Gli spiriti azzoppati

Riflessioni su "La normalità dell’handicap" di Pisana Collodi


1.

Il libro di Pisana, scritto con una passione e una lucidità critica del tutto rare, offre lo spunto per qualche riflessione sulla normalità e sulla condizione umana.

Corro volentieri il rischio della banalità partendo da una definizione lessicale del termine handicap.

Nel vocabolario di Aldo Gabrielli (Il grande Italiano, Hoepli, Milano 2007) si trovano le seguenti accezioni:

“1) Gara in cui i concorrenti, di diversa levatura, danno o ricevono un vantaggio di peso, di distanza o di tempo, in modo che alla partenza le loro probabilità di vittoria siano equiparate. Vantaggio o svantaggio assegnato in questo tipo di competizione.

2) Ciò che mette in condizioni di inferiorità rispetto agli altri; nei rapporti di lavoro l’emotività è un grave h.

3) Menomazione di carattere fisico o psichico congenita o acquisita che ostacola il normale inserimento di una persona nella vita sociale.” (p. 1148)

Il verbo handicappare ha due accezioni:

“1) Dare gli handicap ai concorrenti

2) Danneggiare, mettere in difficoltà o in una posizione di svantaggio; ha un carattere chiuso che lo handicappa nei rapporti con gli altri.” (p. 1149)

Mi è già capitato di rilevare, facendo una ricerca linguistica sui termini introversione/estroversione, che il patrimonio della lingua, depositato nei vocabolari, riflette per alcuni aspetti l'aria dei tempi.

Non c'è da sorprendersi, dunque, se i due esempi di uso riportati da Gabrielli fanno riferimento a tratti di carattere riconducibili all’introversione. Singolare, la cosa non è incomprensibile, dato che l’essere o meno handicappati si ricava dalla capacità delle persone di inserirsi nella vita sociale e di agire comportamenti adeguati alla “norma”.

L’etimologia e la storia delle parole non sono meno interessanti delle definizioni lessicali. Riguardo all’etimologia, Gabrielli scrive: “Voce ingl. dalla loc. hand (“mano”) in (“nel”) cap (cappello); in origine gioco con estrazione a sorte di numeri da un cappello.” (p. 1149) Non sappiamo se il gioco in questione comportava una penalità per il vincitore o per i perdenti. Certo è che l'associazione tra una lotteria e un handicap suona, a posteriori, come una metafora ricca di significati dato che per molti aspetti la vita è una lotteria.

Penso che Pisana abbia fatto bene ad adottare, nel titolo, il termine nudo e crudo, nonostante da tempo si preferisca utilizzare al suo posto sinonimi eufemistici (disabile, diversamente abile).

Una condizione di handicap, fisico e/o psichico, è definita dalle sue conseguenze sulla vita sociale. Da questo punto di vista è la società con la sua cultura che definisce quelle conseguenze, non le sottili distinzioni concettuali e linguistiche degli specialisti, per quanto significative esse siano. E’ assolutamente vero, come si legge su molti testi e siti Web (per esempio http://win.icpirandellopesaro.it/SitoH/Terminologia.doc., da cui traggo la citazione) che occorre tenere presente “la fondamentale distinzione tra handicap e deficit. Il deficit è una mancanza a livello fisico o intellettivo, dalla quale può nascere l’handicap, cioè la somma del deficit e delle sue conseguenze a livello sociale.” Di fatto, nel quotidiano, le persone vivono sia il deficit che l’handicap.

Capita anche, spesso, che l'handicap si realizzi senza alcun deficit accertabile. Questo riguarda parecchi introversi che, pur dotati di buone o eccellenti qualità umane, vivono all'ombra di una percezione penosa di inadeguatezza e di incompetenza sociale, che li porta a sentirsi difettosi. Riguarda anche a maggior ragione i soggetti che sperimentano un disagio che assume una configurazione psicopatologica, tanto più se essi cadono nel circuito della psichiatria che ormai dà come scontato che, al fondo di ogni “malattia mentale”, si dia un deficit genetico e/o cerebrale, del quale, peraltro, non si dà alcuna prova oggettiva.

L'universo dei dei deficit sensoriali e/o motori e quello del malessere psicologico o psicopatologico riconoscono fattori causali diversi, ma le conseguenze sociali sono, per alcuni aspetti, simili in quanto su entrambi grava un metro di giudizio normativo.

Il discorso che mi accingo a fare recepisce in pieno la contestazione che Pisana Collodi fa di questo metro, ma cerca di illuminare, un po' paradossalmente, l'enorme vantaggio che una società dominata da esso potrebbe trarre da una riflessione che giungesse a metterlo in discussione e a sostituirlo con un altro.

2.

A tale fine, parto da uno dei folgoranti Pensieri di Pascal (siglato come 91):

“Qual è il motivo per cui uno zoppo non ci irrita, ma uno spirito azzoppato sì? Il fatto è che uno zoppo riconosce che noi camminiamo diritti, mentre uno spirito azzoppato dice che gli zoppi siamo noi. Se non fosse per questo proveremmo pietà invece di collera.”

Nel XVII secolo, evidentemente vigeva una maggiore tolleranza per gli handicappati fisici. La cosa non sorprende se teniamo conto che le società del passato sono convissute con un tasso di handicap sicuramente più rilevante rispetto alla nostra, dovuto sia alla scarsa attrezzatura tecnica della medicina (che si è messa lentamente in movimento solo all’epoca di Pascal) sia all’incidenza di meccanismi psicosomatici invalidanti attraverso i quali si esprimeva la rabbia e la disperazione delle persone.

Non vorrei urtare la sensibilità religiosa di nessuno. Quando, però, leggiamo in Matteo:”I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano” (11, 5), è difficile prescindere dall’idea che la popolazione di “handicappati” che si rivolgeva a Gesù era in gran parte di disperati affetti in gran parte da disturbi funzionali.

Noi siamo inclini a considerare la nostra società come la più evoluta sotto il profilo dei diritti umani. Dal punto di vista giuridico, ciò è senz’altro vero. Per quanto riguarda, invece, l’aspetto socio-culturale si tratta di un giudizio in una certa misura errato. In un contesto contadino, come è stato quello in cui l’umanità è vissuta per l’80% della sua storia, un soggetto disabile era di sicuro più integrato e meno “handicappato” che non nella nostra.

Nel libro, Pisana sottolinea di continuo l’incidenza che, a livello soggettivo e sociale, ha il modello di normalità adultomorfo e iperefficientista che è proprio nel nostro mondo. Si tratta di un modello storicamente recente, che ha indubbiamente contribuito ad innalzare l’assicella delle prestazioni che vanno erogate per essere ritenuti normali e a squalificare quelli che non la superano.

Che cosa significa uno spirito azzoppato per Pascal lo sappiamo: uno spirito recalcitrante nei confronti della complessità dell’esistenza (“Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita dall'eternità che la precede e da quella che la segue ..., il piccolo spazio che occupo e che vedo, inabissato nell'infinita immensità di spazi che ignoro e che mi ignorano, mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non c'è motivo che sia qui piuttosto che là, ora piuttosto che un tempo. Chi mi ci ha messo? Per ordine e volontà di chi questo luogo e questo tempo sono stati destinati a me?” Pensieri 64), e proteso univocamente a distrarsi, a non pensare (“Togliete loro ciò che li distrae, li vedrete inaridire nella noia. Allora, pur senza conoscerlo, sentono il nulla, ed è davvero una disgrazia essere tristi a tal punto quando si riflette su se stessi, e non potersi distrarre.” Pensieri 33).

Se facciamo riferimento al mondo nel quale viviamo, di spiriti azzoppati ce n’è un’infinità, che in genere si sentono normali e utilizzano la normalità come metro di misura di coloro che, per motivi fisici o psichici, non possono vivere come loro.

E. Fromm, più di tutti, ha dedicato a questi spiriti azzoppati – i “cosiddetti normali” - le sue riflessioni. In Psicoanalisi della società contemporanea (Mondadori, Milano 1987), egli scrive:

“ Se una persona non riesce a raggiungere libertà, spontaneità e genuina espressione di sé, si può ritenere che essa abbia delle gravi forme di deficienza, sempre che si creda che libertà e spontaneità siano delle mete obiettive raggiungibili da ogni creatura umana. Se poi questa meta non è raggiungibile dalla maggioranza dei membri di una data società, allora abbiamo a che fare con il fenomeno di una deficienza socialmente strutturata. L'individuo la condivide con molti altri, ma non crede si tratti di una deficienza e la sua sicurezza non è minacciata dalla consapevolezza di essere diverso, di essere, per così dire, un proscritto. Ciò che può aver perso in ricchezza, in sentimento genuino di felicità, è compensato dal senso di sicurezza datogli dall'adattamento al resto dell'umanità, sempre però com'egli la vede. In effetti può avvenire che proprio questa deficienza sia stata elevata a virtù dalla sua cultura, e che pertanto gliene derivi un accresciuto sentimento di successo.” (pp. 22-24)

La deficienza socialmente strutturata è una condizione di pseudonormalità, vale a dire di iposviluppo convalidata socialmente come “normale” che Fromm vede fortemente rappresentata nella società:

“Oggi ci incontriamo con persone che agiscono e sentono come automi: che non hanno mai avuto un'esperienza veramente propria, che conoscono se stessi non come sono nella realtà, ma come gli altri si attendono che siano, il cui sorriso convenzionale ha sostituito la risata genuina, le cui chiacchiere insignificanti hanno sostituito il colloquio comunicativo, la cui opaca disperazione ha preso il posto di un'autentica sofferenza. Due cose si possono dire per costoro: una è che soffrono di una mancanza di spontaneità e di individualità che può sembrare incurabile; nello stesso tempo si può anche rilevare come essi non sono essenzialmente diversi da milioni di altri che si trovano in eguali condizioni. Alla maggior parte di loro la cultura fornisce strutture che li mettono in grado di vivere con una deficienza senza ammalarsi. È come se ogni cultura fornisse il rimedio contro le esplosioni di evidenti sintomi nevrotici, conseguenza della deficienza che questa stessa cultura ha provocato.” (p. 25)

Sono asserzioni nette e radicali, che, a distanza di sessant’anni non hanno perduto di attualità. Se all’epoca gli spiriti zoppi abbondavano, oggi rappresentano la maggioranza della popolazione, più spaventata che non allora delle problematiche esistenziali, più incline alla cura ossessiva del corpo, della salute, dell’immagine, più angosciata dell’inesorabile fine della parabola biologica, più protesa verso il consumismo e la distrazione.

Fromm identificava nell’organizzazione socio-culturale la causa di questo stato di cose, nel senso che essa non forniva ai singoli soggetti adeguate opportunità di sviluppo.

Oggi le cose stanno ancora così. Avvolto da una cultura che gli dà l’impressione di essere potente e padrone di sé, l’essere umano utilizza sempre più frequentemente protesi tecnologiche per porre rimedio alle sue deficienze strutturali, vale a dire al grado modesto di sviluppo delle sue potenzialità naturali.

Tutto ciò cosa significa ai fini di una comprensione più profonda del rapporto tra normalità e handicap?

3.

Partiamo da un presupposto che non ha bisogno di dimostrazione. Il concetto di lotteria, come accennavo all'inizio, si può applicare alla vita senza alcuna forzatura. I due fattori, che segnano profondamente la nostra esistenza – il corredo genetico e l'ambiente socio-familiare in cui attecchiamo – sono assolutamente casuali. Anche la distribuzione degli eventi di vita positivi e negativi, se spesso coinvolgono una qualche responsabilità del soggetto, sono per molti aspetti casuali.

La natura non riconosce criteri di giustizia, non distribuisce né le potenzialità fisiche e psichiche né il bene ed il male sulla base dell’equità e del merito. La casualità governa per molti aspetti la nostra vita.

L'esemplificazione richiederebbe di illustrare quanto c'è di “assurdo” nella condizione umana: l'elenco sarebbe infinito. Mi limito a pochi cenni.

Un essere riporta un danno alla nascita che pagherà per sempre; un altro campa novant’anni senza avere mai bisogno del medico. Un soggetto che, per via della sua sensibilità emozionale, si pone problemi fin da bambino sviluppa un disagio psicopatologico; un altro, che vive come un automa, e di fatto è morto dentro, trascorre una vita tranquilla. Un individuo giunge tardi all'aeroporto e si salva la vita perché l'aereo ha un incidente, un altro si ritrova senza lavoro perché l'azienda fallisce, un altro ancora vince l'Enalotto, ecc.

La casualità, in alcuni casi, sembra quasi l'espressione di una natura matrigna o che si diverte a fare brutti “scherzi” agli esseri umani.

Perché proprio Beethoven, che vive solo per la musica, diventa sordo? Perché proprio Mozart muore a trentasei anni avendo dentro ancora un capitale creativo immenso? Perché proprio Stephen Hawking, che nell'ambito della fisica è ritenuto l'erede di Eintein, è affetto da una malattia muscolare progressiva che lo costringe su di una carrozzella e gli permette di parlare stentatamente solo avvalendosi di un'attrezzatura elettronica? Perché proprio Borges, il maggior scrittore, forse, del Novecento, dotato di un’avidità di lettura straordinaria, diventa quasi cieco e brancola nel buio negli ultimi decenni della sua vita?

Borges stesso ha tentato di fornire una risposta a questi perché in una poesia il cui titolo è inquietantemente suggestivo:

“Poema dei doni

Nessuno umili a lagrima o a rimbrotto

la confessione della maestria

di Dio, che con magnifica ironia

mi dette insieme i volumi e la notte.

Di una città di libri fe' padroni

due occhi spenti...

                     Invano il giorno

spalanca loro i suoi libri infiniti,

ardui come gli ardui manoscritti

periti in Alessandria. Narra un mito

greco di un re che tra fontane e orti

muore di fame e di sete; a quel modo

io erro senza meta per la mia

alta e profonda biblioteca cieca.

Atlanti, secoli, enciclopedie,

Oriente ed Occidente, dinastie,

simboli, cosmi e cosmogonie

porgono i muri, tutto inutilmente.

Lento nella mia notte, la penombra

vana tento con la canna indecisa,

io che mi figuravo il Paradiso

sotto la specie d'una biblioteca.

Qualcosa, cui di certo non si addice

il nome caso, governa la sorte;

qualcuno ricevette già, in confuse

sere, i molti volumi e la mia ombra...”

La risposta di Borges fa riferimento alla filosofia orientale, vale a dire ad un tempo ciclico infinito nel corso del quale tutte le possibili condizioni umane si realizzano reiteratamente. La ruota della vita, in questa ottica, comporta il realizzarsi di tutte le possibilità positive e negative inerenti l'esistenza. In un tempo infinito, a ciascuno di noi, destinato a vivere infinite volte, capita tutto il male e tutto il bene possibile.

La risposta è certo più ragionevole di quella legata al tempo lineare e all'esistenza individuale come unica e irripetibile maturata in virtù del Cristianesimo. Certo, la soluzione cristiana ha risolto il problema che affiora dalla Bibbia come un urlo più volte ripetuto: perché i giusti soffrono e gli empi godono? Nell'aldilà sarà fatta giustizia. Ma se un soggetto che soffre per un handicap fisico o psichico non crede e maledice Dio, gli toccherà, altre alla pena terrena, anche un'altra pena eterna.

Abbandoniamo queste prospettive e riconduciamoci ad un'ottica naturalistica.

In questa ottica, ogni organismo biologico è un terreno di sperimentazione per la Natura, contro i “capricci” della quale disponiamo di un unico rimedio: la solidarietà sociale promossa dall’empatia, vale a dire dal pensare che la condizione di un altro potrebbe essere stata la nostra. L'empatia ci permette di sperimentare, dentro il nostro tempo finito, le possibilità che Borges assegna al tempo infinito.

La distribuzione dei deficit sensoriali e motori fa parte della lotteria della vita. In quanto esseri che hanno tratto dal cappello un numero sfortunato, coloro che ne sono affetti meritano un risarcimento in termini di solidarietà.

Se approfondiamo il discorso sulla condizione umana, però, scopriamo che ciò che vale per i deficit sensoriali e motori vale anche per le potenzialità psicologiche: l’emozionalità, l’intelligenza, ecc. Anche esse sono distribuite secondo uno spettro non uniforme, che si può ritenere ingiusto. Ingiusto per coloro la cui iperdotazione si trasforma spesso in un dramma psicopatologico, ma ingiusto anche per i normodotati o gli ipodotati, i cui orizzonti, per quanto rassicuranti, escludono la possibilità che essi pensino o sentano ciò che arricchisce la vita.

E’ evidente che lo sviluppo delle potenzialità umane dipende in misura rilevante dalle opportunità che l’ambiente offre, che sono distribuite a pelle di leopardo, secondo criteri iniqui. A monte dell’ambiente, però, si danno differenze naturali, genetiche.

Gli esseri umani non si rendono conto, se non marginalmente di tali differenze perché, per fortuna, la coscienza le minimizza e porta ogni soggetto a pensare di essere compiuto nel suo essere.

In un auro libricino (Diversità genetica e uguaglianza umana, Einaudi, Torino 1981) Th. Dobzhansky imposta il problema in questi termini: “in che senso l’uguaglianza si può ritenere un diritto naturale se la genetica attesta inconfutabilmente che gli uomini sono diversi non solo nelle loro fattezze esteriori ma anche nelle potenzialità e nelle caratteristiche psichiche?” (p. 4)

La sua risposta è che l’uguaglianza “è un precetto etico, non un fenomeno biologico. Una società può concederla o negarla ai suoi membri.” (p. 30)

Concederla significa fornire a ciascuno adeguate possibilità di sviluppo delle sue potenzialità genetiche: posta questa condizione ottimale, i diversi risultati conseguiti manifesterebbero le diverse potenzialità genetiche. L’ingiustizia genetica, cioè, diventerebbe oggettiva e dovrebbe essere accettata in nome del fatto che “la diversità genetica umana non è una disgrazia o un difetto della natura umana, ma un tesoro di cui i processi evolutivi hanno dotato la specie umana”: un tesoro, tra l’altro ulteriormente valorizzato dalla sua “educabilità, addestrabilità o malleabilità.” (p. 45)

Il discorso di Th. Dobzhansky è nobilmente umanitaristico e democratico, ma va approfondito.

4.

Se la disuguaglianza genetica è un dato di fatto inconfutabile, la normalità in senso proprio può essere valutata solo in termini individuali (benché tali valutazioni possano poi assumere un rilievo statistico). Tenendo conto, però, che essa non dipende solo dal corredo genetico, ma anche, e in misura rilevante, dalle opportunità ambientali, dal modo in cui il soggetto le usa e da eventi di vita casuali (come malattie, incidenti, ecc.), occorrerebbe giungere ad un concetto di normalità singolare, implicito nel discorso di Fromm: normale, da questo punto di vista, è l’individuo che utilizza le sue potenzialità al massimo grado quali che esse siano.

Se si assume questo metro di misura, e ci si chiede come stanno le cose nella nostra società, il problema degli spiriti azzoppati, vale a dire di soggetti la cui personalità è strutturalmente deficitaria, è assolutamente inquietante: esso riguarda gran parte della popolazione. Uno spirito azzoppato è, di fatto, handicappato nella misura in cui la sua personalità è, in misura più o meno rilevante, al di sotto della normalità potenziale contenuta nel suo corredo genetico.

Per comprendere meglio questo aspetto dobbiamo tenere conto di come è fatto il cervello umano e di come esso risponde alle richieste normative proprie di un determinato ambiente.

Per quanto riguarda il primo aspetto, pur considerando il fatto che le potenzialità intellettive ed emozionali sono distribuite secondo uno spettro diversificato, in assenza di lesioni cerebrali che le mortificano o ne impediscono l'uso, il cervello umano non è solo un congegno assolutamente straordinario, ma soprattutto plastico.

La plasticità significa che esso è aperto all'apprendimento in rapporto all'ambiente ed è in grado, dunque, di arricchirsi e di riorganizzarsi. Non v'è dubbio che la plasticità del cervello è massima nelle fasi evolutive. Le neuroscienze hanno, però accertato, che essa declina molto lentamente al di là delle fasi evolutive e, in una certa misura, si mantiene fino alla fine della vita.

Il modello di normalità vigente nel nostro mondo fa riferimento al fatto che l'individuo deve impegnarsi per raggiungere la capacità di destreggiarsi nel mondo così com'è, di competere con gli altri, di trovare un inserimento lavorativo, di costruire un suo mondo privato di amicizie e di affetti, ecc. Posto che egli raggiunga tali obiettivi anche in forma minimale, la tensione verso la crescita, la maturazione, la consapevolezza personale – in breve verso l'umanizzazione – tende ad estinguersi. In conseguenza di questo molte persone si cristallizzano in un modo di essere che assicura loro l'inserimento e il riconoscimento sociale della loro “normalità”, ma rinunciano ad evolvere, ad utilizzare potenzialità che vanno sprecate.

Gli spiriti azzoppati dalla “normalità” corrente non hanno consapevolezza della loro condizione. Essi, in genere, rimangono parecchio al di sotto del tasso di autorealizzazione potenziale contenuto nel loro corredo genetico. In questo senso, sono disabili senza saperlo.

Poniamo conto che la cultura riconoscesse come nuovo modello di normalità quello (implicito ed esplicito nel libro di Pisana) atto a misurare lo scarto tra ciò che il soggetto è e il suo potenziale di autorealizzazione, vale a dire ciò che sarebbe potuto essere o divenire utilizzando appieno le sue capacità (quali che esse siano).

E’ probabile che, su questa base, la scala dei valori antropologici si modificherebbe radicalmente. Al vertice risulterebbero coloro che hanno quasi azzerato quello scarto. In questa categoria non sarebbe sorprendente trovare uno scarso numero di persone normalmente inseriti nella società e un buon numero di handicappati, i cui limiti incentivano gli sforzi di sopperire ad essi sviluppando il più possibile il loro essere.

In successione, troveremmo una gamma indefinita di spiriti più o meno azzoppati, fino al fondo della scala, ove si collocano coloro che sono gravemente azzoppati ma tronfi della loro presunta normalità.

La scala di valore qui proposta si può definire antropologica, nella misura in cui essa privilegia lo sviluppo dell’essere entro i suoi limiti genetici o imposti da una malattia e subordina a tale sviluppo la valutazione dell’efficienza e dello status sociale.

E’ presumibile che l’adozione di una siffatta scala coinciderebbe con una rivoluzione culturale i cui vantaggi consisterebbero, per gli spiriti azzoppati, di avvertire l’esigenza di una “riabilitazione”, e, per gli “handicappati”, di sentirsi apprezzati per gli sforzi che essi sono costretti a fare per coltivare le loro diverse abilità.

Ci si può chiedere, infine, in risposta al pregiudizio implicito nelle definizioni lessicali che ho riportato all’inizio, dove si potrebbero collocare gli introversi. Per quanto riguarda gli introversi geniali, che sono riusciti ad esprimere i loro talenti, la collocazione alla sommità è ovvia, anche se essa in parecchi casi è stata pagata a duro prezzo e a beneficio dell'umanità. E per quanto riguarda gli altri? Be’, bisogna essere realisti: collocarli tra gli spiriti azzoppati sarebbe ingiusto, non fosse altro per il fatto che essi si tormentano di continuo nella valutazione del loro “handicap”. Sono senz’altro, per alcuni aspetti, spiriti azzoppati, ma dal pregiudizio sociale che hanno interiorizzato. Se riescono a liberarsene, scoprono che alla loro condizione si può applicare la prima accezione del Vocabolario. E’ la natura che ha posto loro sulla groppa un carico - di emozioni e di capacità riflessive - che apparentemente li fa partire svantaggiati. Se insistono, però, a sviluppare le loro potenzialità, possono scoprire per via che la natura non è stata affatto matrigna con loro.

Per gli handicappati da deficit sensoriale e motori e per gli introversi l’obiettivo comune è aiutare la società a riformulare il criterio di “normalità”.