. Ma la dignità si esprime anche sotto forma di autocontrollo sui bisogni affettivi, vissuti sostanzialmente come indecorosi cedimenti.
E’ nel primo anno di vita universitaria, che il rigido ipercontrollo che Giovanna si è imposta fin da bambina comincia a tradursi in un ostacolo: Giovanna comincia a soffrire di disturbi intestinali funzionali che si esprimono in repentine scariche diarroiche. Il sintomo, incoercibile ai medicamenti, limita la frequenza universitaria e, lentamente, la scarsa vita di relazione. Giovanna, in pratica, non può allontanarsi dall’ambiente domestico, ove ha la certezza della disponibilità del bagno.
A 23 anni conosce in casa un giovane magistrato amico di uno dei fratelli, timido, dipendente, cronicamente depresso e affamato d’ amore. Giovanna lo sposa senza amarlo, esaltata dal bisogno di lei che egli manifesta, e si chiude, con i suoi bisogni insoddisfatti, in un’esistenza medio-borghese isolata e grigia. I disturbi intestinali la rendono schiava della casa: ma questa schiavitù induce una ribellione ai ruoli domestici: Giovanna è poco efficiente nel ruolo di moglie, di madre (ha un solo figlio) e di donna di casa.
Un sogno ricorrente chiarisce questo modo di essere: in casa, si trova di fronte ad un uomo senza volto nei cui confronti avverte un amore intenso. Ma mentre quegli le si avvicina e tenta di abbracciarla, Giovanna avverte il bisogno di andare al bagno e si allontana repentinamente.
E’ evidente che i disturbi intestinali esprimono la paura di repentini cedimenti sentimentali, e che essi servono a mettere Giovanna al riparo dalle sporche conseguenze che potrebbero derivarne. Altrettanto chiaro che la rigida corazza di dignità entro la quale Giovanna si è chiusa, impedendo ogni autentica esperienza di relazione, le impone un prezzo troppo elevato: la rinuncia alla realizzazione di sé sotto il profilo sociale, che non può essere compensata da ruoli che, nel ricordo dell’esperienza materna, Giovanna vive come frustranti e servili.
Il progetto di vita originariamente formulato va dunque adattato a queste limitazioni. Giovanna si cala nel ruolo della signora che trascorre gran parte del suo tempo immersa in letture raffinate e fini a se stesse. La gestione domestica è affidata ad una donna a pieno servizio. La sua libertà, che, per essersi configurata come libertà dai bisogni affettivi, si declina regressivamente, postula la schiavitù di un’altra persona.
Quest’equilibrio dura vent’anni, caratterizzato da lunghi periodi di depressione. In questi anni, il rapporto con la domestica è l’unico spazio di relazione intima che Giovanna si concede: la domestica finisce con il diventare la sua confidente, l’amica, l’infermiera.
A 44 anni, quando la sua bellezza comincia appena a sfiorire, nel corso di una vacanza al mare, Giovanna cede per la prima volta ad un volgare play-boy stagionato. Per alcuni mesi è sconvolta dalla paura di aver contratto un’infezione venerea. In questo periodo, il rapporto con la domestica diventa teso: Giovanna si sente spiata e giudicata da essa. Intuisce di essersi fidata per troppo tempo di una persona malvagia. Apre, infine, gli occhi e scopre la verità: la domestica è una volgare ladra che, profittando della sua infermità, ha asportato dalla casa vestiti, oggetti di argenteria, utensili da cucina, gioielli e denaro. Giovanna la licenzia e rimane sola: per un certo periodo si sente liberata, ritorna efficiente e si sorprende di aver trascorso tanti anni in una penosa dipendenza.
Poi, inaspettatamente, l’esperienza di Giovanna vira verso una modalità delirante. Esplorando la casa che ha sempre trascurato, essa scopre una serie infinita di segni - graffi, strappi, intagli, lacerazioni, ecc. - sulle pareti, sui mobili, i quadri, gli oggetti d’arredo, i vestiti, la biancheria, che attestano l’odio distruttivo della domestica nei suoi confronti, esercitatosi nel corso degli anni. Ma non basta: Giovanna comincia a pensare che la malvagia, non contenta dei danni fatti, alimenti un’inestinguibile sete di vendetta nei suoi confronti, e, profittando di sue sporadiche assenze, continui ad entrare in casa e a far danni. Nuovi segni confermano l’intuizione. Giovanna fa montare una porta corazzata, le grate alla finestra e decide di non allontanarsi più di casa neppure per un attimo.
Le misure di sicurezza sono efficaci: la domestica non può far altro che tentare di danneggiare con un temperino la superficie esterna della porta di casa e tempestarla di squilli telefonici. La casa va in malora, ma Giovanna è finalmente felice: si sente libera e indipendente, chiusa nella sua fortezza ben munita, dalla quale non potrà più uscire. Per troppi anni riflette tra sé e sé - è stata schiava della sua ingenuità e dei suoi buoni sentimenti: ora, essendosi liberata del mostro, è divenuta finalmente padrona.
Ma con la donna - incolpevole, a detta del marito, e sinceramente affezionata ai padroni, al figlio che ha cresciuto e alla casa - Giovanna si è affrancata dall’unica espressione dei suoi bisogni di relazione. L’equilibrio raggiunto da Giovanna non può durare. Il delirio persecutorio fiorisce nuovamente, ché porte corazzate e finestre sbarrate non contano contro gli spiriti maligni.
Riguardo a questa esperienza, restituita in termini, forse, troppo sintetici, che ne mortificano la ricchezza, conviene fare alcune riflessioni teoriche. La libertà dal bisogno dell’altro è la chiave che la sottende dall’inizio alla fine, ma con uno slittamento di significati che rendono trasparente l’incidenza dei momenti sociali sulle esperienze soggettive.
Originariamente, infatti, essa esprime un atto d’amore che, mortificando Giovanna, tenta di attenuare la penosa schiavitù della madre. Successivamente, dall’adolescenza in poi, il bisogno dell’altro entra in conflitto con la necessità di investire tutte le proprie energie nel progetto di affrancarsi da una condizione di disagio socioeconomico.
La lunga frustrazione, che dà luogo all’organizzazione di una personalità ipercontrollata, che assume la dignità, intesa come autosufficienza, come valore fondamentale, induce un’esasperazione di quel bisogno, che regredisce trasformandosi nella minaccia di una perdita di controllo affettiva e istintuale.
Questa minaccia, che costringe Giovanna a ritirarsi dalla vita sociale, la chiude in una trappola familiare, nella quale la libertà non può esprimersi che sotto forma di rifiuto dei ruoli tradizionali. Ma questo rifiuto postula che qualcuno si faccia carico di essi: la figura della schiava, da cui è mossa l’esperienza di Giovanna, ricompare nelle vesti della domestica. La libertà dalle relazioni e dai legami perseguita da Giovanna postula dunque una penosa dipendenza da una persona, mascherata dal fatto che, socialmente, è questa di fatto a dipendere.
Il tradimento cui si abbandona Giovanna e che dà corpo alla minaccia di perdere la dignità contro cui essa ha sempre lottato, induce una ulteriore guerra di indipendenza che sconvolge il precario equilibrio durato da vent’anni. Rifiutando il rapporto con la domestica, Giovanna, senza sapere, attacca l’ unico legame in cui si è espresso il suo bisogno relazionale. E si destina all’estrema espressione di questo bisogno: la persecuzione.
In questa esperienza sembra riecheggiare la scoperta di Marx: “l’uomo e un animale cosi radicalmente sociale che egli può isolarsi solo nella società”. Questo ci consente di capire che più il bisogno di socialità si aliena più l’esperienza tende a regredire verso una destrutturazione-ristrutturazione psicotica.
Ogni esperienza psicotica può essere interpretata alla luce di un bisogno di libertà individuale che, ponendosi in opposizione al bisogno di socialità, costringe questo a proporsi in forma alienata. Nulla come questa chiave conferma che il corredo dei bisogni fondamentali è geneticamente determinato, e che, di conseguenza, la libertà umana postula una loro integrazione, poiché in nessun caso può prescindere da uno di essi. Se, alla luce di questo criterio, si ripercorrono le microstorie elaborate nel corso della ricerca, se ne troverà una continua conferma, soprattutto nelle esperienze psicotiche. Anziché aggiungere ulteriore materiale, ci pare opportuno riflettere su una di esse.
Dopo ricoveri in clinica e cure farmacologiche, Massimo accetta di sottoporsi ad una psicoterapia. Sceglie un terapeuta ad indirizzo bioenergetico, poiché è convinto che il blocco che gli impedisce di raggiungere la realizzazione delle sue potenzialità, secondo un modello di totale indipendenza, è un blocco dell’aggressività. Dopo tre anni di trattamento, in effetti si blocca: litiga con il terapeuta e intrattiene con una ragazza un rapporto nel corso del quale si manifesta tanto prepotente e aggressivo da riuscire a farsi abbandonare. Prosegue da solo il suo cammino, ma regredendo lentamente verso una totale chiusura sociale. Si sente solo e incapace di contatto come prima, ma non vuole cedere al bisogno di cure che la sofferenza comporta.
Si ostina a far da sé, finche, nell’ambiente di lavoro, comincia a cogliere i segni di uno strano interessamento nei suoi confronti. Nel giro di un mese, tutto è chiaro: c’è un gruppo di persone, operatori psichiatrici celati sotto le vesti di impiegati, che, coordinati dal terapeuta con il quale ha avuto rapporto, sta effettuando un intervento su di lui. Consci della sua totale incapacità di aprirsi alle comunicazioni, essi diffondono nell’aria una polvere che fa sì ch’essi possano leggere nella sua testa e comunicare con lui senza ostacolo. Dopo essersi sentito minacciato per alcuni giorni, Massimo è confortato: si tratta, sì, di una violazione arbitraria della sua libertà, l’intervento consistendo in una manipolazione della sua mente, ma il fine è terapeutico. Essi vogliono aiutare Massimo a uscire dall’isolamento e costringerlo a comunicare. Per gratitudine, Massimo giunge quasi al punto di aprirsi con loro e progetta di contattare il terapeuta. Ma è proprio allora che comincia ad avvertire una straordinaria inquietudine e i sintomi si accentuano, costringendolo ad un nuovo ricovero in clinica.
In questa esperienza, l’affiorare del bisogno di relazione avviene sotto forma di persecuzione terapeutica: e Massimo, che continua ad essere convinto che la sua libertà non possa passare che attraverso l’eliminazione di quel bisogno, lo trasforma, dopo qualche esitazione, in bisogno di cure in senso tecnico. E, paradossalmente, si consegna agli psichiatri, che sa bene non avere altre intenzioni che di curare i sintomi, senza interferire nell’organizzazione della personalità e nel progetto di vita.
4. Dolore/Piacere. Il codice anestetico
E’ evidente che il potere del codice adultomorfo e dei suoi derivati dipende non meno dai valori ch’esso propone che dalle minacce da cui dipende. (?) Pur assumendo configurazioni diverse, le minacce hanno un contenuto univoco: il bambino, il povero, il servo alludono infatti ad una condizione di impotenza che postula la relazione con 1’ altro ma, nel contempo, in virtù della dipendenza, la carica di significati minacciosi.
Ovviamente, c’è del vero in questo contenuto: ma si tratta di una verità storica. L’impotenza espone alla sopraffazione quando il sopraffattore ha bisogno di sfruttarla per alimentare il suo potere. Nel contesto della nostra società, questa verità è stata ipostatizzata: da verità storica, che contiene la possibilità della sua negazione, e cioè di una ristrutturazione dei rapporti umani affrancata dalla logica dello sfruttamento, essa è divenuta verità naturale.
Ma questo inganno ideologico ha prodotto una conseguenza di enorme portata: la necessità di qualificare il bisogno di relazione, qualora esso non si configuri come strumentale, in termini negativi di debolezza. E’ questo inganno che sottende il modello antropologico borghese, incentrato formalmente sulla eguaglianza e sulla libertà, ma, in profondità, sotteso da un vissuto doppiamente persecutorio. L’homo homini lupus comporta, infatti, la paura dell’altro come potenziale nemico, non meno che la paura della propria natura avida, prepotente e distruttiva.
Forse, non si è riflettuto abbastanza sulle conseguenze paradossali di questo codice che, facendo leva su condizioni reali di debolezza (il povero, il servo), determinata storicamente, ha avviato un processo di sviluppo fondato sulle capacità dell’individuo di farsi valere, di difendersi e di attaccare: capacità che vengono attivate dalla paura della sopraffazione, e comportano una difesa che trasforma soggettivamente l’uomo in lupo.
In breve, il codice adultomorfo è un codice di sviluppo individuale e di liberazione dal bisogno alimentato da paure persecutorie. Valutarlo in rapporto al bisogno di individuazione, di sviluppo e di affermazione dell’individuo entro i confini della legge, significa vedere solo una faccia della medaglia: l’altra, incentrata su di una socialità persecutoria, riconducibile simbolicamente alla formula mors tua vita mea viene costantemente rimossa.
Ma, dal punto di vista della mentalità e dei vissuti soggettivi, è essa la più importante. Il rilancio dell’individualismo come fondamento del progresso di una società forte e integrata, come sta avvenendo negli Stati Uniti in un’ottica astutamente ingenua, non può avvenire se non al prezzo di un necessario cinismo.
Non è un caso, dunque, che il messaggio trionfale del Presidente sullo Stato dell’Unione si concluda con queste parole: “non possiamo comportarci da innocenti in un mondo che innocente non è”. Decodificato, il messaggio significa che per gli innocenti, gli agnelli, non c’è scampo: essi, come ogni specie incapace di adattarsi, sono votati all’estinzione, secondo la legge di un evoluzionismo sociale ritenuto espressione di una legge di natura.
Con queste considerazioni, sembra che il discorso si allontani dal dolore e dal piacere. Invece, siamo in medias res: ché il codice adultomorfo, nella misura in cui impone di rifuggire dalle debolezze soggettive, dal bisogno relazionale che espone al rischio di cadere preda dell’altro, impone anche, e anzi postula, di sfruttare la debolezza dell’altro al fine di accrescere il proprio potere. Esso, insomma, comporta, sia sul versante soggettivo che relazionale, il sacrificio della sensibilità: impietoso e anestetizzante, è proprio in virtù di questo sacrificio ch’esso restituisce l’uomo alla sua natura avida ed egoistica, e, affrancandolo da sterili sensi di colpa, lo predispone al piacere.
Sarebbe vano richiamarci a Rousseau, Darwin, Marx per contestare questa estrema derivazione del codice adultomorfo. Alle ideologie filosofiche, che insistono sulla naturale socialità dell’uomo, si opporrebbero ormai i fatti empirici: la socialità, come documenta la sociobiologia, è null ‘altro che una convenzione culturale, sancita dalla legge, per porre regole ad una competitività iscritta nel corredo biologico umano.
Richiamamoci, dunque, alla scienza. McLean, il cui modello di cervello trino non e immune da influenze ideologiche, scrive:
”Nei primati si è sviluppato, molto più che in tutti gli animali, un senso sociale che nell’uomo diventa particolarmente visibile nelle sue manifestazioni altruistiche... L’altruismo non consiste soltanto nella capacità di imnedesimarsi in un’altra persona nel senso dell ‘empatia: esso implica anche la capacità di vedere emotivamente, con il sentimento, la situazione degli altri.”
E altrove:
”Presumibilmente noi possediamo una scala nervosa., una scala visionaria che ci permette di salire dalle sensazioni sessuali più elementari ai sentimenti altruistici più elevati.”
E’ importante tener conto che queste considerazioni non sono immediatamente filosofiche, poichÈ McLean le ricava da uno studio strutturale del cervello (McLean, Evoluzione del cervello e comportamento umano, Einaudi, 1983). Esse, dunque, si impongono per dar senso ad una struttura che sembra predisposta alla socialità e al sentire.
In un saggio su McLean, ciò viene sinteticamente espresso:
”McLean assimila la corteccia ad un computer freddamente ragionante, capace di calcolare costi e benefici con i1 massimo di egocentrismo e di perseguire spietatamente l’ottimizzazione del loro rapporto senza badare ai danni arrecati o arrecabili ad altri, fossero pure affini biologici o culturali . Soltanto in epoca relativamente recente l’evoluzione sembra aver dotato il computer di un sentimento, collegando la parte prefrontale alla neocorteccia, tramite un robusto fascio di proiezioni afferenti ed efferenti, come una delle suddivisioni del sistema limbico. Dal sistema limbico la corteccia prefrontale trae il sentimento di interiorità, visceralmente connotato, richiesto per potersi identificare con un altro individuo e comprenderne in tal modo, per via metalinguistica o empatica, gli stati d’animo e i bisogni.”
La connessione tra corteccia prefrontale, sede di dettagliate mappe ambientali, e sitema limbico, sede di emozioni, risulta dunque essere uno dei fondamenti biologici dell ‘altruismo, delle capacità di formulare piani di comportamento che tengano conto dei bisogni di altri non meno di quelli di sé” (Luciano Gallino, Introduzione a “Evoluzione del cervello....”)
Sorprendentemente, alla luce delle ricerche sulla struttura del cervello, la scoperta di Rousseau, ribadita da Darwin e da Marx, sembra confermata. Il cervello strutturalmente è predisposto alla socialità e, in virtù della sensibilità, sembra orientato a temperare una progettualità razionale, narcisistica ed egoistica, inserendo nell’orizzonte previsionale l’altro, come essere senziente e consenziente . L’uso che l’uomo fa di questa predisposizione non può essere dunque più attribuito alla natura, ma alla cultura. Il nesso predisposto dalla natura tra calcolo relazionale ed egoistico e sentimento dell’altro può essere dissociato, ma culturalmente . Ciò può avvenire solo in virtù dell’adozione di un codice anestetico: di un codice, cioè, che, individuando nella sensibilità, una limitazione dello sviluppo individuale o un freno all’ affermazione del proprio interesse o una causa potenziale di dolore, postula che essa sia attenuata, rimossa o eliminata. Paradossalmente, la storia della psichiatria offre degli esempi inconfutabili dell’esistenza di questo codice e dei motivi, affatto opposti, che ne inducono l’adozione.
Nel corso dell’edificazione dell’ideologia e della pratica psichiatrica ottocentesca, gli psichiatri si trovano di fronte ad un mistero inquietante: l’apparente insensibilità degli schizofrenici istituzionalizzati agli stimoli dolorosi . Non stentiamo a capire il fascino ambivalente esercitato su di loro da questo mistero. Ma essi non potevano arrestarsi al dato descrittivo: dovevano verificare fino a che livello esso fosse vero.
Chi ha pratica di letteratura psichiatrica, sa cosa avvenne: gli schizofrenici furono sottoposti a brutali stimolazioni elettriche, dato che questo sembrava il mezzo più doloroso e meno lesivo. I protocolli di questi esperimenti sono consegnati alle riviste specialistiche dell’epoca. In essi vediamo in azione degli uomini che sottopongono altri uomini ad autentiche torture, e si sorprendono sia dell’assoluta impassibilità di molti di essi, sia delle rare ma vibrate proteste di disumanità opposte al trattamento da pochi. In breve, vediamo degli uomini anestetizzati nella capacità di identificarsi con l’altro che sperimentano per verificare fino a quale livello giungesse l’apparente anestesia degli schizofrenici.
Questa situazione simmetrica possiamo interpretarla: l’anestesia morale degli psichiatri è dovuta al perseguimento di interessi personali, freddamente razionali, contrabbandati come scientifici; l’anestesia degli schizofrenici è l’espressione di una sensibilità così profondamente ferita da dover essere sacrificata in nome della sopravvivenza. Tra l’una e l’altra, vediamo un solo punto di contatto: entrambe, per motivi opposti, sterilizzano il sentire.
Ciò, ovviamente, deve essere la rivelazione di una possibilità iscritta nella mente, ma, per manifestarsi, postula un codice: è evidente che esso funziona ideologicamente negli psichiatri, come pure che esso non è prodotto dagli psichiatri. Deve far parte dei quadri mentali che prescindono al rapporto dell’uomo con l’uomo. Ma, se ciò è vero, non è banale vedere negli atteggiamenti degli schizofrenici solo una difesa emotiva: come negare che questa difesa in tanto si realizza in quanto le loro esperienze si sono svolte in un contesto ambientale che ha fornito al contempo la peste del dolore e il vaccino dell’ insensibilità?
L’excursus non ci ha condotto fuori strada. Esso ci permette di comprendere che il codice anestetico, una volta prodotto, può svolgere due funzioni nel corpo sociale: per un verso, permettendo di misconoscere l’altro come essere senziente, referente privilegiato della sensibilità, esso ne consente l’oggettivazione e la strumentalizzazione a fini meramente egoistici - siano pure questi ideologizzati da superiori interessi economici, sociali, politici, scientifici, religiosi, ecc.; per un altro, esso, adottato a partire da un’esperienza di sensibilità frustrata e ferita, può mettere l’individuo al riparo dal dolore, sia pure alienandolo dalla ricchezza emozionale che sottende il bisogno di integrazione sociale, e cioè isolandolo .
E’ chiaro che queste due funzioni danno luogo a diverse conseguenze sociali: la prima promuove una normalizzazione, e cioè 1’inserimento in un mondo le cui regole del gioco, accettate come leggi di natura, possono favorire la potenza, il prestigio, il piacere, 1’uso e il consumo degli altri; la seconda, altresì, dà luogo all’autoesclusione, alla perdita di contatto, alla rinuncia a competere, a lottare e a desiderare.
Si potrebbe dire, con un’ironia un po’ triste, che il codice anestetico premia gli uni e punisce gli altri. Come ogni altro codice è una medaglia a due facce: una normalizzante, l’altra alienante. Ma in questo caso, più che in ogni altro, risulta evidente che la normalizzazione prodotta è una forma di alienazione che non può non riprodurre se stessa, o sterilizzando la sensibilità o ferendola al punto da obbligare a rinunciare ad essa.
Il dramma delle strutture psicopatologiche che adottano il codice anestetico è di rimanere in sospeso, nel senso che in esse la sensibilità, benché rimossa rimane viva e fin troppo ricca, e il codice anestetico, quand’anche viene tradotto in coscienza di sé o in metro di comportamento, si associa ad un senso di colpa che, facendo riaffiorare la sensibilità, consegue un effetto paralizzante.
La biografia di Guido, redatta dal padre (in allegato) è, da questo punto di vista, un documento di eccezionale interesse. Apparentemente, essa verte sul problema della libertà individuale, che Guido può perseguire solo in virtù di una strategia rivolta ad affrancarlo dall’oppressione paterna. Ma, al di sotto di questo livello, c’è una trama più profonda. Ciò che opprime Guido è, infatti, la sua stessa sensibilità, che lo ha indotto precocemente a strutturare un modo di essere e di comportarsi totalmente adeguato alle aspettative parentali, una schiavitù d’amore tradottasi nell’essere un automa.
L’episodio chiave della biografia è il conflitto con il padre nella scelta dell’indirizzo di studio. Ma, con evidenza, ciò che ha pesato nell’evoluzione ulteriore della vicenda non è l’asprezza del conflitto, ma l’inatteso cedimento.
Perché Guido ha ceduto? Per rispondere, ancora una volta, alle aspettative del padre, per riappacificarsi con lui, per non farlo soffrire.
Nel giro di qualche tempo, questo cedimento deve aver assunto un significato minaccioso: nonché atto d’amore, esso deve esserglisi presentato alla coscienza come espressione di una debolezza da stroncare, per non correre il rischio di continuare a vivere per sempre come un automa, come un essere schiavo, in virtù dei suoi stessi affetti, di chiunque riuscisse a penetrare nel suo cuore. Solo apparentemente, dunque, è il padre il bersaglio dell’attacco di Guido: quegli lo è di fatto, come persona amata e ingrata. Ma il vero oppressore è la sensibilità: anestetizzarla significa per Guido giungere ad essere libero. Tutto ciò che segue non è che una conseguenza di questo progetto.
Guido si incattivisce con il padre, la madre, i parenti, i compagni di scuola, gli insegnanti, il mondo. Diventa, da buono e sensibile che era, cinico, violento e spietato. La sua ricorrente identificazione con i terroristi non pentiti è significativa riguardo alla necessità di diventare insensibili per perseguire un fine superiore.
Ma è propria questa identificazione che mette in luce l’astrattezza del progetto cui Guido è pervenuto: che, il fine, nel suo caso, è la libertà individuale, ma il mezzo ritenuto necessario a raggiungerlo è l’anestesia affettiva, e cioè la mortificazione di un capitale di sensibilità che, pur essendo stato manipolato dal padre a fini di normalizzazione, Cionondimeno rimane una ricchezza. Guido, insomma, confonde ciò che ha reso possibile la manipolazione - la sensibilità - con il processo interpersonale che glie l’ha fatta vivere come una miseria. In breve, confonde natura e cultura, e, in nome di questa confusione, intende snaturarsi: diventare, nel linguaggio di McLean, un computer freddamente ragionante.
I vissuti persecutori possono essere interpretati come tentativi di ostacolare questo progetto: come un riaffiorare della sensibilità, mirante ad indurre in Guido la consapevolezza della disumanità di quel progetto. La struttura di esperienza appare sospesa. Guido, per effetto della paura, può tornare dietro, sulle tracce di una sensibilità ferita prima dalle interazioni con l’ambiente e poi dall’adozione del codice anestetico. Ma può anche avere paura di riconoscere di avere paura, e insistere nel progetto di attaccare al cuore le istituzioni: ma, in questo caso, è il suo stesso cuore che dovrà mettere a tacere, in un modo o in un altro.
Nell’esperienza di Guido, come in molte esperienze psicopatologiche, la tendenza a rifuggire dal dolore postula l’adozione del codice anestetico: per ron soffrire, sembra che non basti il porsi al riparo da esperienze potenzialmente dolorose, e, di conseguenza, si rende necessario l’indurirsi, l’incattivirsi, il diventare insensibili e, talora, crudeli.
E’ sorprendente, in alcuni casi, constatare in quale misura i soggetti, pur intuendo che la loro cattiveria attiva la paura di un’esclusione radicale dal contesto sociale, la difendono da una messa in discussione con una tenacia disperata. In un mondo di lupi, essi temono di recuperare la loro natura profonda di agnelli.
Per un paradosso sul quale occorrerà riflettere a lungo, il codice anestetico, per la sua stessa configurazione radicale che investe la sensibilità, ha finito con l’andare ben al di là di una difesa dal dolore: esso, inducendo una perdita di contatto con l’altro, scatena un’angoscia di morte a cui solo il piacere sembra poter porre rimedio. Ma è chiaro che il piacere, rifuggendo dal coinvolgimento affettivo, non può essere perseguito e praticato che strumentalmente, oggettivando l’altro. La scala di cui parla McLean viene percorsa in senso inverso.
Come in una certa misura aveva intuito Foucault, la liberazione sessuale contemporanea è in gran parte un necessario meccanismo di compenso di una progressiva incapacità di contatto interpersonale. L’anestesia della sensibilità viene mascherata da un perenne desiderio.
Ma la pratica della sessualità, all’ombra del codice anestetico, si complica per due motivi. Per un verso, 1’attribuzione all’altro di una logica strumentale non mette mai al riparo dalla paura che sia egli ad avere la meglio, a ricavare dal rapporto più di quanto dia. Per un altro, postulando comunque la sessualità di entrare in rapporto, la paura di un coinvolgimento affettivo è inestinguibile.
In ogni esperienza soggettiva, si può ammettere che, in virtù del codice anestetico e dei fantasmi cui esso fa riferimento, esiste un confine al di qua del quale si ricava piacere dal rapporto con l ‘altro, mentre al di là il lasciarsi andare fa immediatamente scattare un allarme, configurandosi il pericolo di cadere nel dominio dell’altro: pericolo estremo, poiché il cedimento farebbe riaffiorare la sensibilità, esponendo inevitabilmente ad una qualche ferita.
Queste considerazioni permettono di comprendere in quale misura il piacere si sia drammatizzato: non si può rinunciare ad esso, pena la scoperta del vuoto interiore prodotto dall’anestesia, ma, al tempo stesso il suo perseguimento ripropone tutti i problemi che 1’anestesia intende risolvere.
Rileggere, da questo punto di vista, l’esperienza di Giovanna, riportata nel codice libertà /costrizione, dovrebbe risultare sufficientemente probante. Del resto, le conseguenze del codice anestetico sulle modalità del piacere investono, al di là dell’ambito psicopatologico, l’esperienza sociale nel suo complesso.
E’ lecito, dunque, concludere facendo riferimento ad una di queste conseguenze, affiorata negli ultimi anni negli Stati Uniti. Si tratta di una nuova malattia, definita dagli psichiatri anoressia sessuale, una completa perdita di desiderio che investe il 20% della popolazione adulta. Al di là della speculazione sul fenomeno (il successo della sessuologia negli Stati Uniti è in larga misura da ricondurre ad esso), c’è da rilevare la meraviglia degli esperti, che, senza sapere, si ritrovano di fronte ad un mistero che rievoca metaforicamente l’anestesia degli schizofrenici: si tratta di capire come sia possibile che un istinto primario si affievolisca o scompaia. Mistero, forse, ancora più inquietante, perché le persone che hanno 1’anoressia sessuale sembrano non soffrirne affatto ( di solito, è il partner che impone la cura), e, per tutto il resto conducono una vita pienamente normale. E’ inutile aggiungere che esso è destinato a rimanere tale.
8. Conclusioni
Con questo seminario ha termine l’itinerario teorico della ricerca sulla genesi, la struttura e la dinamica del disagio psichico. L’ipotesi di partenza, secondo la quale le esperienze di disagio psichico hanno un nesso intimo con il contesto sociale entro le quali si definiscono, ci sembra non solo comprovata, ma addirittura arricchita. Se è vero, infatti, che il disagio esprime modi di essere che hanno una loro indubbia realtà psicologica - ed è ciò che rende lecito parlare di struttura -, non è meno vero che la loro genesi implica sempre un’interazione con le istituzioni, sostanzialmente inadeguate ai bisogni umani, e che, in secondo luogo, il determinarsi del disagio non corrisponde ad una causalità diretta, non esprime cioè una mera conseguenza di quelle interazioni, ma è mediato da una progettualità astratta, derivante dal fatto che, per risolvere i problemi residuati alla sua esperienza microstorica, il soggetto adotta codici mentali normativi che, nonché porre rimedio, esasperano l’alienazione dei bisogni fondamentali, ponendoli irriducibilmente in opposizione.
In breve, nei suoi presupposti, il disagio psichico è determinato da un’interazione negativa, alienante piuttosto che integrante, tra il soggetto con il suo corredo di bisogni fondamentali, e gli ambienti entro i quali la sua personalità si sviluppa. Ma la causalità diretta del disagio è non già esperienziale ma progettuale: consiste cioè nel modello di normalità che il soggetto adotta, che risulta irrealizzabile nella misura in cui esso è astratto in rapporto alla configurazione che i bisogni fondamentali hanno assunto nel corso della sua esperienza microstorica.
Lo spazio psicologico entro il quale si declina il disagio, come modo di essere nella sofferenza, è inadeguato alla comprensione e alla spiegazione della genesi del disagio stesso per due motivi: per un verso, esso maschera la storia del rapporto con il mondo che il soggetto ha esperito coagulandola in una individualità contraddittoria; per un altro, esso, gravitando progettualmente verso valori che appaiono autentici - l’autonomia, l’indipendenza, la libertà, la felicità -, ne cela l’astrattezza, riconducibile al fatto che quei valori integrano un modello adultomorfo, un modello di normalità individualista, causa sui.
Non sussiste alcun bisogno teorico, ai fini di fondare una nuova scienza del disagio psichico, di mettere tra parentesi lo spazio psicologico, e cioè la soggettività. Essa è infatti l’oggetto proprio e privilegiato di quella scienza in quanto oggetto storico: microstorico, in rapporto alle memorie che la strutturano, e che definiscono il rapporto tra corredo di bisogni e risposte dell’ambiente; storico tout-court, per quanto riguarda la progettualità, e cioè il tendere verso un modello di normalità astratto nella misura in cui esso fa riferimento a valori propri della mentalità, che vengono assunti come atti a risolvere i problemi residuati all’esperienza microstorica.
L’inadeguatezza dello spazio psicologico a comprendere il modo di essere e di porsi nel mondo delle persone non è riferibile solo all’individualità. L’allargamento del campo al microsistema familiare o al sistema di comunicazioni non fornisce affatto strumenti di comprensione e di spiegazione, se non si tiene conto che i sistemi interpersonali e le comunicazioni sono essi stessi oggetti storici, il cui equilibrio serve a mantenere una progettualità, e cioè gravita verso la soluzione di problemi residuati all’esperienza delle persone che partecipano. Questo significa che introdurre nell’analisi del disagio psichico il concetto di socialità sotto forma di leggi comunicative naturalizza arbitrariamente ciò che è un prodotto storico. Le leggi della comunicazione sono i modi in cui si esprimono le visioni del mondo dei soggetti: e le visioni del mondo sono storicamente determinate.
Per essere più precisi, si può dire che le visioni del mondo sono forme sociali prodotte storicamente che diventano psicologiche nella misura in cui i soggetti organizzano dentro di esse e in virtù di esse la propria esperienza. L’inganno che le persone subiscono da questa organizzazione consiste nell’ignorare che essa non è l’espressione immediata della loro esperienza, bensì l’espressione dell’adozione di codici mentali che, mirando a ridurre quanto essa ha di alienato rispetto ai bisogni fondamentali della natura umana, finisce per alienarla del tutto.
La malattia mentale, qualunque forma essa esprima, è la somma di una duplice alienazione: l’alienazione dei bisogni fondamentali prodottasi in virtù dell’interazione del soggetto con l’ambiente vissuto, e l’alienazione di quella alienazione dovuta all’organizzazione dell’esperienza concreta alla luce di codici astratti. Questo processo storico è celato per un verso dalla rimozione, meccanismo che estranea alla coscienza la concretezza della sua esperienza vissuta, e, per un altro, dall’ideologizzazione, che restituisce al soggetto quell’esperienza in una forma mitica che sembra comportare facili soluzioni dell’alienazione dei bisogni sotto forma di scissione, che lo illude letteralmente di poter pervenire alla liberazione di sé con un colpo di dadi.
Tra il funzionamento delle strutture sociali deputate alla produzione di uomini e il funzionamento dei codici mentali che propongono, in forma astratta, valori e modelli normativi, c’e dunque un nesso complementare che diventa trasparente nelle esperienze di disagio psichico: il nesso consiste nella tendenza dei codici mentali ad occultare le disfunzioni delle strutture sociali, offrendo agli uomini il miraggio di una normalità che ciascuno può e deve perseguire con le proprie forze, in misura del tutto indipendente dall’economia storica degli scambi con la realtà.
Questo discorso, così come sconfina dall’ambito puramente psicologico, non si offre alla cattura del determinismo sociologico. Esso, non implica, infatti, in nessuna fase dello sviluppo e della vita, un atteggiamento meramente passivo nei confronti con l’ambiente. L’uomo elabora, interpreta, significa continuamente la propria esperienza nel mondo e del mondo, in virtù degli strumenti di cui dispone mirando a dar senso alla vita, e cioè a progettarla , a proporsi degli obiettivi e a tentare di raggiungerli. Ma questo atteggiamento attivo, così come può essere distorto dalle interazioni con l’ambiente nelle fasi evolutive, può essere ulteriormente fuorviato dai miraggi ideologici dei codici mentali.
Anche a questo livello il determinismo non ha senso, poiché quei miraggi non si impongono come norma, bensì come valori: parafrasando Levj-Strauss, si potrebbe dire che essi sono buoni da pensare e, di conseguenza, sembrano utili per vivere. Purtroppo, è la natura astratta dei codici a renderli impraticabili, ma l’astrazione è necessaria a mantenere gli uomini ciechi in rapporto alla loro concreta esperienza storica.
In conclusione, il disagio psichico, come è stato intuito dall’antipsichiatria, è, di fatto, una forma di opposizione, ribellione e protesta contro l’ordine del reale, e la sua progettualità, comunque si esprima , tende sempre verso autentici valori umani: la libertà, l’indipendenza, l’autonomia, la dignità, la felicità.
Ciò che è sfuggito del tutto all’antipsichiatria è la contraddizione intrinseca del disagio psichico, che adotta quei valori astrattamente, e cioè non come valori atti a promuovere una lotta contro le cause della infelicità che si risolva in un aumento del potere reale dell’uomo sul mondo - interno (autocoscienza, coscienza critica) ed esterno (relazione con gli altri) - bensì come valori atti a risolvere l’enigma della vita: la condizione di radicale dipendenza dell’uomo dal mondo, la schiavitù naturale, dovuta al bisogno radicale di socialità, per cui solo legandosi al mondo con rapporti sempre più significativi egli può manifestare se stesso e diventare un essere indipendente.
Quella contraddizione fa si che la protesta si rivolga non contro l’ordine reale, bensì contro alcuni aspetti della natura e della condizione umana vissuti come causa di sofferenza. Il disagio è letteralmente un tentativo di snaturarsi per sopravvivere. Restituire all’uomo la capacità di analizzare la propria condizione - sia nei suoi aspetti microstorici che soggettivi (interattivi e strutturali) - e riabilitare le sue risorse per modificarla (cambiando quanto deve essere cambiato e conservando quanto deve essere conservato): questo, e non altro, è l’obiettivo di ogni autentico intervento terapeutico.
L’esigenza di questa nota corrisponde ad un debito metodologico contratto con l’avvio stesso della ricerca. L’intento della ricerca - la possibilità di fondare una nuova scienza del disagio psichico immune dal rischio del riduzionismo (organicista, psicologista, sociologista) -, dato il suo oggetto - i fenomeni psicopatologici -, non si è mai associata all’illusione di poter pervenire a delle conclusioni spogliate di ogni valenza ideologica. Se oggi nessuna scienza può pretendere di essere assolutamente obiettiva (è luogo comune ormai citare Popper: “tutte le descrizioni scientifiche di fatti sono estremamente selettive e dipendono da una teoria”; “la teoria può essere definita come la cristallizzazione di un punto di vista”; “nessuna teoria è conclusiva e ogni teoria ci aiuta a selezionare e ad ordinare i fatti”), tanto meno può pretenderlo una scienza il cui oggetto sono i fatti umani. Questi, infatti, possono sì essere oggettivati - basti pensare alle scienze umane e sociali che si ispirano ad una metodologia positivista - , ma non estraniati: l’antropologo più etnocentrico, lo psichiatra più tradizionalista non possono ignorare che l’oggetto della loro ricerca concerne degli esseri appartenenti, almeno, alla loro stessa specie.
L’effetto di distorsione che comporta, nell’ambito delle scienze umane e sociali, l’identità di soggetto e di oggetto può essere affrontato in modi molteplici. Il modo che io ho scelto anticipatamente è stato quello di esplicitare i presupposti ideologici cui si ispirava la ricerca: i presupposti antropologici, psicologici e sociologici. Non mi si rimproveri di pedanteria, se li denuncio ancora come postulati in sé e per sé inverificabili.
Quanto alla “natura umana”, l’assunto teorico di fondo è che essa è libera da rigidi controlli istintuali (l’istinto di conservazione, l’unico che si può ammettere ragionevolmente, essendo, riferito ad un essere vivente, una tautologia), e dotata pertanto di un potenziale plastico incommensurabile a qualunque altra specie animale. Nel contempo, questa plasticità non sembra informe, riconoscendo, come “organizzatori”, i due bisogni fondamentali di appartenenza/integrazione sociale e di opposizione/individuazione.
Questi bisogni, che ritengo geneticamente determinati (e, in ciò, la teoria struttural-sialettica è più radicale rispetto a quella marxiana), appaiono univocamente orientati verso la relazione con l’altro, a partire dal loro porsi originario sotto forma di “condanna ad amare”, e cioè di investimenti relazionali affettivi assolutamente necessari. Se si dà valore a questo aspetto, che sottolinea la tendenza propria della natura umana ad esprimersi e a realizzarsi in virtù di legami significativi con altri esseri umani, e si prescinde dal dare ad esso solo un carattere strumentale, dovuto alla condizione di impotenza e di dipendenza infantile, è lecito sostenere che la natura umana veicola una radicale socialità, e che il suo prendere forma in rapporto alle interazioni ambientali dipende da come l’ambiente si pone nei confronti di ciò.
E’ l’interazione tra natura umana, con il suo corredo di bisogni, e l’ambiente a definire, infatti, la costruzione e la struttura della personalità. Riguardo a ciò, il presupposto ideologico cui ho fatto riferimento è che la definizione della personalità non sia riducibile a livello di interazioni psicologiche. Ogni ambiente familiare, infatti, o, in senso più lato, pedagogico, in quanto costituito da soggetti storici, veicola, oltre che le qualità (e i difetti) personali dei soggetti, modi di vedere il mondo e di significare la vita che incidono immediatamente a livello sia d’allevamento che di educazione del bambino. D’altro canto, la concezione attiva della natura umana porta ad escludere che la costruzione della personalità avvenga in virtù di un’impronta. Da questo punto di vista, ciò che appare decisivo è il modo in cui ogni bambino registra le aspettative dell’ambiente e si adatta attivamente ad esse. Usando la terminologia piagetiana, si potrebbe dire che l’accomodamento, in quanto sforzo attivo del soggetto di modellarsi in rapporto alle condizioni ambientali, cos” come esprime il grado di plasticità individuale (e quindi di ricchezza potenziale) può dar luogo allo strutturarsi di una personalità più o meno alienata per quanto riguarda i bisogni fondamentali.
Ciò che appare decisivo sotto il profilo psicologico, e cioè della soggettività, è, per l’appunto, il grado di alienazione e/o di integrazione dei bisogni fondamentali. L’adattamento della personalità, sino all’adolescenza, è un indice apparente, al di sotto del quale possono darsi condizioni diverse: ampiamente evolutive o già alienate al punto tale da non poter interagire attivamente con gli ulteriori ambienti nei quali il soggetto si inserisce.
A livello cosciente, l’alienazione dei bisogni fondamentali non appare mai. Con l’adolescenza, che, a mio avviso, è lo snodo fondamentale di ogni vicenda umana, ciò che interviene è un processo di ideologizzazione: l’esperienza microstorica privata viene, al tempo stesso, utilizzata e rimossa in virtù del definirsi di una visone del mondo totalizzante, in rapporto alla quale il soggetto progetta la sua vita. Questo processo, sulla cui importanza non si rifletterà mai a sufficienza, comporta l’adozione di categorie ideologiche che il soggetto non produce da sé, ma che adotta dall’ambiente, e che utilizza per tendere verso la realizzazione di valori nei quali vede la possibilità di soddisfare i bisogni fondamentali. E’ a questo livello che l’interazione sociologica, intesa in senso proprio, assume il massimo significato: ché le categorie che il soggetto adotta - libertà, felicità, prestigio, socialità, amore, ecc.- possono risultare più o meno astratte in rapporto alla sua concreta esperienza microstorica.
Non si rifletterà mai abbastanza su questo aspetto, in virtù del quale ogni soggettività si modella su autentici valori la cui forma storica può risultare astratta per due versi: in sé e per sé, in rapporto ai bisogni fondamentali della natura umana (per esempio, la costrizione della tendenza attiva a godere il mondo entro le forme del consumo passivo dei beni); in maniera specifica, e cioè in riferimento ad un’esperienza particolare, perché quella forma trascura del tutto i dati concreti dell’esperienza (un esempio di ciò può essere l’autoimposizione di abbandonare la famiglia come prova della propria maturità ed indipendenza, che si attiva nonostante una persistente dipendenza e una cronica carenza di relazioni extrafamiliari).
La componente ideologica che caratterizza, all’interno di ogni esperienza soggettiva, la percezione dei bisogni fondamentali e la progettazione di sé non può essere ricavata - ed è questo un ulteriore presupposto della teoria struttural-dialettica - dal piano psicologico né soggettivo né interpersonale. Essa attesta, infatti, la potenza catturante dei codici mentali normativi, la cui funzione è di coprire l’inadeguatezza delle strutture reali - economiche e sociali - in rapporto ai bisogni umani. Che essa si eserciti massimamente nelle esperienze che queste inadeguatezze hanno sperimentato con maggiore intensità, entro spazi anche ma mai solo psicologici, è una dato di enorme interesse.
Questo dato, infatti, rivela che, mentre a livello ideologico collettivo, la funzione dei codici mentali è di tener lontana la coscienza sociale dalla possibilità di una percezione critica del reale, a livello individuale, soggettivo, la loro funzione è di psicologizzare esperienze di vita, confinandole entro spazi di elaborazione microstorica e di progettazione che non comportano che due possibilità: o l’accesso alla normalità cos” come essa si pone all’interno del contesto sociale, o l’imbocco del vicolo cieco psicopatologico alla ricerca di valori che il soggetto vive come propri, ma che sono null’altro che il ricatto che la normalità opera su esperienze espropriate dal potere reale di interagire attivamente con il mondo.
Questi presupposti, a mio avviso, possono permettere di fondare una nuova scienza del disagio psichico che non ha bisogno di mettere tra parentesi la soggettività per sfuggire il rischio dello psicologismo o la relazionalità microsistematica per sfuggire al rischio del sociologismo. L’oggetto di questa nuova scienza è il disagio cos” come esso affiora e si pone immediatamente: come denuncia soggettiva o, al limite, come rilievo di anormalità da parte degli altri. A partire da questo dato, quella scienza si impegna in un processo di liberazione che ne restituisce il senso autentico e univoco in termini di alienazione microstorica dei bisogni fondamentali, resa non dialettica, e dunque strutturata, dai codici mentali ai quali il soggetto fa ricorso per perseguire la realizzazione di quei bisogni nonostante la loro alienazione.
La soggettività, e dunque l’esperienza psicologica, è il livello da cui muove la nuova scienza del disagio psichico, riconoscendo in essa una mortificazione della concreta storia dell’individuo nel mondo: ma una mortificazione che non si può porre tra parentesi, poiché essa è depositaria del capitale microstorico, e cioè del rapporto tra bisogni fondamentali, ambiente sociale e codici mentali, senza il cui investimento non si dà liberazione. Liberazione, salute, potere reale sul mondo interno e su quello esterno sono, da questo punto di vista, termini equivalenti.
Detto ciò, il problema della scientificità della teoria che si sta elaborando rimane in sospeso. Anche l’eventuale efficacia della teoria non varrebbe come prova di scientificità: in ultima analisi, i soggetti disagiati potrebbero avere i loro motivi per convalidare guarendo -una teoria che, sostanzialmente, ridona dignità e valore alle loro esperienze (compresi gli errori, le cattiverie e la distruttività). E dunque? Secondo Popper, la scientificità di una teoria consiste nel trovare in essa un punto debole, in breve nel confutarla. Da ora in poi, l’impegno non può essere che questo.
Ogni struttura psicopatologica si articola su di una visione del mondo interno ed esterno incentrata su di un codice di ordine generale che distingue, nella natura umana, nelle relazioni interpersonali e nella società, un "alto" e un "basso". La pressione dei miti gerarchici — l'uno di matrice religiosa, l'altro laico-liberale — è restituita immediatamente alla connotazione dell'alto in termini spirituali — di perfezione morale e intellettuale —, o in termini sociali — di potenza e di prestigio. Ogni struttura può configurarsi come tributaria dell'una o dell'altra connotazione.
Se la struttura ossessiva riconosce una matrice religiosa, la normalità cui essa fa riferimento giunge a coincidere con la virtù, la moralità, l'ascetismo; quando la matrice, altresì, è liberale, la normalità corrisponde ad un modello di rispettabilità conformistica. Nel primo caso, l'ossessivo tende costantemente a differenziarsi dagli altri, esibendo una superiorità aristocratica che non lo espone ad alcuna rappresaglia; nel secondo, viceversa, egli aspira soprattutto all'anonimato, a non dare nell'occhio.
La struttura isterica di matrice religiosa comporta l'ostentazione di un'innocenza angelica e vagamente infantile che suscita l'ammirazione e la tenerezza; se di matrice liberale, essa invece si esprime in una disinvolta e fredda sicurezza, animata da una costante intenzione seduttiva che tende ad irretire esseri deboli. Nel primo caso viene esibita la vulnerabilità come indice di virtù, nel secondo viene ostentata una glaciale inaccessibilità.
Quando riconosce una matrice religiosa, la struttura depressiva gravita verso una normalità caratterizzata dall'affievolimento di ogni emozione calda e intensa rivolta al mondo; quando, altresì, la matrice è liberale, essa postula la repressione della rabbia come indice supremo di moralità sociale. Nel primo caso, il depresso vive nell'incubo di un senso di colpa ch'egli deve espiare mortificandosi; nel secondo, nell'incubo di una vergogna sociale che realizza, per effetto del giudizio degli altri, l'espiazione.
Ciò che viene connotato come basso all'interno di ogni struttura è agevolmente definibile secondo la logica degli opposti: nella struttura ossessiva è rispettivamente la degradazione morale e la perdita di controllo sulle emozioni; nella struttura isterica, la malizia e la vulnerabilità; nella struttura depressiva, l'abbandono alla rabbia e al piacere, come espressione di una ribellione ad un ordine sacro o sociale.
Nel delirio di contatto il soggetto difende la sua integrità morale e psichica, nella quale vede l'espressione di un'ascesa già avvenuta o il presupposto di un'ascesa da realizzare, dal rapporto con un mondo degradante e contaminante; nel delirio di trasgressione, altresì, per affermare la sua indipendenza da ogni autorità, sia essa religiosa o civile, egli tende ad infrangere le leggi o le regole sociali, votandosi alla degradazione.
Nel delirio narcisistico il soggetto mira a realizzare la sua elevazione in virtù della fusione con un oggetto d'amore — sacro o mondano — il rapporto con il quale configura una suprema armonia, immune da ogni conflitto; nel delirio di vulnerabilità, viceversa, egli regredisce in una condizione di totale inermità in rapporto ad un mondo che riconosce il diritto dei forti di dominare i deboli.
Nel delirio di colpa, il soggetto, attribuendosi desideri di vivere immorali e asociali, tende a preservare la sua anima e la sua libertà in virtù di una mortificazione che può giungere all'estremo dell'autosoppressione; nel delirio di immunità, affiora, altresì, una sfrenata voglia di vivere al di fuori degli schemi di una grigia e neghittosa normalità.
Risulta chiaro, da quanto si è detto, che il codice di ordine generale che sottende le strutture psicopatologiche riconosce almeno due diverse significazioni delle categorie di "alto" e di "basso", che permettono di distinguere le strutture stesse in due gruppi…
Nel primo, gli ideali superegoici promuovono una integrazione sociale che postula la frustrazione del bisogno di opposizione; nel secondo, viceversa, essi promuovono un'individuazione pagata al prezzo della frustrazione del bisogno di integrazione sociale…
Correlare gli ideali superegoici alle ideologie sociali non è impresa agevole. L'eterogeneità e la complessità dei primi lascia pensare che il mito gerarchico funzioni come un mostro con più teste, a ciascuna delle quali corrisponde un'organizzazione ideologica apparentemente autonoma. L'unico dato certo in comune sarebbe un'antropologia filosofica tributaria della teoria degli istinti. Quanto alle differenze, la difficoltà di rendere ragione di essa fa capo al fatto che, nel corso della storia, i sistemi di valori di matrice religiosa e liberale si sono intrecciati e sovrapposti, stratificandosi ad un livello, quello dei quadri mentali, che a giusto titolo può definirsi "inconscio sociale"…
La psicopatologia contemporanea (…) attesta che il sistema di valori neoliberale, apparentemente propositivo, poiché promuove l’affermazione personale, il prestigio, la libertà, la razionalità pragmatica, è animato in realtà da quattro nuclei fobici, che fanno capo all’essere inadeguato e impotente, all’esibizione di comportamenti che attestano origini miserabili o una condizione attuale di indigenza, al trovarsi in una condizione di penosa costrizione che attesta l’appartenenza al mondo simbolico degli schiavi, e alla manifestazione di una sensibilità che, in quanto debolezza, rende vulnerabili ad un attacco. Questi quattro nuclei fobici integrano altrettanti codici mentali, che, sotto forma di ideali superegoici, animano l’universo psicopatologico contemporaneo, e che possono essere definiti rispettivamente come codice adultomorfo, rupofobico, claustrofobico, anestetico.
L’interesse analitico che dedicheremo ad essi è imposto dalla pressione ideologica che esercitano a livello del presente sociologico. Ma ciò non deve indurre ad ignorare che la loro pretesa imperialistica urta ancora contro la sopravvivenza, a livello di storia sociale, di codici antitetici sia di ispirazione religiosa che socialista e marxista. L’analisi dei codici neoliberali ha, dunque, un carattere parziale e non esauriente, il cui scopo è, anzitutto, di mettere a fuoco una possibile metodologia dialettica di ricerca sulle ideologie sociali…
1. Il codice adultomorfo
Alle sue origini, che coincidono con l’avvento della borghesia, il codice adultomorfo si contrappone a due modelli negativi: quello delle masse popolari, e soprattutto dei poveri, fondato su un’incoercibile tendenza all’ozio e all’abbandono agli appetiti “bestiali”, e quello nobiliare, parassitario e frivolo. Entrambi questi modelli sono colti come esempi d’imprevidenza e di dipendenza — passiva l’una, tirannica l’altra —: espressioni, dunque, di debolezza di carattere dovuta a lassismo morale.
In contrapposizione ad essi, il modello adultomorfo propugna la forza di carattere come attributo proprio dell’uomo nuovo. Per quanto questa possa far capo ad una predisposizione individuale, essa va promossa e forgiata attraverso un’educazione rigorosa, mirante ad espungere dalla natura umana i germi maligni che essa alligna. Tale educazione deve inculcare nel soggetto la fiducia nelle sue capacità individuali, l’accettazione della competizione e della lotta come legge dell’esistenza, l’etica del lavoro e, come obiettivi ultimi, l’indipendenza e l’autosufficienza.
Proposto originariamente come modello di normalità e di maturità valido universalmente, il codice adultomorfo è venuto ad urtare rapidamente contro un problema inerente la struttura sociale: l’impossibilità di concedere a tutti le stesse opportunità di sviluppo, e la necessità fisiologica di mantenere una quota della popolazione in uno stato di indigenza. L’ostacolo è stato utilizzato paradossalmente: anziché emarginati dal sistema, i poveri sono divenuti i rappresentanti di una categoria — quella degli esseri deboli e privi di tensione morale — che, per demeriti personali, nonché elevarsi, tende a scivolare verso il basso. Ciò ha permesso di significare quella categoria come un fantasma fobico, atto ad alimentare una dinamica sociale di fuga verso l’alto.
Un’ulteriore estensione della categoria è più recente, e si deve, in larga misura, alla scoperta psicoanalitica del bambino come rappresentante ottimale di essa, in quanto radicalmente bisognoso e dipendente dagli altri. Questa scoperta ha provocato un ulteriore rafforzamento del codice adultomorfo, che è giunto a configurare, in ogni vicenda individuale, una soluzione di continuità tra esperienza infantile ed esperienza adulta: soluzione critica che fa coincidere la morte del bambino con la nascita dell’adulto come essere forte, autonomo, autosufficiente, capace di affrontare il mondo e di lottare per affermare la sua potenza.
La contestazione fascista del modello adultomorfo borghese, giudicato mediocre, egoisticamente dedito all’interesse privato e scarsamente incline a correre dei rischi, è stata integrata al modello stesso, con l’effetto di togliere ad esso ogni residua valenza morale.
Dagli anni ‘70 in poi, il codice adultomorfo è giunto a definirsi nei termini di una cieca volontà di affermazione contro tutto e contro tutti. Ma la realizzazione di questa volontà impone di nascondere e di negare ogni bisogno che possa essere vissuto e interpretato come debolezza.
2. Il codice rupofobico
Mentre il codice adultomorfo ha conosciuto una progressione lineare, vanamente ostacolata dal conservatorismo religioso e politico, oscillando solo tra l’esaltazione della potenza individuale in nome dei fini supremi dello stato o dei fini privati, il codice rupofobico, codice di differenziazione incentrato sulla categoria adialettica pulito/sporco, ha una storia più complessa.
Le sue origini sono molto più antiche dell’avvento della civiltà borghese, risalendo alla contestazione cristiana del formalismo farisaico, alla cui moralità meramente esteriore viene contrapposta una moralità interiore, che propone all’uomo una lotta perpetua contro tutto ciò che di sporco agita la sua anima per effetto del Maligno.
Codice morale e, successivamente nel corso del Medioevo, codice igienico, mirante a scongiurare i contagi, esso, a partire dal Settecento, si è definito come codice sociale, devoluto a sottolineare la differenza di rango, soprattutto in rapporto alle necessità o meno di sporcarsi lavorando.
Valenze morali e valenze sociali sono poi confluite nell’ideologia della rispettabilità borghese, che implica un’intima corrispondenza tra forme esteriori e valori interiori. Alla luce di questa ideologia, l’elevazione sociale è imprescindibile da un’elevazione culturale e spirituale: lo sporco, dunque, viene ad identificarsi con la miseria, la volgarità, l’animalità istintuale, il disordine morale; il pulito, viceversa, con l’agiatezza, la superiorità, la distinzione, l’autocontrollo istintuale, la cultura e la moralità.
Proponendo un sistema di valori che associa allo status e al rango la funzione di indicatori sociali, morali e culturali, il codice rupofobico borghese tende a squalificare tutto ciò che, nella natura umana non meno che nel corpo sociale, sta in basso come primitivo, selvaggio, non evoluto, e quindi tendenzialmente amorale e asociale.
Da questo punto di vista, si può comprendere in quale misura la psicoanalisi freudiana, accreditando la teoria istintualistica, e cioè attribuendo alla natura umana un corredo filogenetico che postula la repressione come momento individuale e collettivo di civilizzazione, abbia contribuito a convalidare quel sistema di valori.
In tempi più recenti, il codice rupofobico ha subìto però un’ulteriore trasformazione. Le esigenze del capitalismo avanzato hanno trasceso la morale dell’ascetismo e della rinuncia al piacere su cui si fondava, nell’Ottocento, la rispettabilità. L’ascesa sociale e intellettuale delle classi superiori, cooptate al consumismo, ha imposto nuovi criteri di differenziazione. Nell’ottica neoliberale, stare in alto non implica più la rispettabilità, valore ormai ampiamente condiviso da tutte le classi, eccezion fatta per la categoria degli emarginati, bensì l’ostentazione di status symbols attestanti il prestigio e il successo.
Il codice rupofobico contemporaneo identifica nel lusso e nel consumo di beni materiali e culturali riservati a pochi — dai capi d’abbigliamento alle opere d’arte — l’indice di una condizione sociale prestigiosa, il cui potere di differenziazione come vedremo ulteriormente — consenta anche l’affrancamento dalla morale comune; lo stare in basso è, di conseguenza, definito immediatamente dalla miseria e in maniera indiretta da un consumo costretto entro i confini di beni necessari.
3. Il codice claustrofobico
Se il mito gerarchico ha segnato la storia dell’umanità, configurandola come storia di schiavitù, servaggi e sottomissioni, l’aspirazione alla libertà deve avere sempre animato, sotterraneamente, i cuori umani. Ma il tradursi di questa aspirazione in un codice claustrofobico, che identifica la libertà con l’affrancamento da ogni legame e da ogni costrizione, è di data recente. La scoperta di questo codice, sia pure inconsapevole, la si deve a Freud. Questi, esplorando gli universi soggettivi come pareti di caverne sulle quali vede riflettersi fantasmi di cui non può cogliere il nesso con le strutture — sociali e mentali — della realtà che in essa, con la mediazione del soggetto, si riflettono amplificandosi, coglie in quei fantasmi la prova della asocialità e amoralità della natura umana. A posteriori, tenendo conto del contesto storico ancora impregnato di conservatorismo gerarchico, è agevole vedere in essi l’espressione di un bisogno di individuazione alienato, costretto ad esprimersi nella forma del rifiuto e dell’attacco ad ogni vincolo coercitivo, sia pure esso di natura affettiva…
Il codice claustrofobico è il codice di una libertà individuale in opposizione ad ogni forma di legame sociale: libertà dunque che postula l’attacco e la dissoluzione dei legami.
Freud non può comprendere che non sono i legami interpersonali e sociali in sé e per sé ad essere odiati, ma ciò che in essi scorre: i sistemi di valori mortificanti, mistificanti, alienanti. Ma nessun altro, a dire il vero, sembra in grado di comprendere il dramma sociologico e psicologico di un bisogno di libertà che è esploso entro forme sociali e mentali che lo riconoscono solo in astratto, giuridicamente, ma di fatto lo soffocano, distorcendolo. Consiste in questo la crisi dell’ideologia liberale, che, mossa dall’intento di affrancare le potenzialità dell’individuo e della società nel suo complesso dalle costrizioni del mito gerarchico repressivo, rappresentato dallo stato e dalla chiesa, è giunta ad atomizzare l’individuo e a configurare una società civile all’interno della quale, sia a livello pubblico che privato, ciascuno si sente oppresso dall’altro.
L’ideologia fascista muove dalla crisi della civiltà borghese, che rende l’individuo avverso ad ogni progetto di riforma sociale e, nel contempo, intimamente anarchico, e tenta di risolverla riabilitando un sistema di valori collettivi atto a porre la volontà di affermazione personale, incentivata al massimo, al servizio del corpo sociale, della nazione e dello stato. Ma questa soluzione, nonché risolverlo, sposta il problema: le nazioni che la adottano giungono a sentirsi costrette entro una camicia di forza di convenzioni formali, diplomatiche. Il codice claustrofobico, che sottende l’ideologia nazionalista, esplode nell’anarchia della politica di potenza, del razzismo e della guerra.
Il sistema liberale, nel dopoguerra, non può non tener conto della crisi che ha minacciato la sua sopravvivenza. Ma, non potendo esso rinunciare all’opposizione tra libertà individuale e uguaglianza sociale, che rappresenta l’elemento dinamizzante la gerarchia sociale, l’individualismo va rilanciato inducendo un’ulteriore accentuazione claustrofobica dei legami sociali. Nonché repressa, l’aggressività viene assunta come un aspetto proprio della natura umana e autorizzata nella misura in cui essa viene devoluta a fini competitivi. In conseguenza di ciò, la moralità borghese viene riformulata e perde ogni residua connotazione religiosa. Il ceto dominante, scaricando sui ceti subalterni i valori tradizionali dell’autocontrollo emotivo e della frustrazione pulsionale, riabilita una teoria della élite che le consente di farsi promotrice di nuovi valori. Il rispetto dell’autorità viene soppiantato da una polemica antiburocraticista, che assume talora connotazioni di antistatalismo; la rispettabilità da un anticonformismo più o meno radicale incline alla sperimentazione di nuovi costumi morali; l’etica della rinuncia al piacere dall’edonismo. Ostentata senza pudore e propagandata dai mass-media, la teoria di un’élite, che sembra affrancata da ogni costrizione e irreversibilmente felice, incide nell’immaginario collettivo, schiacciando la società civile sotto il peso di un quotidiano, pubblico e privato, che non può non essere avvertito come penoso.
Non è più, come ai tempi di Freud, la repressione pulsionale — venuta apparentemente meno in conseguenza della valorizzazione dell’aggressività competitiva e della liberazione sessuale — a generare disagio sociologicamente, bensì la proposizione di modelli di libertà irraggiungibili che, a livello individuale e collettivo, funzionano come miraggi atti ad alimentare una dinamica sociale orientandola verso il regno della libertà identificato con il paradiso artificiale dei V.I.P.
Trattandosi, però, di un paradiso necessariamente riservato a pochi, non c’è da sorprendersi per il fatto che la diffusione del codice claustrofobico si traduca, negli altri, in sterili fantasie di liberazione dai pesi della vita. La psicopatologia contemporanea restituisce il codice claustrofobico nelle due versioni che esso ha sinora assunto. In alcune esperienze, tipicamente ossessive, esso si manifesta con la stessa fenomenologia descritta da Freud. Ma, in questi casi, la libertà, proprio perché si presenta con fantasie tali da evocare immediatamente la paura di un’esclusione radicale sociale, rimane inespressa sotto il profilo comportamentale, quando addirittura non dà luogo ad un aumento del controllo.
In altre esperienze, che rientrano nell’ambito isterico, l’esplosione della libertà claustrofobica avviene dopo lunghi periodi di normalizzazione. A differenza del passato, quando esitavano rapidamente in disagio psichico, queste esperienze, grazie a nuove possibilità offerte dal sistema sociale, danno luogo a rivoluzioni private a vicolo cieco. Sollecitate da una incoercibile ansia di libertà, le persone attaccano tutti i legami con la realtà, separandosi dalla famiglia, abbandonando il lavoro, cambiando abitudini di vita. Si tratta di una vera muta, che, prima o poi, dà luogo a crisi psicopatologiche, di solito depressive, dovute sia ai sensi di colpa che alla delusione legata alla scoperta della difficoltà di realizzare un’autentica libertà al di là del movimento rivoluzionario di affrancamento dalle catene del quotidiano. Quando il codice claustrofobico si attiva precocemente, a livello giovanile, gli esiti possono essere diversi. Talora, esso si traduce in una rivoluzione passiva: i soggetti abbandonano la scuola, rifiutando ogni impegno costrittivo, come ad es. il lavoro, si ribellano ad ogni legame parentale e al senso del dovere, si votano ad un’inerzia speso alimentata da sogni di onnipotenza. Talaltra, la rivoluzione imbocca direttamente il tunnel della trasgressione sistemica, sia nel contesto familiare che a livello sociale. Per qualche tempo, può sembrare che questi soggetti amino solo la “bella vita”: di fatto, via via che le esperienze progrediscono, risulta chiaro che esse sono animate da una sfida “viscerale” nei confronti dell’ordine esistente, vissuto come una universale prigione, che postula, in nome di una libertà astratta, la messa in gioco dell’identità personale e sociale, e talora della vita stessa.
4. Il codice anestetico
Occorre, necessariamente, ripercorrere i quadri mentali inerenti la sensibilità per capire ciò che sta avvenendo a livello psicopatologico, oggi.
Con i suoi ideali di libertà e di giustizia, frustrati secolarmente, l’illuminismo, che non è affatto preda del mito di una fredda ragione, mette in movimento, in tutta Europa, uno sconvolgimento emozionale di massa, che rapidamente si configura come incontrollabile.
La civiltà borghese che utilizza, per affermarsi, questo sconvolgimento, orientato verso l’assolutismo conservatore e la religione, si legalizza contrapponendo all’isterismo delle masse popolari, inclini alle passioni, ai pregiudizi e alle superstizioni, il modello morale e sociale del gentiluomo dotato di un perfetto autocontrollo emotivo e capace di mantenere, in ogni circostanza, un atteggiamento equilibrato. Uno degli elementi costitutivi della forza di carattere, necessaria ad affrontare attivamente le difficoltà della vita, diventa il “sangue freddo”, che, a differenza del sangue blu, può essere acquisito solo in virtù d’un’educazione mirante a temperare e a controllare gli eccessi passionali propri della natura umana.
Il codice dell’autocontrollo emotivo, che non è ancora un codice anestetico, implica un rapporto pragmatico con il sociale, un ritiro nel culto degli interessi privati e degli affetti familiari, un bisogno estremo di sicurezza che giunge, rapidamente, a configurare il modo d’essere borghese sul registro dell’aurea mediocritas. La misura emotiva è in realtà, un difetto di spontaneità, che mortifica l’identificazione con l’altro e sconsiglia, al di là del sistema familiare, ogni autentico investimento emozionale. Questa ideologia, vagamente ossessiva, fondata sul calcolo, sulla previdenza e sulla prudenza, promuove una serie di reazioni irrazionalistiche il cui rappresentante principale è Nietzsche, che al modello borghese contrappone l’uomo dionisiaco, il barbaro capace di dare sfogo a tutte le passioni positive — l’orgoglio, la gioia, l’amore sessuale, l’odio, la brama di potere. In realtà, l’irrazionalismo nietzschiano coglie un pericolo reale: che l’uomo rinunci a “sentire” per vivere tranquillo, e che il suo orizzonte vitale si esaurisca nella difesa della sua vulnerabilità emozionale rispetto ad un mondo che i fenomeni dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione rendono socialmente inquietante e carico di tensioni.
Il conflitto tra bisogno di sicurezza e di appartenenza sociale, e bisogno di individuazione, il quale ultimo postula il coraggio di “squilibrarsi” emotivamente in rapporto al mondo, è colto drammaticamente anche da Freud, che, però, pur stigmatizzando le costrizioni eccessive che la civiltà pone all’espressione delle emozioni, non può non giungere a ritenere la normalità una condizione difensiva, configurandosi l’Es, con le sue passioni selvagge, come una fonte pulsionale controllabile ma, in sé e per sé, indomabile.
L’urto tra razionalismo borghese e irrazionalismo vitalistico si realizza, inesorabilmente, nel corso della seconda guerra mondiale. E lascia tracce nelle popolazioni civili, che hanno sofferto l’indicibile nella memoria collettiva.
Nel corso del dopoguerra, in rapporto agli sviluppi della scienza e della tecnologia, il richiamo alla razionalità pragmatica diventa un’ideologia ufficiale. La passionalità viene stigmatizzata come promotrice di utopie pericolose, che possono disinnescare le potenzialità distruttive che incombono sull’umanità. Coinvolti in un processo storico che ormai sembra sfuggire al controllo di chicchessia, e si tiene sul filo del rasoio di equilibri precari, gli uomini non possono trovar rifugio che in ritiro emotivo dal mondo.
Ma non si tratta di una difesa che assicura la quiete: perché il ritiro emotivo dal mondo non coincida con un’autoesclusione, occorre adattarsi razionalmente e rispondere alle pretese di una società in cui i ritmi di sviluppo diventano vieppiù affannosi. Il codice anestetico si fa carico di questa duplice necessità — di isolarsi emotivamente e di competere senza tregua — e promuove un nuovo modello antropologico: quello dell’uomo che, alla stregua di un elaboratore elettronico, valuta razionalmente i suoi investimenti nel mondo — sia a livello sociale che privato — in termini di costi e di benefici.
Anni fa, un film fantascientifico — L’invasione degli ultracorpi — aveva preconizzato l’avvento del codice anestetico: liberati dalle emozioni da una trasformazione parassitaria, che, per il resto, rispettava tutte le altre caratteristiche, fisiche e psichiche, gli individui attestavano una completa beatitudine. Il protagonista, che rifiutava visceralmente quella trasformazione, riusciva a scampare all’invasione e a dare l’allarme al mondo. In un remake più recente il lieto fine saltava: non c’era più scampo per nessuno.
La psicopatologia contemporanea, più della sociologia, che ha indotto Lasch a definire la condizione dell’Io minimo, che, sentendosi assediato e vulnerabile, mira unicamente a sopravvivere, funziona come un’inquietante documento dell’incessante pressione del codice anestetico. Già le statistiche attestano che, negli Stati Uniti, un quarto degli utenti si rivolgono a psichiatri e psicoterapeuti per una sorta di apatico interesse nei confronti della vita, che invano si tenta di inquadrare in una fenomenologia depressiva, mancando, di fatto, ogni altro sintomo che non sia un difetto di sensibilità. Ma, al di là delle statistiche, i dati tratti dalla pratica sono ancora più inquietanti. Indubbiamente, gran parte delle depressioni larvate attuali, che non compromettono l’efficienza individuale, ma tolgono la gioia di vivere, attestano la necessità di una difesa anestetica dalle tensioni della vita.
Ma c’è di più. La struttura isterica si va trasformando ed estendendo a macchia d’olio: anziché le brusche esplosioni emozionali di un tempo, essa si esprime nell’accettazione della vita nella logica della sopraffazione. Molti giochi relazionali senza fine, tra coppie coniugali o tra genitori e figli, sono caratterizzati da dinamiche sado-masochiste il cui obiettivo è l’insensibilità, che viene perseguita da ciascuno sia esprimendo cinismo che ricevendo dall’altro rappresaglie che, facendo soffrire, dovrebbero produrre una sorta di mitridatizzazione al dolore.
Più drammatica è la condizione di adolescenti che, avendo adottato il codice anestetico, tendono a socializzare a partire da una identificazione immaginaria dell’Io come invulnerabile e immune da risonanze emotive. Essi vivono, per periodi più o meno lunghi, in una maschera che attesta l’insensibilità. Ma, prima o poi, vengono ad urtare in situazioni di coinvolgimento emotivo che comportano catastrofi di destrutturazione…