Sono raccolti qui i tre principali articoli dedicati alla famiglia in rapporto alla genesi e all’evoluzione del disagio psichico. Il primo è il quarto seminario del 1983-1984; il secondo è l’ottavo capitolo de La politica del Super-Io; il terzo è il secondo capitolo della parte seconda di Psicopatologia strutturale e dialettica. Come risulta chiaro dalla lettura, i nessi tra sistema familiare, colto sotto il triplice profilo affettivo, comunicativo e culturale, e disagio psichico sono sufficientemente evidenti da un punto di vista psicodinamico. Aggiungerei a posteriori che un’esperienza di disagio psichico si può originare sia a livello affettivo sia a livello comunicativo sia a livello culturale sia, infine, a più livelli. La psicoanalisi insiste prevalentemente sul primo, la teoria sistemico-relazionale sul secondo, l’antipsichiatria sul secondo e sul terzo. Io ritengo che il livello più importante sia sempre il terzo, poiché anche il modo dei genitori di vivere l’affettività e di comunicare con i figli hanno una valenza culturale. Per capire questo aspetto però c’è bisogno di sormontare l’idea, ancora molto diffusa tra psicanalisti e psicoterapeuti, che la soggettività abbia una struttura riconducibile solo all’esperienza privata individuale. C’è bisogno insomma di una teoria che assegni alla cultura il ruolo di una forma entro la quale si declinano le esperienze soggettive, compresi gli aspetti inequivocabilmente individuali e irripetibili. Se i nessi tra famiglia e disagio psichico sono psicodinamicamente evidenti, è fuor di dubbio che il problema delle tipologie familiari che attivano nel figlio un conflitto psicopatologico non è facile da risolvere. Negli articoli si danno vari tentativi di definire tali tipologie, nessuno dei quali, a mio avviso, si può ritenere soddisfacente. Questo è, d’altra parte, l’indizio di una ricerca che è proceduta nel corso degli anni, ma non è riuscita a risolvere tutti i problemi in cui si è imbattuta. Il tema della famiglia è stato affrontato in altri miei saggi e articoli rispetto a quelli che seguono. Questi però rappresentano l’essenziale di ciò che, nel corso degli anni, sono riuscito a capire.
Sommario:
1. Introduzione
2. Autopsia di una famiglia
3. Il sistema familiare sotto il profilo intersoggettivo, interpersonale e metapersonale
4. La famiglia come sistema ideologico
5. I fattori di rischio familiari e individuali
6. Tipologie familiari ed esperienze psicopatologiche:
a) Piccolo mondo antico
b) La classe operaia non va in paradiso
c) L'altra vergogna
d) Alien
e) La cruna dell'ago
7. Per non concludere
1. Introduzione
Alla luce di ciò che si è detto nel seminario precedente, la distinzione basagliana tra faccia reale e faccia sociale del disagio psichico acquista e perde senso al tempo stesso. La faccia reale risulta essere l'insieme delle contraddizioni che, in conseguenza dell'alienazione dei bisogni fondamentali, animano un'esperienza soggettiva, e dei tentativi che il soggetto pone in atto per risolverle, il cui esito - come si è tentato di documentare - è di avviare l’esperienza stessa nel vicolo cieco psicopatologico.
Se si prescinde dall'ipotesi - accreditata ancora da correnti psicoanalitiche - che una presunta predisposizione genetica orienti un soggetto verso 1' alienazione dei bisogni, in virtù della tendenza a distorcere l'esperienza interattiva con l'ambiente, è evidente che la faccia reale del disagio esprime uno scacco dei processi di socializzazione. Ma è pur vero che l'alienazione dei bisogni fondamentali non può essere assunta come causa diretta di disagio psichico, poiché ciò renderebbe incomprensibile la normalità statistica, che è tale nonostante essa, in una certa misura, si fondi su quell'alienazione. Il problema si sposta, dunque, sull'attività del soggetto, sugli strumenti che egli ha per analizzare le contraddizioni e per tentare di risolverle. Strumenti culturali non meno che economici e sociali. Se non esistono contraddizioni insolubili, ma soluzioni che sono rimedi peggiori del male - quelle che strutturano l'universo psicopatologico - la causa ultima del disagio psichico è da ricondurre all'alienazione del soggetto rispetto agli strumenti che gli permetterebbero di integrare e dialettizzare le contraddizioni.
La faccia reale del disagio è dunque la somma di un'alienazione dei bisogni, maturata nel corso del processo di socializzazione, e di un'alienazione del soggetto rispetto agli strumenti - economici, sociali, culturali - che potrebbero permettergli di risolvere quell'alienazione. Se, dunque, si può contestare l'asserzione basagliana che la faccia reale del disagio è, ed è destinata a rimanere, un mistero, è vero che essa si definisce su un piano - quello della soggettività - che riesce incomprensibile ed inspiegabile se non si fa riferimento alla radicale storicità di ogni esperienza umana.
Al metodo microstorico si può chiedere di illuminare i due livelli soggettivi che, concorrendo, danno luogo al disagio psichico: il livello dell'alienazione dei bisogni ed il livello dell'alienazione di strumenti risolutivi delle contraddizioni. E' chiaro che si tratta di livelli diversi: il primo, positivo, fa riferimento a ciò che c'è, e non può non esserci, in ogni trama di esperienza soggettiva che esita nel disagio psichico; il secondo, negativo, fa riferimento a ciò che manca, a ciò che non può o non deve esserci.
La faccia sociale del disagio è definibile nei termini di un'interazione o di un intervento sociale che mira a correggere le soluzioni soggettive adottate per risolvere l'alienazione dei bisogni, ignorando ciò che al soggetto manca per elaborare e realizzare soluzioni diverse e dialettiche. Questa premessa aiuta a comprendere che, se non si vuole confondere le acque, il ruolo del sociale in rapporto al disagio psichico va considerato a quattro diversi livelli, ciascuno dei quali ha una relativa autonomia, per quanto, ovviamente, tutti interagiscono tra di loro.
Il primo livello - e, forse, il più complesso - riguarda la produzione sociale dell'universo psicopatologico, e cioè i nessi complementari tra ideologia dominante, intesa come visione del mondo condivisa dalla maggioranza delle persone che partecipano allo stesso sistema sociale totale, e i nuclei ideologici presenti nelle strutture psicopatologiche. A questo livello, un determinismo grossolano, quale quello adottato da alcune correnti antipsichiatriche, appare del tutto ingiustificato.
E' probabile, infatti, che le strutture psicopatologiche rappresentino, in quanto forme di esperienze del mondo, l'espressione di modalità latenti dell'organizzazione mentale, ovvero che ogni organizzazione sociale, in quanto inesorabilmente ideologica, ne comporti l'attivazione. Sostenere, pertanto, tout-court, che la schizofrenia è un sintomo dell'alienazione antropologica prodotta dal capitalismo è - né più né meno - un'espressione di rozzo radicalismo intellettuale o - per essere meno polemici - una verità così parziale, e restituita assiomaticamente, da renderla falsa o incomprensibile. Ciò che è in contestabile, almeno per chiunque accetti il concetto di strutture psicopatologiche, è che esse, in quanto visioni del mondo, a partire da una matrice formale univoca - l'opposizione tra libertà personale e legge - si articolano intorno a configurazioni conflittuali (indipendenza/legame, anarchia pulsionale /controllo, natura/cultura, piacere/dovere, ecc.) le cui valenze significative sono imprescindibili dall'elaborazione ideologica cui ogni società sottopone i problemi che esse veicolano.
In altri termini, nella loro storicità, le strutture psicopatologiche, quanto ai contenuti, non sono comprensibili che in riferimento ai quadri mentali collettivi che, fornendo alcune soluzioni e non altre a quei conflitti, assolvono una funzione normalizzante il cui limite - che ne definisce la potenzialità patogena -, è che quelle soluzioni devono essere adottate anche quando esse, nonché promuovere la soddisfazione dei bisogni fondamentali, la frustrano, rendendola impossibile.
Economici, in quanto agevolano l'accesso alla normalità in virtù di un consenso inconsapevole, ma ideologici, poiché mirano ad impedire la riflessione sulla loro storicità - e dunque sulla loro inadeguatezza ai bisogni umani -, i quadri mentali collettivi hanno un'inerzia costitutiva rispetto agli altri livelli di realtà - l’economico, il sociale - con cui interagiscono, che diventa pericolosa, sotto il profilo patogeno, quando i ritmi di scorrimento dei livelli di realtà si diversificano e diventano turbolenti. Nessuna società può fare a meno dei quadri mentali collettivi come scorciatoie verso la normalità: nessuna, dunque, è immune dal pericolo che queste scorciatoie risultino, in rapporto ad una somma di circostanze, vicoli ciechi che esitano in disagio psichico. Ciò che si impone, a questo livello, è una rigorosa storicità, e cioè l'esplorazione, nella loro genesi e nella loro funzionalità, dei codici mentali propri di un sistema sociale, rivolta a mettere in luce i nuclei ideologici che animano le strutture psicopatologiche. Un tentativo in questa direzione sarà operato con il prossimo seminario.
Il secondo livello è quello della socializzazione, e cioè del "processo con stadi temporali più o meno definiti attraverso il quale il neonato si trasforma in un membro di una società umana particolare, di una cultura specifica". Questo processo, in virtù del quale l'insieme di possibilità genetiche che è il neonato giunge a fenotipizzarsi, e cioè a definirsi come persona dotata di un certo potere sul mondo interno ed esterno, come socius partecipe di una realtà storica nella quale si integra, conformandovisi o in tensione rispetto ad essa, noi lo abbiamo sinteticamente esplorato nel seminario sulla teoria della personalità. Nonostante l'insistenza sulla necessità di storicizzare lo sviluppo di ogni personalità, senza mortificare l'attività costruttivistica del soggetto, e cioè l'uso che egli fa di ciò che viene offerto dall'ambiente, è fuor di dubbio che, data l'impostazione del seminario, il ruolo delle agenzie di socializzazione - famiglia, scuola, mass-media - è stato più eluso che discusso in maniera approfondita. Le note di lettura, che miravano a colmare tale lacuna, sono rimaste in sospeso (per quanto è certo che dovranno essere riprese). Ora il problema non può essere eluso.
Del ruolo della famiglia, nella genesi e nell'evoluzione del disagio psichico, si parlerà fin troppo nel corso del seminario. Ciò che sembra importante, a livello preliminare, è insistere sul fatto che il processo di socializzazione, quale che sia l'agenzia che se ne fa carico, non può mai produrre direttamente un disagio psichico, ma solo porre le premesse perché esso si definisca. In altri termini, nel corso della socializzazione si può verificare l'alienazione dei bisogni fondamentali. Questo, peraltro, è un fattore necessario ma non sufficiente perché si produca un disagio psichico. Ciò che lo rende sufficiente sono le strategie in virtù delle quali il soggetto tenta di realizzare i suoi bisogni nonostante la configurazione conflittuale che essi hanno assunto: strategie destinate inesorabilmente allo scacco poiché esse mirano metaforicamente alla quadratura del cerchio. Lo spazio dove si determina il disagio psichico è insomma quello soggettivo: ma ciò non autorizza alcun riduzionismo psicologista. Ché, se l'alienazione dei bisogni fondamentali matura nel corso del processo di socializzazione - processo mai riducibile a dati meramente psicologici -, le categorie - emotive, cognitive e culturali - alla luce delle quali il soggetto vive quell'alienazione, e, ancor più, le soluzioni che egli adotta non sono mai prodotte né dal soggetto né dal gruppo cui egli appartiene, poiché appartengono all'ambito dell'universo ideologico. L'attività soggettiva è nulla più che un grilletto che, scattando a fini liberatori, chiude l'esperienza in una struttura psicopatologica.
Il terzo livello è quello delle interazioni tra esperienza psicopatologica e contesti ambientali. Dato che questo, soprattutto per quanto riguarda la famiglia, è il livello empirico con cui, il più spesso, si confronta la prassi - e dal quale è stata ricavata la teoria dei sistemi - è giusto dedicare ad esso una riflessione approfondita.
C'è un dato inconfutabile e significativo: nonostante l'impegno degli studiosi, nessuno è mai riuscito ad identificare né a definire sul piano teorico una costellazione familiare univocamente patogena, tale cioè che essa non possa produrre che disagio psichico. Ciò non significa ovviamente che i contesti familiari siano qualitativamente omogenei: è possibile forse differenziarli secondo un gradiente di rischio potenziale che va da un minimo ad un massimo. Ma il rischio riguarda, sempre e solo, la capacità di produrre l'alienazione dei bisogni nel corso del processo di socializzazione. Il prodursi di un 'esperienza di disagio rappresenta un salto di qualità, per quanto negativo, rispetto alle contraddizioni familiari, nel senso che, anziché veicolarle e trasmetterle, esso tenta di risolverle.
Nonché essere l'espressione di equilibri sistemici che vanno mantenuti ad ogni costo, il disagio rappresenta un fattore di squilibrio, una minaccia e una rottura rispetto ad un sistema che le contraddizioni le vive senza alcuna pretesa di risolverle. Che esso agisca, dunque, promuovendo interazioni non sorprende: ma si tratta di interazioni prodotte ex-novo dal disagio, anche se utilizzano modalità preesistenti. Ogni sistema familiare, del resto, non può utilizzare che gli strumenti di cui dispone. In una certa misura, le interazioni sono indicative di quanto è accaduto nel corso del processo di socializzazione, ma, ancor più, sono indicative della cultura familiare, della visione del mondo che la anima, della prigione ideologica in cui la famiglia è chiusa.
Chiunque non sia letteralmente accecato dal determinismo microsociologico, si guarderà bene dal valutare un sistema familiare prendendo come metro di misura le interazioni che in esso avvengono quando si confronta con una esperienza di disagio psichico. Avviene, semplicemente, ciò che può avvenire: l'alienazione dei bisogni, prodotta dalla famiglia, e amplificata dal disagio psichico, finisce con il catturare tutti i membri in una specie di circoli viziosi senza scampo. Ciò che importa non è ciò che appare, ma ciò che non può apparire: i recinti mentali che impongono al sistema di funzionare in maniera tale da non poter comportare soluzioni. Le possibili soluzioni sono fuori di quei recinti; ma affrancarsene implica il percepirli come catene, liberarsi dalle quali è liberarsi solo dal peso che esse hanno. Ma non è facile, ché i recinti mentali si rafforzano in virtù dell’interazione con recinti economici e sociali.
Il quarto livello è quello della gestione sociale del disagio psichico, delle risposte istituzionali e non istituzionali che esso può ricevere in un determinato contesto. Per quanto questo livello sia di estrema importanza, non ci soffermeremo su di esso, poiché fa parte del piano di ricerca dell'anno prossimo. Abbiamo ormai definito le coordinate del discorso che svolgeremo. Si tratta, in gran parte, di asserzioni già note: insistere su di esse si rende necessario in virtù del credito sempre maggiore che va acquistando la teoria dei sistemi, soprattutto perché essa pretende di porsi, nel campo psichiatrico, come l'unica teoria sociale dotata di potenzialità tecniche. Una nuova scienza del disagio psichico che voglia essere microstorica, contestuale e dialettica non può sottrarsi al confronto. La via che scegliamo è quella della contestazione critica: ma, è ovvio, non ci limiteremo alla fase destruens.
2. Autopsia di una famiglia
E' di Aaron Esterson, con Foglie di primavera l'indagine più minuziosa e completa che sia mai stata pubblicata su un gruppo familiare produttore di disagio psichico. Duole riconoscerlo: si tratta di un'indagine che lambisce nuclei di verità occultandoli in virtù di presupposti fortemente ideologici. Esterson vuole dimostrare la genesi familiare del disagio psichico e, nel contempo, la funzionalità del disagio in rapporto al mantenimento di equilibri sistemici precari. Egli ha almeno il coraggio di dichiararsi determinista e di sostenere che, in quel contesto, alla figlia non poteva accadere ciò che è accaduto: di essere manipolata, fatta ammalare ed infine espulsa. Si dà per scontata una lettura del testo. Ma, alla luce delle premesse da noi elaborate, è possibile una rilettura: una microstoria di seconda mano, insomma.
Fino ai dodici anni, Sara è una "bambina adorabile", precoce e creativa, preoccupata eccessivamente del giudizio degli altri. Con 1' adolescenza si avvia un'esperienza turbolenta: Sara smette di frequentare la scuola, rimane a letto il giorno e veglia la notte per pensare e leggere, si dedica allo studio della Bibbia. Tenta di lavorare nell'ufficio paterno, ma intuisce che i colleghi parlano male di lei. Si ritira di nuovo in casa e avvia la sua guerra di indipendenza nei confronti dei familiari con provocazioni continue. Ha rapporti insoddisfacenti con dei ragazzi e, infine, rinuncia alla vita sociale. Si chiude a riccio in una privacy silenziosa e ostile, nutrita di fantasmi vendicativi. A 21 anno la vendetta si realizza: sta fuori casa una notte e si concede ad un ragazzo. Viene ricoverata e, tornata a casa, precipita nella spirale dei sensi di colpa e dell'espiazione. Viene, infine, internata. Questi dati configurano un tragitto di esperienza che, sul piano formale, ci appare noto. F`ino ai dodici anni, Sara sacrifica i bisogni di individuazione per realizzare un'immagine sociale adorabile, angelicata. Le preoccupazioni per come appare agli altri sono la spia precoce di un'immagine interna negativa: mortificati, i bisogni di individuazione si sono organizzati, dunque, ad un livello socialmente impercettibile, in forma di opposizione e di cattiveria. E' con una struttura di personalità sdoppiata, e già alienata nei bisogni fondamentali, che Sara affronta l'adolescenza: l'affiorare dei desideri sessuali radicalizza l'alienazione dei bisogni di libertà, orientandoli verso una liberazione che è null'altro che una vendetta nei confronti della famiglia. Sara, evidentemente, ha dei bisogni morali molto profondi se questa vendetta, per anni, si riduce ad un'estenuante guerra di indipendenza condotta in famiglia. Deve arrivare all’esasperazione per concedersi una rottura comportamentale: ma questo, anziché liberarla, la chiude nel cerchio dei sensi di colpa. L'espulsione dalla famiglia e l'internamento in una casa di cura, corrispondono, con evidenza, al suo bisogno di espiare.
Le responsabilità della famiglia sono evidenti: proponendo a Sara un modello di perfezione perbenistico, e profittando della sua disponibilità ad introiettarlo, la famiglia ha prodotto, nel corso dello sviluppo della personalità di Sara, un'alienazione dei bisogni fondamentali, resa evidente dallo scarto tra immagine sociale e immagine interna. Quando Sara intuisce questo scarto, essa commette un errore di analisi: identifica il suo io vero nell'immagine interna - che è invece l'espressione di un bisogno di individuazione costretto ad affermarsi solo oppositivamente, e cioè in termini trasgressivi -, e squalifica del tutto la sua immagine sociale che ritiene effetto dei condizionamenti familiari mentre essa esprime, in eccesso, autentiche qualità di educabilità e di moralità. Alla luce di questa analisi, condizionata dalla difficoltà di dare un senso dialettico a livelli di esperienza radicalmente diversi, ma espressione entrambi di bisogni fondamentali distorti dalla pratica educativa familiare, Sara non può votarsi che alla negazione della sua immagine sociale e all'affermazione provocatoria della sua immagine interna. Questo brusco viraggio comportamentale non può che irrigidire il sistema familiare, che, dopo essersi confrontato con un'immagine angelicata, vede affiorare una diabolica mostruosità . Ma il peggio è che Sara stessa, gettando via 1'acqua sporca dei condizionamenti familiari con i suoi bisogni di moralità, giunge a sentirsi mostruosa: la sua libertà, anziché aumentare, diminuisce criticamente, e la timidezza precedente si trasforma in un vissuto persecutorio sociale.
A questo livello, interviene un secondo errore di analisi. Anziché capire che si sta mortificando calandosi in un ruolo meramente negativo e trasgressivo, Sara pensa che ciò che limita la sua libertà continuino ad essere solo i condizionamenti morali della famiglia. Di conseguenza, essa è spinta a radicalizzare la sua negatività, nell'intento di sbloccare il penoso cerchio dei sensi di colpa. Ciò facendo, senza sapere, essa si chiude in una struttura psicopatologica senza dialettica, che identifica la libertà personale nella trasgressione e nell'assenza del senso di colpa. Ciò che segue è scontato: la trasgressione la destinerà ad un'atroce espiazione. Nel momento in cui la famiglia la espelle, ed essa non oppone resistenza, l'ordine morale viene ristabilito: ma è evidente, a questo livello, la connivenza tra la repressione familiare e il bisogno di repressione di Sara.
Il tragitto soggettivo di Sara esita, dunque, in una conferma dell'ideologia familiare. Ma esso ha un'autonomia il cui limite è segnato, con evidenza, dagli strumenti di cui Sara dispone per interpretare la sua esperienza. Strumenti che privilegiano una coerenza assoluta rispetto alla capacità di accettare e dar senso alle contraddizioni, e che, pertanto, impongono a Sara di radicalizzare - nel bene e nel male - una verità parziale.
Esterson, muovendo da presupposti deterministici, che le conclusioni teoriche del libro non valgono a mutare, non può accettare, e quindi vedere, l'autonomia relativa della soggettività, l'attività di Sara nel risolvere i problemi che le si pongono e che finisce con il renderli insolubili. Egli vuole dimostrare che la famiglia di Sara è un sistema persecutorio che non consente scampo, nel senso che o ci si assoggetta alla persecuzione - il cui oggetto sono i bisogni di individuazione - o si viene invalidati e destinati alla follia. Egli sottopone, pertanto, la famiglia ad una vera e propria autopsia che ce la restituisce impietosamente come un cadavere vivente. Paradossalmente, nel giudicarla, egli cade nello stesso errore che Sara commette nei confronti della sua stessa esperienza: l'apparenza della famiglia è un ipocrito velo che cela un nucleo di verità che è nequizie, disordine, immoralità, lascivia. Si tratta, in effetti, di contraddizioni evidenti: ma inquadrarle nelle categorie di vero e di falso estingue ogni dialettica. Non ci dilungheremo su questo gioco al massacro, che pone in luce gli effetti perversi di una teoria familiare del disagio, se non per rilevare che Esterson stesso porta prove che confutano la sua tesi, e che egli non appare in grado di valutare.
La famiglia di Sara, di origine ebrea orientale, vive nell'incubo di una persecuzione che, nel nuovo contesto borghese anglosassone, incombe sulla sua stessa identità, sotto forma di attentato alle tradizioni ortodosse. Come ogni gruppo solo formalmente radicato e accettato, non può contare che sulle capacità dei membri di conformarsi ad un nuovo stile di vita, trascendendolo. La perfezione che i genitori richiedono ai figli è la stessa che si impongono in virtù di una radicale rinuncia ad ogni forma di piacere. Essi sono ossessionati Ietteralmente dall'opinione pubblica, dagli occhi della gente. Ma la persecuzione ebraica non è stata attivata nei secoli da duri giudizi sui loro costumi perversi? Ignorare, a questi livelli, il peso della storia non equivale a falsificare i dati della ricerca? Parlare di Sara come capro espiatorio non sfiora il ridicolo quando si pensa che essa appartiene ad un contesto familiare che ha radici etniche in una popolazione che è stata trattata come capro espiatorio? Tutto ciò non significa, ovviamente, assolvere la famiglia di Sara, ma solo ribadire che senza la comprensione del quadro mentale entro il quale si muove quella famiglia, e senza la storicizzazione di quel quadro mentale, tutte le interpretazioni diventano arbitrarie e sostanzialmente insignificanti.
La famiglia vivisezionata da Esterson ha una visione del mondo che, in un certo qual modo, è riconducibile ad una struttura psicopatologica, quella ossessiva. Essa dá per scontato che, nell intimità di ogni essere umano, ci sia qualcosa di orribile da tenere sotto controllo e da occutare: una natura umana tendente spontaneamente al male. La cultura ebraica rende comprensibile questo pessimismo radicale: l'uomo, con la sua incoercibile aspirazione alla malvagità, è l'essere che Dio si pente di aver creato. Rimedio unico alla corruttibiità della natura umana sono la legge divina e il controllo sociale: dall'una e dall' altro, per moralizzarsi, l'uomo deve sentirsi letteramente perseguitato. Ciò che vi è di terribile in questa visione del mondo è che essa inesorabilmente produce la mostruosità che intende scongiurare, facendo degli esseri umani degli schiavi, o della legge - di una Legge che impedisce ogni abbandono al desiderio, com'è il caso dei genitori di Sara - o della colpa, come è il caso di Sara che ad essa si ribella, dopo averla introiettata. Se prescindiamo da questo nucleo ideologico, ciò che vediamo è ciò che vede Esterson: una famiglia alleata nello scaricare su Sara le proprie contraddizioni, e nell'espellerla con queste. Se teniamo conto del nucleo ideologico, il dramma si anima di una maggiore complessità: la famiglia è impegnata, nell'educazione dei figli, a scongiurare un pericolo che finisce con il produrre nel membro più recettivo sotto il profilo della educabilità. Realizzatosi nella trama della soggettività di Sara, questo pericolo non viene da essa riconosciuto - né potrebbe esserlo - come espressione distorta dei bisogni di individuazione, bensì come 1'io vero. Di conseguenza, per autenticarsi, Sara non può che agirlo. La risposta della famiglia all'affiorare della temuta mostruosità è meno sorprendente del fatto che Sara elabora la trasgressione come colpa, e si destina all'espiazione.
L'apparato della ricerca di Esterson, sia sotto il profilo intersoggettivo che socioculturale, è straordinariamente ricco. Perché, dunque, i dati vengono costretti entro la camicia di forza di una interpretazione così ciecamente deterministica? Il problema è nella definizione di sistema sociale da cui muove l'autore: un sistema sociale - egli- scrive - è semplicemente il modello di interazione e di interesperienza delle persone che lo compongono. L'avverbio, che suona come un lapsus, allude ad una complessità alla quale sia può sfuggire solo in virtù di un sociogenetismo radicale. La via è pericolosa perchè può essere usata per isolare, in un contesto normale , una quota di famiglie malate: quota minoritaria che o viene ritenuta espressione di una disfunzione locale o viene assunta, a sua volta, come sintomo di una malattia del sistema sociale totale.
3. Il sistema familiare sotto il profilo intersoggettivo, interpersonale e metapersonale
L'aver sottoposto a critica il lavoro, meritevole per più aspetti, di Esterson, corrisponde al fine di entrare nel vivo del discorso sul rapporto tra sistema familiare e disagio psichico. Utilizzando i termini interesperienza e interazione, Esterson fa riferimento a due livelli del sistema familiare: il livello intersoggettivo e quello comunicativo o transazionale. Il primo livello postula l'esistenza di soggetti che si esperiscono reciprocamente e si interpretano; il secondo livello fa riferimento alle interazioni comunicative e comportamentali che dipendono dal'interesperienza. Esterson rievoca la lezione di Laing, che è stato il primo a criticare il riduzionismo transazionalista, con estrema lucidità. La citazione è d'obbligo: "Alcune teorie si interessano soprattutto alle interazioni e transazioni tra individui senza occuparsi un granché dell'esperienza di chi le attua.Come ogni teoria che si concentra sull'esperienza e trascura il comportamento può diventare gravemente monca, così delle teorie che si specializzano sul comportamento e trascurino l'esperienza risultano squilibrate. Un rapporto tra persone non è solo transattivo, è anche transesperienziale, ed è proprio qui cbe risiede la sua peculiare qualità umana... La sola transazione, senza l'esperienza, non possiede contenuti specificamente personali... Noi siamo un'intera generazione di esseri umani talmente estraniata dal mondo interiore cbe vi sono molti che sostengono che esso non esiste, e, anche se esiste, non vale la pena di occuparsene; che, ancbe se possiede un qualche significato, non è fatto di solido materiale scientifico e quindi occorre renderlo solido, misurarlo e calcolarlo... (ma) senza il mondo interiore l'esteriore perde ogni significato e senza l'esteriore l'interiore perde ogni realtà".
Per quanto riguarda la messa tra parentesi della soggettività e dell'intersoggettività operata dal transazionalismo, ancora oggi - sono passati 25 anni - non si può dire né più né meglio. Se il mondo interno, inteso come struttura di esperienza soggettiva, si ritiene inaccessibile o indecidibile, le transazioni divengono gli unici dati obiettivi nell'ambito delle relazioni tra persone: ma ciò corrisponde - per citare ancora Laing - "alla socializzazione del mondo dell'osservatore mediante la trasformazione dei dati reali in dati presi (capta) cbe sono presi per dati".
Ma il superamento del transazionalismo in nome dell'intersoggettività, non esaurisce, a nostro avviso, i livelli dell'esperienza. C'è, infatti, un livello metapersonale, che è identificabile nei recinti mentali - cognitivi, volitivi, emotivi - entro i quali si organizzano sia le strutture di esperienze soggettive che il rapporto tra di esse: recinti mentali la cui genesi mette in gioco la storia sociale della famiglia e le tradizioni che essa veicola. Sono questi recinti, intesi ovviamente non solo nel senso limitativo (che è importante) ma anche positivo - di ciò che essi contengono -, che definiscono le possibilità ideologiche che ogni famiglia offre alla strutturazione della personalità. Sono essi che presiedono all'alienazione dei bisogni fondamentali; essi che, adottati dal soggetto come soluzione di questo problema, lo indirizzano nel vicolo cieco psicopatologico; essi, infine, che promuovono certe e non altre interazioni del sistema familiare. Il livello metapersonale - che è il livello dei quadri mentali organizzati dalla tradizione - non è specifico del sistema familiare. Esso investe tutta la realtà umana: è l'orizzonte ideologico entro il quale ogni individuo, ogni gruppo familiare, ogni società definiscono se stessi e il rapporto tra essi.
L'importanza di questo livello è dato dal fatto che esso non si offre mai immediatamente alla coscienza, poiché si maschera proprio in virtù del fatto che ogni coscienza individuale pretende di essere, in misura variabile da soggetto a soggetto, autonoma, libera ed obbiettiva. Esso non può mai essere colto su un piano empirico, a livello relazionale, poiché struttura questo piano ma non appare. Se si ammette l'esistenza di questo livello, il sistema familiare diventa uno spazio nel quale la comunicazione maschera la soggettività e questa, a sua volta, maschera il quadro mentale che la sottende. Ma è solo a partire dal quadro mentale, dall'orizzonte ideologico, che è possibile comprendere e spiegare sia 1'intersoggettività che la transazione. Trascurando il quadro mentale, il rischio è di chiudere le esperienze e le transazioni entro la camicia di forza di un'ideologia descrittivistica. Basterà fare due esempi a riguardo per chiarire l'assunto.
A livello intersoggettivo, l'individuazione della madre iperprotettiva come fattore causale di disagio risale a parecchi decenni fa. Di questa figura si sono fornite le interpretazioni più svariate, che si limitavano a descrivere i bisogni della madre e il suo modo di vivere il figlio. Ma solo quando si è compreso che l'iperprotezione muove da una visione del mondo persecutoria e che essa mira, nel contempo, a difendere il figlio dalla drammaticità di un rapporto diretto con il mondo e ad attrezzarlo ad affrontarlo, quando la famiglia venga meno, quell'atteggiamento soggettivo ha assunto senso. Esso, infatti, definisce sì l’inadeguatezza della madre, ma è un'inadeguatezza relativa, che mette in luce la difficoltà di adattarsi a cambiamenti sociali che, comportando livelli di conflittualità sempre più elevati, mettono fuori gioco selettivamente soggetti rimasti vincolati all'utopia di una socialità non persecutoria.
Per quanto riguarda le transazioni, utilizzeremo una sequenza comunicativa tra una madre e una figlia psicotica, dopo un'aggressione da parte di questa. Figlia: "E perchè ti ho assalita quella volta? Forse era che cercavo qualche cosa che non avevo, per esempio l'affetto; forse era fame d'affetto" Madre : "Ma se non ne volevi mai sapere! Dicevi sempre che erano sdolcinature!." Figlia: "Bene, quando mai me ne hai dato?" Madre : "Per esempio, se volevo baciarti tu dicevi: non essere sdolcinata!" Figlia: "Ma non ti ho mai visto una volta lasciare che fossi io a baciarti".
Riferito da Laing ed Esterson, l'esempio è riportato da Watzlawick come prova di un'interazione circolare che i soggetti interpretano in termini di causalità lineare, poichè punteggiano diversamente le sequenze di eventi. Ci sembra, con tutta evidenza, che questa interazione lascia trasparire un quadro mentale cbe identifica nella espressione degli affetti un debolezza vergognosa. Veicolato dalla madre, questo modo di vivere gli affetti è partecipato dalla figlia, ed impone ad entrambe una sfida il cui fine è dimostrare chi, delle due, è la più forte. Il comportamento aggressivo della figlia - comportamento ricorrente in circostanze del genere - non è una ricbiesta d'affetto: è un tentativo di far soffrire la madre. Vedendola soffrire, è chiaro infatti che essa sente : se sente, è giusto sentirsi in colpa nei suoi confronti, e riparare (in questo caso, con il ricovero).
Alla luce di questo esempio, dovrebbe risultare evidente che, all'interno dei sistemi familiari, la transazione maschera la soggettività e l’esperienza soggettiva maschera il quadro mentale che la struttura. Il comportamento aggressivo della figlia mira a riabilitare, nella madre e in se stessa, la capacità di sentire sull'unico registro disponibile, quello della sofferenza: ma questo registro è l'unico disponibile poiché entrambi i soggetti identificano nella freddezza affettiva la normalità. Se questa dinamica si radicalizza, giungiamo ad intuire la logica del comportamento mostruoso di alcuni soggetti psicotici, che inducono sofferenza nei genitori e rimangono assolutamente indifferenti.
In ogni contesto familiare, dunque, dobbiamo considerare tre livelli: il transazionale, l'intersoggettivo e il metapersonale. In breve: ciò che avviene in esso; il modo in cui, a livello soggettivo, è vissuto ed elaborato ciò che avviene; e il quadro mentale che rappresenta la matrice logica ed ideologica di ciò che avviene e dell'elaborazione soggettiva. E' questo quadro però che permette di comprendere e di spiegare gli altri due livelli, e di affrancarli sia dalla logica deterministica della scacchiera sia da quella arbitraria dei fantasmi. L'interesse di questa affermazione per una nuova scienza del disagio psichico va molto al di là delle apparenze. Infatti, se è lecito parlare di comunicazioni patologiche e di interesperienza distorta, i quadri mentali all'interno dei quali si realizzano le comunicazioni e si elaborano le esperienze si sottraggono, per ovvii motivi, a giudizi di valore di questo genere.
I quadri mentali sono ideologici: le loro potenzialità patogene dipendono dalle costrizioni - emotive, cognitive, volitive - che essi impongono. Ma queste costrizioni sono le stesse che fondano la normalità. Come spiegare che gli stessi quadri mentali producono normalità e disagio psichico? La risposta - l'unica che, per ora, sembra possibile - è che ciò dipende dal grado di coerenza con cui essi vengono partecipati da un gruppo familiare e dai membri. Il disagio, insomma, sarebbe null'altro che una caricatura della normalità, la drammatica conseguenza dell'adozione di quadri mentali, il cui fine è di mascherare contraddizioni reali, per risolverle.
4. La famiglia come sistema ideologico
Le conclusioni cui siamo arrivati nel paragrafo precedente mettono in luce, ancora una volta, il ruolo che l'ideologia, intesa come quadro mentale, svolge nell'organizzazione della soggettività, dell'intersoggettività, delle relazioni interpersonali e degli spazi sociali entro i quali esse si realizzano. Non c'è da sorprendersi: da sempre insistiamo sul carattere onnivoro dell'ideologia, che pervade tutti gli ambiti della vita sociale, relazionale e mentale. Se la nostra ricerca ha qualche pretesa di originalità, tale pretesa può essere identificata nell'assumere il bisogno ideologico come costitutivo della mente umana e nel tentativo di dimostrare che i quadri mentali collettivi, che, in quanto prodotti storici, sono uno dei livelli costitutivi della realtà recingono e/o strutturano le esperienze soggettive anche nella dimensione cosiddetta intrapsichica.
Il bisogno ideologico, inteso come bisogno di un visione del mondo sufficientemente organizzata per progettarsi e porsi in rapporto attivo con esso, e l’ideologia in quanto prodotto storico, e cioè in quanto prodotto dei ceti dominanti, ovviamente non coincidono. L'ideologia ha sempre un carattere costrittivo e costruttivo in rapporto al bisogno, che, nella sua originalità, può essere colto come bisogno di sapere. L'elemento dinamico di congiunzione tra ideologia e bisogno ideologico è la tradizione, la trasmissione di codici interpretativi - cognitivi, emotivi, morali - già organizzati che possono essere accolti, rifiutati, elaborati. Non è certo originale vedere nella famiglia il sistema deputato a trasmettere questi codici, utilizzando la permeabilità e il difetto di strumenti critici propri dell'infanzia per un verso, e i canali comunicativi che si aprono in virtù della qualità affettiva dei rapporti, per un altro. Il sistema familiare è un sistema ideologico in quanto i rapporti interpersonali mascherano la riproduzione sociale - la riproduzione di normalità - cui esso è devoluto. Ma - e questo è il problema - la mascherano agli occhi di tutti i membri della famiglia.
Lo scarto tra il livello interpersonale e quello metapersonale, o ideologico, è all'origine dell'alienazione dei bisogni fondamentali che noi abbiamo assunto come premessa perché si generi un disagio psichico. Ciò che intendiamo dimostrare, ora, è che solo questo scarto è in grado di spiegare i livelli intersoggettivi e comunicativi patologici che si realizzano in alcune famiglie. E che, trascurando questo scarto, non si raggiunge l'obiettività, bensì si definisce una nuova inquietante ideologia: quella del cambiamento per il cambiamento.
Procediamo analizzando una delle ingiunzioni paradossali che si ritengono specifiche della famiglia disturbata: "tu non devi essere così ubbidiente". Il paradosso consiste nell'imporre un comportamento disubbidiente: se il soggetto accetta l'ingiunzione, obbedisce, se la rifiuta, continua a obbedire. In pratica, il cambiamento sollecitato dall'ingiunzione coincide con il mantenimento dello status quo. La fallacia sofistica del paradosso - il cui realizzarsi all'interno di alcuni contesti relazionali è fuor di dubbio - deriva dal trascurare il quadro mentale, che, coinvolgendo tutti i membri, dà alla comunicazione e all'interazione del soggetto un significato paradossale. Il quadro di mentalità, i1 più spesso, è incentrato sulla logica dell'obbedienza come prova di un buon rapporto con l'autorità. Ma esso implica che, al di là di un certo limite, l'obbedienza diventa un atteggiamento passivo che espone il soggetto a subire la volontà altrui, a farsi sopraffare. La contraddizione intrinseca del quadro mentale consiste nell'assumere l'obbedienza come valore sociale ma, al tempo stesso, come mortificazione dei bisogni di individuazione, senza riuscire a definire quale sia il limite tra il valore e il difetto. Ciò induce ad offrire al soggetto la percezione confusa di un pericolo, senza alcun criterio che lo aiuti a definirlo in maniera operativa. Se il soggetto cade nella trappola di questa contraddizione, egli si chiude nel cerchio di un'obbedienza eccessiva segnata da ricorrenti ribellioni fuori misura. Il limite critico dell'ingiunzione è che essa allude alla possibilità che una qualsivoglia autorità strumentalizzi l'obbedienza: ma, anziché porre in gioco l'autorità e la dialettica del rapporto tra autorità e subjectus, essa si traduce in una regola di comportamento che, adottata acriticamente, risulta sterile, poiché irrigidisce il porsi del soggetto in rapporto all'autorità o sul registro dell'obbedienza o su quello della ribellione.
L'ingiunzione, insomma, è paradossale poiché essa comporta una confusa percezione di un pericolo, e una difesa - la ribellione - che può risultare un rimedio peggiore del male. Se teniamo conto dell'attività soggettiva, il problema dell'ingiunzione paradossale si configura diversamente. Essa, infatti, in tanto esiste in quanto si dà per scontato che il soggetto non possa che interagire con essa, accettandola, e dunque ubbidendo, o rifiutandola, e dunque persistendo nella remissività. Ma se ammettiamo che la soggettività è uno spazio di elaborazione delle comunicazioni, nulla vieta di pensare che un soggetto possa trasformare il tu devi - l'ingiunzione - in un atteggiamento autonomo, per es. del tipo "io devo valutare meglio il mio modo di pormi in rapporto all'autorità", oppure "io voglio impormi, come valore, l'obbedienza cieca all'autorità". In ambedue i casi, l'ingiunzione viene elaborata e dà luogo ad un atteggiamento autonomo (perché, se è vero che la libertà è una medaglia a due facce, anche la rinunzia consapevole ad ogni ribellione nei confronti dell'autorità, può essere una manifestazione della libertà...).
L'ingiunzione, dunque, diventa paradossale nei casi in cui il soggetto rinuncia - o è costretto a rinunciare - ad elaborarla: quando egli, più o meno consapevolmente, mortifica la sua capacità critica persistendo in un atteggiamento eteronomo, che implica il bisogno di un'autorità che ponga delle regole comportamentali e la paura di assumersi la responsabilità di una scelta personale. Come i1 messaggio fa riferimento ad un quadro di mentalità confuso, nella misura in cui verte sul comportamento del soggetto in rapporto ad un'autorità astratta, e non sull'autorità nella concreta realtà storica, così la reazione del soggetto, se rimane impigliata nell'ingiunzione, implica un atteggiamento eteronomo che inibisce una presa di posizione personale, autonoma.
L'ingiunzione, dunque, non è paradossale in sé e per sé bensì in riferimento alla storia del contesto all'interno del quale essa si realizza. Per comprendere la sua natura paradossale, l'hic et nunc è ben poca cosa, poiché esso non può dirci nulla del quadro mentale - incentrato sulla dialettica autorità/libertà personale - che la rende formalmente paradossale, nulla dell'eteronomia del soggetto che la rende di fatto tale. Senza riferimento alla storia sociale della famiglia e alla struttura della personalità del soggetto in questione - espressione di un processo di socializzazione -, l'ingiunzione paradossale è letteralmente priva di significato. Non solo essa non permette di comprendere perché avviene ciò che avviene, ma neppure come: essa si riduce a descrivere ciò che avviene. Non entriamo nel merito se ciò possa bastare ad indurre un cambiamento nel sistema: se lo induce, è al prezzo di una mistificazione ideologica di cui non può sfuggire il senso. Il sistema nel quale si realizza quell'ingiunzione paradossale è infatti eteronomo: l'autonomia sollecitata dalla comunicazione è l'espressione di un bisogno a cui nessuno dei membri, evidentemente, sa dare un contenuto personale. Se in questo sistema un terapeuta assume il ruolo dell'autorità che prescrive regole di comportamento, obbligando le persone ad obbedire (o a disobbedire!) è chiaro che il problema si risolve...
Senza la considerazione dei livelli metapersonali, e, in pratica, dei quadri di mentalità all'interno dei quali si configurano le relazioni tra persone e si definiscono i sistemi di comunicazione, è possibile, dunque, solo descrivere ciò che avviene, e, forse, indurre dei cambiamenti. Ma ad una nuova scienza del disagio psichico non interessa il cambiamento per il cambiamento, bensì un cambiamento che risolva l'alienazione dei soggetti dalle relazioni, e dei sistemi in rapporto ai quadri ideologici entro i quali le esperienze soggettive e le comunicazioni interpersonali si realizzano.
L'ottica sistemica, nella misura in cui aborrisce l'ideologia come spazio sociale e mentale di definizione della personalità e delle relazioni, non è né neutrale né obiettiva, bensì, né più né meno, un'ideologia che nega il peso dei quadri ideologici nella vita interiore e sociale degli esseri umani. A questo punto, ci si impone una digressione. La metafora della scacchiera è così ridondante nella teoria dei sistemi comunicativi che vale la pena, prima di riprendere il discorso sulla famiglia come sistema ideologico, dedicare ad essa una qualche attenzione. E' banale affermare che la vita reale non è un gioco di scacchi: banale e impreciso, perché in una certa misura lo è. Il problema consiste in ciò: che neppure a scacchiera può essere neutralizzata ideologicamente. Ipoteticamente, introduciamo un teorico dei sistemi nell’ambiente in cui è avvenuto, anni fa, la sfida tra Korchnoy e Karpov. Egli si sarebbe limitato a rilevare un quadro di regole scontate al cui interno un giocatore, adottando delle strategie particolari, conseguiva la vittoria. L'interesperienza dei giocatori, reciprocamente diffidenti, certi che l'avversario non avrebbe mai potuto vincere per valore, ma solo in virtù di trucchi diabolici, estranei alle regole del gioco, e inclini a veri e propri vissuti persecutori, gli sarebbe sfuggita. Al di là del livello intersoggettivo, lo scontro animatosi intorno alla scacchiera di due visioni del mondo, di due ideologie radicate nell'esperienza storica dei giocatori, La qualità politica della sfida, l'interferenza macrosociologica nel contesto particolare, sarebbero risultate indecidibili. Immersi nell'assillo strategico del gioco, è probabile che anche ai giocatori siano sfuggiti, in una certa misura, sia i livelli interesperienziali che ideologici. Coloro che si sono dedicati ad un'analisi critica delle partite hanno invece individuato negli stili adottati l'espressione non solo di due talenti scacchistici ma anche di due diverse concezioni del mondo, riflettentesi nel microuniverso degli scacchi: la programmazione un po’ burocratica di Karpov, pronta a sfruttare impietosamente gli errori dell'avversario; l'aggressività priva di rigore di Korchnoy, spesso arrischiata al punto tale di offrire egli stesso all'avversario varchi fatali.
Si tratta di un caso affatto particolare, ma esemplare per capire che il gioco con regole dei sistemi comunicativi è uno scheletro teorico, animato dai livelli intersoggettivi e dalle ideologie che strutturano le esperienze soggettive. Assumere il livello comunicativo come l'unico degno di essere considerato, poiché esso conterrebbe la chiave dell'esperienza psicopatologica, equivale ad isolare la scacchiera nel contesto della sfida tra Korchnoy e Karpov o a limitarsi ad analizzare 1e partite a livello di scaccografia. Isolato dalla storia, questo livello, che, pure, ha una sua realtà, si può ritenere insignificante, eccezion fatta per l'esito dell'incontro.
A livello comunicativo, tutto ciò che è dato di cogliere sono i vani tentativi messi in opera dai membri familiari per sbrogliare una matassa che, proprio per effetto di quei tentativi, si aggroviglia ulteriormente, fino a catturare tutti in una situazione intollerabile. Affermare che il problema della comunicazione disturbata si risolve in virtù del fatto che i soggetti che fanno parte del sistema giungono a comunicare sulla comunicazione, a capire le regole del gioco in cui sono impegnati è meno ingenuo che ideologico: se è vero infatti che la metacomunicazione all'interno di un sistema comporta un raffreddamento del gioco interattivo, e, spesso, un qualche cambiamento, non è meno vero che la metacomunicazione non coglie l’ideologia entro cui è catturato il sistema familiare e tanto meno il nucleo ideologico che struttura l'esperienza del disagio psichico. Ritenere essenziale o non per un autentico cambiamento questo livello è di estrema importanza, anche pratica. Noi lo riteniamo essenziale: e, dunque, dobbiamo impegnarci a dimostrarlo.
Molti sistemi familiari nei quali si definisce un disagio psichico sembrano avere in comune la difficoltà di promuovere i bisogni di individuazione: essi, cioè, tendono a mantenere l'integrazione familiare cercando di ostacolare la differenziazione, e cioè la definizione e l’espressione dell’individualità. Lo studio delle comunicazioni patologiche in questi sistemi mette in luce una serie di giochi che tendono ad invalidare i tentativi del soggetto di individuarsi. Trascuriamo, per brevità, di insistere sul fatto, per noi certo, che, in tali casi, il bisogno di individuazione a livello soggettivo si distorce e si aliena fino a porsi in termini di asocialità: e che questo, in ultima analisi, è il vero problema. Rimaniamo nell'ottica del sistema.
Che senso ha questa difficoltà, che sembra insormontabile a livello comunicativo, di accettare la differenziazione dei membri? I motivi sono, ovviamente, molteplici, ma il più significativo e costante sembra essere la paura del cambiamento, avvertito come possibilità di disintegrazione del gruppo familiare sia nel senso fisico che in quello morale. La paura in tanto esiste in quanto essa dà per scontato che un soggetto che si differenzia tronca i legami con la famiglia originaria o organizza un modo di vivere che può risultare disonorante per la famiglia. La metacomunicazione non può far altro che rendere i membri consapevoli di ciò che avviene nel sistema e del fatto che promuovendo la differenziazione le difficoltà diminuiscono. Intanto, questo non è sempre vero: talora, sorprendentemente, è il soggetto stesso che protesta per essere lasciato più libero ad ostacolare attivamente i tentativi di cambiamento dei parenti. Ma, indipendentemente da ciò, la paura del cambiamento sembra assumere talora un carattere terrificante, che frustra ogni intervento terapeutico. In questi casi, è solo l'analisi delle componenti ideologiche di questa paura che può rimuoverla. Queste componenti hanno radice nella nuclearizzazione del sistema familiare, la cui autosufficienza - intesa come capacità di rispondere ai bisogni del soggetto, che evolvono nel tempo (basti pensare ai bisogni della terza età...) - è un mito sociologico, che tende ad incrementare la coesione.
La famiglia nucleare è, in sé e per sé, un sistema precario, in varie circostanze al limite dello scompenso, che, devoluta a promuovere l'indipendenza dei figli, non può che tentare, contemporaneamente, e, in misura diversa, di frustrarla; ché la perdita sociale dei figli segna, talora, effettivamente la morte della famiglia. La nuclearizzazione della famiglia è un esperimento su vasta scala che corrisponde ad una vera e propria selezione culturale. Non è azzardato pensare che questo esperimento produce più paure in alcuni sistemi che in altri. Rimane il problema di definire se questo è un segno di inadeguatezza di alcuni sistemi familiari - costretti a vincolarsi ad un'ideologia familista fusionale - o della forma sociale che la famiglia ha assunto in virtù di condizionamenti storici, sociali ed economici. C'è l'altro versante del problema: la paura del cambiamento riferita non all'abbandono, bensì ad un modo di vivere dei figli disonorante per la famiglia. Questo versante è inesplorabile a livello comunicativo e metacomunicativo. Esso infatti pone in luce 1'intuizione che la famiglia ha di progetti di vita oppositivi, radicali e, in una certa misura, immorali . Intuizione fondata, se è vero che l'alienazione del bisogno di individuazione, prodotta dalla socializzazione familiare, spesso si organizza nel soggetto in una visione del mondo che è la negativa di quella familiare, e che, se realizzata, lo alienerebbe ulteriormente. A questo livello, il problema è che la differenziazione, ostacolata, si ideologizza, agganciando nel mondo modi di essere realizzati sociologicamente, che vengono assunti, per ribellione e disperazione, come modelli di realizzazione di sé. L'incombenza di questi modelli spiega a sufficienza il terrore di un cambiamento. La famiglia non può favorire una differenziazione in queste direzioni. Ma gli ostacoli che essa pone, e che, spesso, confermano quelli posti nel corso della socializzazione, non possono sortire altro effetto che di radicalizzare le scelte più o meno inconsapevoli del soggetto. Ma questa radicalizzazione, nella misura in cui viene confusamente percepita dal soggetto come espressione di un'alienazione del suo bisogno di individuazione, ricade anche su di lui sotto forma di paura.
E' la qualità ideologica di un cambiamento terribile per tutti che chiude il sistema familiare in un circolo vizioso. In breve, la paura del cambiamento che si registra in molti contesti familiari esprime sia la precarietà della famiglia nucleare - e cioè di un cambiamento abbastanza violento avvenuto nell'organizzazione del sistema familiare - sia il rifiuto di modi di essere, socialmente realizzati, che l'alienazione del bisogno di individuazione del soggetto disagiato aggancia come modelli di realizzazione di sé, facendoli incombere, con le loro valenze eversive, sul sistema familiare.
La dialettica dei contrari - per cui alla dipendenza si oppone l’indipendenza, al conformismo l'anticonformismo, al controllo la libertà totale, ecc. - è lo spazio ideologico all'interno del quale i sistemi familiari disturbati si dibattono senza scampo. Ma è vero che questo spazio, riprodotto dalla socializzazione educativa, è, anzitutto, un prodotto storico. E che, infine, il tradimento delle regole educative attesta i vani tentativi che i membri del sistema mettono in atto per risolvere problemi che sono insolubili poiché le loro matrici ideologiche sono del tutto al di fuori degli strumenti di analisi della realtà che esse posseggono.
5. I fattori di rischio familiari e individuali
Se si esclude che esistono contesti familiari patogeni nel senso proprio della parola, capaci cioè di determinare disagio psichico in qualunque individuo ad essi affidato nel corso della fase evolutiva, due problemi si impongono alla riflessione.
Il primo consiste nel definire i fattori di rischio per la salute mentale che occorre presumere esistano nelle famiglie al cui interno si definiscono esperienze di disagio psichico: è ovvio infatti che, pur escludendo un determinismo familiare del disagio, i contesti che lo producono, proprio perché utilizzano, nell'educazione dei figli, quadri mentali collettivi la cui funzione dovrebbe essere normalizzante, devono avere una qualche connotazione differenziale rispetto agli altri, che, di fatto, riproducono la normalità. In altri termini, se si prescinde dall'arbitrio di diagnosticare come malate le famiglie che producono disagio psichico, occorre, a maggior ragione, spiegare come mai esse non riescono a produrre normalità.
Il secondo problema riguarda i fattori di rischio individuali, e cioè in pratica, il mistero per cui, nella stessa famiglia, sia un soggetto piuttosto che un altro a sviluppare un disagio psichico. Negare che esista una qualche predisposizione soggettiva equivale, infatti, a negare l'evidenza delle cose: ma è pur vero che il termine predisposizione è carico di valenze ideologiche che vanno analizzate criticamente, poiché il rischio di cadere dalla padella del determinismo familiare alla brace del determinismo biopsicologico è elevato.
E' lecito pensare che l'ambizione di costringere in una teoria l'infinita complessità dei sistemi familiari e la diversità degli individui sia eccessiva e che, nella migliore delle ipotesi, non possa cogliere che frammenti di verità. Ma la logica del discorso che stiamo elaborando ci impone di rifiutare l'ideologia della complessità del reale nella versione in cui essa pretende di vanificare ogni sforzo teorico. A maggior ragione, nel caso in questione: ché i problemi enunciati non sono posti dalla teoria ma dalla realtà. Ciò significa che ogni prassi che si faccia carico di essi, li interpreta, più o meno consapevolmente. D'altro canto, anche se volessimo chiudere gli occhi su di essi, i presupposti elaborati sinora implicano già delle risposte.
Si è detto, infatti, che la premessa perché si definisca un disagio psichico è l'alienazione dei bisogni fondamentali nella trama di un'esperienza soggettiva, e cioè il porsi essi in termini irriducibilmente conflittuali; e che, inoltre, tale premessa non può essere che 1'espressione del processo di socializzazione, e cioè delle possibilità che vengono offerte dall'ambiente all'individuo per costruire una personalità che abbia una identità e una capacità di relazione sociale. Si è detto, anche, che l'alienazione dei bisogni fondamentali non può essere assunta come causa necessaria e sufficiente per il prodursi di un disagio psichico: essa è nulla più che un fattore di rischio diversamente diffuso in una popolazione (e, comunque, mai azzerato). Che esso rimanga latente o si manifesti è dunque dovuto almeno a due serie di fattori: le possibilità che l'ambiente offre per mascherare l'alienazione, e le strategie che un soggetto pone in atto per risolvere il problema, accettandolo come tale - e costruendo dunque una vita interiore e sociale alienate - o tentando di porre rimedio alle contraddizioni che lo sottendono. L'esito di questo tentativo dipende dagli strumenti - economici, sociali e culturali - di cui l'individuo dispone: quando essi sono inadeguati, in senso lato, il soggetto rischia di intrappolarsi in un vicolo cieco psicopatologico.
I problemi cui si è fatto cenno sono dunque ulteriormente definibili nei termini seguenti: 1) come si produce l'alienazione dei bisogni fondamentali nel corso delle fasi evolutive della personalità? 2) perché l'alienazione dei bisogni si configura e viene vissuta diversamente da diversi soggetti all'interno degli stessi contesti? 3) perché i bisogni alienati si organizzano talora in un modo di essere soggettivamente e socialmente compatibile, tal’altra in una struttura psicopatologica?
Quanto al primo problema, se si accetta il presupposto che i bisogni fondamentali, come espressione del corredo della natura umana, siano contraddittori ma non irriducibili, è chiaro che la loro alienazione, il loro giungere a configurarsi in opposizione adialettica, non può essere che il prodotto della socializzazione, e, dunque, dell'interazione ai tre livelli costitutivi di quel processo: la comunicazione, l'intersoggettività e la mentalità. Già sono stati discussi i motivi per cui noi privilegiamo il livello della mentalità. Per quanto riguarda la socializzazione, esso si identifica con il modello latente di normalità - di come si debba essere - che ogni famiglia adotta nell'educazione dei figli. L'adozione di un modello, che, per essere astratto, tradisce, in una qual che misura, la diversità individuale, si può ritenere un fattore di rischio in sé e per sé. Ché, se i sistemi familiari - come ogni sistema di riproduzione sociale - tendono a privilegiare l'uniformità, la logica genetica tende altresì a rimescolare le carte e a privilegiare la diversità. Il riferimento ad un modello pedagogico normativo, quando si associa all'incapacità di dialettizzarlo in rapporto alla concreta realtà dei figli, potenzia quel rischio, che si può ritenere costitutivo di ogni impresa educativa. Ma, ovviamente, l'incapacità di apprendere dall'esperienza non si può ritenere una connotazione specifica della famiglie che producono un disagio psichico, non fosse altro perché è condivisa da molte altre famiglie che producono normalità. Ci deve essere dell'altro.
L'ipotesi che noi avanziamo è che le famiglie che producono un disagio psichico sono caratterizzate, rispetto alle altre, dal fatto che, intuendo l'alienazione dei bisogni che le sottende, esse non tendono a riprodurla nei figli, bensì a risolverla. Non sembra assolutamente vero ciò che sostiene la teoria dei sistemi: che le famiglie, cioè, usino i figli per risolvere le proprie contraddizioni. E' vero che esse, piuttosto, tentano di mettere i figli al riparo da queste: ma le strategie adottate le riproducono inesorabilmente nella struttura di esperienze dei figli, spesso rendendole insolubili. La specificità delle famiglie che producono un disagio psichico consisterebbe, dunque, nell'adottare, nell'educazione dei figli, modelli pedagogici, il cui fine dovrebbe essere quello di risolvere l'alienazione dei bisogni fondamentali. Ciò implica che esse percepiscono quest'alienazione, e i pericoli che essa comporta, con una maggiore drammaticità rispetto alle famiglie che producono normalità; ma, infine, sarebbe proprio questa percezione, non sorretta da adeguati strumenti d'analisi della realtà umana e sociale, a produrre soluzioni che sono un rimedio peggiore del male che esse intendono scongiurare. Forse è possibile definire ancora meglio la specificità in questione.
Se, infatti, l'alienazione dei bisogni fondamentali, che è presente, in una certa misura, in tutti i quadri normativi pedagogici - poiché come non esiste ancora una scienza dialettica dell' uomo e della società, non esiste una pedagogia dialettica - viene assunta, nella sua intensità, come un indice delle tensioni tra libertà personale e regole sociali, che quei quadri tentano di mediare ideologicamente, non è azzardato pensare che le famiglie che producono un disagio psichico abbiano in comune un qualche radicalismo che le induce a rifiutare la mediazione ideologica, e ad avventurarsi, quasi mai consapevolmente, in tentativi di soluzione delle contraddizioni che i quadri normativi occultano. Se si ricostruisse una sorta di curva di Gauss dei modelli pedagogici familiari, i sistemi che producono disagio psichico dovremmo trovarli alle estremità, e cioè al polo del conservatorismo ad oltranza e al polo dell'utopia.
Per non indurre fraintendimenti politici, è importante sottolineare che questa connotazione sociologica, meramente ipotetica, mira esclusivamente a rilevare che i fattori di rischio implicati in ogni impresa educativa, minimizzati dai quadri normativi che offrono delle scorciatoie ideologiche all'adattamento, vengono amplificati dai sistemi familiari che si impegnano in una sperimentazione inconsapevole, e non sorretta da adeguati strumenti critici, che mira a correggere quei quadri in ciò che essi hanno di contraddittorio. La natura inconsapevole e poco critica di questo impegno non toglie ad esso ogni significato politico, ma lo riconduce nei limiti di una confusa protesta ideologica contro uno status quo che viene vissuto in termini di decadenza o di invivibilità. Se si tiene conto del fatto, poi, che la visione del mondo familiare non è sempre in accordo con le pratiche educative, i cui codici, sfuggendo quasi del tutto alla coscienza, possono riconoscere commistioni di quadri ideologici opposti, si capirà in quale misura in questi sistemi i fattori di rischio siano elevati. Non da ultimo, c'è da tener conto che la costituzione di un nucleo familiare nasce spesso da una logica complementare, dalla necessità cioè di usare l'altro e il rapporto con l'altro come fattore di equilibrio e di contenimento della propria struttura di personalità.
E' evidente, dunque, che le famiglie che appartengono agli estremi di un'ideale curva gaussiana sociologica nascono da tre possibili combinazioni: 1. conservatorismo/conservatorismo, 2. conservatorismo/utopia, 3. utopia/utopia. A questo punto, è possibile, forse, capire meglio cosa distingue la nostra impostazione dalle teorie familiari propriamente dette.
Il concetto di famiglia disturbata o inadeguata o malata risulta essere un giudizio di valore funzionalistico riferito all'adattamento allo status quo. Da questo punto di vista, esso coglie nel segno. Ma ciò che sfugge alla teoria dei sistemi, che aborrisce l'ideologia, è che le famiglie che falliscono nel promuovere l'adattamento dei figli allo status quo appartengono a fasce sociologiche che hanno il merito di mantenere in tensione dialettica una normalità che, altrimenti, si riprodurrebbe indefinitamente. Il motivo del fallimento consiste nel fatto che le famiglie inadeguate si impegnano in progetti per realizzare i quali non basta una protesta emozionale contro lo status quo, poiché essi postulano un'attrezzatura sociale e culturale molto elevata (che, naturalmente, non estingue i rischi...). In secondo luogo, l’insistenza delle teorie sistemiche sull'incapacità delle famiglie disturbate di favorire la differenziazione e la crescita dei membri, misconosce l'altra faccia della medaglia: che cioè difficoltà si originano anche in virtù di una sollecitazione eccessiva alla differenziazione, intesa come indipendenza. Non è un caso: la teoria dei sistemi, nata ed elaborata in un contesto in cui l'indipendenza (ma sarebbe più giusto dire l'intraprendenza...) è un valore antropologico assoluto, funzionale ad un sistema sociale totale, non può vedere la disfunzione che laddove questo valore non viene adottato: deve ignorare che la sua adozione radicale crea disagi di segno opposto. Posta questa premessa, è possibile ormai definire alcune costellazioni familiari ad alto rischio. Ci si perdonerà una qualche imprecisione, dovuto allo stato nascente dell'ipotesi.
Le famiglie conservatrici tendono o a mortificare i bisogni di individuazione in nome di valori perenni e immutabili o ad ostacolare 1' integrazione sociale in nome di un individualismo che postula un rifiuto di modelli relazionali che vengono assunti come espressione di mollezza e di inadeguatezza personale.
Le famiglie utopistiche, viceversa, tendono a mortificare i bisogni di individuazione che vengono giudicati come sintomi di egoismo e di individualismo , o ad ostacolare il bisogno di integrazione sociale in nome della necessità di non scendere a compromessi con il mondo così come è.
L’ideologia delle famiglie conservatrici e di quelle utopistiche rappresenta spesso una mescolanza di istanze etiche, religiose e politiche; ma è importante rilevare che l'ideologia non sempre recepisce consapevolmente quelle istanze: il più spesso essa le traduce in un dover essere , che si pone in termini assoluti. Nella realtà, questo schema si anima in virtù di contraddizioni interne all'organizzazione ideologica e di contaminazioni tra opposte ideologie. In ogni caso, esso veicola una configurazione dei bisogni fondamentali che, rispetto al quadro della normalità dominante, è più radicale e squilibrata, per un verso o per un altro: più alienata, dunque, ma nell'intento, estraneo al quadro normativo, di risolvere le contraddizioni che questo recepisce e media in virtù di una logica meramente adattiva.
L'impostazione data al discorso ci aiuta a capire che le costellazioni familiari a rischio elevato propongono modelli all'interno dei quali l'alienazione dei bisogni si configura in maniera tale da predisporre ad una strutturazione psicopatologica. Se l'individuazione viene privilegiata nei termini di un'indipendenza assoluta, atta a porre al riparo dalla qualità ricattatoria dei legami, si può parlare di una predisposizione ipocondriaca. Se l'individuazione, per essere salvaguardata, postula una relazionalità superficiale, di rapina e impone di aborrire legami profondi e significativi, ai quali si attribuisce il potere di limitare eccessivamente la libertà personale, è lecito parlare di predisposizione maniacale. Se il bisogno di integrazione sociale viene proposto in termini eteronomici, di controllo dall'esterno, si può parlare di predisposizione paranoica. Se, altresì, esso insiste nel privilegiare l'immagine sociale come unico livello di realtà psicologica, la predisposizione si definisce come isterica. C'è infine da considerare la possibilità che sia il bisogno di individuazione che quello di integrazione sociale siano sollecitati, ma su due registri - quello della libertà interiore e quello del controllo - che o estraniano: in questo caso appare lecito parlare di una predisposizione ossessiva.
Non si possono ignorare le critiche numerose cui si espone ciò che si è detto: se non è riduzionistico, lo schema però è abbastanza ri duttivo. Ma, a partire dalle stesse premesse, si potrebbero, per esempio, ricostruire altre costellazioni familiari. Nella realtà, poi, è probabile che le famiglie che producono un disagio psichico riconoscono configurazioni complesse, o, addirittura, transitino, nel corso della loro storia, attraverso più di una delle configurazioni descritte.
Ma ciò che appare importante, ai fini di una nuova scienza del disagio psichico, sono le premesse: essere d'accordo sul fatto che le famiglie che promuovono un'alienazione dei bisogni più marcata sono quelle che più si impegnano a risolvere le contraddizioni intrinseche, e dunque il grado di alienazione presente nei quadri normativi del contesto cui esse appartengono. Una rilettura delle microstorie sinora presentate pensiamo possa accreditare sufficientemente queste ipotesi. Le costellazioni familiari da noi definite comportano un rischio elevato di produzione di disagio psichico: ma, per quanto elevato, questo rischio non giunge mai a configurarsi come una causa necessaria e sufficiente. E' chiaro perché: anche quelle costellazioni veicolano modi di essere che, realizzati, possono dar luogo ad una qualche normalità.
I modi di essere familiari, per quanto alienati sotto il profilo dei bisogni fondamentali, non coincidono con le strutture psicopatologiche: il salto tra gli uni e le altre è dato dal fatto che il soggetto, anziché accettare l'alienazione dei bisogni, tenta di risolverla con strumenti di analisi, logiche e strategie che lo buttano nel vicolo cieco psicopatologico, alimentandolo ulteriormente. Quale predisposizione soggettiva sottende questo tragitto di esperienza? Anche a questo livello, la difficoltà di avanzare delle ipotesi è legata alla necessità di costringere entro uno schema una varietà di vicende umane che sembrano ribellarsi ad ogni semplificazione arbitraria. Ma c'è un dato di fatto inconfutabile che rende possibile formulare delle ipotesi: ogni esperienza di disagio psichico, quale che sia la forma che assume e il contesto nel quale affiora, è strutturata dal senso di colpa. Reso evidente dalle autopunizioni intrinseche ad alcune strutture psicopatologiche (la minaccia di morte nella struttura ipocondriaca, i dolori o le inibizioni funzionali nell'isteria, la minaccia di internamento carcerario o manicomiale nella struttura ossessiva, la mortificazione morale nella depressione, la persecuzione sociale nella struttura delirante), esso sembra difettare solo nella struttura maniacale: ma, in questo caso, come abbiamo visto, è ricavabile dall'intenzionalità dei comportamenti colpevoli che è orientata a far scattare la punizione, sul versante soggettivo o su quello sociale.
Se si tiene conto di questo dato, il problema della predisposizione soggettiva del disagio psichico si identifica con la predisposizione al senso di colpa, e cioè con una qualità morale che si può ritenere costitutiva della natura umana, e che è uno dei fondamenti dell'educabilità. Non abbiamo esitato, altrove, a parlare di bisogno di moralità, intendendo con ciò sottolineare il fatto che la liberazione della vita mentale da ogni controllo istintuale non si sarebbe potuta realizzare se non in virtù dell'affiorare di quel bisogno sotto forma di autoregolazione. Possiamo ammettere, pertanto, che questo bisogno faccia parte del corredo genetico umano e che esso sia direttamente proporzionale alle potenzialità mentali, cognitive ed emotive. Ciò significa che più sono ricche quelle potenzialità più è spiccato il bisogno di autoregolazione, o che, in altri termini, l'educabilità, intesa come tendenza ad introiettare un codice morale, è più elevata nei casi in cui le potenzialità mentali, nella loro ricchezza, sono vissute con maggiore drammaticità.
L'adolescenza, che è la fase nel corso della quale queste potenzialità si riattivano, induce una verifica delle capacità del codice morale introiettato di integrare le contraddizioni che esse veicolano, e, soprattutto, di mediare il conflitto tra bisogni di individuazione e bisogni di integrazione sociale. Nei casi in cui la ricchezza dei bisogni, espressione della ricchezza delle potenzialità mentali originarie, urta contro la camicia di forza di un codice rigido e costrittivo, il soggetto può risolvere il problema in due modi: o elaborare il codice, riconoscendo nell'introiezione l'espressione di un suo bisogno, o rifiutarlo come un condizionamento esterno. In questo secondo caso, egli si avvia, senza sapere, in un vicolo cieco psicopatologico, in virtù del fatto che la libertà che deriva dal rifiuto del codice, e dal bisogno di autoregolazione, si configura come paurosa, tale da richiedere un'autorepressione.
Il soggetto che sviluppa un disagio psichico è, insomma, né più né meno, vittima di un bisogno di autoregolazione, espressione della ricchezza delle sue potenzialità mentali, che, nelle fasi originarie dello sviluppo, dà luogo ad una rigida introiezione del codice morale proposto dall'ambiente, e, dall'adolescenza in poi, a un rifiuto del codice che, comportando un misconoscimento del bisogno stesso, ne induce la trasformazione in inibizione di una libertà paurosa. Libertà paurosa come espressione delle distorsioni cui, nel corso della fase evolutiva, sono andate incontro le potenzialità mentali e cioè, in pratica, il ricco corredo dei bisogni fondamentali. Questa distorsione è misurata dallo scarto, costitutivo di ogni esperienza di disagio psichico, tra l'immagine sociale e l'immagine interna di sé. In difetto di una logica dialettica, questo scarto può essere risolto solo con il senso di colpa, che tiene a freno la negatività dell'immagine interna.
Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che l'intensità del senso di colpa è un indice prezioso di questo scarto. Che questo, a sua volta, è un indice fedele della distorsione cui sono andati incontro i bisogni fondamentali nel corso delle fasi evolutive. E che, infine, la distorsione attesta la ricchezza originaria di questi bisogni. Molte altre cose dovrebbero essere dette. Ma, a questo punto, l'esigenza che prevale è quella di esemplificare il discorso teorico. Non c'è da sorprendersi, pertanto, se le microstorie che seguono sono caratterizzate da un tentativo di mettere a fuoco la specificità dei contesti familiari e dei soggetti che sviluppano in essi un disagio psichico.
6. Tipologie familiari ed esperienze psicopatologiche
L'ipotesi che la specificità delle famiglie che producono disagio sia da ricondurre all'impegno di ridurre le contraddizioni implicite nei quadri mentali normativi - e, ovviamente, presenti a tutti i livelli della realtà -, impegno che si riversa naturalmente nell'educazione dei figli, e che la predisposizione soggettiva al disagio comporti un'adesione partecipe a questo progetto, che, poi, va incontro ad una vera e propria catastrofe nel momento in cui esso viene vissuto come mortificante i bisogni fondamentali, postula, indubbiamente, di numerose verifiche, sia teoriche che pratiche. Ma, se alla luce di esse, si rileggono le esperienze psicopatologiche riferite - da Schreber a Sara, passando attraverso le microstorie -, ciò che sorprende è il potere dell'evidenza di sottrarsi allo sguardo. Si trattasse solo del nostro, poco male: sarebbe una salutare lezione di umiltà. Ma lo sguardo che viene giocato dall'evidenza è quello di Freud, di Schatzmann, di Esterson: personaggi di portata diversa, indubbiamente, ma a ciascuno dei quali è difficile negare l'acutezza.
Come è possibile che Freud non veda che Schreber padre elabora un sistema pedagogico che rievoca, alla lettera, quello spartano, e il cui fine è di violentare la natura umana per trarre da essa tutta la ricchezza possibile ed espungerne la miseria? Come è possibile che Schatzmann non veda che quel sistema, nel suo radicalismo, gravita verso l'utopia di un uomo destinato a fondare un mondo nuovo nel quale l'umanità sia affrancata da tutte le nequizie, e cioè sia finalmente purificata ed armoniosa? A Freud sfugge il conservatorismo patetico di Schreber padre, a Schatzmann il suo radicalismo rivoluzionario . E Schreber figlio, esponente autorevole delle forze dell'ordine sociale, in quanto magistrato, che alligna dentro di sé il fantasma della criminalità, non appare egli stesso eccessivo in tutto: nel regime ascetico di vita che si impone, così alieno alla ricca borghesia tedesca cui appartiene, nel disordine totale cui si abbandona ammalando, e nell'ordine supremo che restaura con la struttura delirante? Un caso eccezionale, d'accordo. Ma come ignorare che la stessa logica familiare e soggettiva pervade tutte le microstorie riferite? In apparenza, prevalgono di gran lunga le famiglie conservatrici: ma il conservatorismo ad oltranza non è forse una forma dell'utopia, nella misura in cui esso fa riferimento ad un passato che non coincide minimamente con il passato storico? D'altro canto, almeno una famiglia, quella di Mario, non si può certo definire conservatrice, per il significato totalmente nuovo che essa dà ai valori dello studio e del lavoro: ma gli effetti, nel figlio, non sono meno devastanti.
Ciò che sembra poter affermarsi con sufficiente sicurezza è che i quadri normativi, via via che una società calda (nel senso levistraussiano) come la nostra diventa più complessa, si organizzano mimando una plasticità, e cioè la tendenza a mediare tra tradizione e cambiamento, che é solo apparente. Tanto è vero che, nonostante una fenomenologia sociale dialettica, la loro rappresentazione può essere riferita ad un'ideale curva gaussiana, tal che, via via che ci si discosta dalla centralità, ove i quadri normativi funzionano adattando gli uomini e i gruppi sociali alle contraddizioni, aumentano i rischi potenziali di produzione del disagio psichico.
Ciò significa che i quadri mentali normativi sono adattivi in rapporto alla realtà così come è, e cioè che essi impongono una riproduzione sociale degli uomini il cui fine è il mantenimento degli equilibri sistemici: ma il sistema in questione è il sistema sociale totale. I sottosistemi familiari ad alto rischio sono, dunque, con probabilità, sottosistemi in opposizione, per un verso o per l'altro, al sistema sociale totale. Per quanto paradossali, anche in rapporto a certe logiche che sottendono le elaborazioni della psichiatria alternativa, queste conclusioni, che tenteremo ora di comprovare (in virtù di un materiale, indubbiamente insufficiente), meritano di essere approfondite. O, comunque, che se ne tenga conto.
I due capitoli precedenti hanno posto in luce le differenze sostanziali che sussistono tra strutture ed esperienze psicopatologiche. Data una matrice che opponga irriducibilmente il Super-Io ai bisogni alienati, matrice che si può ridurre formalmente al conflitto tra volontà altrui e volontà propria, le strutture psicopatologiche possono essere descritte e analizzate senza alcun riferimento ad individui o contesti ambientali particolari. Esse rappresentano, come si è detto, modelli astratti, che permettono di oggettivare ciò che nelle esperienze psicopatologiche appare come determinato e generale: in breve, ciò che si ripete con una coerenza intrinseca elevata.
L'universalità nello spazio e nel tempo delle strutture psicopatologiche, cui già si è fatto cenno, attesta che ogni società, in nome del mito gerarchico, e cioè di un'armonia che rispetti l'ordine di cose esistente, utilizza quelli che potremmo definire i "punti deboli" della natura umana — la prolungata dipendenza dell'infante e il bisogno di appartenenza sociale — per promuovere l'assoggettamento delle coscienze al sistema di valori che razionalizza e naturalizza la sua organizzazione politica, sociale culturale, e per debellare, ad ogni livello, l'affiorare del bisogno di opposizione con sanzioni psicologiche, riconducibili univocamente ad un processo di colpevolizzazione soggettiva, riservando sanzioni repressive alla devianza sociale.
In altri termini, in ogni società strutturata dal mito gerarchico, il bisogno di individuazione può realizzarsi solo al prezzo di un attacco simbolico colpevole alla tradizione e all'autorità, e cioè ai valori superegoici introiettati nel corso della dipendenza infantile. Facendo veicolare tali valori da persone — i genitori, gli educatori — cui i bambini sono legati da vincoli affettivi significativi, il mito gerarchico oppone alla nascita e all'affermazione di una coscienza critica un ostacolo di enorme portata, l'attacco ai valori superegoici non potendo essere vissuto che come attacco alle persone che li hanno trasmessi. Ipotizzando il parricidio come momento di passaggio dallo stato di natura allo stato di cultura, destinato a ripetersi nel corso di ogni esperienza soggettiva, Freud sfiora una verità che, per motivi ideologici, capovolge.
La nascita della coscienza morale critica — il passaggio, dunque, da una condizione culturale etero-diretta ad una condizione autodiretta — postula l'attacco alla tradizione veicolata dai "padri"; e quest'attacco, in sé e per sé evolutivo non distruttivo, prima ancora che soggettivamente, è colpevolizzato culturalmente dalla tradizione per invalidare l'opposizione al potere gerarchico.
In quanto dominato dal senso di colpa, almeno nella forma elementare dell'angoscia sociale, non c'è da sorprendersi che l'universo psicopatologico sia rappresentato ovunque, nello spazio e nel tempo; il senso di colpa è, infatti, anzitutto un prodotto culturale mirante a inattivare le potenzialità oppositive e critiche della coscienza umana. Alla suggestiva proposta di Lucien Febvre, già citata, potremmo aggiungere una voce di estremo interesse: la storia del senso di colpa.
Se si ammette che la matrice conflittuale da cui originano le strutture psicopatologiche, eccezion fatta per la forma a priori superegoica, che postula la condivisione dell'esperienza del gruppo di appartenenza, non è nell'ordine della natura o, in altri termini, se si attribuisce all'uomo una vocazione piuttosto che una renitenza alla socialità, è ovvio ipotizzare che quella matrice si genera nel corso dei processi di socializzazione individuale. Dal punto di vista psicopatologico, però, tutto ciò che si può dire su questa genesi è che essa rinvia ad un'organizzazione socioculturale che postula un certo grado di alienazione dei bisogni e offre modelli normativi la cui adozione dovrebbe permettere agli individui di adattarsi ad essa. Da ciò discende che coloro che sviluppano un disagio psicopatologico o hanno subìto, nel corso delle fasi evolutive della personalità, un'alienazione intensa dei bisogni fondamentali o, pur adottando i modelli proposti dall'organizzazione sociale, oppongono ad essi un rifiuto "viscerale" insormontabile.
La psicopatologia, in quanto scienza astratta di forme di esperienza, non consente di andare al di là di tali inferenze. Nella realtà, non si danno strutture bensì esperienze psicopatologiche irretite in esse. Ogni esperienza psicopatologica — come si è tentato di dimostrare — anima l'universo strutturale di sistemi di significazione, inerenti il mondo interno, quello esterno e il rapporto tra essi, la cui complessità ideologica esclude la possibilità di considerarli come prodotti soggettivi.
Se le strutture psicopatologiche sono modelli astratti universali, le esperienze rinviano immediatamente ad un mondo storico, strutturato da sistemi di valori specifici, per quanto univocamente riconducibili al mito gerarchico. L'analisi degli ideali superegoici, svolta nel capitolo precedente, ci ha posto di fronte ad una realtà che si può ritenere specifica della nostra civiltà, anche se in un senso relativo: la coesistenza, a livello di mentalità, di ideologie molteplici che, per riprendere la lucida analisi di Duby (Storia sociale e ideologia della società, in Fare storia a cura di J. Le Goff e P. Nora, Einaudi, Torino 1981), sono totalizzanti, deformanti, normalizzanti, pratiche e concorrenti, ma che, nondimeno, risultando tutte funzionali alla persistenza del mito gerarchico, non tendono ad eliminarsi reciprocamente, bensì piuttosto a stratificarsi e a condensarsi. Ciò significa che esse agiscono, nel tessuto sociale, settorialmente, accaparrandosi quote diverse della popolazione, fluendo, ramificandosi e riproducendosi attraverso le istituzioni, i sistemi e i gruppi sociali.
Se ciò è vero, parlare, per la nostra società, di una crisi di valori, è un non senso: occorre piuttosto parlare di una crisi da eccesso di valori, che postulano, nel contempo, la mortificazione dell'individuazione e l'esaltazione dell'individualismo, e producono sensi di colpa, riferiti alla percezione soggettiva di pulsioni asociali, e vergogne sociali, riferite ad un grado di integrazione vissuto come inadeguato e inferiore. Tenendo conto di ciò il problema dei rapporti tra singole esperienze psicopatologiche e storia sociale può essere impostato in maniera autenticamente dialettica.
L'affiorare statisticamente indeterminato — locale: in un microsistema piuttosto che in un altro; ed événementiel: in un membro piuttosto che in un altro dello stesso gruppo — delle esperienze psicopatologiche, all'interno dello stesso sistema sociale, può essere, infatti, ricondotto al problema dei fattori congiunturali che fanno sì che la normalizzazione promossa dal mito gerarchico, con un apparato ideologico senza eguali nel corso della storia umana, esiti, localmente e individualmente, in un'esperienza di disagio. A questo problema sono state date finora due risposte, entrambe inadeguate.
La prima, fornita dalla psichiatria alternativa politica, secondo la quale una società alienata non può non produrre che miseria reale e/o psicologica, per cui la sociologia del fenomeno è di gran lunga più importante dei tentativi di spiegare il carattere locale ed événementiel della sofferenza, è formalmente corretta ma scientificamente insignificante e praticamente limitativa. Posto infatti che la miseria reale incida indubbiamente sull'epidemiologia e sull'evoluzione del disagio psichico, rimane comunque da spiegare perché lo stesso contesto di miseria determini esperienze diverse — normali e psicopatologiche — negli individui che ad esso appartengono. Quanto alla miseria psicologica, che investirebbe ceti sociali senza rilevanti problemi di ordine materiale, si tratta di un flatus vocis ideologico, esposto, per di più, alla medesima critica.
La seconda risposta fa capo alla nouvelle vague psichiatrica internazionale, coalizzatasi, ormai, nel sostenere che, essendo la realtà umana multidimensionale — biologica, psicologica e sociale —, solo un approccio empirico, mirante a valutare, di esperienza in esperienza, la somma, l'interazione e l'incidenza nel tempo di quei fattori, possa permettere di giungere ad una definizione scientifica delle condizioni di rischio, di quelle precipitanti e di quelle determinanti l'evoluzione del disagio. Con il suo carattere esplicitamente compromissorio — e non dialettico —, l'ipotesi multidimensionale ambisce a superare e a risolvere i determinismi e i riduzionismi che avrebbero trasformato la psichiatria in un ambito di incessanti polemiche ideologiche piuttosto che di ricerca obiettiva, con il risultato di invalidare la sua scientificità agli occhi dell'opinione pubblica.
Ponendo tra parentesi l'interesse primario gerarchico dell'ipotesi multidimensionale — di passivizzare la coscienza sociale in rapporto a problemi il cui studio e la cui gestione andrebbero delegati ai "tecnici"—, rimane il fatto che essa predica in maniera persuasiva ma razzola male. Tutte le ricerche sinora effettuate nell'ottica multidimensionale, infatti, concordano su di un solo punto: nel sostenere che ogni esperienza di disagio psichico riconosce, come causa prima, un’abnorme "vulnerabilità" individuale, e cioè una predisposizione di natura genetica che verrebbe attivata nell'interazione con ambienti evolutivi sfavorevoli e, dando luogo alla strutturazione di una personalità "fragile", produrrebbe una più o meno rilevante difficoltà di adattarsi al mondo e, soprattutto, di confrontarsi con situazioni ambientali " stressanti" o eventi di vita negativi. La pretesa multidimensionalità, sfrondata degli orpelli ideologici, si riduce, in ultima analisi, a reificare l'ordine logico dei fattori — biologico, psicologico e sociale — come ordine temporale e causale.
È evidente che sia l'impostazione sociologistica che quella multidimensionale riconoscono come limite le ideologie implicite cui fanno riferimento: nel primo caso, il marxismo volgare; nel secondo, l'empirismo positivista. Una nuova scienza del disagio psichico, che assuma come oggetto suo proprio le concrete esperienze individuali, deve superare entrambi questi punti di vista parziali in nome della dialettica uomo/ambiente. Essa non può darsi pertanto che come scienza microstorica: scienza di esperienze soggettive ciascuna delle quali tenta di integrare, fallendo, un passato sociale, familiare e personale in un progetto mirante a preservare e corroborare l'identità individuale e sociale. Scienza microstorica, deputata a cogliere nei tempi brevi delle esperienze soggettive la congiuntura dei tempi inerziali dei bisogni, la cui incessante pressione attesta l'orientamento della natura umana verso il mondo; dei tempi lunghi della cultura, i cui modelli di normalità si stratificano e si condensano a livello di mentalità; e dei tempi medi dei sistemi sociali e familiari, che quei modelli veicolano con il carico di contraddizioni proprio delle persone che li trasmettono.
Parlare di scienza microstorica facilmente induce a pensare alla riproposizione di un metodo biografico arricchito da rimandi allo sfondo macro e microsociale. In realtà, il metodo microstorico ha poco da spartire con l'idiografia, di cui abbonda la letteratura psichiatrica. Per chiarire questa differenza, torniamo, ancora una volta, all'esperienza di Paola. La mentalità che sottende il Super-Io di questa, proiettato su un intero contesto metropolitano, per il fatto di esprimersi sotto forma di messaggi verbali — allucinazioni, indubbiamente — può essere ricostruita nei dettagli come un sistema di valori inerente il ruolo della donna nel mondo.
Tale sistema muove dal presupposto che la moralità ricade nell'ambito della responsabilità femminile. Gli uomini sono esseri squilibrati, deboli — inclini a perdere la testa per uno sguardo — o amorali — pronti a profittare di ogni occasione che ad essi si offre per soddisfare i loro "istinti". L'ordine morale dipende dal comportamento, virtuoso o "vizioso" delle donne. Il Super-Io di Paola veicola un quadro di mentalità di lunga durata le cui matrici religiose — riconducibili alla contrapposizione simbolica tra Eva e Maria e arricchite di valenze "naturalistiche" tipiche della cultura contadina, che non riesce ad affrancarsi dal fantasma del disordine prodotto dalla "femmina in calore" — sono state integrate dal codice morale borghese ottocentesco sotto forma di scissione tra "angelo del focolare" e "prostituta". A Paola tale codice arriva attraverso la famiglia e il contatto assiduo con ambienti religiosi (scuole di suore, parrocchia). Inurbandosi precocemente, e sviluppando una mentalità cosciente apparentemente aperta, la madre di Paola ha tentato di ribellarsi a quel codice, la cui persistenza è attestata, però, dall'assoluta frigidità, confessata alla figlia non come problema bensì come prova della superiorità morale della donna che si presta, per dovere, a soddisfare i bisogni fisiologici del marito. Dalla madre, dunque, Paola eredita il codice morale repressivo e nuovi bisogni di indipendenza, che quella non ha potuto realizzare. La vivace e precoce percezione degli atteggiamenti maschilisti del padre incrementa l'ansia di liberazione dal servaggio. Per mascherare il conflitto con la tradizione, e le fantasie di libertà che ad essa si oppongono, Paola, con l'adolescenza, si cala nel ruolo di "madonnina". Essa intuisce che si tratta di un ruolo falso, e che, un giorno o l'altro, dovrà liberarsene. Ma come? La vita di quartiere — un quartiere periferico ove la piccola borghesia si mescola con il sottoproletariato — offre modelli di comportamento atti solo ad incrementare il conflitto. Le "brave" ragazze vivono, più o meno, come Paola; le ragazze "libere" sono quelle che vanno in macchina da sole con i ragazzi, cedono alle loro richieste; talora, rimangono incinte.
Paola non ha né strumenti culturali né rapporti sociali che possano permetterle di mediare il conflitto che alberga. Il delirio d'amore rappresenta una drammatica quadratura del cerchio: esso si inaugura con una caduta simbolica nel peccato che poi dà luogo al ravvedimento e all'espiazione. Ma, di fatto, in virtù del delirio, Paola si affranca e dalla tradizione e dalle tentazioni del mondo. Leggere in questa esperienza gli effetti congiunturali di una tradizione culturale (conflittualizzatasi nel corso delle generazioni) e di nuovi bisogni affiorati, in conseguenza di ciò, in Paola e che questa non può realizzare secondo modelli di comportamento ad esso offerti dal mondo in cui vive, non significa ignorare altri aspetti. È fuor di dubbio, in particolare, che le "voci" da cui Paola si sente perseguitata debbano corrispondere ad un qualche disordine cerebrale, funzionale e/o biochimico. Ma è evidente che, con il loro carattere chiaro e distinto, esse, nonché mere allucinazioni, sono messaggi di una tradizione orale, di un codice culturale che, pur essendo stato secolarmente attivo, non risulta scritto da nessuna parte, non è stato ufficialmente riconosciuto né, propriamente parlando, trasmesso a voce. Non solo: il delirio di Paola, con le sue ambigue ma inconfutabili valenze protettive, che lo rendono insolubile, funziona anche come stigmatizzazione e rifiuto "viscerale" di un sistema di valori nuovo, che identifica la libertà della donna con il suo essere disponibile per uomini che continuano a trattarla come un oggetto. L'utopia di Paola, di una donna libera ma padrona di sé, che decide del suo destino, è incompatibile sia con la tradizione sia con i modelli di comportamento alternativi offerti dall'ambiente sociale in cui essa si trova a vivere.
Una singola esperienza non può accreditare un metodo, né, tantomeno, esaurire il discorso sui nessi molteplici tra globale e locale, collettivo ed individuale, strutturale ed événementiel. Ma dovrebbe essere chiaro che, assumendo la soggettività come fattore di mediazione tra bisogni umani e storia sociale, e tenendo conto che essa si integra a partire dalla determinazione storica dei bisogni e dalla utilizzazione di sistemi di significazione appresi, non occorre però, per rispettare la particolarità specifica di un'esperienza individuale, psicologizzarla, né — per cogliere in essa quanto vi è di generale in senso storico — sociologizzarla.
La soggettività è immediatamente l'universale concreto: l'ambito in cui la storia, e cioè la realtà nella totalità delle sue strutture — economiche, sociali, mentali — modella i bisogni umani, e, attraverso la mediazione della coscienza, viene da essi, in misura proporzionale al grado di alienazione prodotta, modellata, rifiutata e realizzata nel contempo. Nessun soggetto può affrancarsi totalmente dalle determinazioni che subisce nel corso delle fasi evolutive della personalità; ma queste determinazioni, dall'adolescenza in poi, agiscono sotto forma di proscrizioni, prescrizioni e proposizioni superegoiche che investono la totalità dell'esperienza individuale, sia sotto il profilo soggettivo che comportamentale, e il cui potere sull'Io non è meramente rievocativo, fondandosi esso su un grado di alienazione dei bisogni che lo rendono necessario al fine di preservare l'identità personale e sociale.
L'influenza dell'ambiente esterno, enorme nelle fasi evolutive, tende a ridursi progressivamente in misura proporzionale allo strutturarsi del conflitto tra Super-Io e bisogni alienati: in ogni esperienza, c'è un momento critico al di là del quale il mondo interno, con la sua matrice conflittuale che esprime la storia interattiva del soggetto con gli ambienti evolutivi, diventa determinante, nel senso che condiziona il modo di essere e di porsi del soggetto in rapporto al mondo. Come si è visto analizzando l'esperienza di Paola, il determinismo soggettivo, per quanto possa giungere a configurare una visione del mondo e una pratica della vita apparentemente dereistiche, non è altro che l'amplificazione di una matrice conflittuale determinata, sia per quanto riguarda il grado di alienazione dei bisogni che i valori superegoici, dall'ambiente.
La determinazione ambientale non va intesa, però, in senso meccanicistico. Ogni famiglia veicola, attraverso i singoli membri ed il sistema, una quota di bisogni alienati e la corrispondente sovrastruttura superegoica, riconducibili alla storia sociale e personale dei membri genitoriali e alla integrazione ideologica del sistema familiare. Occorre, dunque capire come e perché, ad un certo livello della catena generazionale, si determina una situazione congiunturale, tale per cui quest'integrazione può produrre un'ulteriore normalizzazione o un'esperienza di disagio psichico; e, in secondo luogo, perché il conflitto strutturale latente nel sistema familiare si esprime, svelandosi o amplificandosi, in un figlio piuttosto che in altro. Il primo problema può essere agevolmente compreso se si utilizza dialetticamente la teoria dei bisogni.
Trasmettendosi di generazione in generazione, il mito gerarchico, rimanga esso vincolato ad un sistema di valori di matrice religiosa o si affranchi da esso laicizzandosi, determina un'alienazione sempre più marcata dei bisogni, che può essere mascherata da una sovrastruttura superegoica, manifesta o latente, sempre più rigida. Date le loro matrici biologiche, i bisogni, però, continuano a premere: anzi, la pressione che esercitano si può ritenere direttamente proporzionale alla loro alienazione. È facile capire che, per questa via, si configura, dopo alcune generazioni, una struttura congiunturale, tale che la matrice conflittuale o si esprime psicopatologicamente o si risolve in virtù di un radicale cambiamento di sistemi di valori. Talora, sembra che in alcuni sistemi familiari si realizzi questa seconda possibilità. E ciò rende misterioso il riprodursi, nella struttura esperienziale di un figlio, di un Super-Io apparentemente estraneo alla visione del mondo cosciente genitoriale. Ma, se si ricostruisce la logica delle proscrizioni, prescrizioni e proposizioni superegoiche, affiora sempre un quadro di mentalità individuabile nella storia sociale familiare, anche se a livello di generazioni passate. In questi casi, la trasmissione dei valori superegoici avviene, il più spesso, saltando apparentemente la generazione genitoriale: ma occorre ammettere logicamente, e, se si danno le occasioni, si può anche dimostrare, che si tratta di un fenomeno di latenza.
Il Super-Io filiale riproduce, in breve, amplificandolo, un Super-Io genitoriale mascherato ideologicamente da una visione del mondo incentrata, apparentemente, su valori diversi. Anche considerando il sistema familiare più semplice, quello nucleare, non si può ignorare, peraltro, che la coppia genitoriale è costituita da persone distinte, ciascuna con il suo bagaglio di storia sociale e individuale. Ciò determina, spesso, conflitti tra sistemi di valori superegoici di matrice diversa. Per quanto questi sistemi possano essere ricondotti al mito gerarchico, la loro coesistenza e la loro proposizione da parte dei genitori realizza un ulteriore effetto congiunturale: in tali casi, infatti, il processo di socializzazione dei figli si configura come un processo di acculturazione.
Se i sistemi familiari, anziché sotto un profilo psicodinamico o comunicativo, vengono analizzati mirando a definire il conflitto strutturale attivo nelle personalità genitoriali, i sistemi di valori superegoici effettivamente trasmessi e le coperture ideologiche del conflitto, si riesce agevolmente ad individuare una situazione congiunturale e a valutarla come espressione di una storia sociale, genealogica e personale tributaria del mito gerarchico, in una o più delle sue versioni ideologiche, giunta ad un livello critico tale che i bisogni alienati, non potendo più essere contenuti nei sistemi di valori trasmessi, postulano o un'ulteriore normalizzazione regressiva o lo strutturarsi di un'esperienza psicopatologica.
Non possiamo, per ovvie ragioni di sintesi, delineare le indefinite costellazioni familiari che configurano ciascuna una situazione congiunturale. Dobbiamo, però, almeno dire che, in epoca recente, la stratificazione e la condensazione a livello di mentalità di sistemi di valori di matrice religiosa e di matrice liberale, funzionali al mantenimento del mito gerarchico ma in opposizione, ha prodotto, a livello familiare, una situazione che si può ritenere critica in senso generale.
Lo stato di cose esistente nel mondo, che postula l'accettazione di una disuguaglianza arbitraria come espressione di meriti o demeriti individuali, induce, sempre più spesso, le famiglie ad imporre ai figli il rispetto dell'autorità, delle regole sociali e dello status quo, e, nel contempo, a sollecitare in essi un'intraprendenza che, avendo come obiettivo l'ascesa sociale, postula l'accettazione della legge del più forte. In altri termini, la gerarchia, riconosciuta per un verso, va rifiutata per un altro: ché ascendere socialmente significa, né più né meno, scavalcare qualcuno o prendere il posto di un altro. Un esempio paradossale, ma estremamente significativo di questa confusione ideologica, è fornito da famiglie di tradizione cattolica che promuovono nei figli il bisogno di primeggiare, nella scuola e nel lavoro, come espressione dei valori cristiani del senso del dovere, dell'abnegazione e della donazione agli altri.
Questo approccio al sistema familiare può essere facilmente equivocato come un approccio culturale o cognitivista. In realtà, esso ha poco a che vedere con il culturalismo. In primo luogo, infatti, ciò che si sostiene è che le famiglie trasmettono di fatto non un sistema di valori bensì un conflitto strutturale cui quei valori dovrebbero rimediare. In secondo luogo — e non si rifletterà mai abbastanza su questo — i sistemi di valori familiari non vengono mai proposti, originariamente, in forma intellettuale: essi, infatti, ne siano o no consapevoli i genitori, si traducono immediatamente in pratiche educative, e cioè in un sistema di proscrizioni, prescrizioni e proposizioni più o meno esplicite che investe i bambini in quanto esseri senzienti, e tende di fatto a modellare, impregnare e determinare il sentire. È la sensibilità la qualità primaria dell'educabilità: qualità anteriore alla ragione, alla quale si rivolgono le pratiche educative. È su di essa, strutturandola, che in virtù dell'identificazione con i grandi, si fonda il potere del Super-Io. La dipendenza e il cieco affidamento dei bambini, per alcuni anni, configura l'unica condizione sociale "naturalmente" gerarchica. Profittando di questa condizione, l'onnipotenza genitoriale si esercita paradossalmente dando luogo ad un'amplificazione del conflitto strutturale latente nel sistema familiare, si esprima esso nel progetto di realizzare con il proprio figlio un rapporto di totale armonia, esente da ogni conflitto, o, viceversa, nel tentativo di correggere precocemente tutti i disordini e gli squilibri che esso esprime. Il tipo e il grado di conflitto strutturale veicolato dalle famiglie incide a livelli diversi della evoluzione della personalità. Talora, esso realizza un effetto rapidamente paralizzante o squilibrante, frustrando gravemente o attivando il bisogno di opposizione: i bambini inibiti, più o meno gravemente, sul piano comportamentale e, viceversa, iperattivi e difficili sono i drammatici testimoni di un'alienazione precoce dei bisogni. Più spesso, l'incidenza del conflitto strutturale familiare si incrementa progressivamente nel corso della crescita, soprattutto in rapporto alle crisi di opposizione, giungendo al massimo grado all'epoca dell'adolescenza. Al di là di questo periodo, l'influenza della famiglia non viene meno, ma indubbiamente il modo di porsi del soggetto in rapporto ad essa e in rapporto al mondo assume un significato determinante.
Le "trappole" familiari analizzate dalla teoria dei sistemi non sono che apparentemente trappole comunicative: esse, in gran parte, si fondano sulla incapacità dei soggetti coinvolti di distinguere, in se stessi, negli altri e nelle relazioni, quanto attiene ai livelli superegoici da quanto attiene i livelli egoici. Si tratta, in altri termini, di trappole sovradeterminate dalla logica superegoica del padrone e del servo, che frustrano i tentativi, pur ricorrenti, dei soggetti di interagire sul registro della comprensione e della solidarietà. Il secondo problema, definito dall'affiorare del disagio in un figlio piuttosto che in un altro richiede una risposta articolata.
Occorre tenere conto di due fattori, gli uni casuali gli altri predisposizionali, concorrenti nel trasformare una situazione congiunturale familiare in esperienze psicopatologiche. I fattori casuali sono riconducibili all'identità biologica, all'ordine di genitura, all'intervallo tra le nascite, al numero dei figli, a circostanze particolari quali malattia e morte di un membro genitoriale, separazione dei coniugi, cambiamenti residenziali, vicissitudini socio-economiche, ecc. Tali fattori si possono ritenere casuali in quanto il ruolo che essi svolgono, talora determinante, dipende dalla incidenza che essi hanno sull'assetto, psicologico e sociale, del sistema familiare; il loro ruolo, pertanto, non essendo mai diretto, bensì mediato da un particolare sistema familiare, può essere definito di volta in volta ma non teorizzato.
I fattori predisposizionali sono, altresì, riconducibili genericamente alla ricchezza del corredo dei bisogni. Come si è detto nella prima parte, i bisogni sono complementari tra di loro, ma si manifestano, nella loro tensione reciproca che esprime il potenziale evolutivo individuale, in tempi diversi e a fasi alterne. L'alienazione dei bisogni, che si può ricostruire all'interno di ogni esperienza di disagio psichico, induce ad ipotizzare un'originaria e vivace sensibilità "viscerale" che, in virtù dell'identificazione con gli adulti, induce una spiccata tendenza a conformarsi e a rispondere alle loro aspettative. Ciò implica una strutturazione del sentire che si modella in rapporto alle proscrizioni, alle prescrizioni e alle proposizioni superegoiche ambientali. Non è superfluo ripetere che la matrice del Super-Io, ciò che ne rappresenta il calco, attiene la sfera emozionale, non quella cognitiva: solo in fasi successive dello sviluppo, questa matrice è destinata ad arricchirsi di contenuti culturali che la confermano e la ideologizzano. Quanto più la sensibilità è vivace, e dà luogo alla introiezione delle aspettative superegoiche ambientali, tanto più, complementarmente, occorre ammettere che sia attivo il bisogno di opposizione. È evidente che lo scarto tra quelle aspettative e questo bisogno determina la struttura originaria della personalità. Tale scarto può evolvere secondo varie possibilità in rapporto alla plasticità dell'ambiente familiare, all'interazione con ambienti extrafamiliari e all'acquisizione di strumenti culturali critici che rendono possibile elaborarlo.
Il fattore predisposizionale perché si definisca un'esperienza di disagio psichico non è dunque specifico, ma generico, coincidendo con un corredo ricco di bisogni. Se questo è vero, ed è — tra l'altro — confermato dall'intensità dei bisogni che, benché in forma alienata, sottendono in ogni esperienza psicopatologica, occorre guardarsi dall'esasperare tale affermazione in senso antipsichiatrico, giungendo ad attribuire ai disagiati psichici un significato testimoniale utopistico che essi non hanno e che non pretendono di avere. Indubbiamente non si dà un'esperienza psicopatologica se non a partire da un corredo ricco di bisogni, ma è infondato sostenere che un corredo di tal genere, dato lo stato di cose esistente, non può esitare che in un'esperienza psicopatologica.
Sono oltremodo rari i casi in cui il sistema familiare veicola una matrice conflittuale che non concede scampo al soggetto: in tali casi, tra l'altro, manifestazioni di disagio tendono ad affiorare precocemente, in età infantile. Più spesso, e fermo restando che l'alienazione dei bisogni prodotta dal sistema familiare rappresenta un momento necessario ma non sufficiente, occorre pensare ad una somma di circostanze sociali e culturali che rendono quell'alienazione irrimediabile, e nel senso di impedire una normalizzazione e nel senso di rendere impossibile un'elaborazione critica. Da questo punto di vista, almeno sino ad una certa età, la responsabilità della famiglia è indiretta, poiché consiste nell'operare scelte di ambienti extrafamiliari — scuola, chiesa, ecc. — a nome dei figli e nell'operare selettivamente, come filtro dei contatti con il mondo, delle informazioni. Questa funzione indiretta, diaframmante, del sistema familiare in rapporto al mondo è massimamente evidente nei casi in cui la mentalità familiare, sia essa di matrice conservatrice o neoliberale, è di tipo elitario. Il problema della predisposizione individuale postula un'ulteriore considerazione.
Se esso, infatti, come noi sosteniamo, viene ricondotto ad un corredo ricco di bisogni, e cioè alle capacità di registrare ed interagire con i livelli contraddittori — superegoici ed egoici — dell'ambiente, c'è da chiedersi come mai, nei casi in cui si definisce un'esperienza psicopatologica, questa ricchezza potenziale non giunge ad organizzarsi sotto forma di presa di coscienza; come mai i soggetti che sviluppano una precoce opposizione viscerale ai sistemi di valori superegoici, finiscono con l'esserne vittime e, talora, con il diventarne implacabili funzionari. Questo problema, a nostro avviso, è di ordine eminentemente culturale, e il disagio psichico non fa altro che restituirlo amplificato, permettendo, tra l'altro, di apprezzarne la drammaticità. Ancorata per la sua stessa struttura al registro del sentire, che permette di cogliere la doppia identità genitoriale, la coscienza infantile, nel suo ulteriore sviluppo, non riesce a dar senso a questa confusione, che può essere confermata dall'esperienza extrafamiliare, poiché la nostra cultura è, sostanzialmente, di tipo personalistico.
L'astuzia del mito gerarchico, nelle sue diverse versioni, consiste proprio nel trasmettersi attraverso persone e legami interpersonali significativi, mascherando la sua disumanità sotto "volti" umani. La "rivoluzione" psicoanalitica, che ha operato il decentramento della soggettività in rapporto alla coscienza, non ha prodotto ciò che essa non intendeva produrre: la consapevolezza del carattere sovrastrutturale della coscienza in rapporto alla storia sociale e personale sedimentata, sotto forma di conflitto tra Super-Io e bisogni alienati, nella struttura profonda della personalità. Gli uomini sanno, bene o male, dell'esistenza dell'inconscio individuale; nulla o poco sanno dell'inconscio socio-storico, dell'ininterrotto dialogo con la tradizione e il potere di cui ciascuno di essi è un interlocutore costretto inesorabilmente, e in una misura diversa da soggetto a soggetto, a parlare un linguaggio mortificante.
Al di là delle fasi evolutive della personalità, l'importanza dei fattori ambientali, ai fini del definirsi di un'esperienza di disagio psichico, non può essere considerata indipendentemente dall'attività del soggetto e dall'attrezzatura culturale di cui egli dispone per interpretare i fatti della vita, e, cioè, in ultima analisi, dalla matrice conflittuale che sottende la sua personalità e dalle sovrastrutture ideologiche che la mascherano. Un determinismo soggettivo radicale è, teoricamente, improponibile, ogni uomo dovendosi muovere comunque entro un orizzonte e uno spazio storico determinato.
Per fare un solo esempio, un giovane che, preda di un delirio di vulnerabilità, si ritira in casa e si isola per anni da qualunque interazione con il mondo esterno, determina la sua condizione di vita usufruendo almeno di tre possibilità offerte dall'ambiente: la convivenza familiare, la privacy domestica e una progettazione sociale che, in nome di un valore astratto di libertà, trascura la "scomparsa" di un membro, ritenendola un suo diritto, se essa non turba l'ordine pubblico.
È fuor di dubbio, però, che un determinismo soggettivo relativo ha una grande importanza dal punto di vista psicopatologico. Pur muovendo da presupposti che sfuggono alla coscienza, e cercando, solitamente, di confermare, piuttosto che di mettere in crisi, un sistema di valori astratto, un soggetto, operando, a partire dall'insieme delle opportunità che gli vengono offerte, scelte di vita, di rapporto, di lavoro, di organizzazione del tempo libero particolari può costruire un "suo" mondo e un modo di essere che, frustrando i bisogni suoi, inesorabilmente promuoveranno un'espressione psicopatologica del conflitto strutturale latente. Molte esperienze di disagio psichico che insorgono in età adulta, dopo periodi di vita più o meno lunghi apparentemente normali, o anche singolarmente produttivi da un punto di vista personale, familiare e sociale, sono da ricondurre ad una progettazione incentrata sulla percezione soggettiva di un pericolo — il più spesso di impazzire — ch'essa, nonché scongiurare, finisce, per alcuni aspetti, con il realizzare.
Pur valutando adeguatamente il determinismo soggettivo, non occorre mai dimenticare che, essendo la nostra società strutturata dal mito gerarchico, ogni ambiente offre, oggettivamente, la possibilità di essere utilizzato per mortificare, piuttosto che liberare i bisogni umani. Ciò non significa che si debba ritenere il nostro mondo incline o predisposto a produrre disagio psichico: di fatto, esso è predisposto a normalizzare, e cioè, con i suoi codici astratti, a fornire alimento ad un'attività soggettiva che, in rapporto ad un conflitto strutturale che la sottende, dovrebbe prescindere da essi e procedere in tutt'altra direzione per integrarsi.
Da ultimo, non si può non far cenno al problema degli eventi di vita traumatici, casuali e del tutto indipendenti dall'attività del soggetto, cui la psichiatria contemporanea rivolge una particolare attenzione tendenziosa, mirando a confermare che, a parità di condizione, coloro che crollano in crisi psicopatologiche in conseguenza di quegli eventi appartengono alla categoria degli esseri costituzionalmente vulnerabili. La tavola di tali eventi, corredato ciascuno dal suo potenziale di rischio statistico, è null'altro che l'elenco di tutte le possibili sventure che, nel corso della vita, possono capitare agli uomini. C'è un dato comune ad esse, che la psichiatria multidimensionale, orientata a quantificare la forza di carattere individuale, ignora: tutti quegli eventi, realizzando una condizione oggettiva di sofferenza, pongono alla prova, nonché la resistenza psicologica (o biologica) dell'individuo, anche le forme di partecipazione della società alle sofferenze di un suo membro, e cioè la solidarietà. Non si può escludere che coloro che crollano sotto il peso delle disgrazie, siano vulnerabili; di certo, il loro crollo testimonia anche una variabile — la solidarietà, appunto — difficilmente apprezzabile entro un'ottica clinica. Il mondo reale nelle sue strutture — economiche, sociali, mentali — determinate storicamente è la macula cieca di una scienza presuntuosa a misura della sua impotenza.
Strutturali nella loro organizzazione intrinseca, i fenomeni psicopatologici, in quanto esperiti da individui concreti appartenenti ad un determinato contesto sociostorico, sono congiunturali sotto il profilo della genesi. Essi attestano una scissione del patrimonio dei bisogni realizzatasi in conseguenza dell'interazione tra un corredo genetico individuale e un determinato ambiente. Non si può escludere per principio, come si è detto in precedenza, che esista una predisposizione genetica che facilita lo sviluppo di conflitti strutturali. Anche ammettendo una predisposizione genetica, però, non si può arrivare a considerarla deterministica. Gemelli monozigoti, ritenuti predisposti alla schizofrenia perché figli di genitori schizofrenici, allevati in ambienti diversi manifestano una concordanza che non supera il 40%. L’ambiente di sviluppo, dunque, è sempre e comunque in questione.
Ogni ambiente offre al corredo genetico alcune e non altre possibilità di sviluppo, come, mutatis mutandis, il terreno al seme che in esso attecchisce. Misconoscere quest’aspetto, riconducibile al carattere storico del contesto d’interazione che dispone di determinate risorse affettive, economiche e culturali, in genere e in particolare per quanto riguarda la famiglia - spazio sociale ritenuto il più importante nell'evoluzione della personalità - rende astratte molte teorizzazioni sul ruolo dei fattori ambientali in rapporto alla psicopatologia, sia che esse si orientino a esplorare le dinamiche intersoggettive sia che si volgano a oggettivare le relazioni comunicative. Un solo esempio, reale, può bastare a dare la misura di questa astrattezza, e la necessità epistemologica di un approccio congiunturale.
Una donna, che accoglie la gravidanza con gioia, mette al mondo una prima figlia (ne avrà altri due, maschi). Sperimenta un'incomprensibile delusione e, fin dai primi mesi, agisce nei suoi confronti con un’ambivalenza fatta di trasporto affettivo e di avversione. Reprime quest'ultimo vissuto e si dedica scrupolosamente alla cura e all'allevamento della bambina. Costei, crescendo, non può negare l'amore della madre, ma, essendo particolarmente sensibile, n registra l'avversione, che attribuisce al suo non essere del tutto conforme alle aspettative materne. Via via che il tempo passa, ed essa si dimostra docile, affettuosa e giudiziosa, il rapporto affettivo si consolida. La madre giunge realmente ad amare la figlia, il cui comportamento, domestico e scolastico, la inorgoglisce, e non prova più alcun’avversione. Con l'approssimarsi della crisi puberale, tale vissuto, però, si riattiva coscientemente. La madre ne individua le cause nella crescita della figlia, che fa presagire un futuro distacco e la perdita di un rapporto reciproco d’affettuosa complicità (dacché la ragazzina giudiziosa è divenuta la sua unica confidente). I messaggi verbali (allusivi) e non verbali giungono a segno: la figlia vive il suo diventar donna all’insegna della colpa di abbandonare la madre e del pericolo di lasciarsi attrarre dall'universo maschile. Per porvi rimedio, nonostante lo sviluppo la trasformi in un'adolescente estremamente attraente, regredisce e si mantiene in una sorta di limbo innocente per alcuni anni. Poi, piuttosto repentinamente, a 20 anni, manifesta un eccitamento maniacale caratterizzato da un’incoercibile ninfomania e associato a vissuti deliranti riferiti alla madre, che l'avrebbe sempre rifiutata e influenzata negativamente.
Le dinamiche intersoggettive pongono in luce l'avversione inconscia della madre nei confronti della figlia, l'introiezione di tale avversione, il tentativo, da parte della figlia, di modificare l’emozione negativa materna con un comportamento accondiscendente e la vendetta maniacale che ferisce la madre nel suo punto più debole: l'onorabilità della figlia e della famiglia. A livello comunicativo, si rileva che la madre tenta di invalidare la figlia sia nel suo prendere coscienza dell'avversione sia nell'esercizio di una libertà che, per il modo in cui si manifesta, può essere oggettivamente criticata. All'invalidazione, la figlia interagisce accentuando le sue accuse alla madre ed esasperando i comportamenti maniacali.
La genesi di queste dinamiche è da ricondurre all’avversione inconscia della madre. Da un punto di vista psicoanalitico, quest’avversione può essere ricondotta ad una disturbata identità femminile materna. Da un punto di vista comunicativo, l'invalidazione mira a mantenere la figlia sotto il controllo della madre, bisognosa della sua dipendenza o invidiosa della sua giovinezza. Si tratta di verità parziali.
Il vissuto materno inerente la femminilità è riconducibile ad un'esperienza transgenerazionale, di matrice contadina, che vede nella figlia un problema poiché, per sistemarla, occorre dotarla. Accasandosi, essa regala la dote ad un altro lignaggio patronimico e lo ruba al proprio. Se non si accasa, rimane un'inutile bocca da sfamare a carico dei fratelli. E c'è, pur sempre, il pericolo che essa ceda alla sua natura, tendenzialmente squilibrata, e si comporti in maniera disonorevole. Recepita a livello borghese, tale ideologia ha accentuato le sue valenze moralistiche rispetto a quelle economiche, orientando le donne verso un modello di virtù comprovato dalla loro freddezza, da esercitare anche a livello sessuale associata ad una completa e passiva disponibilità al dovere coniugale.
La madre in questione, figlia di contadini, è stata per giunta “venduta”, per la sua avvenenza, ad una famiglia abbiente borghese, e si è ritrovata sposata con un uomo per il quale non ha mai provato né amore né attrazione fisica. Che essa sia giunta ad odiare la femminilità e, nello stesso tempo, a temerla, diventa agevolmente esplicabile. E’ fuori di dubbio che essa, nel corso del tempo, si sia affezionata alla figlia docile e giudiziosa. Come pure che ne abbia avversato l’identità biologica, e, vedendola diventare, all’epoca dell’adolescenza, una ragazza particolarmente attraente, abbia tentato in ogni modo di scongiurare i temuti pericoli di uno scatenamento erotico. Memore della sua esperienza, però, non l'ha sollecitata verso una sistemazione matrimoniale, ma ha cercato di orientarla verso una completa indifferenza al sesso maschile e verso un riscatto indipendente attraverso lo studio e il lavoro. Recepita tale ambivalenza, la figlia si vendica, con l'eccitamento maniacale, ferendo la madre in un duplice modo: ponendola di fronte ad un comportamento disonorevole e manifestando una dipendenza incoercibile dall'universo maschile.
Gli aspetti intersoggettivi e comunicativi permettono dunque di comprendere la genesi dell'esperienza maniacale della figlia, ma la spiegazione di questa è d’ordine congiunturale, metapersonale e metasistemico, vale a dire riconducibile ad una trama ideologica che attraversa la storia sociale familiare. Ammettere la causalità congiunturale non significa sociologizzare la genesi del disagio psichico. La congiuntura è il riproporsi, a livello familiare, di problemi ereditati dalla storia sociale e mediati dalle soggettività che comportano alcune soluzioni, alienanti, e non altre, dialettiche. Nelle stesse circostanze congiunturali non è detto che si producano gli stessi effetti.
Nel caso in questione, la figlia, dotata di una viva sensibilità, si è sempre identificata con la madre, cogliendo in lei una sorda, penosa sofferenza. Avrebbe, dunque, potuto ripetere la sua stessa esperienza, votandosi ad un matrimonio senza amore, o soddisfarne le aspettative orientandosi verso un'orgogliosa indipendenza. Essa, invece, ha maturato, nel corso dell'adolescenza, una sorda ribellione nei confronti di un codice culturale vissuto come profondamente ingiusto. L’interazione congiunturale, dunque, non determina i fenomeni psicopatologici: crea i presupposti per cui, dato un determinato corredo genetico, si può produrre una scissione dei bisogni.
ll termine congiuntura è mutuato dalle scienze storiche, le più sensibili agli effetti del tempo sulla vita umana. Esso designa una durata intermedia tra quella delle strutture - economiche, sociali e mentali - che evolvono lentamente e quella degli avvenimenti o degli eventi, di breve durata. Il processo di riproduzione sociale, uno dei cui aspetti è la riproduzione antropologica (non già solo dell'organismo biologico, bensì del soggetto dotato di un'identità culturale), avviene, ai diversi livelli della totalità sociale, in tempi e spazi diversi. Focalizziamo l'attenzione sulla famiglia.
Come istituzione giuridicamente riconosciuta, essa fa parte della struttura sociale. Istituzione di lunga durata, tende a conservarsi, nonostante i cambiamenti economici e mentali influiscano non poco sulla sua organizzazione e suoi ruoli dei membri. Nella concreta realtà sociale, ogni gruppo familiare, comprendendo le reti di parentela, rappresenta un fenomeno congiunturale, che ha una sua storia, una sua cultura, un suo modo di interagire con il mondo. All'interno di questa trama congiunturale diacronica, si definisce la famiglia nucleare, rappresentata dai genitori e dai figli, che è sempre riconoscibile, anche se il suo rilievo sullo sfondo della parentela che la genera è molto vario.
La famiglia nucleare è essa stessa congiunturale, poiché la sua durata concerne almeno tre generazioni. All'interno della famiglia, le esperienze individuali rappresentano eventi, non fosse altro per il fatto che ciascuna di esse si pone come unica e irripetibile. Ma l'analisi diventa ancora più sottile se si considera che ogni individuo, nel suo patrimonio, contiene le diverse durate di cui si è parlato: il corredo genetico viene da lontano, e rappresenta un phylum interspecifico; la cultura, nei suoi aspetti replicativi integrati a livello superegoico, viene dalle tradizioni confluite nel gruppo ed elaborate dai genitori, e appartiene dunque ad una durata media transgenerazionale; i modi di sentire, di vedere e di agire del soggetto esprimono il suo modo specifico, individuale di rapportarsi al mondo. Appartengono dunque alla durata breve della sua esistenza, per quanto essi possano essere influenzati dalle tradizioni del gruppo d’appartenenza e dalle ideologie dominanti nella società con cui il soggetto interagisce.
Di queste diverse dimensioni - diacroniche e sincroniche; strutturali, congiunturali ed événémentiels; microsistemiche intersoggettive e soggettive; necessarie (come il corredo genetico), casuali (come l'attecchimento di quel corredo in un determinato tempo e spazio sociale) e circolari (come le interazioni tra soggetto e ambiente interpersonale) - occorre tenere conto per valutare adeguatamente il ruolo psicopatologico dei fattori ambientali. Il riferimento congiunturale, che sottolinea la storicità dei contesti ambientali o, meglio, il loro appartenere alla storia sociale e, nello stesso tempo, ne rispetta la specificità, il loro configurarsi come figure su di uno sfondo animato da persone in carne e ossa, è, a nostro avviso, indispensabile per non cedere, per un verso, al determinismo sociologico e per un altro ad un riduzionismo psicologista, sia esso d’ordine comunicativo o psicoanalitico.
Ci si può chiedere, ragionevolmente, quale sia il vantaggio di un'ottica congiunturale, di certo più complessa rispetto agli schemi offerti dalla teoria sistemica e dalla psicoanalisi. Il vantaggio è duplice. Per un verso, la tipologia della famiglia, quale essa affiora dall'analisi delle esperienze psicopatologiche, trova un'adeguata spiegazione. Per quanto, infatti, ogni famiglia si possa considerare, in sé e per sé, unica e irripetibile, è fuor di dubbio - com’è attestato dagli studi promossi dalla teoria sistemica - che si danno tre tipologie a rischio (fermo restando che il rischio è nell'ordine delle possibilità e non della necessità, essendo esso legato all'interazione tra l'insieme familiare e un soggetto dotato di un particolare corredo genetico).
Tali tipologie sono: la famiglia rigida, la famiglia anarchica, la famiglia confusiva.
La famiglia rigida è caratterizzata da un'univoca alleanza dei genitori (uno dei quali può risultare totalmente subordinato all'altro o semplicemente connivente) su di un sistema di valori trasmesso ai figli come sacro e non criticabile. La famiglia rigida è di solito tradizionalista e conservatrice. I valori cui essa fa riferimento possono essere d’ordine religioso, morale o politico La famiglia anarchica, viceversa, è caratterizzata da un permanente conflitto genitoriale, in conseguenza del quale i valori trasmessi dall'uno sono sabotati sistematicamente dall'altro, che quindi, implicitamente o esplicitamente, ne propone di antitetici. All'interno della famiglia anarchica i ruoli possono risultare fissi o mutevoli: nel primo caso, un genitore legifera e l'altro sabota; nel secondo, qualunque dei due assuma un ruolo legiferante viene sabotato sistematicamente dall'altro. I valori in gioco, in questo caso, sono meno significativi del conflitto di potere che intercorre tra i genitori. La famiglia confusiva è, infine, caratterizzata dal fatto che essa, si dia alleanza o conflitto tra i genitori, veicola sistemi di valori poco o punto compatibili che condensano e cercano di contemperare tradizioni di antica data e nuovi valori presenti nello spazio sociale extrafamiliare.
Un esempio, ricorrente nella nostra società, di famiglia confusiva è la famiglia pseudopermissiva, che, a livello cosciente, è liberale e, a livello inconscio, conservatrice e tradizionalista. Un altro esempio è dato dalla famiglia ibrida che veicola, contemporaneamente, i valori religiosi e quelli liberali senza alcuna consapevolezza della loro sostanziale incompatibilità.
Tali tipologie, ricorrenti, e che riconoscono numerose varianti, sono difficili da spiegare se si prescinde dal criterio congiunturale. Alla luce di questo, è facile vedere che ciò che è in gioco, sempre e comunque, è il conflitto su come si debba essere in rapporto ad una tradizione, comune ai genitori o diversa, e in rapporto alle esigenze adattive derivanti dai cambiamenti sociali. Conflitto che comporta, nella personalità genitoriale e nella coppia, espressioni varie che vanno dalla sottomissione alla ribellione nei confronti della tradizione e/o nei confronti dell'ordine di cose esistente a livello sociale sincronico, con tutte le possibili combinazioni di tali espressioni. Di certo, le conseguenze di quel conflitto non sono solo di ordine ideologico. Come si è detto più volte, i valori culturali, consci o inconsci, coerenti o contraddittori, strutturano i modi di sentire di vedere e di agire dei soggetti; si traducono in stati d'animo, tratti di carattere, comportamenti comunicativi verbali e non verbali. Se tutto ciò, e i modi in cui esso influenza la strutturazione della personalità del figlio, può essere colto a livello comunicativo, intersoggettivo e intrapsichico esso può essere spiegato, e cioè assumere il suo pieno significato, solo in un'ottica congiunturale, in rapporto alla storia sociale.
Al di là della possibilità di spiegare le tipologie familiari a rischio, affrancando l'analisi dai riferimenti - impliciti ma incombenti - all’inadeguatezza della personalità genitoriale o ai giochi patologici che s’instaurano tra essi e con i figli, il criterio congiunturale ha un significato epistemologico innovativo. Esso consente di studiare i sistemi familiari come spazi sociali di mediazione tra eredità - biologica e culturale - e sistema sociale, senza ignorare che quella mediazione, essendo devoluta ai fini della riproduzione sociale (un cui aspetto - la riproduzione antropologica - è stato pressoché ignorato anche dalla teoria marxista), non può non tener conto, al di là della contemporaneità, di ciò che si profila all'orizzonte di una società che assume la dinamica dello sviluppo (e, per alcuni aspetti, del cambiamento per il cambiamento) come sua connotazione specifica e differenziale.
La tridimensionalità temporale dei sistemi familiari, che giustificherebbe una nuova tipologia fondata sul conservatorismo nostalgico, sull'adattamento normalizzante e acritico all'esistente e sull'utopismo progressista, con tutte le possibili variabili legate alla presenza simultanea, nei membri familiari e nel sistema, di tali orientamenti, consente di comprendere anche i modi in cui essi modulano il rapporto e l'accesso dei figli agli altri spazi sociali: la scuola, la chiesa, le istituzioni sportive, le compagnie, le attività culturali extrascolastiche, il consumo, la pratica della sessualità ecc. Ciò non significa che l'influenza familiare è assoluta e vanifica il significato, sul piano dell'apprendimento, dell'interazione del soggetto in fase evolutiva con quegli spazi sociali. Occorre, a questo riguardo, considerare due aspetti.
Il primo è da ricondurre al fatto che la nostra società è culturalmente molto meno omogenea di quelle che l’hanno preceduta. Il pluralismo ideologico che in essa vige, e che dipende da uno sviluppo socio-economico accelerato che radicalizza il conflitto tra tradizioni e nuovi valori normativi, fa sì che un soggetto in fase evolutiva, pur avendo interiorizzato una cultura specifica, quella propria del gruppo di appartenenza, ha molteplici occasioni di interagire con ambienti sociali, persone e modi di essere diversi. Questa condizione che, in sé e per sé, dovrebbe favorire lo scambio culturale e promuovere un’individuazione consapevole in rapporto a diversi modelli culturali, risulta invece, di fatto, potenzialmente pericolosa. La disomogeneità culturale pone, infatti, di fronte a sistemi di valori incompatibili tra loro, come ad esempio i valori religiosi e quelli liberistici. L’interazione col mondo extrafamiliare, di conseguenza, dà luogo o ad un irrigidimento difensivo o ad un’adesione acritica ad un sistema di valori radicalmente diverso da quello interiorizzato, con effetti inesorabilmente conflittuali a livello inconscio.
Il secondo aspetto concerne la precocizzazione progressiva dell’adolescenza, che comporta una tendenza sempre più marcata ad agire una libertà sottratta al controllo familiare e un irresistibile bisogno di fare gruppo con i coetanei. La socializzazione adolescenziale sempre più frequentemente assume un significato d’implicita contestazione della cultura adulta ed è animata dalla pretesa di opporre ad essa una cultura propria. Questa pretesa è però vanificata, nel nostro mondo, dal fatto che gli adolescenti rappresentano un target privilegiato di una programmazione sociale il cui unico fine è di renderli consumatori accaniti, tirannici nelle loro richieste nei confronti delle famiglie, e attestati su modelli di comportamento che, privilegiando l’immagine sociale, inibiscono la riflessione, la critica e l’introspezione. Nella dilatazione dell'ottica congiunturale, c'è il rischio della dispersione e della genericità.
Ciò è dovuto, in larga misura, alla persistente difficoltà di integrare i dati psicopatologici con le altre scienze umane e sociali, e dipende non solo dallo statuto epistemologico precario che caratterizza queste, bensì anche dalla pretesa della psicologia di rivendicare una sorta d’imperialismo sulla privacy familiare, sulle dinamiche intersoggettive e comunicative. Per capire che tale pretesa psicologista porta in un vicolo cieco, basta un solo esempio, significativo poiché investe una delle situazioni ritenute più strettamente private e intersoggettive: la relazione diadica madre-bambino.
Dagli studi di psicologia evolutiva, che hanno visto la confluenza della psicoanalisi e del cognitivismo, è affiorata l'importanza della sintonizzazione affettiva e comunicativa tra madre e bambino come premessa essenziale per l'evoluzione normale della personalità. Per la sua natura événémentiel, la sintonizzazione, che pure pone in gioco la storia e la struttura della personalità della madre, nonché l'orientamento costituzionale del bambino, sembra caratterizzarsi come un fatto assolutamente privato, ed escludere la dimensione congiunturale, storico-sociale. Quest'esclusione, però, è un'astrazione ideologica, che pesa sulla ricerca, invalidandone alcune conclusioni. Per capire questo, occorre tenere conto di due fattori.
Il primo è che la diade madre-bambino, pur configurandosi come una struttura di relazione essenziale e privilegiata dell'allevamento, nonché indipendente dallo spazio sociale in cui si realizza, e cioè figura senza sfondo, risente fortemente del modo in cui quello spazio è strutturato storicamente. La nuclearizzazione della famiglia, che riduce il sistema ai genitori e alla prole, determina un effetto d’isolamento sociale, talora radicale al punto che la madre non può disporre neppure di aiuti parentali. Tale isolamento - che rappresenta una sperimentazione sociale recente - costringe la madre e il bambino in un rapporto univoco che dura talora fino alla socializzazione asilare. Naturalizzare questa situazione è un’assurdità. Nell'ottica della natura - riconoscibile ancora a livello di primati, di comunità primitive e di spazi sociali non urbani - il peso dell'allevamento del bambino, seppure ricade prevalentemente sulla madre, è sempre, in una qualche misura, condivisa dal gruppo comunitario. La diade madre-bambino, completamente isolata in uno spazio domestico privato, spesso condominiale; in uno spazio sociale che, nonché cooperativo, deve essere tutelato dal possibile disturbo che può arrecare il bambino (con i pianti notturni o le esplorazioni diurne), è un fatto sociale: ma assumerlo come modello naturale significa solo convalidare, nell'ottica della scienza, una violenza sociale, matrice a sua volta di numerosi disagi interni al rapporto diadico. Con quale bambino, infatti, la madre deve sintonizzarsi? Con il suo bambino in carne ed ossa, ovviamente, che si vuole unico e irripetibile nei suoi bisogni.
Anche quest’approccio, apparentemente cosi empirico, è però un'astrazione. Indipendentemente dai fantasmi privati materni, che spesso operano proiettivamente, e che possono essere esplorati alla luce della storia sociale e personale della madre, c'è ormai un fantasma sociale, prodotto dell'alienazione e dell'immaginario, che circola nei sistemi familiari: il fantasma del bambino come un essere infinitamente debole, dipendente, pervaso da infiniti terrori, bisognoso, per crescere, di una totale dedizione genitoriale, di un amore illimitato, di cure, di attenzioni, di stimoli. C'è naturalmente, qualcosa di vero in questo fantasma, che, purtroppo, le scienze psicologiche e la psicoanalisi in particolare hanno contribuito a produrre. Se però l’infante coincidesse del tutto con tale fantasma, la sopravvivenza stessa nel tempo dell'umanità e la salute mentale goduta (nonostante tutto) dalle generazioni passate si configurerebbe come un mistero imperscrutabile.
Nel corso dei secoli, come è ormai accertato dagli studi storici sull'infanzia, eccezion fatta per le comunità primitive (che praticano solo l'infanticidio come strumento di regolazione demografica), i bambini sono stati talora amati e curati, ma non di rado trattati come oggetti, piante o bestioline da vessare e da usare. Un solo dato ricostruisce, sinteticamente, questo dramma storico: nella Parigi del XVIII secolo non meno del 40% dei bambini veniva messo alla ruota, affidato ai brefotrofi, ove ricevevano cure tutt'altro che ottimali (tant'è che circa 1/5 moriva nei primi anni). Il tributo pagato dagli esseri umani a tale stato di cose è stato, di sicuro, enorme. Ma il dramma, che pone in luce la necessità di una soglia minima di cure al di sotto della quale lo sviluppo è compromesso, attesta anche una resistenza della natura umana, un potenziale intrinseco di utilizzazione di risorse ambientali scarse che non può non sorprendere, e contesta il fantasma immaginario del bambino quale si è venuto definendo negli ultimi decenni.
L’effetto sociologico di tale fantasma è di terrorizzare i genitori (tant'è che un numero crescente di adulti rinuncia alla procreazione o devolve le proprie risorse ad un solo figlio), e di rendere i bambini o terribili persecutori con i loro bisogni divoranti (in letteratura si è parlato anche di bambini matricidi, ignorando gli effetti d’isolamento sociale della diade madre-bambino) o narcisisti onnipotenti ante-litteram, drogati da una soddisfazione di bisogni che va ben al di là dei loro bisogni autentici. Per quanto l'argomento, con le sue complessità, andrebbe affrontato in maniera più approfondita, pensiamo che quanto detto basti a far capire che l'isolamento metodologico del sistema familiare, con i suoi livelli intersoggettivi e comunicativi, rispetto alla storia sociale, alla totalità sociale con cui interagisce e alle ideologie che attribuiscono, a genitori e figli, ruoli, doveri e bisogni astratti, porta a elaborazioni scientifiche di rilievo molto modesto, se non francamente errate.
La psicopatologia strutturale e dialettica può contribuire al superamento di quest’impasse, se si tiene conto del suo orientamento epistemologico che assume la comprensione dei fenomeni psicopatologici - sul registro soggettivo, intersoggettivo e comunicativo - come momento importante, che però va illuminato dalla spiegazione, e cioè dalla ricostruzione della loro genesi in termini congiunturali e storico-culturali.