E' evidente, ormai, che tutta la ricerca si muove dall'attribuzione alla natura umana di due bisogni fondamentali, le cui vicissitudini, legate all'interazione con l'ambiente storico, determinano il modo di essere e di porsi nel mondo di ogni soggetto, secondo forme di coscienza la cui funzionalità dipende dalla percezione dello scarto tra la ricchezza di quei bisogni e la relativa povertà strutturale dell'ambiente.
Una percezione scarsa o insignificante dello scarto definisce una condizione di normalità sociologica, che non affranca, ovviamente, il soggetto da ogni sofferenza, ma la estrania rispetto alla sua coscienza; una percezione acuta o drammatica dello scarto può, viceversa, dar luogo ad un atteggiamento critico di lotta nei confronti del reale e alla ricerca di soluzioni astratte, ispirate ad un modello normativo che il soggetto pretende di realizzare prescindendo dalla sua concreta esperienza del mondo e dalle configurazioni che, in virtù di questa, hanno assunto i bisogni fondamentali.
E' questa la matrice univoca delle esperienze di disagio psichico, la cui progettualità funziona come una leva cui manca il punto di applicazione: la consapevolezza dell'alienazione dei bisogni fondamentali e della dialettica - psicologica e sociale - che può reintegrarla.
Tutto ciò sembra sufficientemente definito. Ma, come capita spesso nel corso di una ricerca, a posteriori nasce il dubbio che la terminologia adottata per qualificare i bisogni fondamentali possa risultare più suggestiva che esplicativa, ed esporsi, pertanto, ad equivoci molteplici. Tra questi, il più temibile è l'ovvietà dei presupposti antropologici della ricerca.
Nessuno, di fatto, ha mai negato che l'uomo è un individuo che vive in società, e che pertanto ha bisogno di un'identità personale e di una capacità di relazione con gli altri. Tutte le teorie sul disagio psichico, persino quella organicista (per es., l'organo-dinamismo di Ey), insistono su un difetto di differenziazione dell'Io, che pregiudica la realizzazione sociale di sé. Cosa può esserci, dunque, di nuovo in una teoria che si fonda su presupposti tanto banali da essere unanimemente condivisi? La risposta non richiede nessuno sforzo: il prenderli radicalmente sul serio, e portarli alle estreme conseguenze. Prenderli sul serio significa, però, rinnovarli concettualmente rispetto ad una tradizione che li ha immiseriti ideologicamente. E' di questo rinnovamento che si intende parlare.
Il termine individuazione può trarre in inganno per la derivazione linguistica, e lasciar pensare che individuarsi significhi null'altro che diventare individuo, e cioè attualizzare, nel corso della vita, ciò che originariamente è contenuto in potenza nella natura umana come attributo. Crescere, maturare, differenziarsi sono suggestive metafore di questa concezione, atte, per le loro valenze dinamiche, a calare l'ideologia pre-formista che esse veicolano: e cioè il riferimento ad un modello di individuo maturo e adulto che viene ipotizzato già dato in embrione all'origine dello sviluppo individuale, sotto forma di dote. Questa antropologia, individualista e idealista al tempo stesso, è tanto più ingannevole quanto più essa fa ricorso a termini quali potenzialità, risorse, creatività che servono solo a sottolineare le diverse dotazioni degli individui. L'individuazione, nell'accezione che noi diamo, è un processo sociale in conseguenza del quale l'insieme delle possibilità originarie, iscritte nel corredo genetico, vengono ad essere letteralmente scoperte - individuate, appunto - dal soggetto in una forma che, benché storicamente determinata, gli appare come coscienza di sé, definizione del suo modo di essere in rapporto al mondo.
In quanto bisogno, l'individuazione è un attributo della natura umana, che si esprime nella tendenza ad interagire attivamente con l'ambiente, mirando alla definizione di un'identità autocosciente, e cioè di un'immagine di sé come persona che orienta e struttura il modo di porsi del soggetto in rapporto al mondo.
Processo di progressiva rivelazione del soggetto a se stesso, lindividuazione dipende dunque dalle interazioni con l'ambiente. Ma questa dipendenza riconosce una soglia critica, al di qua della quale il soggetto è agito dall'ambiente più di quanto egli possa agire su di esso, mentre al di là egli esprime il potere acquisito in virtù di un'attività che mira a trasformare l'esistente.
In breve, se il bisogno di individuazione, in quanto attributo della natura umana, è geneticamente determinato, ed esprime genericamente la tendenza a porsi in un rapporto attivo con il mondo - e nulla, da questo punto di vista vieta pensare che esso sia diversamente rappresentato nei corredi genetici individuali -, il modo di procedere in cui esso si realizza, sotto forma di autocoscienza, è storicamente determinato, nel senso che ogni soggetto si individua, si rivela a se stesso e si scopre in rapporto alle opportunità offerte dal contesto socioculturale entro cui vive. Se non si può escludere, dunque, un limite genetico, è certo che esso potrà essere definito solo quando si daranno a tutti gli individui le stesse possibilità di sviluppo.
Assumendo questo punto di vista, risulta chiaro che l'individuazione è un processo teoricamente interminabile di assimilazione e di accomodamento: pertanto, ogni struttura di personalità chiusa si può ritenere una mortificazione del bisogno di individuazione.
Il bisogno di integrazione sociale è ancora più facilmente equivocabile, poiché, come è avvenuto nel corso della ricerca, esso può essere identificato con il bisogno di socialità genericamente inteso. E' bene, dunque, chiarire che la specificità del bisogno sta nel suo tendere alla integrazione e cioè alla costruzione di una rete di relazioni significative allinterno delle quali il soggetto sente potenziate, e non minacciate, la sua identità e la sua libertà. Anche a questo livello, dunque, ci troviamo di fronte ad un bisogno la cui realizzazione postula l'attività del soggetto nel mondo, il cui fine è il suo affrancamento dalla forma originaria nella quale la socialità è data, la forma padrone-servo.
Il bambino, infatti, dalla nascita e fino alla fine del processo evolutivo, è schiavo dei suoi bisogni, e, di conseguenza, affidato, in una condizione di dipendenza e di impotenza, agli adulti che hanno su di lui un potere totale.
La condizione infantile, come si è avuto occasione di dire, è quella di una socializzazione forzata, che vede il bambino, schiavo dei suoi bisogni, subordinato al dominio di chi, avendo il potere e il dovere di soddisfarli, è un padrone asservito, a sua volta, al suo ruolo. Questa forma di rapporto, dovuta all'evoluzione naturale che ha prolungato i tempi della maturazione umana - ricatto biologico al quale taluno attribuisce la fondazione della civiltà umana, orientata, più di ogni altra società animale, alla produzione di uomini -, è una forma drammatica, poiché in essa la socialità si pone come schiavitù reciproca, nonostante il dislivello di potere.
Gli investimenti affettivi reciproci che essa promuove naturalmente da parte del bambino - geneticamente condannato ad amare (si pensi, per apprezzare questa condanna, agli amori che i bambini nutrono nei brefotrofi e negli orfanotrofi nei confronti degli istitutori), e culturalmente da parte degli adulti, in virtù della tendenza all'identificazione col bambino, non estinguono la drammaticità della forma del rapporto, che è attenuato solo dal bisogno di integrazione, che, muovendo da questa condizione di socializzazione forzata, vede i contraenti impegnarsi attivamente in un processo di liberazione dalla schiavitù che postula, da parte di ciascuno, la produzione di amore nell'altro.
Solo falsificando i termini della realtà, si può leggere questo processo come passaggio dalla dipendenza all'indipendenza. Di fatto, esso, teoricamente, muove dalla dipendenza e va verso una risoluzione della forma di rapporto padrone-servo caratterizzata dal fatto che i bisogni di dipendenza infantili, riconosciuti come bisogni radicali di socialità, si associano alla capacità soggettiva di promuovere attivamente nellaltro la soddisfazione.
Per quanto riguarda il subjectus, il passaggio, che riconosce la sua fase critica nell'adolescenza, quando i bisogni di socialità sconfinano nella loro ricchezza dall'ambito familiare, va dal ruolo di consumatore passivo a quello di produttore attivo della soddisfazione di quei bisogni.
L'integrazione comporta dunque un'attività selettiva del soggetto nell'universo umano ai fini di investire liberamente le sue potenzialità in una rete di rapporti dai quali egli ricavi soddisfazione dei suoi bisogni di essere confermato, riconosciuto, stimato, amato. Anche il rapporto con i genitori non sfugge a quest'attività: da rapporto dato naturalmente, esso può di venire un rapporto scelto e significativo.
Non si stenta a comprendere che, da questo punto di vista, il bisogno di integrazione sociale, nella sua potenzialità, sconfina ampiamente dalle forme private entro le quali la tradizione tende a costringerlo. Esso, infatti, in sé e per sé, investe tutti gli ambiti relazionali all'interno dei quali il soggetto vive ed agisce, in ciascuno esercitandosi attivamente alla ricerca della conferma da parte degli altri. Risulta evidente, da quanto detto, in quale misura il bisogno di integrazione sociale dipende dalle costellazioni ambientali entro cui evolve la personalità e dall'organizzazione socio-culturale.
Nel periodo evolutivo, esso, infatti, è esposto al rischio di risposte ambientali che, siano esse frustranti o manipolative, possono indurre nel soggetto una percezione della dipendenza in termini persecutori. Ciò orienta il soggetto non già ad agire per produrre negli altri la soddisfazione dei suoi bisogni, bensì a tentare di eliminarli, in nome del mito di unindipendenza che lo porrebbe al riparo da ogni minaccia relazionale. Le esperienze familiari che producono disagio dovrebbero, pertanto, essere esplorate a partire dalla vicissitudine della forma di rapporto padrone-servo che schiavizza genitori e figli. Ciò permetterebbe, tra laltro, di vedere immediatamente in esse la filigrana della società e delle ideologie che la sottendono.
Ma, al di là del periodo evolutivo, non è lecito ignorare limpatto, sul bisogno di integrazione sociale, delle forme che ad esso vengono offerte per realizzarsi e che investono tutti gli ambiti della vita, dallattività lavorativa al privato affettivo. In particolare, occorrerebbe riflettere sulla scissione, propria alla nostra società, tra spazi sociali allinterno dei quali quel bisogno va frustrato e spazi allinterno dei quali esso deve essere realizzato. Questa analisi permetterebbe di comprendere la strozzatura che svuota di significato il pubblico e ingorga il privato, producendo per un verso latrofia del bisogno e per un altro la sua cristallizzazione.