Il progetto manicomiale, ai suoi esordi, è un progetto riformista, se non addirittura rivoluzionario. Gli asili pubblici, ove venivano internati - con i poveri, i vagabondi, gli alcoolisti, le prostitute - i malati di mente, esistono fin dai primi del '600. Ma quali sono le condizioni di vita in essi?
Scrive un testimone:
"Incarceriamo queste povere creature come se fossero dei criminali in prigioni dimenticate, vicino alle terre dei gufi in valli deserte al di là delle porte delle città, o in umide celle sotterranee, dove non penetra mai lo sguardo di una persona umanitaria; e li lasciamo marcire in catene, immersi nei loro escrementi. I ceppi hanno corroso le loro carni, e i loro pallidi volti emaciati guardano in attesa verso la tomba, che porrà fine alle loro miserie e coprirà le nostre vergogne... Le urla dei malati furiosi e il rumore delle catene si ode notte e giorno e toglie ai nuovi venuti quel pò di equilibrio mentale loro rimasto".
Sappiamo altre cose: gli agitati vengono rinchiusi in angusti bugigattoli e nutriti attraverso delle finestrelle. Se non basta l'isolamento, si usano camicie di forza e catene alle mani e ai piedi. I guardiani sono individui sadici e di scarsa intelligenza cui viene concesso di picchiare a piacere. Esiste anche una tremenda terapia di shock, consistente nell'applicare sulla pelle dei malati degli energici urticanti che talora provocano il decesso.Questa riduzione di malati a bestie feroci da tenere in catene non poteva reggere all'affermazione dei diritti umani maturati nel corso del 700.
La liberazione dei folli dalle catene, avvenuta nel 1793 a opera di Pinel, avvia una riforma ispirata al principio che un ambiente confortevole e un clima umanitario possano favorire la rieducazione morale dei malati. Definire questo gesto, oggi, un atto di paternalismo borghese, non deve indurre a misconoscerne, allepoca, la qualità rivoluzionaria. La liberazione dei folli è una sfida che la ragione lancia a se stessa, opponendo alla concezione precedente dei malati come rappresentati di una specie inferiore, la convinzione che la malattia, per quanto grave, non escluda una sensibilità morale, passibile di essere educata sul piano terapeutico.
Il discorso sulla malattia, perlatro, non è impostato su di un registro strettamente biologico. Pinel sa che la matrice primaria dellalienazione sono le condizioni di spaventosa miseria e degradazione morale in cui vivono le classi inurbate e suburbane. Se questa consapevolezza non dà luogo all' apertura dei manicomi, è perché Pinel pensa che i malati possano, solo nell'istituzione, essere tutelati dalla pressione di intollerabili condizioni ambientali.
Il manicomio di Pinel funziona, dunque, alle origini, come area di recupero delle vittime indifese di condizioni di vita disumane e come laboratorio di una società civile che non si arrende a considerare irrecuperabile un qualunque essere umano. Si tratta - è ovvio - di una nobile illusione fondata su un ingenuo ambientalismo: le ferite che la vita imprime nelle menti non si cancellano, infatti, con un colpo di spugna. Per realizzare questa illusione, Pinel, la cui onestà è affine a quella di Robespierrre, ha il torto di pretendere leggi speciali, che ratifichino il potere del medico sul malato e affranchino questo potere da una troppo stretta sorveglianza politica e giuridica. Con ciò, la riforma di Pinel imbocca il vicolo cieco dell'arbitrio, e non appena vengono meno l'onestà illuministica e il fervore della rivoluzione francese, la riforma comincia a regredire.
La sfida della ragione alla follia abbandona i metodi della persuasione, della comprensione, della ragionevolezza e imbocca la via dell'autoritarismo e delle violenze. Si può seguire questo mutamento ai vari livelli: giuridico, teorico, sociale e politico.
A livello giuridico, la legge sui manicomi varata nel 1838 in Francia, che varrà da modello a tutta la legislazione psichiatrica occidentale, insiste sul momento dell'internamento e della custodia. Il fine è quello della cura. Ma, per curare, occorre individuare la malattia, e il più precocemente possibile. L'ispiratore della legge, Esquirol, è lo psichiatra che, nello stesso periodo, insiste nel definire una forma nosografica fino allora sconosciuta: la monomania.
Si tratta in breve di un delirio incentrato su una sola idea, che viene covato a lungo, per anni, senza che nessuno - né parenti né amici né colleghi di lavoro - possa accorgersene e che esplode poi repentinamente sotto forma di raptus spesso omicida. Il consiglio che ne segue è ovvio: ciascuno deve vigilare e osservare attentamente i comportamenti degli altri e, al primo segno di stranezze, far presente il caso alla polizia che si interesserà di far intervenire il medico. Il messaggio è rivolto soprattutto a quei ceti sociali - contadini, proletari - il cui atteggiamento pregiudiziale nei confronti della malattia come vergogna è tale da indurli a chiudere gli occhi e, dunque, covare questo tremendo pericolo. Questincubo è alimentato ad arte e fa presa: lentamente il metodo della delazione e del sospetto diventa consueto.
I manicomi, costruiti con accorta strategia su tutto il territorio, esercitano peraltro un potere di attrazione che fa leva sulla miseria. Scrive uno psichiatra nel 1867: "L'internamento è un vantaggio straordinario e per l'alienato e per la società. In ospedale gli alienati - soprattutto coloro che sono originari delle campagne o appartengono a classi miste -godono il benessere che non hanno mai avuto precedentemente". Sappiamo di che si parla: due pasti sicuri e il riscaldamento d'inverno. In virtù di queste due leve - la paura della malattia e la collocazione dei malati in mabienti confortevoli -, l'aumento dei ricoveri va incontro ad una crescita esponenziale: in Europa dal 1835 al 1870 il numero di essi aumenta fino a 5 volte. La psichiatria esulta e si elogia: "Per i ricoveri volontari... l'aumento del numero delle ammissioni ha la sua origine nella scomparsa di un pericoloso pregiudizio, di un amor proprio mal riposto, che tratteneva le famiglie dal ricoverare i malati negli ospedali; in quanto ai ricoveri di autorità, essi sono aumentati fortemente laddove solo nuovi manicomi sono stati aperti o nei circondari limitrofi, in virtù del credito che l'assistenza psichiatrica ha assunto agli occhi della società". Il manicomio insomma funziona come il lievito: dove si insedia, la follia sembra crescere.
Ma se il popolo sembra piegarsi, la fronda illuministica rimane viva. Uomini di cultura, giornalisti, magistrati denunciano la segregazione, la durezza del regime manicomiale e il fatto paradossale che il manicomio, anziché guarire, sembra indurre una cronicizzazione della follia. Per stroncare ogni opposizione la psichiatria criminalizza il fermento. La stampa sottolinea costantemente la responsabilità della follia nei fatti di cronaca. Le riviste psichiatriche pubblicano veri e propri bollettini di guerra, sottolineando che la follia non attenta solo alla società (incendi, stragi, ecc.) e alla vita stessa dei pazienti (suicidi), ma caratteristicamente orienta le sue violenze sugli affetti più cari, inducendo matricidi, patricidi, uxoricidi e infanticidi. Una rivista francese per 30 anni alimenta una rubrica singolare, il martirologio, che annovera gli psichiatri e i sorveglianti aggrediti, feriti o uccisi dai folli. Cito un dato statistico: dal '53 all'87 tra i medici 13 morti e 9 feriti, tra i sorveglianti 9 morti e 5 feriti.
Se la durezza del regime manicomiale non vale a scongiurare ogni pericolo, come auspicare per i malati di mente maggiore libertà? Le conclusioni di questa campagna sono ovvie, e vengono esplicitate ad Anversa nel 1885 nel corso di un convegno internazionale: "La follia spesso conduce al crimine, il crimine spesso è una manifestazione della follia; in breve crimine e follia hanno rapporti molto stretti. Ogni folle è, dunque, pericoloso". Pochi psichiatri coraggiosi si oppongono a questa affermazione fatale con una mozione: secondo loro, solo i due terzi dei folli sono pericolosi!
Non c'e da sorprendersi se, tre anni dopo, Beillarger, il luminare dell'onnipotente società psichiatrica francese, presenta una proposta di legge che assegna alla psichiatria il ruolo di ancella dell'ordine sociale e delle forze di polizia. Vi si legge: "Ogni alienato lasciato in libertà dovrebbe essere oggetto di una inchiesta avente il fine di stabilire se egli è o meno pericoloso; in rapporto ai risultati di tale inchiesta si dovrebbe ordinare l'internamento d'ufficio o la sorveglianza ritenuta necessaria. L'inchiesta dovrebbe essere autorizzata anche per gli individui che si fanno abitualmente notare in pubblico per un contegno, delle parole, dei gesti o degli atti di eccentricità sufficienti a segnalare uno squilibrio psichico".
Il nodo si stringe sempre più intorno al collo dei devianti. La psichiatria ha tirato però un pò troppo la corda. Facendo incombere sulla società il fantasma della follia criminale, essa ha imboccato un vicolo cieco. I manicomi, nonostante se ne costruiscano di nuovi di continuo, scoppiano: l'assistenza manicomiale a vita incide pesantemente sul bilancio dello stato. Che fare? Una soluzione rivoluzionaria è l'ergoterapia: sino al 1860 ai ricoverati era imposto l'ozio; da allora si impone loro di lavorare per contribuire al loro stesso mantenimento. Si fondano dunque laboratori artigianali e tecnici, colonie agricole, piccole industrie. Le difficoltà che vengono fuori sono due: da una parte, i ricoverati pretendono un salario giusto e, essendo in grado di lavorare, rifiutano di rimanere nell'istituzione; dall'altra parte, sono i produttori (contadini, artigiani, industriali) ad entrare in allarme di fronte ad una concorrenza che viene dallo Stato.
In una relazione di un direttore di ospedale psichiatrico si trova una risposta ad entrambe le difficoltà: la produttività dei ricoverati è scarsa ed essi pertanto non possono pretendere un salario; se essi lavorano è solo per alleviare il peso sociale del loro mantenimento. Quanto alla concorrenza statale alla produzione privata essa è inammissibile: "E' una speculazione terapeutica, non una speculazione industriale che ci proponiamo". L'ergoterapia, vissuta come uno strumento di riscatto viene abbandonata. Il problema della spesa pubblica per i manicomi, vista la crescente affluenza diviene urgente: come sarà possibile - ci si chiede intorno al 1870 - manicomializzare nel giro di qualche decennio, lo 0,5 della popolazione prevista dalle statistiche?
Siamo così al nodo della storia della istituzione. Quali sono i motivi dellaffollamento dei manicomi? La psichiatria ne identifica due: i malati giungono in ospedale quando la malattia è già inguaribile, e, in secondo luogo, sia essi ma soprattutto le famiglie tendono a delegare all'istituzione un'assistenza che non intendono più fornire. Ma agli occhi dei più, la causa ultima è l'impotenza della scienza psichiatrica, il cui armamentario è rozzo e pressoché inutile. Occorrono dunque strumenti efficaci.
Da questo momento in poi la psichiatria viene investita da un vero e proprio furor curandi, seguendo le direttive consuete di correggere, con ogni mezzo, il comportamento. Il fantasma della follia si associa al fantasma di una soluzione totale, che sarà perseguito con ostinazione. Non si tratta di una novità: il principio che il fine giustifica i mezzi ha sempre presieduto al trattamento manicomiale. Esso ha giustificato il terrore morale, le docce fredde, la sedia rotante, la camicia di forza, la cella di isolamento, ecc. Ma le direttive diventano più chiare: la escissione e la mortificazione. L'isolamento manicomiale è esso stesso una sorta di castrazione morale. Ma non basta: occorre andare alla radice del male, lavorare sul corpo del folle.
Antesignana di queste pratiche è l'America puritana: ivi, dal 1840 in poi, si praticano l'evirazione, la clitoridectomia e l'ovariectomia. Un'autorità in materia, il dottor Goodel, giustifica la castrazione nei seguenti termini:
"Le obiezioni che si possono fare al riguardo di queste operazioni sono poche valide nel caso di malattie di mente. In primo luogo, una donna folle non fa parte del corpo sociale più di un criminale. In secondo luogo, la sua morte è sempre un sollievo per gli amici più cari; in terzo luogo seppure essa può guarire dalla follia, resta sempre esposta al rischio di trasmettere il germe della malattia ai figli per molte generazioni. Quando una donna è folle, toglierle le ovaie è al tempo stesso un tentativo di restituirla alla famiglia e alla società, è un rimedio al quesito se essa possa dar luogo ad una generazione di folli. In realtà sono sicuro che, con il progresso della scienza, gli uomini riconosceranno che una buona politica sociale deve proporsi di far scomparire la follia prescrivendo la castrazione di tutti gli uomini e le donne folli".
Non si tratta di un delirio privato, o di una voce destinata a rimanere inascoltata. Negli Stati Uniti, all'inizio del 900, venti stati approvano leggi di sterilizzazione. Nel 1930 risultano operati 10.877 folli, nel '33, 16.066. La legge di sterilizzazione nazista del 1933 non è dunque l'espressione di un regime mostruoso, ma la codificazione di un pensiero psichiatrico ben evidente. Cito alcuni articoli del testo:
l) Potrà essere sterilizzata con intervento chirurgico ogni persona affetta da una malattia ereditaria se, secondo le esperienze della medicina, si può presumere con grande probabilità che la sua progenitura sarà affetta da gravi difetti ereditari, fisici o psichici.
2) E' affetta da malattia ereditaria ogni persona affetta da: imbecillità innata, schizofrenia, cecità e sordità innate, gravi deformità fisiche ereditarie, alcoolismo grave.
5) La decisione incombe al tribunale sanitario ereditario situato nel distretto giudiziario della persona da sterilizzare.
10) Posta la decisione del tribunale, la sterilizzazione avrà luogo anche contro il volere della persona da sterilizzare, salvo che essa non abbia proposto l'operazione. Il medico pubblico proporrà alle autorità di polizia le misure necessarie. I mezzi coercitivi potranno essere adoperati quando le altre misure non bastino.
Le critiche sono vibrate, ma la psichiatria francese risponde: "Ciò che conta non è la malattia manifesta in uno degli ascendenti, bensì l'eredità che può essere veicolata da coniugi apparentemente sani. Ciò che conta - di conseguenza - è impedire il matrimonio tra individui appartenenti a famiglie ad eredità schizofrenica".
Si tratta in breve di creare un vero e proprio cordone sanitario intorno ad interi ceppi familiari, di votarli coattivamente all'estinzione. E' la logica della soluzione totale che viene esplicitata. Ma la psichiatria non tollera che questa soluzione sia giuridica e sociale, e non dovuta ai suoi strumenti terapeutici. Dopo un secolo e mezzo di esitazione si comincia a lavorare direttamente sulla testa dei folli.
Nel 1935 E. Moniz pratica i primi interventi psicochirurgici, ledendo irreversibilmente i lobi frontali, in cui nessuno ha dimostrato - né allora né dopo - una qualunque alterazione organica. Dal '35 al '55 vengono sottoposti ad intervento circa 30.000 pazienti in tutto il mondo. La mortalità oscilla intorno al 2%, vale a dire 600 pazienti vengono sottoposti ad esecuzione. Le conseguenze dell'intervento sulla personalità sono, in più del 30% dei casi, devastanti: la scienza è giunta a produrre i primi robot in carne ed ossa.
Questa eutanasia parziale riceve il consenso sia della scienza ufficiale che della Chiesa: Pio XII l'approva in ordine al principio che è lecito sacrificare una parte per la salvezza del tutto! Nel '48 Moniz riceve l'unico premio Nobel assegnato ad uno psichiatra...
La seconda direttiva - quella della mortificazione intesa come minaccia di morte (destinata talvolta a realizzarsi) - segue anch'essa come un filo rosso la storia della psichiatria. Essa si realizza con la sismoterapia, e cioè con le tecniche di shock il cui fine è di terremotare la mente ed il corpo dei folli per indurre una riorganizzazione. Quali siano i mezzi adottati, lo schema consiste sempre nel provocare una piccola morte cui segue la rinascita.
Quanto ai mezzi, dopo quelli meccanici già citati, la psichiatria adotta quelli offerti dalla fisica e dalla chimica, l'elettricità e le sostanze farmacologiche. Appena scoperta, l'elettricità è usata dagli psichiatri artigianalmente e in maniera estemporanea.
Leggiamo un resoconto tra i tanti:
"Mentre eravamo occupati nei nostri esperimenti, uno dei sorveglianti addetto al giardino ci venne ad avvertire che un maniaco aveva colpito, con uno strumento di lavoro, uno dei suoi compagni. Sottoporre a doccia questo insensato o farlo contenere con una camicia di forza, fu la prima idea che ci venne alla mente; poi, considerando che una scarica elettrica avrebbe potuto produrre un'impressione salutare sull'intelligenza disordinata di questo malato, facemmo ricorso a tale mezzo. Con l'aiuto del nostro elettroforo caricammo la più capace del le nostre bottiglie di Leyda e, in più riprese, somministrammo forti scosse al delinquente, che rinviammo immediatamente al lavoro. Il mezzo risultò valido. L'occasione di servircene non tardò a presentarsi di nuovo, e ogni volta avemmo motivo per felicitarcene".
Segue una sperimentazione fredda e brutale, che anticipa ancora una volta i lager nazisti. Un certo Auzouy, colpito dalla insensibilità dei folli catatonici agli stimoli più vari, vuole vedere che effetto fa loro l'elettricità faradica applicata sulla pelle, sulle mucose, sui testicoli. E annota:
"Alcuni idioti e imbecilli hanno la pelle talmente anestetizzata; sottoposti all'intensità massima non provano alcun dolore. Altri sono pusillanimi: la corrente li terrorizza e la scossa caccia loro lacrime e grida laceranti. Tra gli schizofrenici, i più non sentono, come se l'operazione fosse fatta su altri; alcuni si lamentano e piangono. Tra i monomani, la maggior parte protesta un'avversione profonda per la tecnica cui sono sottoposti: essi protestano e la dichiarano contro natura e contro legge. I depressi ostinati sono tanto impressionati che la corrente trionfa nel mutismo e nel rifiuto del cibo".
Dopo qualche decennio di sperimentazione, la logica si afferma: se la follia è una malattia del cervello perché non applicare l'elettricità direttamente sulla testa?
Nel 1938 Cerletti, muovendo dall'osservazione delle tecniche di abbattimento di maiali al mattatoio esegue i primi elettroshock. La mortalità è dell'1%; gli incidenti - in particolare fratture ossee - piuttosto frequenti. La tecnica si universalizza e dà luogo ad un vero e proprio furore terapeutico. Nelle corsie degli ospedali psichiatrici i malati vengono messi in fila e ciascuno assiste alle convulsioni degli altri. Con l'introduzione dell'anestesia, i pericoli diminuiscono e l'uso aumenta. Sicché si giunge, ad opera della scuola romana, alla terapia d'annichilimento che consiste nel somministrare parecchi shock al giorno fino ad indurre uno stato confusionale totale. Cura di annichilimento: il linguaggio non consente equivoci di sorta. La psichiatria procede verso la realizzazione del suo progetto insensibile ad ogni considerazione umanitaria o, semplicemente, al buon senso. Ancor oggi, su un accreditato trattato di psichiatria statunitense, si trova scritto: "Quasi invariabilmente, dopo un certo numero di shocks, insorge paura, e non si è trovata nessuna spiegazione soddisfacente a questo fenomeno".
La sperimentazione procede anche con sostanze farmacologiche. Sakel nel 1933 scopre che somministrando alte dosi di insulina nei malati di mente si induce un coma che ha effetti terapeutici. La cura completa prevede un coma quotidiano fino a tre mesi. La mortalità è dell'1%. La tecnica si universalizza, e viene effettuata a tappeto: in ogni ospedale sorge il reparto di insulinoshok ove i pazienti muoiono e rinascono ogni giorno per due tre mesi. Alcuni di essi, però, non rinascono più.
L'assistenza medica e infermieristica è scrupolosa in rapporto alle responsabilità. I successi, clamorosi, sono dovuti a questa straordinaria partecipazione umana e al rituale che l'accompagna. I folli guariscono solo se i carnefici si interessano un poco a loro. Quando la tecnica diventa di routine, i successi si vanificano e quella che sembrava una panacea viene considerata universalmente un fallimento. Ma non c'è sosta: lo shock si può provocare con l'acetilcolina, la yosciamina. Riporto un protocollo del 1948 che illustra l'effetto di shock da acetilcolina:
"Dopo l'iniezione, c'e una latenza di una dozzina di secondi. Poi il soggetto porta le mani al petto, tossisce e diventa pallido. A partire da questo momento, tutto avviene come una sincope cardiorespiratoria. Dal punto di vista respiratorio, dei violenti movimenti di espirazione sfociano in un'apnea della durata di circa 20 secondi. Dal punto di vista cardiovascolare, il soggetto diventa di un pallore livido, il suo polso non è più percettibile, la pressione arteriosa crolla. Questo stato dura da 10 a 60 secondi. Dal punto di vista neurologico, all'acme di queste manifestazioni si ha la perdita di conoscenza... questa sincope dura una dozzina di secondi, poi, bruscamente, il colorito torna e il polso si rende apprezzabile. Si tratta di una morte repentina in miniatura".
Il progetto psichiatrico manicomiale, come ha affermato Szasz, è un vero psicocidio di massa (quando non un omicidio bianco). Scrive uno psichiatra del 1887, protestando contro l'ingerenza della magistratura nella pratica manicomiale:
"I mezzi impiegati possono talvolta sembrare rigorosi, o addirittura inumani, mentre essi sono solo necessari e indispensabili... Il limite tra ciò che è umano e ciò che non lo è, non è lo stesso per tutti. Se i trattamenti disumani sono definiti sevizie, nei manicomi se ne constateranno giorno per giorno, perché ci saranno sempre dei casi che ne richiederanno. La giustizia non c'entra e non può entrarci: tra la coscienza del medico e il malato non c'é che l'onore".
Quest'ultima parola è, di sicuro, un lapsus: quella giusta sarebbe orrore...