Sergio MarconiLa mistificazione della coscienza: delineazione di una mappa |
Proverò a riformulare la problematica della mistificazione e dell’automistificazione della coscienza, come aspetto dell’alienazione, partendo dalla crisi storica del soggetto borghese. Il soggetto come cogito (io penso), fondamento della filosofia cartesiana, segna l’inizio del pensiero moderno il cui momento culminante è in Hegel che identifica la realtà con la razionalità, sia pur dialettica, cioè con il pensiero. Ciò è strettamente connesso alla nascita e affermazione della società capitalistica in quanto società guidata dalla borghesia e fondata sul mercato e sui rapporti di proprietà privata via via fino alla trasformazione profonda di tutte le relazioni sociali e delle istituzioni. Soggettività come idea della libera individualità, eroica nella fase di ascesa della modernità, a cui si debbono, senza dubbio, anche le critiche profonde alla società tradizionale precedente – specie nell’ultima fase dell’ ancien régime – e le rivendicazioni positive della coscienza critica dell’individuo moderno che vuole liberarsi dagli antichi ceppi. Quindi un aspetto molto significativo di quello che viene chiamato il lato emancipativo della modernità basata su una nuova formazione sociale. Un momento successivo molto importante, in concomitanza con la crisi tardo ottocentesca del liberalismo classico, è la messa in questione e la critica profonda del soggetto borghese, che ha tre momenti fondamentali in Marx, Nietzsche e Freud, gli esponenti di quella che è stata chiamata la “scuola del sospetto”. Il sospetto nei confronti di quello che alla coscienza appare evidente e indubitabile, innanzi tutto la propria identità attingibile nell’autocoscienza ; il sospetto nei confronti della “falsa coscienza” sociale e delle sue pretese accettate acriticamente nella loro immediatezza. Su piani diversi, tutti e tre contestano quella che è l’ipostatizzazione della coscienza come sostanza, cioè come fondamento assoluto dei rapporti con l’essere, nel senso che questo non si darebbe se non per noi. I punti di vista dei tre grandi critici di questo modo di vedere sono diversi. Marx ragiona a livello di ontologia sociale, individua e analizza la merce come cellula della società capitalistica, arrivando, nel punto più maturo del suo pensiero, alle idee del feticismo delle merci, della storia come processo alle spalle degli individui e della quantità (valore, denaro) che autonomamente si accresce a scapito della qualità, cioè della concretezza. In lui il feticismo della merce è il vero fondamento, in ultima analisi, della ideologia e dell’alienazione, dunque della falsa coscienza (intesa in senso oggettivo, cioè storico-sociale). Nietzsche si muove sul piano della critica della cultura e attacca radicalmente la modernità. La metafisica tradizionale, specialmente in quanto erede del cristianesimo, traballa sotto i colpi di maglio di questo filosofo “tragico” che nel momento più illuministico del suo pensiero, quello de La gaia scienza, usa come un bisturi anche la scienza biologica. Al limite la coscienza è un processo, spesso intermittente, mai una sostanza e comunque funzionale all’istinto, dunque un epifenomeno, non causa, ma effetto. Su Freud non debbo qui dilungarmi. Operando sul piano psicologico e psichiatrico scopre il continente dell’inconscio: la coscienza è solo la parte emersa dell’iceberg.
Per trattare a fondo la problematica che ho indicata sarebbe necessario naturalmente non un singolo intervento, ma un intero ciclo. Dunque qui mi limito a prospettare un piano possibile per analizzare la mistificazione della coscienza (genitivo insieme soggettivo e oggettivo: cioè la coscienza che mistifica e la coscienza che è mistificata). Ricordiamo l’etimologia di “mistificazione”: dal francese mystifier, che rinvia a mystère, dunque inganno, interpretazione tendenziosa e deformante. Non si pensi però – la parola “inganno” potrebbe fuorviare – a errori o abbagli delle singole menti, da curare semplicemente e illuministicamente insegnando la verità. Si tratta, piuttosto, di processi oggettivi per cui la possibilità della mistificazione – o, meglio, delle mistificazioni – è insita in un determinato sistema sociale e in una specifica congiuntura di rapporti umani. Assumo qui, come prospettiva, sia certi esiti determinati dalle neuroscienze nella filosofia contemporanea, sia concezioni relazionali dell’io (compresi gli approcci della linguistica e della teoria della comunicazione). Il tutto rispetto a un ambito sociale storicamente determinato. In Kant, l’esito dell’indirizzo di pensiero iniziato con Cartesio era giunto a prospettare una sintesi a priori primaria che reggerebbe la costituzione dell’io, e questo modo di vedere si è prolungato, variamente modificato, fino a Husserl ( primo grande esponente della fenomenologia). Però successivamente l’indebolirsi progressivo delle certezze del soggetto, in primo luogo della sua identità unitaria, ha esiti sconvolgenti per l’alta cultura europea intorno, alla prima guerra mondiale, in concomitanza con la crisi definitiva delle istituzioni liberali ottocentesche (ovviamente in Occidente). Nei paesi europei si innescano per la prima volta per necessità belliche processi produttivi su scala di massa, economie dirigistiche di guerra, che tante ripercussioni avranno sulla nostra società, una volta bruciati gli ultimi residui precapitalistici. Dunque la grande cultura europea registra drammaticamente al proprio interno, il trauma del crollo del “mondo di ieri” (come lo chiamerà Stefan Zweig) e Paul Valéry, poeta e saggista, grande interprete della coscienza borghese più lucida e coraggiosa, dice: “Noi, le civiltà, sappiamo ora di essere mortali.” È così che l’intellettualità di punta a cavallo della prima guerra mondiale si angoscia e perviene anche a esiti radicali di negazione della forma di vita borghese - in particolare del soggetto borghese – in una disamina impietosa della crisi dei valori. In questo quadro possiamo collocare anche il grande poeta praghese di lingua tedesca Rainer Maria Rilke. Parallelamente alla estraneità delle cose, mercificate su vasta scala grazie all’applicazione della tecnica ai processi produttivi, c’è lo svanire dell’uomo (il che significa la crisi dell’umanesimo e del razionalismo classico). Scrive Rilke (nella seconda delle Elegie Duinesi): “Poiché noi sentendo svaniamo; ah noi/ esaliamo fino ad estinguerci; un legno che di ardore/ in ardore dà sempre più tenue profumo…”. E poco più oltre : “…vedi gli alberi sono: le case/ che noi abitiamo sussistono ancora. Noi soli/ come aria che si rinnova trascorriamo su tutte le cose”. In Valéry che ho già nominato, nel Dadaismo - che è il più radicale dei movimenti delle avanguardie artistiche e in Wittgenstein, celebre filosofo austriaco della “Grande Vienna” (centro sia di fondamentali innovazioni culturali sia degli sconvolgimenti conseguenti al crollo dell’impero austro-ungarico), la cultura della crisi manifestatasi già a fin de siècle esprime il massimo della demolizione dell’ideologia borghese tradizionale del soggetto e la sua carica potenzialmente eversiva è comunque foriera di importanti novità anche a lunga scadenza. Negli ultimi scritti sulla psicologia Wittgenstein dà una caccia implacabile a quelli che chiama gli spettri del mentalismo, mostrando gli usi impropri e la scorretta grammatica dei termini psicologici, dei concetti e delle immagini sia da parte del senso comune che della psicologia, almeno di quella che ancora – spesso anche in Freud – tende a travisare gli stessi risultati più importanti e innovativi delle sue fondamentali ricerche, leggendoli alla luce di un’epistemologia ancora positivistica, cioè naturalizzandoli. In Wittgenstein dicotomie tradizionali, come per esempio “interno/esterno” esplodono definitivamente: “La caratteristica del mentale sembra essere il fatto che, negli altri, lo si deve indovinare basandosi sull’Esterno, e soltanto nel proprio caso lo si conosce. Ma allorchè questa convizione, a seguito di una riflessione più attenta, si dissolve, si viene a scoprire non già che l’Interno è qualcosa di Esterno, bensì che ‘interno’ ed ‘esterno’ non sono più qualificabili come forme di evidenza. ‘Evidenza interna’ non significa nulla e perciò neppure ‘evidenza esterna’”. Ora, come si vede, l’oscurarsi dell’”interno”, per riprendere questa metafora spaziale, parallelamente all’oscurarsi dell’”esterno”, cioè il carattere confuso, complicato e sfuggente della realtà (con alti rischi, quindi, di decodifica aberrante da parte degli individui), implicano accentuate possibilità di mistificazione, sia di quella operata dall’interno, insomma dal soggetto che illude e fraintende se stesso, sia di quella operata dall’esterno, cioè dalla realtà in sé alienata. In quanto all’io, vi sono altre celebri notazioni di Wittgenstein nel Tractatus del 1921, sua prima opera famosa, in cui l’autore rapporta la posizione dell’io a quella dell’occhio. Così nelle proposizioni dalla 5631 alla 5633: “Il soggetto che pensa, immagina, non v’è. Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo. Ove nel mondo vedere un soggetto metafisico? Tu dici che qui è proprio come con occhio e campo visivo. Ma l’occhio in realtà non lo vedi”. Il che significa la negazione della costituzione aprioristica dell’esperienza del mondo basata sulla metafisica dell’io (da Cartesio fino a Kant e all’idealismo classico) senza però riproporre, con questo, il ritorno a forme di realismo ingenuo. Dunque ho voluto brevemente ricordarvi che questo modo di pensare non solo rompe definitivamente con una lunga tradizione intellettuale – cioè quella dell’ anima, dell’interiorità, ecc. – che parte da Agostino delle Confessioni e arriva giù giù fino a Rousseau, in cui però, sul terreno della modernità, si complica maledettamente il rapporto verità-menzogna, come si può vedere nella quarta revêrie del “Passeggiatore solitaro”, ma sembra già criticare in anticipo quelli che oggi dinanzi al tracollo delle certezze dell’io – e in assenza di un nuovo tipo di soggetto critico – pretenderebbero di ritrovare un saldo ancoraggio nelle cosiddette intuizioni del senso comune. Senso comune, però, che non corrisponde al “mondo della vita”, (una delle parole d’ordine della fenomenologia,) perché in realtà questo “mondo della vita” e la sua pretesa costituzione originaria sono ampiamente infestati dalla onnipresenza dei media, coefficienti di alienazione. Sarebbe ben diverso, invece, se l’io si costituisse in un rapporto dialogico – a partire dall’altro (tu) - che si svolgesse tra soggetti paritari (cioè equipollenti sul piano dell’agire comunicativo). Di fatto queste “certezze originarie” sono dubbie, comunque storicamente e socialmente relative. Le illusioni sull’interiorità oggi sono sempre più costruite con i cascami del linguaggio psicologico ufficiale volgarizzato e banalizzato dai mass-media. Del soggetto e dell’io, cioè di quanto ne rimane dopo la liquidazione operata prima da Hume col suo radicale scetticismo, poi da Nietzsche, Foucault, Derrida ecc., Derek Parfit da Oxford fa ormai piazza pulita. Tra i risultati della ricerca neuroscientifica e cognitivistica, di cui Parfit tiene ben conto, e le nostre intuizioni ordinarie, si apre ormai uno iato incolmabile. Secondo Parfit, le “persone” non sono che insiemi di esperienze costituite da relazioni di continuità psichica diretta o da forme più deboli di connessione. Scomposte in agenzie subcognitive, o – alla Hume – in “club”, “nazioni” e “partiti”, le persone possono essere “ridotte” a connessioni tra stati mentali. Non sembrano funzionare più neanche i criteri fisici dell’identità personale (che cosa stia succedendo ai “corpi” con le biotecnologie è sotto gli occhi di tutti), ma quel che è rilevante per la nostra vita (cioè per quei soggetti di esperienza che siamo noi) è solo la sussistenza della relazione di continuità e connessione psicologica. Ciò che conta veramente è la continuità del flusso di esperienza, non quella del soggetto che la possiede (che poi secondo Parfit non esiste). Dunque ormai dovremmo abituarci all’idea di esperienze – senza – soggetto e rinunciare, come dice Parfit, alla comune “visione falsa di noi stessi e della nostra vita reale”. Si è fatto notare che l’approccio di Parfit ricorda la visione buddhista: “Fratelli esistono le azioni e, del pari, esistono le loro conseguenze. Ma la persona che agisce non c’è”. Naturalmente vi è chi, dinanzi a questo tipo estremo di riduzionismo eliminativo e depotenziamento ontologico del soggetto, spinto fino alla sfida di poter fornire una descrizione completa delle persone in termini impersonali, si angoscia pretendendo il ritorno, sia pure in parte riaggiornato concettualmente e terminologicamente, alle vecchie concezioni. Ma, purtroppo, c’è ben altro che lo “svanire” di Rilke e le provocatorie formulazioni di Parfit: il soggetto sembra ormai un soggetto virtuale! Per fortuna, ironicamente, c’è chi propone una visione costruttiva, prospettica e funzionale di questo soggetto, che si adatterebbe benissimo a questo cosiddetto nuovo ordine mondiale. Secondo tali concezioni, un approccio all’identità personale, che mettesse in secondo piano la concezione sostanzialistica della persona umana, favorirebbe anche un complessivo riassetto normativo, giacché, rifiutando una concezione statica e sostanziale del bene morale e la presa di distanza da un modo di intendere la responsabilità come legata a colpe, peccati e meriti, si avrebbe a che fare ormai non con intenzioni più o meno riposte e quindi neanche con l’intenzionalità che può sfociare nella menzogna, ma principalmente con ciò che effettivamente si compie in un campo di azioni pubblicamente osservabili. Posizioni come questa ci fanno misurare sia l’enorme salto in avanti in direzione di un pragmatismo molto agguerrito rispetto all’idealismo e ai suoi derivati, sia la funzionalità di questo nuovo pragmatismo a una concezione dell’individuo – essenzialmente giuridico-nornativa - come soggetto degli scambi sul mercato in quanto monade produttrice di denaro. Ma è tempo che, in questo tentativo che sto facendo, di prospettare una linea di ricerca anche sulle operazioni di governo-controllo teorico del sistema in cui viviamo e quindi sulle nuove forme dell’ideologia e perciò della falsa coscienza, che andiamo a dare un’occhiata, ricorrendo alla letteratura, a queste azioni, cosiddette pubblicamente osservabili, di soggetti chiamati per comodità “virtuali”. Si tratta di soggetti mutanti alla deriva psicologica nell’era mediatica. Il protagonista (ma la parola è piuttosto impropria) dell’opera “La mostra delle atrocità” del grande scrittore inglese James Ballard (autore de “L’impero del sole”, morto circa un mese fa) non sembra proprio in nessun modo una persona: cerca di ottenere un’identità in un mondo che la nega continuamente. Trabert, Travers, Talbot, ecc. (già il cambiamento di nome del personaggio è estremamente indicativo) è un soggetto sperimentale a tutti gli effetti. Scisso e distribuito tra vari sistemi, che, come è dato capire, lo usano per i loro misteriosi fini, cerca di orientarsi usando come indicatori ossessionanti immagini di violenza e di sesso. Ma dagli indizi non ricava nulla. “Del resto, come commenta Burroughs (importante scrittore americano), la linea di demarcazione tra paesaggi interni e paesaggi esterni sta per essere sfondata” e le immagini, a loro volta, scoppiano (alla Rauschenberg, noto pittore americano). Le parole stesse diventano immagini, ma come quelle visive si trasformano in strumenti di manipolazione e controllo psicologico. La saturazione dell’ambiente da parte delle immagini e la conseguente cancellazione del soggetto: ecco la tematica fondamentale e sconvolgente di Ballard, artistica rappresentazione di tutto un versante dell’alienazione estrema, assolutamente attuale. Sembra, però, che in questo scrittore, molto approssimativamente ascritto al genere fantascientifico, i frammenti di io vivano anche una sorta di anarchica liberazione, una volta estinto l’io sovrano. Immerso nei dettagli delle “atrocità”, l’immaginario individuale può dispiegarsi. Proprio l’esibizione impietosa e la fredda analisi dei dettagli da tavola anatomica può generare effetti liberatori, come nel celebre capitolo “Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan”. Effetti satirico-grotteschi potenzialmente liberatori, osteggiati però dalla repressione neopuritana degli anni Ottanta tipici della involuzione fin de siècle, contro cui si appuntano gli strali polemici di Ballard. Nella nuova forma di totalitarismo vi sono però strumenti ancora più pervasivi e sottili di alienazione: l’io variamente scisso, decentrato e alla deriva, acquisisce una nuova fittizia integrità, diventando “io finzionale”. È un’espressione di Marc Augé, il famoso antropologo. Nel libro La guerra dei sogni egli osserva che anche le grandi narrazioni della modernità, cioè i suoi miti fondatori - naturalmente qui l’accenno ironico è a un teorico della postmodernità che si chiama Lyotard – sono catturate dal polo della finzione, “ma niente le sostituisce nel polo dell’Immaginario e Memoria della Collettività … Siamo passati al completamente finzionale nello stesso senso in cui si parla di completamente elettrificato… Tutti i passati immaginari collettivi hanno adesso statuto di finzione. Ma dal momento in cui il polo dell’immaginario collettivo è vuoto, la relazione dell’immaginario individuale con il polo Immaginario e Memoria della Collettività non ha più ragion d’essere. L’immaginario individuale di fronte a sé non ha più che la finzione. Ma anche questa è cambiata dal momento che essa non ha più scambi con il polo Immaginario e Memoria della Collettività, vuoto. La nuova finzione si situa a una distanza intermedia dai vecchi poli Immaginario e Memoria della Collettività e Creazione-Finzione… Il polo Immaginario e Memoria Individuali, direttamente collegato al nuovo punto di equilibrio, ha relazioni esclusivamente con questo. Informato dalla sola finzione – immagine, l’io che occupa il vecchio polo dell’Immaginario e Memoria Individuali può essere detto finzionale”. Questo è “incapace di inscrivere la sua realtà e la sua identità in una relazione effettiva con gli altri”, conclude Augé, sperando nel risveglio da questo sogno, anzi da questo incubo, diciamo noi. Questo “io finzionale”, così efficacemente descritto da Marc Augé, non è altro che il correlato della “società dello spettacolo” teorizzata da Debord, nella quale la “perdita di esperienza” degli individui (di cui già avevano parlato Walter Benjamin e la Scuola di Francoforte) è ormai totale. Per “spettacolo” Debord (un autore demonizzato, ultimamente anche citato, ma comunque largamente frainteso e banalizzato) non intende semplicemente i media, in particolare la televisione, intende invece la società mercantile giunta al suo livello più alto che è anche quello della irresponsabilità estrema nei confronti sia degli individui che dell’ambiente. Lo spettacolo è dunque l’alienazione realizzata, il regno dell’astrazione, il mondo rovesciato in cui – parodiando Hegel – il vero è solo un momento del falso. Non si tratta dunque della menzogne degli agenti dello spettacolo (che, pure, certo scelgono, manipolano, rimontano le immagini, decidono gli argomenti di cui si deve parlare, tacciono di altro, trasformano l’inessenziale in essenziale e l’informazione in rumore – tramite la ridondanza), né solo dei nuovi poteri tecno-tele-mediatici di cui ha parlato Derrida, ma di processi oggettivi (operanti alle spalle degli individui) sul terreno del feticismo delle merci. Un’occhiata a una ultima interessante teorizzazione, quella del sociologo Luhmann, per finire di delineare questo quadro, cioè l’humus, il terreno di cultura delle alienazioni. Se questo “sistema” (nel senso di Luhmann) non può conoscere il proprio ambiente (la coppia sistema/ambiente è basilare in questa teoria) se non attraverso le rappresentazioni dei suoi attori (questa è la sua autodescrizione) di cui però è esplicitamente ammesso che sono solo “rappresentazioni” prive di ogni riscontro che non sia interno alla riproduzione del sistema stesso, si tratta di un paradosso vero e proprio. Paradosso sì, ma ben funzionante sul mercato mediatico, come vediamo. Ma il vero senso storico-sociale di questo paradosso vivente non può venire afferrato dalla teoria funzionalistica di Luhmann (l’ambiente è sempre e solo l’ambiente del sistema), tutta basata su dicotomie cibernetiche. Resta da vedere, per noi, se a tutto questo groviglio di sviamenti, possibilità di manipolazioni, errori, simulacri (che non rinviano più come le copie a qualcosa di reale), menzogne e automistificazioni si possa contrapporre una zona vergine immune da tutto ciò. Osserviamo ora alcuni casi specifici di mistificazione della coscienza. Partiamo dal caso oggi più facile: la menzogna politica. Scrive Hannah Arendt (Verità e politica): “Le menzogne sono sempre state considerate necessari e legittimi strumenti, non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quello dello statista”. Dunque funzionali, cioè elemento essenziale delle tecniche di potere. Da noi, in Italia, suonano familiari fin dal liceo le affermazioni di Machiavelli o di Guicciardini sulla necessità e l’utilità delle menzogne per il principe. Altro però è la menzogna politica tradizionale, anche nel senso dei criteri di verificabilità, altro il fenomeno recente della manipolazione di massa dei fatti e delle opinioni, come puntualizza sempre la Arendt. È chiaro che il quadro di riferimento di questa importante teorica era il nazismo, lo stalinismo e la Guerra Fredda. Ma oggi? Nell’evidente crisi della politica assistiamo ormai a balletti mediatici: l’ultima metamorfosi della menzogna politica rientra nella mistificazione spettacolare alla quale è nello stesso tempo facile e difficile sottrarsi. Rimane importante, comunque, l’avvertenza di non confondere la politica del re con la faccia del re! Andiamo su un terreno ancora più difficile e insidioso, seguendo Derrida (Breve storia della menzogna). Rispetto alle menzogne e mistificazioni di forma classica, la situazione contemporanea è diversa per “l’artefattualità” che governa la costituzione delle immagini cosiddette di informazione, per principio sottomesse al principio di verità. “Quindi attraverso la mascheratura, la selezione, il montaggio, l’inquadratura, la sostituzione dell’archivio artefattuale alla cosa stessa si ‘deforma’ per ‘informare’ senza che una menzogna intenzionale sia assegnabile o localizzabile nella testa di un solo individuo o anche di un gruppo delimitabile di individui, o di una corporazione internazionale”. Dunque in questo dominio dei poteri tecno-tele-mediatici, produttori di alienazioni tecnicistiche, la mistificazione di massa si presenta come impersonale e “neutra”, ma in realtà perfettamente funzionale alla società mercantile tutta dispiegata con le sue astrazioni (a partire dalla forma denaro) e il suo rovesciamento totale della vita reale (Debord). Un altro caso difficile è quello individuato dal filosofo Paul Virilio, acuto critico delle tecnoscienze e della cultura. “L’immediatezza visiva” con tutte le connesse illusioni è - secondo Virilio – un elemento fondamentale di alienazione mistificante : “indistinzione senza capo né coda in cui l’audiovisività realizza il caos di una derealizzazione dell’arte di vedere e di sapere”. Qui si vede bene che le radici dell’alienazione e della mistificazione sono profonde e non facilmente estirpabili anche perché le immagini sembrano fatte apposta per non far più pensare, né leggere, né scrivere (ne saremmo ormai dispensati, come dice Virilio), in una situazione in cui l’etica del vero sembra essere naufragata. L’insidia che si affaccia qui in Virilio, in Augé, nei teorici della scuola di Norimberga e in altri arriva anche a minacciare il quadro dello spazio-tempo, basilare in ogni cultura, e quindi a destabilizzare al massimo gli individui. Spazio e tempo sono, come si ricorderà, forme a priori in Kant. Nel che è indicato il carattere basilare e universale di queste forme, ma anche il loro carattere specifico nell’era moderna, cioè la loro astrattezza (si pensi, quanto allo spazio, ai nonluoghi di cui ha parlato Augé). Che il tempo, per concentrarci su questa categoria, sia un flusso astratto e unilineare di attimi tutti uguali e vuoti, avulsi dalla vita concreta, è avvertito più o meno da tutti, specialmente quando esso, come oggi, subisce un’accelerazione sempre più spinta. Ciò però non è prodotto tanto dalla tecnica, come pensa Virilio, ma dal distacco totale dell’economia dalla vita concreta e dai suoi ritmi (Kurz, sulla scia di Polanyi).
Dunque, a mo’ di conclusione. L’itinerario che ho delineato, a partire dal soggetto classico (un’ideologia, non lo dimentichiamo, quella di un demiurgo artefice del mondo) e dalla sua crisi fino alle peripezie dell’io “virtuale”, ha voluto indicare una rete, un insieme, di alienazioni e mistificazioni possibili a cui per il momento non si può sfuggire: la caricatura dell’esperienza del viaggio , come si realizza nel turismo di massa, è lì a dimostrarcelo (così, giustamente, Marc Augé nel bel libro Rovine e macerie.) Naturalmente è possibile prospettare, ipotizzare, auspicare e favorire la nascita di nuovi soggetti critici non derealizzati e di una intersoggettività basata sulla relazionalità e non sulla sostanzialità del soggetto persona. Infine di una comunità di soggetti liberi e paritari che si rapportino tra di loro tramite una reale pluridiscorsività dialogizzata (Bachtin, Estetica e romanzo) che si contrapponga al linguaggio unico di oggi che è l’estrema forma di deprivazione linguistica degli individui. Per il momento, al mondo tutto è com’è, come diceva Wittgenstein (è la proposizione 6.41 del Tractatus): “Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né se vi fosse, avrebbe un valore”. Dunque al mondo tutto è com’è (questa ovviamente, non è, come già non lo era in Wittgenstein, una constatazione banalmente cinica o rassegnata) e a questo modo d’essere sono strettamente inerenti l’apparenza e la falsa apparenza, dunque la mistificazione. Si può solo stimolare la riflessione sulla nostra effettiva condizione e vedere di evidenziarne meglio le logiche nascoste. Contemporaneamente cercare di reagire collettivamente all’isolamento dei singoli sempre più in balia delle alienazioni e delle illusorie certezze del senso comune, anche perché oggi non c’è nessuna abreazione culturalmente, cioè simbolicamente, garantita come in epoche ormai tramontate delle società tradizionali (De Martino, Furore, Simbolo, Valore).
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