DISAGIO PSICHICO E CONTESTO SOCIALE. LA FAMIGLIA


Sommario:

1. Introduzione

2. Autopsia di una famiglia

3. Il sistema familiare sotto il profilo intersoggettivo, interpersonale e metapersonale

4. La famiglia come sistema ideologico

5. I fattori di rischio familiari e individuali

6. Tipologie familiari ed esperienze psicopatologiche (Microstorie):

7. Per non concludere

 

1. Introduzione

Alla luce di ciò che si è detto nel seminario precedente, la distinzione basagliana tra faccia reale e faccia sociale del disagio psichico acquista e perde senso al tempo stesso. La faccia reale risulta essere l'insieme delle contraddizioni che, in conseguenza dell'alienazione dei bisogni fondamentali, animano un'esperienza soggettiva, e dei tentativi che il soggetto pone in atto per risolverle, il cui esito - come si è tentato di documentare - è di avviare l’esperienza stessa nel vicolo cieco psicopatologico. Se si prescinde dall'ipotesi - accreditata ancora da correnti psicoanalitiche - che una presunta predisposizione genetica orienti un soggetto verso 1' alienazione dei bisogni, in virtù della tendenza a distorcere l'esperienza interattiva con l'ambiente, è evidente che la faccia reale del disagio esprime uno scacco dei processi di socializzazione.

Ma è pur vero che l'alienazione dei bisogni fondamentali non può essere assunta come causa diretta di disagio psichico, poiché ciò renderebbe incomprensibile la normalità statistica, che è tale nonostante essa, in una certa misura, si fondi su quell'alienazione. Il problema si sposta, dunque, sull'attività del soggetto, sugli strumenti che egli ha per analizzare le contraddizioni e per tentare di risolverle. Strumenti culturali non meno che economici e sociali.

Se non esistono contraddizioni insolubili, ma soluzioni che sono rimedi peggiori del male - quelle che strutturano l'universo psicopatologico - la causa ultima del disagio psichico è da ricondurre all'alienazione del soggetto rispetto agli strumenti che gli permetterebbero di integrare e dialettizzare le contraddizioni. La faccia reale del disagio è dunque la somma di un'alienazione dei bisogni, maturata nel corso del processo di socializzazione, e di un'alienazione del goggetto rispetto agli strumenti - economici, sociali, culturali - che potrebbero permettergli di risolvere quell'alienazione.

Se, dunque, si può contestare l'asserzione basagliana che la faccia reale del disagio è, ed è destinata a rimanere, un mistero, è vero che essa si definisce su un piano - quello della soggettività - che riesce incomprensibile ed inspiegabile se non si fa riferimento alla radicale storicità di ogni esperienza umana. Al metodo microstorico si può chiedere di illuminare i due livelli soggettivi che, concorrendo, danno luogo al disagio psichico: il livello dell'alienazione dei bisogni ed il livello dell'alienazione di strumenti risolutivi delle contraddizioni. E' chiaro che si tratta di livelli diversi: il primo, positivo, fa riferimento a ciò che c'è, e non può non esserci, in ogni trama di esperienza soggettiva che esita nel disagio psichico; il secondo, negativo, fa riferimento a ciò che manca, a ciò che non può o non deve esserci.

La faccia sociale del disagio è definibile nei termini di un'interazione o di un intervento sociale che mira a correggere le soluzioni soggettive adottate per risolvere l'alienazione dei bisogni, ignorando ciò che al soggetto manca per elaborare e realizzare soluzioni diverse e dialettiche.

Questa premessa aiuta a comprendere che, se non si vuole confondere le acque, il ruolo del sociale in rapporto al disagio psichico va considerato a quattro diversi livelli, ciascuno dei quali ha una relativa autonomia, per quanto, ovviamente, tutti interagiscono tra di loro.

Il primo livello - e, forse, il più complesso - riguarda la produzione sociale dell'universo psicopatologico, e cioè i nessi complementari tra ideologia dominante, intesa come visione del mondo condivisa dalla maggioranza delle persone che partecipano allo stesso sistema sociale totale, e i nuclei ideologici presenti nelle strutture psicopatologiche. A questo livello, un determinismo grossolano, quale quello adottato da alcune correnti antipsichiatriche, appare del tutto ingiustificato.

E' probabile, infatti, che le strutture psicopatologiche rappresentino, in quanto forme di esperienze del mondo, l'espressione di modalità latenti dell'organizzazione mentale. Che ogni organizzazione sociale, in quanto inesorabilmente ideologica, ne comporti l'attivazione. Sostenere, pertanto, tout-court, che la schizofrenia è un sintomo dell'alienazione antropologica prodotta dal capitalismo è - né più né meno - un'espressione di rozzo radicalismo intellettuale o - per essere meno polemici - una verità così parziale, e restituita assiomaticamente, da renderla falsa o incomprensibile. Ciò che è in contestabile, almeno per chiunque accetti il concetto di strutture psicopatologiche, è che esse, in quanto visioni del mondo, a partire da una matrice formale univoca - l'opposizione tra libertà personale e legge - si articolano intorno a configurazioni conflittuali (indipendenza/legame, anarchia pulsionale /controllo, natura/cultura, piacere/dovere, ecc.) le cui valenze significative sono imprenscindibili dall'elaborazione ideologica cui ogni società sottopone i problemi che esse veicolano.

In altri termini, nella loro storicità, le strutture psicopatologiche, quanto ai contenuti, non sono comprensibili che in riferimento ai quadri mentali collettivi che, fornendo alcune soluzioni e non altre a quei conflitti, assolvono una funzione normalizzante il cui limite - che ne definisce la potenzialità patogena -, è che quelle soluzioni devono essere adottate anche quando esse, nonché promuovere la soddisfazione dei bisogni fondamentali, la frustrano, rendendola impossibile.

Economici, in quanto agevolano l'accesso alla normalità in virtù di un consenso inconsapevole, ma ideologici, poiché mirano ad impedire la riflessione sulla loro storicità - e dunque sulla loro inadeguatezza ai bisogni umani -, i quadri mentali collettivi hanno un'inerzia costitutiva rispetto agli altri livelli di realtà - l’economico, il sociale - con cui interagiscono, che diventa pericolosa, sotto il profilo patogeno, quando i ritmi di scorrimento dei livelli di realtà si diversificano e diventano turbolenti.

Nessuna società può fare a meno dei quadri mentali collettivi come scorciatoie verso la normalità: nessuna, dunque, è immune dal pericolo che queste scorciatoie risultino, in rapporto ad una somma di circostanze, vicoli ciechi che esitano in disagio psichico. Ciò che si impone, a questo livello, è una rigorosa storicità, e cioè l'esplorazione, nella loro genesi e nella loro funzionalità, dei codici mentali propri di un sistema sociale, rivolta a mettere in luce i nuclei ideologici che animano le strutture psicopatologiche. Un tentativo in questa direzione sarà operato con il prossimo seminario.

Il secondo livello è quello della socializzazione, e cioè del "processo con stadi temporali più o meno definiti attraverso il quale il neonato si trasforma in un membro di una società umana particolare, di una cultura specifica". Questo processo, in virtù del quale l'insieme di possibilità genetiche che è il neonato giunge a fenotipizzarsi, e cioè a definirsi come persona dotata di un certo potere sul mondo interno ed esterno, come socius partecipe di una realtà storica nella quale si integra, conformandovisi o in tensione rispetto ad essa, noi lo abbiamo sinteticamente esplorato nel seminario sulla teoria della personalità. Nonostante l'insistenza sulla necessità di storicizzare lo sviluppo di ogni personalità, senza mortificare l'attività costruttivistica del soggetto, e cioè l'uso che egli fa di ciò che viene offerto dall'ambiente, è fuor di dubbio che, data l'impostazione del seminario, il ruolo delle agenzie di socializzazione - famiglia, scuola, mass-media - è stato più eluso che discusso in maniera approfondita. Le note di lettura, che miravano a colmare tale lacuna, sono rimaste in sospeso (per quanto è certo che dovranno essere riprese). Ora il problema non può essere eluso.

Del ruolo della famiglia, nella genesi e nell'evoluzione del disagio psichico, si parlerà fin troppo nel corso del seminario. Ciò che sembra importante, a livello preliminare, è insistere sul fatto che il processo di socializzazione, quale che sia l'agenzia che se ne fa carico, non può mai produrre direttamente un disagio psichico, ma solo porre le premesse perché esso si definisca. In altri termini, nel corso della socializzazione si può verificare l'alienazione dei bisogni fondamentali. Questo, peraltro, è un fattore necessario ma non sufficiente perché si produca un disagio psichico. Ciò che lo rende sufficiente sono le strategie in virtù delle quali il soggetto tenta di realizzare i suoi bisogni nonostante la configurazione conflittuale che essi hanno assunto: strategie destinate inesorabilmente allo scacco poiché esse mirano metaforicamente alla quadratura del cerchio.

Lo spazio dove si determina il disagio psichico è insomma quello soggettivo: ma ciò non autorizza alcun riduzionismo psicologista. Ché, se l'alienazione dei bisogni fondamentali matura nel corso del processo di socializzazione - processo mai riducibile a dati meramente psicologici -, le categorie - emotive, cognitive e culturali - alla luce delle quali il soggetto vive quell'alienazione, e, ancor più, le soluzioni che egli adotta non sono mai prodotte né dal soggetto né dal gruppo cui egli appartiene, poiché appartengono all'ambito dell'universo ideologico. L'attività soggettiva è nulla più che un grilletto che, scattando a fini liberatori, chiude l'esperienza in una struttura psicopatologica.

Il terzo livello è quello delle interazioni tra esperienza psicopatologica e contesti ambientali. Dato che questo, soprattutto per quanto riguarda la famiglia, è il livello empirico con cui, il più spesso, si confronta la prassi - e dal quale è stata ricavata la teoria dei sistemi - è giusto dedicare ad esso una riflessione approfondita.

C'è un dato inconfutabile e significativo: nonostante l'impegno degli studiosi, nessuno è mai riuscito ad identificare né a definire sul piano teorico una costellazione familiare univocamente patogena, tale cioè che essa non possa produrre che disagio psichico. Ciò non significa ovviamente che i contesti familiari siano qualitativamente omogenei: è possibile forse differenziarli secondo un gradiente di rischio potenziale che va da un minimo ad un massimo. Ma il rischio riguarda, sempre e solo, la capacità di produrre l'alienazione dei bisogni nel corso del processo di socializzazione. Il prodursi di un 'esperienza di disagio rappresenta un salto di qualità, per quanto negativo, rispetto alle contraddizioni familiari, nel senso che, anziché veicolarle e trasmetterle, esso tenta di risolverle.

Nonché essere l'espressione di equilibri sistemici che vanno mantenuti ad ogni costo, il disagio rappresenta un fattore di squilibrio, una minaccia e una rottura rispetto ad un sistema che le contraddizioni le vive senza alcuna pretesa di risolverle. Che esso agisca, dunque, promuovendo interazioni non sorprende: ma si tratta di interazioni prodotte ex-novo dal disagio, anche se utilizzano modalità preesistenti. Ogni sistema familiare, del resto, non può utilizzare che gli strumenti di cui dispone. In una certa misura, le interazioni sono indicative di quanto è accaduto nel corso del processo di socializzazione, ma, ancor più, sono indicative della cultura familiare, della visione del mondo che la anima, della prigione ideologica in cui la famiglia è chiusa.

Chiunque non sia letteralmente accecato dal determinismo microsociologico, si guarderà bene dal valutare un sistema familiare prendendo come metro di misura le interazioni che in esso avvengono quando si confronta con una esperienza di disagio psichico.

Avviene, semplicemente, ciò che può avvenire: l'alienazione dei bisogni, prodotta dalla famiglia, e amplificata dal disagio psichico, finisce con il catturare tutti i membri in una specie di circoli viziosi senza scampo. Ciò che importa non è ciò che appare, ma ciò che non può apparire: i recinti mentali che impongono al sistema di funzionare in maniera tale da non poter comportare soluzioni. Le possibili soluzioni sono fuori di quei recinti; ma affrancarsene implica il percepirli come catene, liberarsi dalle quali è liberarsi solo dal peso che esse hanno. Ma non è facile, ché i recinti mentali si rafforzano in virtù dell’interazione con recinti economici e sociali.

Il quarto livello è quello della gestione sociale del disagio psichico, delle risposte istituzionali e non istituzionali che esso può ricevere in un determinato contesto. Per quanto questo livello sia di estrema importanza, non ci soffermeremo su di esso, poiché fa parte del piano di ricerca dell'anno prossimo.

Abbiamo ormai definito le coordinate del discorso che svolgeremo. Si tratta, in gran parte, di asserzioni già note: insistere su di esse si rende necessario in virtù del credito sempre maggiore che va acquistando la teoria dei sistemi, soprattutto perché essa pretende di porsi, nel campo psichiatrico, come l'unica teoria sociale dotata di potenzialità tecniche. Una nuova scienza del disagio psichico che voglia essere microstorica, contestuale e dialettica non può sottrarsi al confronto. La via che scegliamo è quella della contestazione critica: ma, è ovvio, non ci limiteremo alla fase destruens.


2. Autopsia di una famiglia

E' di Aaron Esterson, con Foglie di primavera l'indagine più minuziosa e completa che sia mai stata pubblicata su un gruppo familiare produttore di disagio psichico. Duole riconoscerlo: si tratta di un'indagine che lambisce nuclei di verità occultandoli in virtù di presupposti fortemente ideologici. Esterson vuole dimostrare la genesi familiare del disagio psichico e, nel contempo, la funzionalità del disagio in rapporto al mantenimento di equilibri sistemici precari. Egli ha almeno il coraggio di dichiararsi determinista e di sostenere che, in quel contesto, alla figlia non poteva accadere ciò che è accaduto: di essere manipolata, fatta ammalare ed infine espulsa.

Si dà per scontata una lettura del testo. Ma, alla luce delle premesse da noi elaborate, è possibile una rilettura: una microstoria di seconda mano, insomma.

Fino ai dodici anni, Sara è una "bambina adorabile", precoce e creativa, preoccupata eccessivamente del giudizio degli altri. Con 1' adolescenza si avvia un'esperienza turbolenta: Sara smette di frequentare la scuola, rimane a letto il giorno e veglia la notte per pensare e leggere, si dedica allo studio della Bibbia. Tenta di lavorare nell'ufficio paterno, ma intuisce che i colleghi parlano male di lei. Si ritira di nuovo in casa e avvia la sua guerra di indipendenza nei confronti dei familiari con provocazioni continue. Ha rapporti insoddisfacenti con dei ragazzi e, infine, rinuncia alla vita sociale. Si chiude a riccio in una privacy silenziosa e ostile, nutrita di fantasmi vendicativi. A 21 anno la vendetta si realizza: sta fuori casa una notte e si concede ad un ragazzo. Viene ricoverata e, tornata a casa, precipita nella spirale dei sensi di colpa e dell'espiazione. Viene, infine, internata.

Questi dati configurano un tragitto di esperienza che, sul piano formale, ci appare noto. F`ino ai dodici anni, Sara sacrifica i bisogni di individuazione per realizzare un'immagine sociale adorabile, angelicata. Le preoccupazioni per come appare agli altri sono la spia precoce di un'immagine interna negativa: mortificati, i bisogni di individuazione si sono organizzati, dunque, ad un livello socialmente impercettibile, in forma di opposizione e di cattiveria.

E' con una struttura di personalità sdoppiata, e già alienata nei bisogni fondamentali, che Sara affronta l'adolescenza: l'affiorare dei desideri sessuali radicalizza l'alienazione dei bisogni di libertà, orientandoli verso una liberazione che è null'altro che una vendetta nei confronti della famiglia. Sara, evidentemente, ha dei bisogni morali molto profondi se questa vendetta, per anni, si riduce ad un'estenuante guerra di indipendenza condotta in famiglia. Deve arrivare all’esasperazione per concedersi una rottura comportamentale: ma questo, anziché liberarla, la chiude nel cerchio dei sensi di colpa. L'espulsione dalla famiglia e l'internamento in una casa di cura, corrispondono, con evidenza, al suo bisogno di espiare.

Le responsabilità della famiglia sono evidenti: proponendo a Sara un modello di perfezione perbenistico, e profittando della sua disponibilità ad introiettarlo, la famiglia ha prodotto, nel corso dello sviluppo della personalità di Sara, un'alienazione dei bisogni fondamentali, resa evidente dallo scarto tra immagine sociale e immagine interna. Quando Sara intuisce questo scarto, essa commette un errore di analisi: identifica il suo io vero nell'immagine interna - che è invece l'espressione di un bisogno di individuazione costretto ad affermarsi solo oppositivamente, e cioè in termini trasgressivi -, e squalifica del tutto la sua immagine sociale che ritiene effetto dei condizionamenti familiari mentre essa esprime, in eccesso, autentiche qualità di educabilità e di moralità. Alla luce di questa analisi, condizionata dalla difficoltà di dare un senso dialettico a livelli di esperienza radicalmente diversi, ma espressione entrambi di bisogni fondamentali distorti dalla pratica educativa familiare, Sara non può votarsi che alla negazione della sua immagine sociale e all'affermazione provocatoria della sua immagine interna.

Questo brusco viraggio comportamentale non può che irrigidire il sistema familiare, che, dopo essersi confrontato con un'immagine angelicata, vede affiorare una diabolica mostruosità . Ma il peggio è che Sara stessa, gettando via 1'acqua sporca dei condizionamenti familiari con i suoi bisogni di moralità, giunge a sentirsi mostruosa: la sua libertà, anziché aumentare, diminuisce criticamente, e la timidezza precedente si trasforma in un vissuto persecutorio sociale. A questo livello, interviene un secondo errore di analisi. Anziché capire che si sta mortificando calandosi in un ruolo meramente negativo e trasgressivo, Sara pensa che ciò che limita la sua libertà continuino ad essere solo i condizionamenti morali della famiglia. Di conseguenza, essa è spinta a radicalizzare la sua negatività, nell'intento di sbloccare il penoso cerchio dei sensi di colpa. Ciò facendo, senza sapere, essa si chiude in una struttura psicopatologica senza dialettica, che identifica la libertà personale nella trasgressione e nell'assenza del senso di colpa. Ciò che segue è scontato: la trasgressione la destinerà ad un'atroce espiazione. Nel momento in cui la famiglia la espelle, ed essa non oppone resistenza, l'ordine morale viene ristabilito: ma è evidente, a questo livello, la connivenza tra la repressione familiare e il bisogno di repressione di Sara.

Il tragitto soggettivo di Sara esita, dunque, in una conferma dell'ideologia familiare. Ma esso ha un'autonomia il cui limite è segnato, con evidenza, dagli strumenti di cui Sara dispone per interpretare la sua esperienza. Strumenti che privilegiano una coerenza assoluta rispetto alla capacità di accettare e dar senso alle contraddizioni, e che, pertanto, impongono a Sara di radicalizzare - nel bene e nel male - una verità parziale.

Esterson, muovendo da presupposti deterministici, che le conclusioni teoriche del libro non valgono a mutare, non può accettare, e quindi vedere, l'autonomia relativa della soggettività, l'attività di Sara nel risolvere i problemi che le si pongono e che finisce con il renderli insolubili.

Egli vuole dimostrare che la famiglia di Sara è un sistema persecutorio che non consente scampo, nel senso che o ci si assoggetta alla persecuzione - il cui oggetto sono i bisogni di individuazione - o si viene invalidati e destinati alla follia. Egli sottopone, pertanto, la famiglia ad una vera e propria autopsia che ce la restituisce impietosamente come un cadavere vivente.

Paradossalmente, nel giudicarla, egli cade nello stesso errore che Sara commette nei confronti della sua stessa esperienza: l'apparenza della famiglia è un ipocrito velo che cela un nucleo di verità che è nequizie, disordine, immoralità, lascivia. Si tratta, in effetti, di contraddizioni evidenti: ma inquadrarle nelle categorie di vero e di falso estingue ogni dialettica.

Non ci dilungheremo su questo gioco al massacro, che pone in luce gli effetti perversi di una teoria familiare del disagio, se non per rilevare che Esterson stesso porta prove che confutano la sua tesi, e che egli non appare in grado di valutare.

La famiglia di Sara, di origine ebrea orientale, vive nell'incubo di una persecuzione che, nel nuovo contesto borghese anglosassone, incombe sulla sua stessa identità, sotto forma di attentato alle tradizioni ortodosse. Come ogni gruppo solo formalmente radicato e accettato, non può contare che sulle capacità dei membri di conformarsi ad un nuovo stile di vita, trascendendolo. La perfezione che i genitori richiedono ai figli è la stessa che si impongono in virtù di una radicale rinuncia ad ogni forma di piacere. Essi sono ossessionati Ietteralmente dall'opinione pubblica, dagli occhi della gente. Ma la persecuzione ebraica non è stata attivata nei secoli da duri giudizi sui loro costumi perversi? Ignorare, a questi livelli, il peso della storia non equivale a falsificare i dati della ricerca? Parlare di Sara come capro espiatorio non sfiora il ridicolo quando si pensa che essa appartiene ad un contesto familiare che ha radici etniche in una popolazione che è stata trattata come capro espiatorio?

Tutto ciò non significa, ovviamente, assolvere la famiglia di Sara, ma solo ribadire che senza la comprensione del quadro mentale entro il quale si muove quella famiglia, e senza la storicizzazione di quel quadro mentale, tutte le interpretazioni diventano arbitrarie e sostanzialmente insignificanti.

La famiglia vivisezionata da Esterson ha una visione del mondo che, in un certo qual modo, è riconducibile ad una struttura psicopatologica, quella ossessiva. Essa dá per scontato che, nell intimità di ogni essere umano, ci sia qualcosa di orribile da tenere sotto controllo e da occutare: una natura umana tendente spontaneamente al male. La cultura ebraica rende comprensibile questo pessimismo radicale: l'uomo, con aa sua incoercibile aspirazione alla malvagità, è l'essere che Dio si pente di aver creato. Rimedio unico alla corruttibiità della natura umana sono la legge divina e il controllo sociale: dall'una e dall' altro, per moralizzarsi, l'uomo deve sentirsi letteramente perseguitato. Ciò che vi è di terribile in questa visione del mondo è che essa inesorabilmente produce la mostruosità che intende scongiurare, facendo degli esseri umani degli schiavi, o della legge - di una Legge che impedisce ogni abbandono al desiderio, com'è il caso dei genitori di Sara - o della colpa, come è il caso di Sara che ad essa si ribella, dopo averla introiettata.

Se prescindiam da questo nucleo ideologico, ciò che vediamo è ciò che vede Esterson: una famiglia alleata nello scaricare su Sara le proprie contraddizioni, e nell'espellerla con queste.

Se teniamo conto del nucleo ideologico, il dramma si anima di una maggiore complessità: la famiglia è impegnata, nell'educazione dei figli, a scongiurare un pericolo che finisce con il produrre nel membro più recettivo sotto il profilo della educabilità.

Realizzatosi nella trama della soggettività di Sara, questo pericolo non viene da essa riconosciuto - né potrebbe esserlo - come espressione distorta dei bisogni di individuazione, bensì come 1'io vero. Di conseguenza, per autenticarsi, Sara non può che agirlo.

La risposta della famiglia all'affiorare della temuta mostruosità è meno sorprendente del fatto che Sara elabora la trasgressione come copa, e si destina all'espiazione.

L'apparato dela ricerca di Esterson, sia sotto il profilo intersoggettivo cbe socioculturale, è straordinariamente ricco. Perché, dunque, i dati vengono costretti entro la camicia di forza di una interpretazione così ciecamente deterministica? Il problema è nella definizione di sistema sociale da cui muove l'autore: un sistema sociale - egli- scrive - è semplicemente il modello di interazione e di interesperienza delle persone cbe lo compongono. L'avverbio, che suona come un lapsus, allude ad una complessità alla quale sia può sfuggire solo in virtù di un sociogenetismo radicale. La via è pericolosa perchè può essere usata per isolare, in un contesto nprrmale , una quota di famiglie malate: quota minoritaria che o viene ritenuta espressione di una disfunzione locale o viene assunta, a sua volta, come sintomo di una malattia del sistema sociale totale.


3. Il sistema familiare sotto il profilo intersoggettivo, interpersonale e metapersonale

L'aver sottoposto a critica il lavoro, meritevole per più aspetti, di Esterson, corrisponde al fine di entrare nel vivo del discorso sul rapporto tra sistema familiare e disagio psichico.

Utilizzando i termini interesperienza e interazione, Esterson fa riferimento a due livelli del sistema familiare: il livello intersoggettivo e quello comunicativo o transazionale. Il primo livello postula l'esistenza di soggetti che si esperiscono reciprocamente e si interpretano; il secondo livello fa riferimento alle interazioni comunicative e comportamentali che dipendono dal'interesperienza. Esterson rievoca la lezione di Laing, che è stato il primo a criticare il riduzionismo transazionalista, con estrema lucidità.

La citazione è d'obbligo:

"Alcune teorie si interessano soprattutto alle interazioni e transazioni tra individui senza occuparsi un grancbé dell'esperienza di chi le attua.Come ogni teoria che si concentra sull'esperienza e trascura il comportamento può diventare gravemente monca, così delle teorie che si specializzano sul comportamento e trascurino l'esperienza risultano squilibrate. Un rapporto tra persone non è solo transattivo, è anche transesperienziale, ed è proprio qui cbe risiede la sua peculiare qualità umana... La sola transazione, senza l'esperienza, non possiede contenuti specificamente personali... Noi siamo un'intera generazione di esseri umani talmente estraniata dal mondo interiore cbe vi sono molti che sostengono che esso non esiste, e, anche se esiste, non vale la pena di occuparsene; che, ancbe se possiede un qualche significato, non è fatto di solido materiale scientifico e quindi occorre renderlo solido, misurarlo e calcolarlo... (ma) senza il mondo interiore l'esteriore perde ogni significato e senza l'esteriore l'interiore perde ogni realtà".

Per quanto riguarda la messa tra parentesi della soggettività e dell'intersoggettività operata dal transazionalismo, ancora oggi - sono passati 25 anni - non si può dire né più né meglio. Se il mondo interno, inteso come struttura di esperienza soggettiva, si ritiene inaccessibile o indecidibile, le transazioni divengono gli unici dati obiettivi nell'ambito delle relazioni tra persone: ma ciò corrisponde - per citare ancora Laing - "alla socializzazione del mondo dell'osservatore mediante la trasformazione dei dati reali in dati presi (capta) cbe sono presi per dati". Ma il superamento del transazionalismo in nome dell'intersoggettività, non esaurisce, a nostro avviso, i livelli dell'esperienza.

C'è, infatti, un livello metapersonale, che è identificabile nei recinti mentaLi - cognitivi, volitivi, emotivi - entro i quali si organizzano sia le strutture di esperienze soggettive che il rapporto tra di esse: recinti mentali la cui genesi mette in gioco la storia sociale della famiglia e le tradizioni che essa veicola. Sono questi recinti, intesi ovviamente non solo nel senso limitativo (che è importante) ma anche positivo - di ciò cbe essi contengono -, che definiscono le possibilità ideologiche che ogni famiglia offre alla strutturazione della personalità. Sono essi cbe presiedono all'alienazione dei bisogni fondamentali; essi che, adottati dal soggetto come soluzione di questo problema, lo indirizzsno nel vicolo cieco psicopatologico; essi, infine, che promuovono certe e non altre interazioni del sistema familiare.

Il livello metapersonale - che è il livello dei quadri mentali organizzati dalla tradizione - non è specifico del sistema familiare. Esso investe tutta la realtà umana: è l'orizzonte ideologico entro il quale ogni individuo, ogni gruppo familiare, ogni società definiscono se stessi e il rapporto tra essi. L'importanza di questo livello è dato dal fatto che esso non si offre mai immediatamente alla coscienza, poiché si maschera proprio in virtù del fatto che ogni coscienza individuale pretende di essere, in misura variabile da soggetto a soggetto, autonoma, libera ed obbiettiva.

Esso non può mai essere colto su un piano empirico, a livello relazionale, poiché struttura questo piano ma non appare.

Se si ammette l'esistenza di questo livello, il sistema familiare diventa uno spazio nel quale la comunicazione maschera la soggettività e questa, a sua volta, mascbera il quadro mentale che la sottende. Ma è solo a partire dal quadro mentale, dall'orizzonte ideologico, che è possibile comprendere e spiegare sia 1'intersoggettività che la transazione. Trascurando il quadro mentale, il rischio è di chiudere le esperienze e le transazioni entro la camicia di forza di un'ideologia descrittivistica.

Basterà fare due esempi a riguardo per chiarire l'assunto.

A livello intersoggettivo, l'individuazione della madre iperprotettiva come fattore causale di disagio risale a parecchi decenni fa. Di questa figura si sono fornite le interpretazioni più svariate, che si limitavano a descrivere i bisogni della madre e il suo modo di vivere il figlio. Ma solo quando si è compreso che l'iperprotezione muove da una visione del mondo persecutoria e che essa mira, nel contempo, a difendere il figlio dalla drammaticità di un rapporto diretto con il mondo e ad attrezzarlo ad affrontarlo, quando la famiglia venga meno, quell'atteggiamento soggettivo ha assunto senso.

Esso, infatti, definisce sì l’inadeguatezza della madre, ma è un'inadeguatezza relativa, che mette in luce la difficoltà di adattarsi a cambiamenti sociali che, comportando livelli di conflittualità sempre più elevati, mettono fuori gioco selettivamente soggetti rimasti vincolati all'utopia di una socialità non persecutoria.

Per quanto riguarda le transazioni, utilizzeremo una sequenza comunicativa tra una madre e una figlia psicotica, dopo un'aggressione da parte di quest'ultima.

 

Figlia: "E perchè ti ho assalita quella volta? Forse era che cercavo qualche cosa che non avevo, per esempio l'affetto; forse era fame d'affetto"

Madre: "Ma se non ne volevi mai sapere! Dicevi sempre che erano sdolcinature!."

Figlia: "Bene, quando mai me ne hai dato?"

Madre: "Per esempio, se volevo baciarti tu dicevi: non essere sdolcinata!"

Figlia: "Ma non ti ho mai visto una volta lasciare che fossi io a

baciarti".

Riferito da Laing ed Esterson, l'esempio è riportato da Watzlawick come prova di un'interazione circolare che i soggetti interpretano in termini di causalità lineare, poichè punteggiano diversamente le sequenze di eventi. Ci sembra, con tutta evidenza, che questa interazione lascia trasparire un quadro mentale cbe identifica nella espressione degli affetti un debolezza vergognosa. Veicolato dalla madre, questo modo di vivere gli affetti è partecipato dalla figlia, ed impone ad entrambe una sfida il cui fine è dimostrare chi, delle due, è la più forte.

Il comportamento aggressivo della figlia - comportamento ricorrente in circostanze del genere - non è una ricbiesta d'affetto: è un tentativo di far soffrire la madre. Vedendola soffrire, è chiaro infatti che essa sente : se sente, è giusto sentirsi in colpa nei suoi confronti, e riparare (in questo caso, con il ricovero).

Alla luce di questo esempio, dovrebbe risultare evidente che, all'interno dei sistemi familiari, la transazione maschera la soggettività e l’esperienza soggettiva maschera il quadro mentale cbe la struttura. Il comportamento aggressivo della figlia mira a riabilitare, nella madre e in se stessa, la capacità di sentire sull'unico registro disponibile, quello della sofferenza: ma questo registro è l'unico disponibile poicbé entrambi i soggetti identificano nella freddezza affettiva la normalità. Se questa dinamica si radicalizza, giungiamo ad intuire la logica del comportamento mostruoso di alcuni soggetti psicotici, che inducono sofferenza nei genitori e rimangono assolutamente indifferenti.

In ogni contesto familiare, dunque, dobbiamo considerare tre livelli: il transazionale, l'intersoggettivo e il metapersonale. In breve: ciò che avviene in esso; il modo in cui, a livello soggettivo, è vissuto ed elaborato ciò che avviene; e il quadro mentale che rappresenta la matrice logica ed ideologica di ciò che avviene e dell'elaborazione soggettiva.

E' questo quadro però che permette di comprendere e di spiegare gli altri due livelli, e di affrancarli sia dalla logica deterministica della scacchiera sia da quella arbitraria dei fantasmi.

L'interesse di questa affermazione per una nuova scienza del disagio psichico va molto al di là delle apparenze. Infatti, se è lecito parlare di comunicazioni patologiche e di interesperienza distorta, i quadri mentali all'interno dei quali si realizzano le comunicazioni e si elaborano le esperienze si sottraggono, per ovvii motivi, a giudizi di valore di questo genere. I quadri mentali sono ideologici: le loro potenzialità patogene dipendono dalle costrizioni - emotive, cognitive, volitive - che essi impongono. Ma queste costrizioni sono le stesse che fondano la normalità.

Come spiegare che gli stessi quadri mentali producono normalità e disagio psichico? La risposta - l'unica che, per ora, sembra possibile - è che ciò dipende dal grado di coerenza con cui essi vengono partecipati da un gruppo familiare e dai membri. Il disagio, insomma, sarebbe null'altro che una caricatura della normalità, la drammatica conseguenza dell'adozione di quadri mentali, il cui fine è di mascherare contraddizioni reali, per risolverle.


4. La famiglia come sistema ideologico

Le conclusioni cui siamo arrivati nel paragrafo precedente mettono in luce, ancora una volta, il ruolo che l'ideologia, intesa come quadro mentale, svolge nell'organizzazione della soggettività, dell'intersoggettività, delle relazioni interpersonali e degli spazi sociali entro i quali esse si realizzano.

Non c'è da sorprendersi: da sempre insistiamo sul carattere onnivoro dell'ideologia, che pervade tutti gli ambiti della vita sociale, relazionale e mentale. Se la nostra ricerca ha qualche pretesa di originalità, tale pretesa può essere identificata nell'assumere il bisogno ideologico come costitutivo della mente umana e nel tentativo di dimostrare che i quadri mentali collettivi, che, in quanto prodotti storici, sono uno dei livelli costitutivi della realtà recingono e/o strutturano le esperienze soggettive anche nella dimensione cosiddetta intrapsichica.

Il bisogno ideologico, inteso come bisogno di un visione del mondo sufficientemente organizzata per progettarsi e porsi in rapporto attivo con esso, e l’ideologia in quanto prodotto storico, e cioè in quanto prodotto dei ceti dominanti, ovviamente non coincidono. L'ideologia ha sempre un carattere costrittivo e costruttivo in rapporto al bisogno, che, nella sua originalità, può essere colto come bisogno di sapere. L'elemento dinamico di congiunzione tra ideologia e bisogno ideologico è la tradizione, la trasmissione di codici interpretativi - cognitivi, emotivi, morali - già organizzati che possono essere accolti, rifiutati, elaborati.

Non è certo originale vedere nella famiglia il sistema deputato a trasmettere questi codici, utilizzando la permeabilità e il difetto di strumenti critici propri dell'infanzia per un verso, e i canali comunicativi che si aprono in virtù della qualità affettiva dei rapporti, per un altro.

Il sistema familiare è un sistema ideologico in quanto i rapporti interpersonali mascherano la riproduzione sociale - la riproduzione di normalità - cui esso è devoluto. Ma - e questo è il proble ma - la mascherano agli occhi di tutti i membri della famiglia. Lo scarto tra il livello interpersonale e quello metapersonale, o ideologico, è all'origine dell'alienazione dei bisogni fondamentali che noi abbiamo assunto come premessa perché si generi un disagio psichico. Ciò che intendiamo dimostrare, ora, è che solo questo scarto è in grado di spiegare i livelli intersoggettivi e comunicativi patologici che si realizzano in alcune famiglie. E che, trascurando questo scarto, non si raggiunge l'obiettività, bensì si definisce una nuova inquietante ideologia: quella del cambiamento per il cambiamento.

Procediamo analizzando una delle ingiunzioni paradossali che si ritengono specifiche della famiglia disturbata: "tu non devi essere così ubbidiente". Il paradosso consiste nell'imporre un comportamento disubbidiente: se il soggetto accetta l'ingiunzione, obbedisce, se la rifiuta, continua a obbedire. In pratica, il cambiamento sollecitato dall'ingiunzione coincide con il mantenimento dello status quo.

La fallacia sofistica del paradosso - il cui realizzarsi all'interno di alcuni contesti relazionali è fuor di dubbio - deriva dal trascurare il quadro mentale, che, coinvolgendo tutti i membri, dà alla comunicazione e all'interazione del soggetto un significato paradossale.

Il quadro di mentalità, i1 più spesso, è incentrato sulla logica dell'obbedienza come prova di un buon rapporto con l'autorità. Ma esso implica che, al di là di un certo limite, l'obbedienza diventa un atteggiamento passivo che espone il soggetto a subire la volontà altrui, a farsi sopraffare. La contraddizione intrinseca del quadro mentale consiste nell'assumere l'obbedienza come valore sociale ma, al tempo stesso, come mortificazione dei bisogni di individuazione, senza riuscire a definire quale sia il limite tra il valore e il difetto. Ciò induce ad offrire al soggetto la percezione confusa di un pericolo, senza alcun criterio che lo aiuti a definirlo in maniera operativa. Se il soggetto cade nella trappola di questa contraddizione, egli si chiude nel cerchio di un'obbedienza eccessiva segnata da ricorrenti ribellioni fuori misura. Il limite critico dell'ingiunzione è che essa allude alla possibilità che una qualsivoglia autorità strumentalizzi l'obbedienza: ma, anziché porre in gioco l'autorità e la dialettica del rapporto tra autorità e subjectus, essa si traduce in una regola di comportamento che, adottata acriticamente, risulta sterile, poiché irrigidisce il porsi del soggetto in rapporto all'autorità o sul registro dell'obbedienza o su quello della ribellione.

L'ingiunzione, insomma, è paradossale poiché essa comporta una confusa percezione di un pericolo, e una difesa - la ribellione - che può risultare un rimedio peggiore del male.

Se teniamo conto dell'attività soggettiva, il problema dell'ingiunzione paradossale si configura diversamente. Essa, infatti, in tanto esiste in quanto si dà per scontato che il soggetto non possa che interagire con essa, accettandola, e dunque ubbidendo, o rifiutandola, e dunque persistendo nella remissività.

Ma se ammettiamo che la soggettività è uno spazio di elaborazione delle comunicazioni, nulla vieta di pensare che un soggetto possa trasformare il tu devi - l'ingiunzione - in un atteggiamento autonomo, per es. del tipo "io devo valutare meglio il mio modo di pormi in rapporto all'autorità", oppure "io voglio impormi, come valore, l'obbedienza cieca all'autorità".

In ambedue i casi, l'ingiunzione viene elaborata e dà luogo ad un atteggiamento autonomo (perché, se è vero che la libertà è una medaglia a due facce, anche la rinunzia consapevole ad ogni ribellione nei confronti dell'autorità, può essere una manifestazione della libertà...).

L'ingiunzione, dunque, diventa paradossale nei casi in cui il soggetto rinuncia - o è costretto a rinunciare - ad elaborarla: quando egli, più o meno consapevolmente, mortifica la sua capacità critica persistendo in un atteggiamento eteronomo, che implica il bisogno di un'autorità che ponga delle regole comportamentali e la paura di assumersi la responsabilità di una scelta personale.

Come i1 messaggio fa riferimento ad un quadro di mentalità confuso, nella misura in cui verte sul comportamento del soggetto in rapporto ad un'autorità astratta, e non sull'autorità nella concreta realtà storica, così la reazione del soggetto, se rimane impigliata nell'ingiunzione, implica un atteggiamento eteronomo che inibisce una presa di posizione personale, autonoma. L'ingiunzione, dunque, non è paradossale in sé e per sé bensì in riferimento alla storia del contesto all'interno del quale essa si realizza.

Per comprendere la sua natura paradossale, l'hic et nunc è ben poca cosa, poiché esso non può dirci nulla del quadro mentale - incentrato sulla dialettica autorità/libertà personale - che la rende formalmente paradossale, nulla dell'eteronomia del soggetto che la rende di fatto tale. Senza riferimento alla storia sociale della famiglia e alla struttura della personalità del soggetto in questione - espressione di un processo di socializzazione -, l'ingiunzione paradossale è letteralmente priva di significato.

Non solo essa non permette di comprendere perché avviene ciò che avviene, ma neppure come: essa si riduce a descrivere ciò che avviene. Non entriamo nel merito se ciò possa bastare ad indurre un cambiamento nel sistema: se lo induce, è al prezzo di una mistificazione ideologica di cui non può sfuggire il senso. Il sistema nel quale si realizza quell'ingiunzione paradossale è infatti eteronomo: l'autonomia sollecitata dalla comunicazione è l'espressione di un bisogno a cui nessuno dei membri, evidentemente, sa dare un contenuto personale. Se in questo sistema un terapeuta assume il ruolo dell'autorità che prescrive regole di comportamento, obbligando le persone ad obbedire (o a disobbedire!) è chiaro che il problema si risolve...

Senza la considerazione dei livelli metapersonali, e, in pratica, dei quadri di mentalità all'interno dei quali si configurano le relazioni tra persone e si definiscono i sistemi di comunicazione, è possibile, dunque, solo descrivere ciò che avviene, e, forse, indurre dei cambiamenti.

Ma ad una nuova scienza del disagio psichico non interessa il cambiamento per il cambiamento, bensì un cambiamento che risolva l'alienazione dei soggetti dalle relazioni, e dei sistemi in rapporto ai quadri ideologici entro i quali le esperienze soggettive e le comunicazioni interpersonali si realizzano.

L'ottica sistemica, nella misura in cui aborrisce l'ideologia come spazio sociale e mentale di definizione della personalità e delle relazioni, non è né neutrale né obiettiva, bensì, né più né meno, un'ideologia che nega il peso dei quadri ideologici nella vita interiore e sociale degli esseri umani.

A questo punto, ci si impone una digressione. La metafora della scacchiera è così ridondante nella teoria dei sistemi comunicativi che vale la pena, prima di riprendere il discorso sulla famiglia come sistema ideologico, dedicare ad essa una qualche attenzione.

E' banale affermare che la vita reale non è un gioco di scacchi: banale e impreciso, perché in una certa misura lo è. Il problema consiste in ciò: che neppure a scacchiera può essere neutralizzata ideologicamente.

Ipoteticamente, introduciamo un teorico dei sistemi nell’ambiente in cui è avvenuto, anni fa, la sfida tra Korchnoy e Karpov. Egli si sarebbe limitato a rilevare un quadro di regole scontate al cui interno un giocatore, adottando delle strategie particolari, conseguiva la vittoria. L'interesperienza dei giocatori, reciprocamente diffidenti, certi che l'avversario non avrebbe mai potuto vincere per valore, ma solo in virtù di trucchi diabolici, estranei alle regole del gioco, e inclini a veri e propri vissuti persecutori, gli sarebbe sfuggita.

Al di là del livello intersoggettivo, lo scontro animatosi intorno alla scacchiera di due visioni del mondo, di due ideologie radicate nell'esperienza storica dei giocatori, La qualità politica della sfida, l'interferenza macrosociologica nel contesto particolare, sarebbero risultate indecidibili. Immersi nell'assillo strategico del gioco, è probabile che anche ai giocatori siano sfuggiti, in una certa misura, sia i livelli interesperienziali che ideologici. Coloro che si sono dedicati ad un'analisi critica delle partite hanno invece individuato negli stili adottati l'espressione non solo di due talenti scacchistici ma anche di due diverse concezioni del mondo, riflettentesi nel microuniverso degli scacchi: la programmazione un po’ burocratica di Karpov, pronta a sfruttare impietosamente gli errori dell'avversario; l'aggressività priva di rigore di Korchnoy, spesso arrischiata al punto tale di offrire egli stesso all'avversario varchi fatali. Si tratta di un caso affatto particolare, ma esemplare per capire che il gioco con regole dei sistemi comunicativi è uno scheletro teorico, animato dai livelli intersoggettivi e dalle ideologie che strutturano le esperienze soggettive.

Assumere il livello comunicativo come l'unico degno di essere considerato, poiché esso conterrebbe la chiave dell'esperienza psicopatologica, equivale ad isolare la scacchiera nel contesto della sfida tra Korchnoy e Karpov o a limitarsi ad analizzare 1e partite a livello di scaccografia. Isolato dalla storia, questo livello, che, pure, ha una sua realtà, si può ritenere insignificante, eccezion fatta per l'esito dell'incontro.

A livello comunicativo, tutto ciò che è dato di cogliere sono i vani tentativi messi in opera dai membri familiari per sbrogliare una matassa che, proprio per effetto di quei tentativi, si aggroviglia ulteriormente, fino a catturare tutti in una situazione intollerabile. Affermare che il problema della comunicazione disturbata si risolve in virtù del fatto che i soggetti che fanno parte del sistema giungono a comunicare sulla comunicazione, a capire le regole del gioco in cui sono impegnati è meno ingenuo che ideologico: se è vero infatti che la metacomunicazione all'interno di un sistema comporta un raffreddamento del gioco interattivo, e, spesso, un qualche cambiamento, non è meno vero che la metacomunicazione non coglie l’ideologia entro cui è catturato il sistema familiare e tanto meno il nucleo ideologico che struttura l'esperienza del disagio psichico.

Ritenere essenziale o non per un autentico cambiamento questo livello è di estrema importanza, anche pratica. Noi lo riteniamo essenziale: e, dunque, dobbiamo impegnarci a dimostrarlo.

Molti sistemi familiari nei quali si definisce un disagio psichico sembrano avere in comune la difficoltà di promuovere i bisogni di individuazione: essi, cioè, tendono a mantenere l'integrazione familiare cercando di ostacolare la differenziazione, e cioè la definizione e l’espressione dell’individualità.

Lo studio delle comunicazioni patologiche in questi sistemi mette in luce una serie di giochi che tendono ad invalidare i tentativi del soggetto di individuarsi. Trascuriamo, per brevità, di insistere sul fatto, per noi certo, che, in tali casi, il bisogno di individuazione a livello soggettivo si distorce e si aliena fino a porsi in termini di asocialità: e che questo, in ultima analisi, è il vero problema.

Rimaniamo nell'ottica del sistema. Che sen so ha questa difficoltà, che sembra insormontabile a livello comunicativo, di accettare la differenziazione dei membri? I motivi sono, ovviamente, molteplici, ma il più significativo e costante sembra essere la paura del cambiamento, avvertito come possibilità di disintegrazione del gruppo familiare sia nel senso fisico che in quello morale. La paura in tanto esiste in quanto essa dà per scontato che un soggetto che si differenzia tronca i legami con la famiglia originaria o organizza un modo di vivere che può risultare disonorante per la famiglia.

La metacomunicazione non può far altro che rendere i membri consapevoli di ciò che avviene nel sistema e del fatto che promuovendo la differenziazione le difficoltà diminuiscono. Intanto, questo non è sempre vero: talora, sorprendentemente, è il soggetto stesso che protesta per essere lasciato più libero ad ostacolare attivamente i tentativi di cambiamento dei parenti. Ma, indipendentemente da ciò, la paura del cambiamento sembra assumere talora un carattere terrificante, che frustra ogni intervento terapeutico. In questi casi, è solo l'analisi delle componenti ideologiche di questa paura che può rimuoverla. Queste componenti hanno radice nella nuclearizzazione del sistema familiare, la cui autosufficienza - intesa come capacità di rispondere ai bisogni del soggetto, che evolvono nel tempo (basti pensare ai bisogni della terza età...) - è un mito sociologico, che tende ad incrementare la coesione.

La famiglia nucleare è, in sé e per sè, un sistema precario, in varie circostanze al limite dello scompenso, che, devoluta a promuovere l'indipendenza dei figli, non può che tentare, contemporaneamente, e, in misura diversa, di frustrarla; ché la perdita sociale dei figli segna, talora, effettivamente la morte della famiglia.

La nuclearizzazione della famiglia è un esperimento su vasta scala che corrisponde ad una vera e propria selezione culturale. Non è azzardato pensare che questo esperimento produce più paure in alcuni sistemi che in altri. Rimane il problema di definire se questo è un segno di inadeguatezza di alcuni sistemi familiari - costretti a vincolarsi ad un'ideologia familista fusionale - o della forma sociale che la famiglia ha assunto in virtù di condizionamenti storici, sociali ed economici.

C'è l'altro versante del problema: la paura del cambiamento riferita non all'abbandono, bensì ad un modo di vivere dei figli disonorante per la famiglia. Questo versante è inesplorabile a livello comunicativo e metacomunicativo. Esso infatti pone in luce 1'intuizione che la famiglia ha di progetti di vita oppositivi, radicali e, in una certa misura, immorali . Intuizione fondata, se è vero che l'alienazione del bisogno di individuazione, prodotta dalla socializzazione familiare, spesso si organizza nel soggetto in una visione del mondo che è la negativa di quella familiare, e che, se realizzata, lo alienerebbe ulteriormente. A questo livello, il problema è che la differenziazione, ostacolata, si ideologizza, agganciando nel mondo modi di essere realizzati sociologicamente, che vengono assunti, per ribellione e disperazione, come modelli di realizzazione di sé. L'incombenza di questi modelli spiega a sufficienza il terrore di un cambiamento.

La famiglia non può favorire una differenziazione in queste direzioni. Ma gli ostacoli che essa pone, e che, spesso, confermano quelli posti nel corso della socializzazione, non possono sortire altro effetto che di radicalizzare le scelte più o meno inconsapevoli del soggetto. Ma questa radicalizzazione, nella misura in cui viene confusamente percepita dal soggetto come espressione di un'alienazione del suo bisogno di individuazione, ricade anche su di lui sotto forma di paura. E' la qualità ideologica di un cambiamento terribile per tutti che chiude il sistema familiare in un circolo vizioso.

In breve, la paura del cambiamento che si registra in molti contesti familiari esprime sia la precarietà della famiglia nucleare - e cioè di un cambiamento abbastanza violento avvenuto nell'organizzazione del sistema familiare - sia il rifiuto di modi di essere, socialmente realizzati, che l'alienazione del bisogno di individuazione del soggetto disagiato aggancia come modelli di realizzazione di sé, facendoli incombere, con le loro valenze eversive, sul sistema familiare.

La dialettica dei contrari - per cui alla dipendenza si oppone l’indipendenza, al conformismo l'anticonformismo, al controllo la libertà totale, ecc. - è lo spazio ideologico all'interno del quale i sistemi familiari disturbati si dibattono senza scampo.

Ma è vero che questo spazio, riprodotto dalla socializzazione educativa, è, anzitutto, un prodotto storico. E che, infine, il tradimento delle regole educative attesta i vani tentativi che i membri del sistema mettono in atto per risolvere problemi che sono insolubili poiché le loro matrici ideologiche sono del tutto al di fuori degli strumenti di analisi della realtà che esse posseggono.


5. I fattori di rischio familiari e individuali

Se si esclude che esistono contesti familiari patogeni nel senso proprio della parola, capaci cioè di determinare disagio psichico in qualunque individuo ad essi affidato nel corso della fase evolutiva, due problemi si impongono alla riflessione.

Il primo consiste nel definire i fattori di rischio per la salute mentale che occorre presumere esistano nelle famiglie al cui interno si definiscono esperienze di disagio psichico: è ovvio infatti che, pur escludendo un determinismo familiare del disagio, i contesti che lo producono, proprio perché utilizzano, nell'educazione dei figli, quadri mentali collettivi la cui funzione dovrebbe essere normalizzante, devono avere una qualche connotazione differenziale rispetto agli altri, che, di fatto, riproducono la normalità. In altri termini, se si prescinde dall'arbitrio di diagnosticare come malate le famiglie che producono disagio psichico, occorre, a maggior ragione, spiegare come mai esse non riescono a produrre normalità.

Il secondo problema riguarda i fattori di rischio individuali, e cioè in pratica, il mistero per cui, nella stessa famiglia, sia un soggetto piuttosto che un altro a sviluppare un disagio psichico. Negare che esista una qualche predisposizione soggettiva equivale, infatti, a negare l'evidenza delle cose: ma è pur vero che il termine predisposizione è carico di valenze ideologiche che vanno analizzate criticamente, poiché il rischio di cadere dalla padella del determinismo familiare alla brace del determinismo biopsicologico è elevato.

E' lecito pensare che l'ambizione di costringere in una teoria l'infinita complessità dei sistemi familiari e la diversità degli individui sia eccessiva e che, nella migliore delle ipotesi, non possa cogliere che frammenti di verità. Ma la logica del discorso che stiamo elaborando ci impone di rifiutare l'ideologia della complessità del reale nella versione in cui essa pretende di vanificare ogni sforzo teorico.

A maggior ragione, nel caso in questione: ché i problemi enunciati non sono posti dalla teoria ma dalla realtà. Ciò significa che ogni prassi che si faccia carico di essi, li interpreta, più o meno consapevolmente. D'altro canto, anche se volessimo chiudere gli occhi su di essi, i presupposti elaborati sinora implicano già delle risposte.

Si è detto, infatti, che la premessa perché si definisca un disagio psichico è l'alienazione dei bisogni fondamentali nella trama di un'esperienza soggettiva, e cioè il porsi essi in termini irriducibilmente conflittuali; e che, inoltre, tale premessa non può essere che 1'espressione del processo di socializzazione, e cioè delle possibilità che vengono offerte dall'ambiente all'individuo per costruire una personalità che abbia una identità e una capacità di relazione sociale.

Si è detto, anche, che l'alienazione dei bisogni fondamentali non può essere assunta come causa necessaria e sufficiente per il prodursi di un disagio psichico: essa è nulla più che un fattore di rischio diversamente diffuso in una popolazione (e, comunque, mai azzerato). Che esso rimanga latente o si manifesti è dunque dovuto almeno a due serie di fattori: le possibilità che l'ambiente offre per mascherare l'alienazione, e le strategie che un soggetto pone in atto per risolvere il problema, accettandolo come tale - e costruendo dunque una vita interiore e sociale alienate - o tentando di porre rimedio alle contraddizioni che lo sottendono. L'esito di questo tentativo dipende dagli strumenti - economici, sociali e culturali - di cui l'individuo dispone: quando essi sono inadeguati, in senso lato, il soggetto rischia di intrappolarsi in un vicolo cieco psicopatologico. I problemi cui si è fatto cenno sono dunque ulteriormente definibili nei termini seguenti:

1) come si produce l'alienazione dei bisogni fondamentali nel corso delle fasi evolutive della personalità?

2) perché l'alienazione dei bisogni si configura e viene vissuta diversamente da diversi soggetti all'interno degli stessi contesti?

3) perché i bisogni alienati si organizzano talora in un modo di essere soggettivamente e socialmente compatibile, tal’altra in una struttura psicopatologica?

Quanto al primo problema, se si accetta il presupposto che i bisogni fondamentali, come espressione del corredo della natura umana, siano contraddittori ma non irriducibili, è chiaro che la loro alienazione, il loro giungere a configurarsi in opposizione adialettica, non può essere che il prodotto della socializzazione, e, dunque, dell'interazione ai tre livelli costitutivi di quel processo: la comunicazione, l'intersoggettività e la mentalità. Già sono stati discussi i motivi per cui noi privilegiamo il livello della mentalità. Per quanto riguarda la socializzazione, esso si identifica con il modello latente di normalità - di come si debba essere - che ogni famiglia adotta nell'educazione dei figli. L'adozione di un modello, che, per essere astratto, tradisce, in una qual che misura, la diversità individuale, si può ritenere un fattore di rischio in sé e per sé.

Ché, se i sistemi familiari - come ogni sistema di riproduzione sociale - tendono a privilegiare l'uniformità, la logica genetica tende altresì a rimescolare le carte e a privilegiare la diversità. Il riferimento ad un modello pedagogico normativo, quando si associa all'incapacità di dialettizzarlo in rapporto alla concreta realtà dei figli, potenzia quel rischio, che si può ritenere costitutivo di ogni impresa educativa. Ma, ovviamente, l'incapacità di apprendere dall'esperienza non si può ritenere una connotazione specifica della famiglie che producono un disagio psichico, non fosse altro perché è condivisa da molte altre famiglie che producono normalità. Ci deve essere dell'altro.

L'ipotesi che noi avanziamo è che le famiglie che producono un disagio psichico sono caratterizzate, rispetto alle altre, dal fatto che, intuendo l'alienazione dei bisogni che le sottende, esse non tendono a riprodurla nei figli, bensì a risolverla. Non sembra assolutamente vero ciò che sostiene la teoria dei sistemi: che le famiglie, cioè, usino i figli per risolvere le proprie contraddizioni. E' vero che esse, piuttosto, tentano di mettere i figli al riparo da queste: ma le strategie adottate le riproducono inesorabilmente nella struttura di esperienze dei figli, spesso rendendole insolubili.

La specificità delle famiglie che producono un disagio psichico consisterebbe, dunque, nell'adottare, nell'educazione dei figli, modelli pedagogici, il cui fine dovrebbe essere quello di risolvere l'alienazione dei bisogni fondamentali. Ciò implica che esse percepiscono quest'alienazione, e i pericoli che essa comporta, con una maggiore drammaticità rispetto alle famiglie che producono normalità; ma, infine, sarebbe proprio questa percezione, non sorretta da adeguati strumenti d'analisi della realtà umana e sociale, a produrre soluzioni che sono un rimedio peggiore del male che esse intendono scongiurare.

Forse è possibile definire ancora meglio la specificità in questione. Se, infatti, l'alienazione dei bisogni fondamentali, che è presente, in una certa misura, in tutti i quadri normativi pedagogici - poiché come non esiste ancora una scienza dialettica dell' uomo e della società, non esiste una pedagogia dialettica - viene assunta, nella sua intensità, come un indice delle tensioni tra libertà personale e regole sociali, che quei quadri tentano di mediare ideologicamente, non è azzardato pensare che le famiglie che producono un disagio psichico abbiano in comune un qualche radicalismo che le induce a rifiutare la mediazione ideologica, e ad avventurarsi, quasi mai consapevolmente, in tentativi di soluzione delle contraddizioni che i quadri normativi occultano.

Se si ricostruisse una sorta di curva di Gauss dei modelli pedagogici familiari, i sistemi che producono disagio psichico dovremmo trovarli alle estremità, e cioè al polo del conservatorismo ad oltranza e al polo dell'utopia.

Per non indurre fraintendimenti politici, è importante sottolineare che questa connotazione sociologica, meramente ipotetica, mira esclusivamente a rilevare che i fattori di rischio implicati in ogni impresa educativa, minimizzati dai quadri normativi che offrono delle scorciatoie ideologiche all'adattamento, vengono amplificati dai sistemi familiari che si impegnano in una sperimentazione inconsapevole, e non sorretta da adeguati strumenti critici, che mira a correggere quei quadri in ciò che essi hanno di contraddittorio. La natura inconsapevole e poco critica di questo impegno non toglie ad esso ogni significato politico, ma lo riconduce nei limiti di una confusa protesta ideologica contro uno status quo che viene vissuto in termini di decadenza o di invivibilità.

Se si tiene conto del fatto, poi, che la visione del mondo familiare non è sempre in accordo con le pratiche educative, i cui codici, sfuggendo quasi del tutto alla coscienza, possono riconoscere commistioni di quadri ideologici opposti, si capirà in quale misura in questi sistemi i fattori di rischio siano elevati.

Non da ultimo, c'è da tener conto che la costituzione di un nucleo familiare nasce spesso da una logica complementare, dalla necessità cioè di usare l'altro e il rapporto con l'altro come fattore di equilibrio e di contenimento della propria struttura di personalità. E' evidente, dunque, che le famiglie che appartengono agli estremi di un'ideale curva gaussiana sociologica nascono da tre possibili combinazioni:

A questo punto, è possibile, forse, capire meglio cosa distingue la nostra impostazione dalle teorie familiari propriamente dette.

Il concetto di famiglia disturbata o inadeguata o malata risulta essere un giudizio di valore funzionalistico riferito all'adattamento allo status quo. Da questo punto di vista, esso coglie nel segno. Ma ciò che sfugge alla teoria dei sistemi, che aborrisce l'ideologia, è che le famiglie che falliscono nel promuovere l'adattamento dei figli allo status quo appartengono a fasce sociologiche che hanno il merito di mantenere in tensione dialettica una normalità che, altrimenti, si riprodurrebbe indefinitamente. Il motivo del fallimento consiste nel fatto che le famiglie inadeguate si impegnano in progetti per realizzare i quali non basta una protesta emozionale contro lo status quo, poiché essi postulano un'attrezzatura sociale e culturale molto elevata (che, naturalmente, non estingue i rischi...).

In secondo luogo, l’insistenza delle teorie sistemiche sull'incapacità delle famiglie disturbate di favorire la differenziazione e la crescita dei membri, misconosce l'altra faccia della medaglia: che cioè difficoltà si originano anche in virtù di una sollecitazione eccessiva alla differenziazione, intesa come indipendenza. Non è un caso: la teoria dei sistemi, nata ed elaborata in un contesto in cui l'indipendenza (ma sarebbe più giusto dire l'intraprendenza...) è un valore antropologico assoluto, funzionale ad un sistema sociale totale, non può vedere la disfunzione che laddove questo valore non viene adottato: deve ignorare che la sua adozione radicale crea disagi di segno opposto.

Posta questa premessa, è possibile ormai definire alcune costellazioni familiari ad alto rischio. Ci si perdonerà una qualche imprecisione, dovuto allo stato nascente dell'ipotesi.

Le famiglie conservatrici tendono o a mortificare i bisogni di individuazione in nome di valori perenni e immutabili o ad ostacolare 1' integrazione sociale in nome di un individualismo che postula un rifiuto di modelli relazionali che vengono assunti come espressione di mollezza e di inadeguatezza personale.

Le famiglie utopistiche, viceversa, tendono a mortificare i bisogni di individuazione che vengono giudicati come sintomi di egoismo e di individualismo , o ad ostacolare il bisogno di integrazione sociale in nome della necessità di non scendere a compromessi con il mondo così come è. L’ideologia delle famiglie conservatrici e di quelle utopistiche rappresenta spesso una mescolanza di istanze etiche, religiose e politiche; ma è importante rilevare che l'ideologia non sempre recepisce consapevolmente quelle istanze: il più spesso essa le traduce in un dover essere , che si pone in termini assoluti. Nella realtà, questo schema si anima in virtù di contraddizioni interne all'organizzazione ideologica e di contaminazioni tra opposte ideologie. In ogni caso, esso veicola una configurazione dei bisogni fondamentali che, rispetto al quadro della normalità dominante, è più radicale e squilibrata, per un verso o per un altro: più alienata, dunque, ma nell'intento, estraneo al quadro normativo, di risolvere le contraddizioni che questo recepisce e media in virtù di una logica meramente adattiva.

L'impostazione data al discorso ci aiuta a capire che le costellazioni familiari a rischio elevato propongono modelli all'interno dei quali l'alienazione dei bisogni si configura in maniera tale da predisporre ad una strutturazione psicopatologica.

Se l'individuazione viene privilegiata nei termini di un'indipendenza assoluta, atta a porre al riparo dalla qualità ricattatoria dei legami, si può parlare di una predisposizione ipocondriaca. Se l'individuazione, per essere salvaguardata, postula una relazionalità superficiale, di rapina e impone di aborrire legami profondi e significativi, ai quali si attribuisce il potere di limitare eccessivamente la libertà personale, è lecito parlare di predisposizione maniacale.

Se il bisogno di integrazione sociale viene proposto in termini eteronomici, di controllo dall'esterno, si può parlare di predisposizione paranoica. Se, altresì, esso insiste nel privilegiare l'immagine sociale come unico livello di realtà psicologica, la predisposizione si definisce come isterica.

C'è infine da considerare la possibilità che sia il bisogno di individuazione che quello di integrazione sociale siano sollecitati, ma su due registri - quello della libertà interiore e quello del controllo - che 1’estraniano: in questo caso appare lecito parlare di una predisposizione ossessiva.

Non si possono ignorare le critiche numerose cui si espone ciò che si è detto: se non è riduzionistico, lo schema però è abbastanza ri duttivo. Ma, a partire dalle stesse premesse, si potrebbero, per esempio, ricostruire altre costellazioni familiari. Nella realtà, poi, è probabile che le famiglie che producono un disagio psichico riconoscono configurazioni complesse, o, addirittura, transitino, nel corso della loro storia, attraverso più di una delle configurazioni descritte.

Ma ciò che appare importante, ai fini di una nuova scienza del disagio psichico, sono le premesse: essere d'accordo sul fatto che le famiglie che promuovono un'alienazione dei bisogni più marcata sono quelle che più si impegnano a risolvere le contraddizioni intrinseche, e dunque il grado di alienazione presente nei quadri normativi del contesto cui esse appartengono. Una rilettura delle microstorie sinora presentate pensiamo possa accreditare sufficientemente queste ipotesi. Le costellazioni familiari da noi definite comportano un rischio elevato di produzione di disagio psichico: ma, per quanto elevato, questo rischio non giunge mai a configurarsi come una causa necessaria e sufficiente. E' chiaro perché: anche quelle costellazioni veicolano modi di essere che, realizzati, possono dar luogo ad una qualche normalità.

I modi di essere familiari, per quanto alienati sotto il profilo dei bisogni fondamentali, non coincidono con le strutture psicopatologiche: il salto tra gli uni e le altre è dato dal fatto che il soggetto, anziché accettare l'alienazione dei bisogni, tenta di risolverla con strumenti di analisi, logiche e strategie che lo buttano nel vicolo cieco psicopatologico, alimentandolo ulteriormente.

Quale predisposizione soggettiva sottende questo tragitto di esperienza? Anche a questo livello, la difficoltà di avanzare delle ipotesi è legata alla necessità di costringere entro uno schema una varietà di vicende umane che sembrano ribellarsi ad ogni semplificazione arbitraria. Ma c'è un dato di fatto inconfutabile che rende possibile formulare delle ipotesi: ogni esperienza di disagio psichico, quale che sia la forma che assume e il contesto nel quale affiora, è strutturata dal senso di colpa. Reso evidente dalle autopunizioni intrinseche ad alcune strutture psicopatologiche (la minaccia di morte nella struttura ipocondriaca, i dolori o le inibizioni funzionali nell'isteria, la minaccia di internamento carcerario o manicomiale nella struttura ossessiva, la mortificazione morale nella depressione, la persecuzione sociale nella struttura delirante), esso sembra difettare solo nella struttura maniacale: ma, in questo caso, come abbiamo visto, è ricavabile dall'intenzionalità dei comportamenti colpevoli che è orientata a far scattare la punizione, sul versante soggettivo o su quello sociale.

Se si tiene conto di questo dato, il problema della predisposizione soggettiva del disagio psichico si identifica con la predisposizione al senso di colpa, e cioè con una qualità morale che si può ritenere costitutiva della natura umana, e che è uno dei fondamenti dell'educabilità. Non abbiamo esitato, altrove, a parlare di bisogno di moralità, intendendo con ciò sottolineare il fatto che la liberazione della vita mentale da ogni controllo istintuale non si sarebbe potuta realizzare se non in virtù dell'affiorare di quel bisogno sotto forma di autoregolazione.

Possiamo ammettere, pertanto, che questo bisogno faccia parte del corredo genetico umano e che esso sia direttamente proporzionale alle potenzialità mentali, cognitive ed emotive. Ciò significa che più sono ricche quelle potenzialità più è spiccato il bisogno di autoregolazione, o che, in altri termini, l'educabilità, intesa come tendenza ad introiettare un codice morale, è più elevata nei casi in cui le potenzialità mentali, nella loro ricchezza, sono vissute con maggiore drammaticità.

L'adolescenza, che è la fase nel corso della quale queste potenzialità si riattivano, induce una verifica delle capacità del codice morale introiettato di integrare le contraddizioni che esse veicolano, e, soprattutto, di mediare il conflitto tra bisogni di individuazione e bisogni di integrazione sociale. Nei casi in cui la ricchezza dei bisogni, espressione della ricchezza delle potenzialità mentali originarie, urta contro la camicia di forza di un codice rigido e costrittivo, il soggetto può risolvere il problema in due modi: o elaborare il codice, riconoscendo nell'introiezione l'espressione di un suo bisogno, o rifiutarlo come un condizionamento esterno.

In questo secondo caso, egli si avvia, senza sapere, in un vicolo cieco psicopatologico, in virtù del fatto che la libertà che deriva dal rifiuto del codice, e dal bisogno di autoregolazione, si configura come paurosa, tale da richiedere un'autorepressione. Il soggetto che sviluppa un disagio psichico è, insomma, né più né meno, vittima di un bisogno di autoregolazione, espressione della ricchezza delle sue potenzialità mentali, che, nelle fasi originarie dello sviluppo, dà luogo ad una rigida introiezione del codice morale proposto dall'ambiente, e, dall'adolescenza in poi, a un rifiuto del codice che, comportando un misconoscimento del bisogno stesso, ne induce la trasformazione in inibizione di una libertà paurosa. Libertà paurosa come espressione delle distorsioni cui, nel corso della fase evolutiva, sono andate incontro le potenzialità mentali e cioè, in pratica, il ricco corredo dei bisogni fondamentali.

Questa distorsione è misurata dallo scarto, costitutivo di ogni esperienza di disagio psichico, tra l'immagine sociale e l'immagine interna di sé. In difetto di una logica dialettica, questo scarto può essere risolto solo con il senso di colpa, che tiene a freno la negatività dell'immagine interna. Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che l'intensità del senso di colpa è un indice prezioso di questo scarto. Che questo, a sua volta, è un indice fedele della distorsione cui sono andati incontro i bisogni fondamentali nel corso delle fasi evolutive. E che, infine, la distorsione attesta la ricchezza originaria di questi bisogni.

Molte altre cose dovrebbero essere dette. Ma, a questo punto, l'esigenza che prevale è quella di esemplificare il discorso teorico. Non c'è da sorprendersi, pertanto, se le microstorie che seguono sono caratterizzate da un tentativo di mettere a fuoco la specificità dei contesti familiari e dei soggetti che sviluppano in essi un disagio psichico.


6. Tipologie familiari ed esperienze psicopatologiche (Microstorie)

1. Piccolo mondo antico

Maria

A 16 anni, Maria comincia a lavarsi troppo frequentemente le mani e a dedicarsi alla casa con un’attività quasi frenetica. I suoi rilevano la stranezza di questo comportamento, e vi si oppongono. Maria si ritira nella sua camera, vietando l’accesso ai suoi, e si dedica ad estenuanti rituali. Ogni giorno deve sistemare gli armadi ed i cassetti, esplorare con cura la biancheria ed i capi di abbigliamento alla ricerca di invisibili imperfezioni cui porre rimedio. Gli animali di peluche, presenti in gran numero, vanno puliti e pettinati. La finestra deve rimanere perennemente chiusa per evitare che entri polvere. I rituali ingombrano gran parte del giorno. Solo sul far sera, se tutto è sistemato, Maria sperimenta un po’ di pace. Che viene compromessa, poi, dall’insonnia, dagli incubi e dai sogni, tutti incentrati su fantasie di fuga e di persecuzione, di trasgressione morale e sociale, di vita disordinata. Al mattino, il letto sfatto come un campo di battaglia ripropone la necessità di un ordine da ricomporre sul registro dell’espiazione.

Maria definisce il proprio modo di vivere con il termine di “schiavitù”. I rituali le impongono un ruolo da donna di casa contro cui si è sempre ribellata. Fin dai primi anni dell’adolescenza, sognava di allontanarsi dall’ambiente familiare e di costruirsi una sua vita. Rifiutava, per principio, il matrimonio. Voleva sentirsi libera, e, dal suo punto di vista, essere libera significava per lei vivere affrancandosi dall’ipocrisia del perbenismo. Non è un caso che, le rare volte che esce, frequenta drogati, emarginati, spostati: in essi intuisce la ribellione ch’essa stessa nutre nei confronti della società.

Entrambi di origine contadina, i genitori di Maria, dopo sposati, hanno abbandonato la campagna per trasferirsi in una cittadina già avviata, sul finire degli anni ’50, verso un boom economico. Entrambi erano desiderosi di liberarsi dal giogo della famiglia patriarcale. La nuclearizzazione della famiglia ha imposto una rigida distribuzione di ruoli: il padre doveva lavorare dalla mattina alla sera, la madre stare in casa. La nascita dei figli è risultata, per quest’ultima, una trappola. Ha tirato avanti per alcuni anni, perché i figli piccoli non le concedevano scampo: ma la sua ribellione si è manifestata nei confronti dei lavori domestici, trascurati o fatti malvolentieri.

Il padre ha preso ben presto coscienza del problema, giungendo a giudicare la moglie come una donna ‘non portata per la casa’. La sofferenza per la precarietà della situazione lo ha indotto a rivolgere le sue attenzioni a Maria, nell’intento di avviarla ad essere una ‘brava’ donnina. In pratica, fin da bambina, l’ha letteralmente terrorizzata con messaggi incentrati sull’ordine e la pulizia personale. Il fratello di Maria, a 5 anni, è stato affidato ai nonni paterni, ed è cresciuto con essi. La madre ha risolto il problema del sentirsi chiusa in trappola, andando a lavorare ogni giorno in campagna con i suoi. Maria, da 4 anni in poi, èrimasta affidata alla bontà dei vicini che le davano uno sguardo. Il padre rientrava a casa alle sette di sera, e doveva dedicarsi alla cena; la madre rientrava tra le otto e le nove. Maria ha trascorso l’infanzia nella paura dell’abbandono della madre, la cui ansia claustrofobica non poteva comprendere, e la paura del ritorno del padre, la cui severità la terrorizzava. A 9 anni, nella fantasia, già si vedeva grande, libera e padrona di sé, lontana dalla casa e dall’ambiente di paese. Ma verso quale mondo si proiettava?

L’ideologia della famiglia di Maria muove dal rifiuto di due mondi: il mondo patriarcale contadino, nel quale la solidarietà del gruppo è pagata al prezzo di una mortificazione gerarchica dei bisogni individuali, e il mondo capitalistico nel quale si trovano a vivere come pesci fuori d’acqua. Dal ’50 in poi la cittadina dove risiedono va incontro infatti a un boom, che travolge tutti i valori tradizionali e induce un cambiamento di mentalità e di costume clamoroso. La ricchezza scorre a fiumi, e, non trovando un’attrezzatura socioculturale atta a valorizzarla, si traduce in uno sfrenato consumismo, orientato verso beni socialmente esibibili: la casa, la macchina, l’abbigliamento. Con il consumismo, affiorano i problemi consueti: crisi familiari e separazioni, figli che, per essere stati ‘viziati’,finiscono male, traffici più o meno leciti, la piccola criminalità che si gonfia nel corso degli anni, la liberazione sessuale e, dalla metà degli anni ’70, la droga.

La famiglia di Maria, che vive di un solo stipendio, fuggita dal passato, si trova fuori gioco nel presente. Non è un caso che la madre esprima le sue ansie di libertà tornando a lavorare nei campi, e che il padre assuma un atteggiamento conservatore e incentrato sui valori che sembrano minacciati: il dovere, l’onestà, la morigeratezza, ecc. In un certo senso, entrambi soffrono di nostalgia, ma con connotazioni diverse: la madre rifugge dalla trappola della famiglia nucleare, il padre vede in questa trappola la possibilità di arginare la corruzione sociale.

E Maria?

Maria, con la sua struttura psicopatologica, esprime un’utopia singolare: l’essere schiava della tradizione, e, nel contempo, proiettarsi verso un mondo di libertà che dissacri i miti ipocriti della società in cui vive. Essa disprezza il denaro, le formalità, le regole del buon vivere borghese: si identifica con gli emarginati, i drogati, gli spostati. Fugge dal passato e dal mondo così com’è: ma l’utopia verso la quale tende è troppo radicale rispetto ai suoi bisogni morali. I sensi di colpa, che la obbligano ad espiare, sono l’indice di questo scarto tra ciò che essa può essere e ciò che pretende di essere. Ciò che pretende, infatti, non è solo l’espressione di un desiderio di libertà, bensì anche di un desiderio vendicativo rispetto alla famiglia. Quando si sente schiacciata dal peso della schiavitù, Maria urla la sua rabbia, dicendo che andrà via di casa e si darà alla ‘bella vita’. Per questa via, non potrà mai liberarsi.

2. La classe operaia non va in paradiso

Maurizio

A 21 anni, nel corso del servizio militare, Maurizio comincia a vivere con un certo disagio l’affollamento, il disordine e la sporcizia della caserma. Le fobie si traduco rapidamente in rituali che lo isolano dall’ambiente. Ricoverato in un reparto neuropsichiatrico, viene a contatto con dei giovani deliranti che manifestano comportamenti bizzarri. Congedato, torna a casa come sollevato da un incubo. Dopo pochi giorni, comincia a pensare che i suoi panni sono stati sporcati dal contatto con i malati di mente e che la ‘sporcizia’ egli l’ha portata in casa, contaminandola. Ricostruisce una mappa delle contaminazioni, e ne ricava un tabù che lo assoggetta, e assoggetta il padre, la madre e il fratello, a complicatissimi rituali di evitamento e di purificazione. In breve tempo, questi rituali configurano un codice comportamentale che trasforma la vita familiare in una sorta di dittatura assurda: tutti, infatti, devono sottostare a regole il cui senso è oscuro, tranne per il fatto che qualunque infrazione - per esempio, tossire accanto ad un mobile contaminato con il rischio di diffondere nell’ambiente la ‘sporcizia’ - produce in Maurizio crisi d’angoscia, che egli sfoga aggredendo verbalmente il trasgressore. La paura di incontrare per strada persone il cui disordine comportamentale denunci uno squilibrio psichico blocca Maurizio in casa.

Last, but not least: consapevole dell’abnormalità della sua condizione, Maurizio non può consultare uno psichiatra, fonte certa di contaminazione! Chiuso in un circolo vizioso apparentemente senza scampo, Maurizio crea nella sua stanza una sorta di area franca. Colà, egli si muove a suo agio perché gli oggetti contaminati non possono nuocere: dacchè li ha individuati - sono passati due anni- essi sono rimasti al posto loro. La finestra è perennemente chiusa. Nessuno dei familiari può accedere nella stanza. Per non diffondere la ‘sporcizia’, nulla in essa è stato spostato o contaminato, neppure le lenzuola. Dopo due anni, la stanza è un letamaio, nel quale Maurizio si rifugia sentendosi al sicuro. Il contrasto tra i rituali di pulizia cui egli sottopone il corpo e l’abbigliamento, e l’ambiente della camera è - ne più ne meno- clamoroso.

I rituali ossessivi mascherano un nucleo fobico che sembra difficile definire. Il vissuto di Maurizio allude alla paura del contagio, ma, coscientemente, egli non ritiene la follia contagiosa. Sostiene semplicemente che il contatto con la ‘sporcizia’ gli crea un disagio enorme. L’oggetto della paura è, dunque, il disordine comportamentale - nell’abbigliamento, nel contegno, nell’eloquio- che viene assunto come indizio di squilibrio mentale. Questa paura si è attivata dopo che Maurizio ha visto dei malati mentali segregati: essa, dunque, fa riferimento al pericolo di perdere la libertà in conseguenza del manifestarsi socialmente della malattia. Il nucleo fobico è, dunque, la paura di perdere la libertà come conseguenza del suo esprimersi in forme socialmente atte a scatenare la repressione. E’ questa paura che costringe Maurizio a sequestrarsi in casa e curare ossessivamente l’ordine e la pulizia personale. Ma la sua camera rappresenta l’altra faccia della sua personalità: la tendenza ad un disordine totale nel quale Maurizio vede l’espressione della propria natura profonda. Si tratta di un privato che non può essere esibito, e che, pertanto, deve rimanere chiuso tra le pareti domestiche, inaccessibile a tutti. In breve, la struttura psicopatologica si articola su un’immagine sociale che va mantenuta pulita e preservata da ogni contatto con la ‘sporcizia’, e su un immagine interna la cui libertà totale coincide con un infinito disordine, e che, pertanto, va sottratta ad ogni relazione sociale, occultata e difesa dall’isolamento.

I genitori di Maurizio hanno entrambi origini proletarie: provengono da famiglie numerose, stipate in spazi ristretti, promiscue. Questa esperienza comune di miseria e di affollamento li ha segnati entrambi. Il padre soffre, da giovane, di una nevrosi ossessivo-fobica incentrata sulla paura delle malattie contagiose, che egli misconosce. Lavora in un’officina meccanica, che è una sorta di reparto operatorio: ogni giorno consuma litri di alcool per sterilizzare e pulire le macchie di grasso. E’ meticoloso nel lavoro, al punto che, spesso, rientra in casa con la tuta perfettamente pulita. Ciononostante, trascorre circa due ore in bagno a far la doccia, a pulirsi scrupolosamente le mani e le unghie. Egli ideologizza questo comportamento realisticamente: le malattie infettive esistono e la ‘sporcizia’ ne è il veicolo naturale.

La pulizia e l’igiene sono, ai suoi occhi, prima ancora che una difesa della salute personale, un dovere sociale: chi è infetto diffonde la malattia, e minaccia la salute degli altri. Questa ideologia sconfina dall’ambito della salute, e assume delle connotazioni politiche: il padre di Maurizio è un comunista vecchia maniera, che vede nel capitalismo tout-court la corruzione e l’imbarbarimento dei costumi. Egli sogna un mondo giusto, onesto, corretto nel quale i rapporti tra le persone, assoggettati ad un codice comportamentale univoco, chiaro e prescrittivi, siano immuni da tensioni, contraddizioni, pericoli. Si tratta, a ben vedere, meno dell’aspettativa di un cambiamento sociale che di un’utopia legalitaria, che vede la soluzione dei problemi umani, e di quel tanto d’inquietante che c’è nelle relazioni interpersonali, in una legge di comportamento valida universalmente. Utopia che lascia trasparire un vissuto persecutorio riferito alla libertà, e ai modi in cui essa si esprime a livello relazionale.

Questo modo di vedere rende comprensibile l’impostazione che il padre di Maurizio ha dato alla famiglia e all’educazione dei figli, incentrata sulle regole, sui doveri, sull’ordine e sul rispetto reciproco.

La madre di Maurizio ha espresso le stesse esigenze del marito calandosi nel ruolo di casalinga a tempo pieno, ossessionata dai doveri domestici. La casa perennemente tirata a lucido, la biancheria immacolata, i capi d’abbigliamento sempre perfettamente stirati hanno funzionato, negli anni, come attestati della sua onestà agli occhi di un invisibile e implacabile giudice, identificato spesso nel giudizio della ‘gente’.

Ambedue, insomma, si sono impegnati a rimuovere l’atavica vergogna della miseria, del disordine e della promiscuità. Ambedue hanno mirato a realizzare, nella casa e nei rapporti con i figli, un ordine perfetto e trasparente. E’ superfluo aggiungere che il disordine che essi non sono riusciti a tenere sotto controllo, e di cui si sono sempre vergognati, inerisce la vita sessuale. Il sesso è stato, e continua ad essere, un tabù. Il linguaggio familiare, a riguardo, è stato muto, più che cauto. Ancora oggi, una scena d’amore televisiva crea un profondo imbarazzo, che la madre risolve cambiando canale. E’ banale pensare che l’ideologia familiare identifichi la sessualità con la sporcizia, la corruzione, l’infezione. Meno banale, forse, è ritenere che la sessualità sia percepita come l’espressione più inquietante di una libertà personale vissuta sul registro del terrore. Libertà, dunque, come possibilità di sconvolgere ogni regola, come follia, ad arginare la quale non c’è altro rimedio che la legge.

Assoggettato ad un’educazione sistematicamente mortificante i bisogni di individuazione, in virtù di un codice comportamentale che dà per scontato come si debba essere, e che postula dunque l’obbedienza, non la partecipazione, e tanto meno la creatività, Maurizio ha costruito la sua personalità a due diversi livelli.

A livello cosciente, egli ha aderito all’ideologia familiare: è stato, fin da bambino, bravo, ordinato pulito meticoloso rispettoso. Non si è trattato di un’adesione passiva: Maurizio ha fatto propri i valori familiari, adattandoli al mondo nuovo in cui si è trovato a vivere dall’adolescenza in poi. La sua visione del mondo si è differenziata rispetto a quella familiare, conservatrice e sprezzante. Pur rimanendo onesto e pulito, Maurizio non ha rifiutato il confronto e il rapporto col diverso. Ha militato in un gruppo extraparlamentare interessandosi ai problemi dell’emarginazione, della droga, della follia, della criminalità. Ha una mentalità aperta che lo porta a pensare che tutti i modi di essere umani vanno compresi, senza che ciò significhi condividerli. Ama le lettura impegnate, ma non disdegna le riviste pornografiche, e’ appassionato di jazz e rock. Ritiene rozzo il comunismo del padre, chiuso al confronto con i nuovi bisogni sociali veicolati dalle giovani generazioni.

A livello profondo, egli ha potuto difendere la sua individualità solo identificandola con la trasgressione, l’anarchia, il disordine. Dall’adolescenza soffre di fantasie e pensieri coatti che vertono sull’infrazione di ogni legge. L’elenco delle fantasie è interminabile, e investe gran parte del codice penale, dalla pederastia al furto, dallo stupro all’attentato terroristico.

L’individualità di Maurizio è totalmente identificata con la figura, ormai ben nota, del folle criminale. Egli ne è terrorizzato, ma non di rado indulge al gioco della fantasia, che funziona come una droga atta a compensare la completa perdita di libertà dovuta ai rituali ossessivi.

Alla schiavitù comportamentale della visione del mondo parentale, Maurizio oppone una struttura di esperienza che spazia da un ordine ancor più rigido rispetto a quello parentale, codificato nei minimi dettagli, sino ad una libertà anarchica e totale-

L’imposizione alla famiglia di un regime dittatoriale, cui corrisponde il totale disordine dello stato privato della camera, veicola un messaggio altamente significativo. Senza sapere, Maurizio pretende di far capire ai suoi che un eccesso di ordine può rendere folli. I suoi di fatto, assoggettati a regole implacabili e assurde, spesso ‘danno fuori di testa’. Ma è un gioco rischioso, poiché la sua verità si sottrae alla coscienza di tutti.

3. L’altra vergogna

Piera

A 26 anni, Piera, insegnante in una scuola elementare, dopo che il padre, vedovo da tre anni, si è risposato andando a vivere in un’altra casa, compie una scelta di vita che sembra concludere un itinerario umano e spirituale coerente: decide, su consiglio di un sacerdote, di rinunciare ad ogni progetto mondano, e di dedicarsi all’insegnamento e all’apostolato laico. La sua fede è profonda, ma niente affatto bigotta: da sempre, il cristianesimo di Piera è comunitario e dissenziente. Ad un anno da questa scelta, Piera comincia a star male: il suo rendimento di insegnante, che è stato sempre eccellente, diminuisce, fino al punto di indurre un atteggiamento di esitamento fobico nei confronti della scuola. Non riesce a stare sola in casa, perché ha paura di star male, sia fisicamente che psicologicamente. Ma non riesce neppure a stare in compagnia, perché il bisogno che avverte degli altri si traduce in un vissuto di intrappolamento, che induce la fuga. Scopre, infine, che la presenza accanto a lei di un qualunque uomo, compresi i sacerdoti che frequenta, anima fantasie di seduzione che la costringono a tenere gli occhi bassi. I sogni assumono connotazioni sempre più sfrenate sul versante erotico. Piera giunge ben presto alla convinzione d’essere, nel suo intimo, una donna di facili costumi, e di aver costruito, a partire da questo, un ruolo sociale che è nulla più che una maschera. Questa convinzione finisce con il paralizzarla in casa, in una dimensione di angoscia carica si sensi di colpa e sottesa dell’aspettativa di una severa punizione: la morte, la follia, il ricovero in casa di cura.

La struttura psicopatologica è, ancora una volta, una struttura ossessivo-fobica, che affiora in virtù della scelta di vita che Piera opera dopo l’abbandono del padre: una scelta consapevolmente ascetica. Il misconoscimento di bisogni relazionali affettivi ed erotici ancora vivi produce l’affiorare delle paure: per un verso, la paura della solitudine e, per l’altro, la paura dell’intrappolamento sociale. L’animarsi di queste paure, che, entrambe, mettono in moto fantasie erotiche, produce infine la scoperta da parte di Piera del suo “io vero” - un io immorale e incoercibile - in rapporto al quale tutti gli sforzi di Piera di costruirsi una personalità integrata, ispirata ai valori cristiani, risultano semplicemente stratagemmi e finzioni.

I genitori di Piera, entrambi credenti e praticanti, appartengono alla fascia sociale della piccola borghesia del dopoguerra: una classe che porta ancora dentro la vergogna di una recente miseria, e si ritrova a vivere una condizione non meno misera economicamente. La famiglia si mantiene con lo stipendio del padre, che è bidello. La rispettabilità non estingue i fantasmi della miseria: si tira avanti, dopo la nascita delle due figlie, giorno per giorno, sotto l’incubo dell’esaurirsi dello stipendio, e il dover elemosinare il credito dei fornitori nell’ultima decade del mese. Quest’angoscia è ideologizzata in virtù di una fede religiosa profondamente partecipata, che comporta l’accettazione della vita come una prova, necessariamente penosa.

Ben presto, Piera aderisce all’ottica del sacrificio: è una bambina graziosa, portata per lo studio, che non chiede mai nulla. Si sente precocemente un peso per i suoi, e cerca di sdebitarsi come può: lavorando in casa come una ‘donnina’.

La mentalità familiare incentrata sulla concezione della vita come dovere, si riflette nello stile dei rapporti interpersonali. C’è amore, e si sente, ma in pratica non viene espresso. Si rifugge dalle carezze, dalle tenerezze, dai baci. Ci si impone una rigidità, il cui fine è quello di tenere in vita un modello di dover essere forte, indipendente, privo di bisogni, immune da debolezze. L’obiettivo di Piera è uno solo: crescere, conseguire un diploma, lavorare e diventare autonoma. Questo è quanto essa deve alla famiglia, per i sacrifici che la sua esistenza ha imposto ai suoi. Quell’obiettivo impone di non concedersi nulla che non sia finalizzato al suo perseguimento. L’adolescenza di Piera è immune da squilibri sentimentali, anche perché, con il suo avvento, la fede si personalizza e si orienta verso la donazione totale di sé e agli altri. Ogni bisogno egocentrico e personale è vissuto come una colpa, come un’espressione di gretto egoismo.

La rinuncia a sé, già iscritta nella mentalità familiare, diventa per Piera un’atto d’amore infinito nei confronti dell’umanità, da cui ricava una soddisfazione che inebria.

Ma quando essa vuole ratificarlo come scelta definitiva di vita, sacrificando ogni affetto personale, e proprio quando il padre, risposandosi, rivela un sorprendente realismo, Piera si avvia nel tunnel del disagio. Nonché mortificare i suoi bisogni relazionali ancora vivi, quella scelta infatti porta alle estreme conseguenze una conciliazione della vita che Piera ha ricavato dall’ideologia familiare, ma che ha radicalizzato, fino a dare ad essa un significato tanto elevato quanto violento nei suoi confronti.

L’ascetismo cui si vota Piera non ha alcunché di cupo o di tenebroso. Esso coincide con il dare alla vita il significato positivo di un servizio a favore degli altri. Piera è una donna vivace, socievole, amante della socialità: rappresenta il punto di riferimento dei ragazzi e delle ragazze della parrocchia che hanno problemi.

Non ha un atteggiamento repressivo né conservatore riguardo l’amore e la sessualità. La sua utopia consiste nel pensare che l’affettività possa essere totalmente convertita in amore spirituale, in donazione di sé, e nel negare che essa comporti anche il bisogno di ricevere concretamente conferme di amore. E’ evidente che si tratta di un atteggiamento difensivo nei confronti di bisogni fin troppo intensi, ch’essa vive come una trappola della libertà. Tant’è che l’utopia dell’amore spirituale si converte, in virtù del disagio, in un’utopia di segno opposto, quella dell’amore libero.

Dopo aver provato quella del bisogno e della miseria, Piera, insomma, è caduta preda, nel corso della vita, di un’altra vergogna: quella dell’indipendenza, che si può realizzare o assumendo nei confronti degli altri il ruolo di chi dà senza ricevere, perché non ne ha bisogno, o mortificando la qualità legante degli affetti in virtù di un eroismo sfrenato e senza regole. Mirando troppo in alto, sotto la spinta dell’ideologia familiare, si è trovata insomma a scoprire, dentro di sé, la paurosa possibilità di precipitare nella vertigine della perdizione. Ma sia l’ascesa che la caduta risultano complementari nel negare entrambi il bisogno relazionale, inteso come una debolezza. E’alla luce di questo vissuto, infatti, che Piera ha interpretato, sin da bambina, quel bisogno, come se fosse un peso vergognoso che si aggiungeva al suo essere di peso come bocca da sfamare. Ed è ancora quel vissuto che perseguita da adulta, se è vero che, per non riconoscerlo come un suo bisogno, Piera deve votarsi al disagio psichico.

4. Alien

Paolo

A 18 anni, Paolo, che ha avuto una carriera scolastica brillante, comincia ad avvertire difficoltà di concentrazione e di memoria. Contemporaneamente la sua coscienza, rigorosamente cristiana, viene investita da fantasie sessuali incoercibili. Dopo una lotta estenuante, Paolo cede ad esse e prende a masturbarsi. Gli esiti della perdita di controllo sono catastrofici: il rendimento negli studi si azzera e insorgono una serie di disturbi psicosomatici –l’astenia, una perdita progressiva di peso non dovuta da carenze alimentari, dolori trementi agli occhi, un meteorismo da putrefazione intestinale, ecc.- che gli restituiscono il corpo come un organismo in via di irreversibile decadenza. Esasperato da questi sintomi, che compromettono l’unico ambito di attività in cui è riuscito ad esprimersi –lo studio- Paolo esplode in crisi di disperazione e di rabbia rivolta contro i familiari. Egli attribuisce le sue difficoltà al disordine perpetuo che vige in una famiglia in cui i suoi sei fratelli, minori di lui, profittando dell’atteggiamento permissivo della madre, e si comportano come diavoli scatenati.

Paolo interpreta la sua condizione come conseguenza del danno che l’ambiente ha prodotto nella sua mente: danno che, per essersi protratto negli anni, sarebbe divenuto irreversibile. Chiede un cambiamento radicale di regime. Rimane inascoltato, e tenta di imporlo con atteggiamenti sempre più aggressivi e intolleranti. Sabota il giradischi per impedire ai fratelli di ascoltar musica, getta via tutte le riviste che circolano per casa per non essere tentato dalle immagini di donne, picchia i fratelli che usano un linguaggio volgare. La situazione familiare diviene insostenibile: nessuno è disposto ad accettare le regole di questo novello Torquemada. Paolo è isolato, deriso per le sue ubbie religiose e reagisce con la violenza di chi si difende per sopravvivere.

Alla fine, si decide concordemente un cambiamento: Paolo andrà ad abitare da solo in un piccolo appartamento di proprietà della famiglia situato sullo stesso piano di quella paterna, continuando a riferirsi alla famiglia per la soddisfazione dei bisogni elementari. L’esperienza non porta alcun giovamento. Paolo, che ormai è al terzo anno di medicina, non riesce a studiare, nonostante trascorra le giornate sui libri. I disturbi psicosomatiche si incrementano, diventano tormentosi. Le fantasie sessuali lo minacciano di continuo. Questo fallimento del progetto di isolamento convince vieppiù Paolo dell’irreversibilità del danno subito dalla famiglia. Ma la rabbia, che potrebbe promuovere la vendetta, si estingue in virtù di una elaborazione religiosa, incentrata sul significato provvidenziale e salvifico della sofferenza. Paolo si rassegna a non vivere, poiché l’esistenza terrena non è che una prova. Si rassegna, in pratica, a 23 anni, ad aspettare stoicamente la morte, come liberazione dalla sofferenza.

La teoria della genesi familiare del disagio, elaborata da Paolo può essere enunciata con precisione. Paolo ricorda di aver nutrito precocissimamente, fin da 4-5 anni, un ideale di perfezione che vedeva realizzato in una famiglia che gli sembrava la migliore del mondo. Le delusioni sono sopravvenute a catena. Il padre, incontrando difficoltà nella carriera ospedaliera, -medico, aspirava ad un primariato- ha manifestato una crescente irascibilità: per un nonnulla, esplodeva in una crisi di rabbia furibonda, che terrorizzavano Paolo, anche se non lo riguardavano direttamente, e rappresentavano ai suoi occhi la prova, inconfutabile e dolorosa, dell’ irrazionalità umana. La nascita dei suoi fratelli, di due anni in due anni, è stata tollerata da Paolo fino al terzo: successivamente, per i problemi che comportava l’allevamento, egli ha colto nella catena delle gravidanze, dei parti, degli allattamenti un ulteriore segno di disordine e di irrazionalità. L’educazione dei fratelli, poi, ispirata al permissivismo montessoriano, ha reso, nel giro di pochi anni, la casa un campo di battaglia dominato dall’anarchia e dalla legge del più forte. La rigidità di Paolo è venuta ad urtare contro il caos permanente, considerato dalla madre un’ espressione di un innocente spontaneità.

Il tentativo operato da Paolo, dall’adolescenza in poi, di assumere il controllo della situazione, sostituendo il padre che, ad eccezione di sporadiche esplosioni di rabbia impotente, si rendeva latitante, lo ha eletto a bersaglio dell’anarchia dei fratelli e dei rimproveri materni.

La teoria di Paolo ha una lacuna evidente: spiega tutto meno la genesi di una personalità così precocemente ordinata, equilibrata, rigida.

Naturalmente, questa lacuna viene utilizzata dai familiari - il padre, la madre, i fratelli più grandicelli - per fornire un’interpretazione affatto diversa. Secondo loro, il problema è proprio nella stranezza del carattere di Paolo, che è stato sempre troppo severo con sé e con gli altri, sempre - fin da bambino - troppo maturo e intollerante, con la conseguenza di isolarsi progressivamente, chiudendosi infine in un integralismo religioso radicale.

C’è ovviamente, del vero nell’una e nell’altra interpretazione: ma c’è, anche, nella storia familiare qualcosa che sfugge a tutti.

I genitori di Paolo sono di estrazione alto-borghese. Il padre è figlio unico di un generale, ed è stato allevato secondo un modello rigorosamente militare. Ha una personalità rigida e ipercontrollata, che non lo ha messo al riparo però da duri scontri con la gerarchia: l’insuccesso nella carriera, che lo ha costretto a diventare medico mutualista, corrisponde ad un’incapacità di mediare i conflitti con i superiori, e alla tendenza a risolverli di forza, facendo la guerra.

Di carattere buono e mite, le sue esplosioni di rabbia sono davvero irrazionali, poiché si attivano in virtù di futili motivi: il denominatore comune di tali esplosioni è il non tollerare le cose storte. Ma, in conseguenza dell’ipercontrollo, egli sembra non seguire alcun criterio oggettivo: delle enormità lo lasciano indifferente, delle banalità scatenano la furia.

La madre di Paolo è figlia di un farmacista, cattolici integralisti e sostanzialmente bigotti, in perenne conflitto con il mondo nel quale vedono solo una minaccia ai valori in cui credono. Hanno allevato la figlia nel solco della più rigida tradizione controriformista, creandole i problemi consueti che da questa discendono: la timidezza, la tendenza a sentirsi in colpa, il rifiuto del ‘piacere’, e, soprattutto, una sorda ribellione anelante al riscatto.

La fusione matrimoniale di queste due ideologie altamente conservatrici, minacciate entrambi dal rischio di una destrutturazione, dà luogo ad un regime che va incontro ad una in apparente rivoluzione. Nei primi anni, la famiglia infatti convive con i nonni materni, che impongono, anche nell’educazione dei figli, i loro criteri.

Paolo, che è il primo, ne subisce le conseguenze: il nonno lo educa al timor di Dio, ch’egli, ovviamente, rappresenta; la nonna aggiunge a questo le sue ‘fobie’ per lo sporco e le infezioni.

A tre anni Paolo ha già raggiunto l’autonomia: si lava e si veste da solo, è sempre perfettamente ordinato e compito, trascorre intere giornate a giocare da solo, non esprime alcun bisogno. Quando ha 5 anni, alla nascita del terzo fratello, i nonni si ritirano perché stanchi d’allevar bambini. La madre assume, finalmente, il governo della casa, e lo ispira al permissivismo più radicale. La sua ribellione contro le regole non viene esercitata personalmente bensì trasferita sui figli, che nascono in un’incessante successione. La spontaneità montessoriana trasforma la casa in un campo di battaglia. Il padre cede rapidamente le armi, si rifugia nel lavoro.

Paolo rimane erede d’una tradizione minacciata dalla libertà totale. Negli anni, reagisce differenziandosi ulteriormente e radicalizzando un modo di essere che gli è stato imposto in virtù d’una adesione totale ad un cristianesimo incentrato sul tema della salvezza. Viene perciò preso in giro da tutti: dalla madre, dai compagni di scuola, dai fratelli. Via via che questi crescono, e diventano adolescenti, il conflitto si incentra sulla sessualità. I fratelli partecipano a feste da ballo, hanno le loro compagne, parlano disinvoltamente di sessualità. La madre è contenta di vederli così aperti e liberi da inibizioni. Paolo, per reggere il ruolo che si è imposto, deve fingere di disprezzare tutto ciò, di non avere bisogni affettivi o sessuali. Si chiude ulteriormente al mondo, e ideologizza la chiusura in virtù d una logica di sacrificio di sé e di rinuncia. Non si rende conto della rabbia che lo sconvolge per il regime educativo cui è stato sottoposto, e che è radicalmente cambiato, rivelando l’assurdità del suo sacrificio. Non può esprimere i suoi bisogni, se non rischiando di capitolare alle accuse rivolte al suo essere eccessivo e disumano. imbocca la via dell’isolamento, pensando che ciò possa favorire una rinuncia completa al mondo e l’estinzione delle minacce interne. Insiste ad incarnare una tradizione la cui nobiltà deriva solo dal fatto che egli, con la sua tensione morale la nobilita. Ma è inutile aggiungere che la trappola nella quale si è chiuso è senza scampo, se non in virtù di una demistificazione dei valori credendo nei quali egli si è chiuso.

5. La cruna dell’ago

Patrizia

A 18 anni Patrizia si trasferisce dalla gabbia d’orata della villa familiare in un appartamento di Campo dè Fiori per vivere la sua vita. Si immerge sconsideratamente, data la sua sostanziale ingenuità, in un mondo turbolento ed equivoco il cui denominatore comune è la droga. La usa essa stessa, ma accertatine gli effetti devastanti, si lancia in una crociata contro i trafficanti, che denuncia al commissariato. Si trova ben presto intrappolata in un vissuto persecutorio su due fronti: per un verso, essa teme che i trafficanti vogliano sopprimerla, per un altro, si sente controllata dalla polizia che, seguendola, pensa di potersi infiltrare nel ‘giro’. La libertà personale, desiderata da anni, è, dunque, perduta. Patrizia ha solo due possibilità: vivere sotto controllo, in una paura perpetua o tornare a casa dai suoi, denunciando lo scacco della liberazione. Ne inventa, inconsapevolmente, una terza: sfidare la paura, insistendo, nonostante le minacce, a vivere nella libertà. Ciò è possibile solo in virtù di uno stato di eccitamento, che la rende temeraria, protestataria ed aggressiva, ma che ben presto induce un ricovero in una clinica privata. Quando ne esce rifiuta di tornare a casa dei suoi, ma intuisce di non poter reggere da sola il rapporto con il mondo. Si accoppia con un’amica more uxorio. La scelta non è casuale: l’amica, studentessa in medicina, ha una personalità rigida ed efficiente. Patrizia accetta di esser controllata in virtù dell’amore che le lega, e regredisce in una dipendenza totale.

Il legame restaura e mantiene un equilibrio che, altrimenti, sarebbe compromesso, ma ovviamente, mortifica i bisogni di autonomia di Patrizia. La quale comincia a vivere ciclicamente: per lunghi periodi è depressa, si lascia andare, pesa come un corpo morto sull’amica, manifesta una possessività totale, rifiuta ogni apertura sociale.

Quando la dipendenza giunge ad un certo livello, e diventa intollerabile, l’amica la sollecita a cambiare minacciandola di abbandono. Patrizia reagisce a questa minaccia uscendo dal guscio con crisi di eccitamento che la catapultano in lunghi viaggi, alla ricerca di un mondo che non sia ostile né pauroso. Di solito, viene fermata, ricoverata in ospedale psichiatrico e rinviata in Italia, in stato di delirio persecutorio. La famiglia la ospita per qualche tempo curandola, poi Patrizia torna a vivere con l’amica, che le è sinceramente affezionata, e il ciclo si ripete.

La struttura dell’esperienza di Patrizia, al di là del livello clinico, riconosce due bisogni la cui esasperazione conflittuale ne definisce il carattere persecutorio. Per un verso, infatti, essa comporta un bisogno di dipendenza, di protezione e di controllo marcato: ma, nella misura in cui Patrizia, nel rapporto con l’amica, si abbandona ad esso, giunge a sentirlo come persecutorio poiché la espone alla minaccia dell’abbandono. Per un altro verso il bisogno di indipendenza, nella misura in cui si attiva per effetto di quella minaccia, sembra non potersi realizzare che in virtù di una esposizione sconsiderata al mondo, che ben presto giunge a configurarsi come un rischio che anima valenze persecutorie, il cui significato è di tenere sotto controllo una libertà assolutamente sregolata.

Il problema che pone questa struttura è di capire cos’è che impedisce a Patrizia di mediare i bisogni che essa esprime, spingendola a tentare di realizzarli solo sul registro dell’estremismo.

Patrizia è la terza di quattro fratelli di una famiglia nata dalla confluenza di due stirpi nobiliari prestigiose. Eredi entrambi di una fortuna considerevole, i genitori, profondamente cristiani, hanno sempre vissuto questo privilegio come una colpa di cui rendere conto al mondo.

Si sono dedicati a corpo morto ad opere di beneficenza, affidando i figli ad uno stuolo di balie, governanti ed assistenti. Il loro impegno educativo è consistito nel tentare di instillare nei figli la loro stessa visione del mondo, incentrata sul misconoscimento dei bisogni personali a vantaggio di una completa dedizione agli altri. Purtroppo, quel misconoscimento ha minato alle radici il rapporto con i figli. Tutti confessano di essersi sentiti abbandonati nell’infanzia: i tre maschi hanno reagito con un atteggiamento rivendicativo che, da adulti, li obbliga a dipendere dalla famiglia. Nessuno di essi ha raggiunto l’autonomia sociale ed economica, realizzando la figura, penosa per i genitori, dei fannulloni. Patrizia ha reagito all’abbandono chiudendosi precocemente nella disperazione:fin dall’età di 8 anni meditava propositi di suicidio. Era, in particolare, gelosissima dello zelo che la madre profondeva nell’assistenza ai bambini handicappati. L’adolescenza ha indotto un tentativo di avvicinamento ai genitori sotto forma di partecipazione religiosa: ma questo - Patrizia lo ha constatato ben pesto - non produceva altro effetto che di incrementare le sollecitazioni ad una vita dedicata agli altri. A 17 anni, il progetto di vita si modifica: Patrizia, per scampare al suicidio, pensa di doversi allontanare dalla famiglia e di doversi spogliare dalle istanze religiose. Il cambiamento, che si realizza a 18 anni, è troppo brusco: uscita dalla gabbia dorata Patrizia si immerge in un ambiente equivoco, abbandonandosi ad esperienze trasgressive di ogni genere, dall’esercizio di una sessualità libera all’uso delle droghe. Il progetto di vita, nonché realizzare la sua libertà, è inconsapevolmente vendicativo nei confronti della famiglia, e realizza il modello opposto – egoistico, narcisistico e incentrato sul principio di piacere - rispetto a quello proposto.

Il delirio persecutorio si incarica di frenare una degradazione autodistruttiva, e Patrizia ha il ‘buon senso’ di inventarsi una soluzione - il rapporto con l’amica - che la affranca sia dal rientro in famiglia sia da una libertà che non riesce ad amministrare. Ma non può impedirsi di reiterare una dinamica che è, al tempo stesso, rivendicativa rispetto all’abbandono e vendicativa rispetto ai tentativi dell’amica di correggere il suo atteggiamento passivo, il suo far niente.

7. Per non concludere

L’ipotesi che la specificità delle famiglie che producono disagio sia da ricondurre all’impegno di ridurre le contraddizioni implicite nei quadri mentali normativi - e, ovviamente, presenti a tutti i livelli della realtà -, impegno che si riversa naturalmente nell’educazione dei figli, e che la predisposizione soggettiva al disagio comporti un’adesione partecipe a questo progetto, che, poi, va incontro ad una vera e propria catastrofe nel momento in cui esso viene vissuto come mortificante i bisogni fondamentali, postula, indubbiamente, di numerose verifiche, sia teoriche che pratiche.

Ma, se alla luce di esse, si rileggono le esperienze psicopatologiche riferite - da Schreber a Sara, passando attraverso le microstorie -, ciò che sorprende è il potere dell’evidenza di sottrarsi allo sguardo. Si trattasse solo del nostro, poco male: sarebbe una salutare lezione di umiltà. Ma lo sguardo che viene giocato dall’evidenza è quello di Freud, di Schatzmann, di Esterson: personaggi di portata diversa, indubbiamente, ma a ciascuno dei quali è difficile negare l’acutezza.

Come è possibile che Freud non veda che Schreber padre elabora un sistema pedagogico che rievoca, alla lettera, quello spartano, e il cui fine è di violentare la natura umana per trarre da essa tutta la ricchezza possibile ed espungerne la miseria?

Come è possibile che Schatzmann non veda che quel sistema, nel suo radicalismo, gravita verso l’utopia di un uomo destinato a fondare un mondo nuovo nel quale l’umanità sia affrancata da tutte le nequizie, e cioè sia finalmente purificata ed armoniosa?

A Freud sfugge il conservatorismo patetico di Schreber padre, a Schatzmann il suo radicalismo rivoluzionario . E Schreber figlio, esponente autorevole delle forze dell’ordine sociale, in quanto magistrato, che alligna dentro di sé il fantasma della criminalità, non appare egli stesso eccessivo in tutto: nel regime ascetico di vita che si impone, così alieno alla ricca borghesia tedesca cui appartiene, nel disordine totale cui si abbandona ammalando, e nell’ordine supremo che restaura con la struttura delirante?

Un caso eccezionale, d’accordo. Ma come ignorare che la stessa logica familiare e soggettiva pervade tutte le microstorie riferite?

In apparenza, prevalgono di gran lunga le famiglie conservatrici: ma il conservatorismo ad oltranza non è forse una forma dell’utopia, nella misura in cui esso fa riferimento ad un passato che non coincide minimamente con il passato storico? D’altro canto, almeno una famiglia, quella di Mario, non si può certo definire conservatrice, per il significato totalmente nuovo che essa dà ai valori dello studio e del lavoro: ma gli effetti, nel figlio, non sono meno devastanti.

Ciò che sembra poter affermarsi con sufficiente sicurezza è che i quadri normativi, via via che una società calda (nel senso levystraussiano) come la nostra diventa più complessa, si organizzano mimando una plasticità, e cioè la tendenza a mediare tra tradizione e cambiamento, che é solo apparente. Tanto è vero che, nonostante una fenomenologia sociale dialettica, la loro rappresentazione può essere riferita ad un’ideale curva gaussiana, tal che, via via che ci si discosta dalla centralità, ove i quadri normativi funzionano adattando gli uomini e i gruppi sociali alle contraddizioni, aumentano i rischi potenziali di produzione del disagio psichico.

Ciò significa che i quadri mentali normativi sono adattivi in rapporto alla realtà così come è, e cioè che essi impongono una riproduzione sociale degli uomini il cui fine è il mantenimento degli equilibri sistemici: ma il sistema in questione è il sistema sociale totale. I sottosistemi familiari ad alto rischio sono, dunque, con probabilità, sottosistemi in opposizione, per un verso o per l’altro, al sistema sociale totale. Per quanto paradossali, anche in rapporto a certe logiche che sottendono le elaborazioni della psichiatria alternativa, queste conclusioni, che tenteremo ora di comprovare (in virtù di un materiale, indubbiamente insufficiente), meritano di essere approfondite. O, comunque, che se ne tenga conto.