L ' ETICA DELLA PSICOANALISI. TEORIA E METODO DELLA PSICOTERAPIA AUTONOMA

Basic Book Inc. Pubbl., New York - London 1965

Traduzione di Franca di Benedetti e Giorgio Sassanelli

SOMMARIO
Prefazione
Introduzione
Psicoanalisi o psicoterapia autonoma?

 

PARTE PRIMA: LO STUDIO SCIENTIFICO DELLA PSICOTERAPIA

1. La relazione psicoanalitica come problema scientifico

Perché studiare il rapporto analitico? L'individuo, il gruppo ed il problema della libertà (Il sintomo psichiatrico come limitazione della libertà. L'idea di libertà e il trattamento psicoanalitico. Libertà per chi? Freud, il paziente e la società. Perché l'autonomia?) Il mandato morale della psicoanalisi (Psichiatria per l'individuo o per la comunità?)

2. L'identità professionale dello psicoterapista

Che genere di esperto è lo psicoterapista? (Il modello medico della psicoterapia. Lo psicoterapista come specialista in una tecnica). Il dilemma dell'esperto non tecnologo (Lo psicoterapista è uno scienziato? La scienza come possesso di capacità strumentali. Le origini storiche del setting analitico. Pseudostrumentalismo in psicoanalisi. Lo studio corretto degli incontri umani). La tecnica psicoterapeutica e la personalità del terapista (La tecnica psicoterapeutica come caratteristica personale del terapista. La rappresentazione di un ruolo psicoterapeutico come imitazione. L'identità psicoterapeutica autentica. Il terapista autonomo di fronte al terapista eteronomo)

3. Il trattamento psicoanalitico come educazione

Gerarchie di apprendimento. Apprendimento, psicoterapia e psicoanalisi. Il contenuto del trattamento psicoanalitico. (Lo psicoanalista come esperto del «rimosso»)

4. II trattamento psicoanalitico come gioco

Il gioco come modello nelle scienze sociali. La natura dei giochi e del giocare. Un'analisi del modello di gioco della psicoterapia autonoma (L'analizzando «gioca» - l'analista «lavora». Le «modifiche» tipiche della psicoanalisi). Che tipo di gioco è la psicoanalisi? Il paziente psicoanalitico come risolutore di problemi. (Due categorie di persone: colui che cerca e colui che evita. Colui che cerca. Colui che evita)

PARTE SECONDA: LA TEORIA DELLA PSICOTERAPIA AUTONOMA

5. Il contratto iniziale tra paziente e terapista

Il gioco come trattamento e il gioco come educazione. Il ruolo del paziente e il ruolo dello studente. Chi seleziona e chi viene selezionato. Il significato dell'autose-lezione del paziente. Diagnosi o dialogo? La presa di contatto iniziale tra il paziente e il terapista autonomo 115

6. Il periodo di prova

La psicoanalisi come gioco: il modello degli scacchi. Che tipo di gioco è il periodo di prova? Conflitto e collaborazione nelle situazioni assistenziali. Quando termina il periodo di prova?

7. La fase contrattuale: I. I concetti di contratto e di status

Che cosa è un contratto? L'organizzazione dei rapporti sociali (Il contratto e la società moderna). Lo status, il contratto e il rapporto medico-paziente. Il contratto come comunicazione. Libertà di contrattare

8. La fase contrattuale: IL II bridge contratto e la psicoterapia contrattuale

Dal periodo di prova al contratto. Il bridge e la psicoanalisi (Auction bridge e bridge contratto. Il bridge contratto e la psicoterapia contrattuale). Due tipi di bridge - due tipi di psicoterapia. (La dichiarazione -Il periodo di prova. Giocare le proprie carte - rispettare il contratto terapeutico). Libertà, costrizione e rapporto psicoanalitico. L'integrità del rapporto analitico

9. Il periodo finale

La. concezione analitica tradizionale della fine analisi. I ruoli del passato e del futuro nelle decisioni terapeutiche da prendere. I principi per terminare l'analisi in maniera autonoma. (Il gioco medico e le regole che ne stabiliscono il termine. Il gioco analitico e le regole che ne stabiliscono il termine. Sulla conclusione dei giochi: implicazioni del modello del bridge). Autonomia, libertà e psicoterapia

PARTE TERZA: IL METODO DELLA PSICOTERAPIA AUTONOMA

10. Il contratto iniziale tra paziente e terapista

Il principio dell'autonomia e il metodo psicoanalitico. Come si diventa pazienti in psicoterapia. Chiarificazioni prima dell'intervista iniziale. Le interviste iniziali

11. Il periodo di prova

Perché è necessario il periodo di prova. Definizione preliminare del gioco analitico. (Frequenza delle sedute. Il divano. La libera associazione e la regola fondamentale. I sogni. Procedure mediche. Comunicazioni con terzi. Ricovero in ospedale psichiatrico e suicidio). Come termina il periodo di prova?

12. La fase contrattuale: I. L'adempimento del contratto

Rendere effettivo il contratto analitico (Come fissare gli appuntamenti. Complicazioni per procedure non analitiche). «Frustrare» e «soddisfare» il paziente

13. La fase contrattuale: II Analisi della situazione

Analisi della situazione analitica (La persona che abitualmente non rispetta i contratti. La persona che abitualmente eccede nell'adempimento del contratto. Scambio di doni e di favori. Le condizioni necessarie per contrattare). L'analisi dei giochi di linguaggio (Il linguaggio delle scuse e il linguaggio della responsabilità).

14. Il periodo conclusivo

Come termina il rapporto analitico? Il ruolo dell'analista nella conclusione dell'analisi. Esempi di fine analisi (Esempio n. 1: Il desiderio di evitare di prendere decisioni responsabili. Esempio n. 2: Il desiderio di evitare di essere abbandonato. Esempio n. 3: Il desiderio di perfezione e di permanenza). Durata dell'analisi

15. Epilogo: Consigli ai terapisti

Imparare a praticare la psicoanalisi. Indicazioni ai te rapisti (Dimenticate di essere medici. Sarete «utili» e «terapeutici» se rispetterete il vostro contratto. Dovete conoscere il vostro paziente. Non lasciatevi costringere da «situazioni di emergenza». Non fraintendete le idee e i sentimenti del paziente nei vostri confronti. La vostra vita e la vostra situazione di lavoro debbono essere compatibili con la pratica della psicoterapia autonoma. Non prendete appunti. Voi siete responsabilidella vostra condotta, non di quella del paziente

 

A mio fratello George
PREFAZIONE

Psicoterapia è il nome che viene dato a un particolare tipo di influenza personale: mediante comunicazioni, una persona, indicata come lo "psicoterapista", esercita un'influenza di pretesa natura terapeutica su di una altra, identificata come il "paziente". E' evidente, tuttavia, che questo processo non è altro che una componente particolare di una classe ben più vasta, in verità così vasta da comprendere praticamente tutte le interazioni umane. Non solo nella psicoterapia, ma in innumerevoli altre situazioni, come la pubblicità, l'educazione, l'amicizia e il matrimonio, la gente si influenza reciprocamente. Chi ci dirà se tali interazioni sono utili o dannose e per chi lo sono? Il concetto di psicoterapia ci tradisce su questo punto, giudicando a priori l'interazione "terapeutica" per il paziente, nell'intenzione o nell'effetto o in entrambi i casi.

Le persone cercano costantemente di influenzarsi a vicenda. Questo è ciò che rende la vita sociale al tempo stesso cooperativa e conflittuale. Controllare ed essere controllati, sono l'ordito e la trama del tessuto delle relazioni umane. Gli uomini desiderano ardentemente e nello stesso tempo si oppongono a influenzare gli altri e ad essere a loro volta influenzati. La questione che riguarda coloro che si interessano di psicoterapia è: che genere di influenza gli psicoterapisti esercitano sui loro clienti?

Come regola, gli individui si influenzano reciprocamente per sostenere alcuni valori ed opporsi ad altri.

In passato alcuni valori erano sostenuti pubblicamente: ad esempio la castità, l'obbedienza, la frugalità. Oggi, i valori sono più spesso patrocinati nascostamente, come per esempio il bene comune, la salute mentale o il benessere. Tali parole sono dei vuoti che l'interlocutore o l'ascoltatore può riempire con tutto ciò che desidera. In ciò risiede la loro grande importanza per il demagogo, politico o professionale. Così, un candidato alla presidenza può parlare di risanamento dell'economia della nazione per raggiungere una condizione "sana" e nessuno può essere sicuro se, così parlando, intende promuovere responsabilità fiscali o deficit finanziari. In maniera simile uno psichiatra può parlare di "salute mentale" della comunità senza che nessuno sappia con certezza se egli stia promuovendo l'individualismo o il collettivismo, l'autonomia o l'eteronomia.

Gli psicoterapeuti fanno molte cose: lo scopo che professano è sempre quello di fornire "una terapia". Spesso, però, i tentativi di "trattare" un paziente sono in realtà sforzi per trasformare la sua condotta da un certo modo in un altro. Ci sono quindi psichiatri che cercano di trasformare coppie infelicemente sposate in coppie felici, omosessuali in eterosessuali, criminali in onesti cittadini; o, in generale, pazienti mentalmente malati in ex-pazienti mentalmente recuperati.

La mia tesi è che la psicoanalisi non può essere una impresa di questo genere. Senza dubbio, il termine "psicoanalisi" può essere applicato a tipi di psicoterapia persuasiva; difatti, ognuna delle procedure summenzionate è spesso descritta come "psicoanalitica" nello scopo, nei principi o nel metodo. Perfino la psichiatria sociale è promossa da persone ufficialmente accreditate come psicoanalisti.

Questi sviluppi illustrano e dovrebbero ancora una volta ricordarci che il significato di una parola può essere esteso fino al punto di designare l'opposto del suo significato originario. Ad esempio, la parola greca hairesis, che significa "fare una scelta", divenne "eresia". Analogamente Freud ideò un metodo di psicoterapia che ampliasse l'autonomia del paziente e lo chiamò "psicoanalisi"; oggi, lo stesso nome viene usato per procedure che limitano l'autonomia.

In questo libro, mi prefiggo di descrivere la psicoterapia come un'azione sociale e non come un metodo di guarigione. Così concepito il trattamento psicoanalitico viene caratterizzato dal suo scopo - aumentare nel paziente la conoscenza di se stesso e degli altri, e quindi la sua libertà di scelta nella condotta di vita; dal suo metodo - l'analisi delle comunicazioni, delle regole e dei giochi; e, infine, dal suo contesto sociale - un rapporto contrattuale, piuttosto che "terapeutico", fra analista e analizzando.

Riassumendo, tenterò di definire la natura della psicoanalisi, chiarirne i limiti e stabilire le sue relazioni con altre forme di psicoterapia, con la medicina, l'etica e la sociologia. Questo è certamente un disegno ambizioso; ma è il meno che possa bastare allo stadio attuale della psichiatria nel quale collettivismo, irrazionalismo e "medicalismo" non solo hanno fallito nel fornire nuove risposte ai nostri problemi, ma sono riusciti a oscurare quelle che già avevamo.

Eppure, solo ieri, la psicoanalisi costituiva una grande promessa per la liberazione dei valori interiori dell'uomo, come già lo era stata la Società Aperta per la liberazione dell'Uomo Esterno.

Entrambe sono aspetti del moderno razionalismo e individualismo i quali hanno cercato e cercano tuttora di promuovere la Personalità Autonoma e la Società Libera. Hanno forse fallito? E' troppo presto per dirlo. La partita non è ancora chiusa.

Qualunque sia il risultato finale, l'attuale situazione non offre motivi di ottimismo. Nell'America della metà del secolo, il benessere ha soppiantato la libertà e l'individuo autonomo è diventato l'uomo superfluo, il di più. La domanda è: vogliamo e possiamo riaccendere la tremolante -fiammella dell'individualismo? Solo per coloro che potranno o vorranno farlo la psicoanalisi come terapia autonoma avrà un interesse e un valore. Gli altri, o la eviteranno o la ridurranno al proprio servizio.

Thomas S. Szasz

Syracuse, New York Febbraio 1965

INTRODUZIONE

Per venticinque o trentanni, ho scritto e parlato di quelle che una volta erano chiamate novità ed ora non ho un solo discepolo. Perché? Non che non fosse vero ciò che dicevo o che non abbia trovato ascoltatori intelligenti, ma non ho mai avuto alcun desiderio di condurre gli uomini verso di me, bensì, al contrario, di condurli verso loro stessi (...). Questo è il mio vanto, di non aver seguaci di scuola. La mancanza di indipendenza al riguardo la considero segno di scarso insight. (Ralph Emerson)

(...) il paziente deve essere educato a liberare e realizzare la sua propria natura, non a rassomigliare a noi. (S. Freud)

(...) lo scopo di una vita può essere solo quello di aumentare la quantità di libertà e responsabilità che si trova in ogni uomo e nel mondo. Non può, in nessuna circostanza, essere quello di ridurre o sopprimere tale libertà, anche solo temporaneamente. (A. Camus)

Il trattamento psicoanalitico è un tipo particolare di rapporto umano. Occorrono solo due persone, l'analista e il paziente. Cosa fanno queste due persone e perché lo fanno?

Questo libro è la mia risposta a tale quesito. Nei miei primi scritti, specialmente ne II mito della malattia mentale (tr. it. Il Saggiatore, Milano 1972) ho cercato di dissipare l'idea che la persona che consulta uno psicoterapista sia "malata" e che lo sforzo per aiutarlo a comportarsi con maggiore discernimento, libertà e autoresponsabilità sia una specie di "trattamento". Dopo aver scartato l'ingannevole concettualizzazione medico-terapeutica dei problemi del comportamento personale e della psicoterapia, affronterò il tema del rapporto analitico partendo da un'ampia base psicosociale, considerando l'uomo come una persona che usa dei segni, segue delle regole e partecipa a dei giochi, e non come un organismo che ha istinti e necessità o come un paziente che ha una malattia.

Il trattamento psicoanalitico o "gioco analitico" - come spesso io chiamerò - può essere studiato da tre punti di vista.

Primo, possiamo osservare e descrivere le esperienze del paziente e dell'analista: alcune di queste possono essere più o meno tipiche dell'incontro analitico. Molte affermazioni circa il trattamento analitico si riferiscono a questo aspetto del problema.

In secondo luogo possiamo determinare le regole del gioco analitico: ad esempio, il fatto che il paziente debba sdraiarsi sul divano o che l'analista debba interpretare la nevrosi di transfert. Se ben riuscita, una tale specificazione potrebbe determinare cos'è l'analisi (e, di conseguenza, cosa non è). Ma non ci dirà cosa si prova ad essere analista o analizzando, non più di quanto le regole degli scacchi ci dicano cosa si sente giocando una partita a scacchi.

Terzo, è possibile discutere il gioco analitico, i suoi fini, le sue regole, le sue limitazioni e così via. Possiamo parlare di questo, alquanto genericamente, come teoria del trattamento analitico, o, con maggiore precisione, come una descrizione del metagioco dell'analisi (le regole dell'analisi che specificano il gioco-oggetto). Una tale descrizione è importante perché, senza di essa, la nostra conoscenza del gioco analitico è incompleta e inadeguata. Ma ancora una volta non dobbiamo aspettarci dalla teoria della terapia analitica ciò che essa non può darci e non ha mai preteso di darci: fornire l'accesso alle esperienze dei giocatori.

E' chiaro ohe per sapere ciò che si prova giocando a scacchi, occorre giocarci. L'esperienza del gioco non può essere derivata o tratta dalle regole, dalla descrizione di partite giocate da altri, o dalla teoria sul gioco. Lo stesso vale per la psicoanalisi. Ciò nonostante c'è stata una persistente attesa, da parte degli analisti e dei loro lettori, di poter trasmettere l'esperienza analitica in forma stampata. Questo è impossibile. Per sapere cosa accade quando si è analizzati occorre essere un paziente; per sapere come si conduce un'analisi occorre essere un analista. E' tutto qui!

Non si è tuttavia apprezzato sufficientemente la possibilità di realizzare gli altri due compiti. Certamente dovremmo essere in grado di descrivere in modo chiaro e semplice le regole del gioco che governano il comportamento dei giocatori analitici. Eppure questo non è stato mai fatto. Di solito vengono dette alcune cose su quanto ci si aspetta dal paziente, ma nulla su quanto ci si aspetta dal terapista. Secondo le parole di Fenichel, per l'analista «tutto è permesso, purché egli sappia il perché». Niente di più assurdo. Dire che l'analista può fare qualunque cosa è come asserire che egli è un giocatore in un gioco ove non gli si chiede di seguire alcuna regala. Questo è un completo fraintendimento di ciò che l'analisi è o dovrebbe essere, e io cercherò di correggerlo dando una descrizione del trattamento psicoanalitico come impresa educativa, paragonabile a un gioco, con delle regale che devono essere seguite da ciascun giocatore.

Anche la così detta teoria del trattamento psicoanalitico è stata vittima di un malinteso. Sotto questo titolo spesso troviamo autori che discutono qualunque problema relativo all'incontro analitico, dalla psicopatologia del paziente alle ragioni per modificare le regole analitiche. Ma la teoria di un gioco deve fornire una spiegazione dei principi su cui si fondano le regole; inoltre deve render conto dei valori che il gioco cerca di realizzare attraverso il comportamento richiesto ai giocatori. La teoria del trattamento psicoanalitico deve quindi chiarire la connessione tra gli scopi e i valori del gioco e le sue regole. Cercherò di presentare una tale teoria, comprendente i principi del rapporto psicoanalitico e i concetti etici e psicologici inerenti a tali principi.

Dato che l'argomento è complesso, che molto è stato scritto al riguardo e, infine, che quest'opera anche se mi auguro di interesse e valore per il lettore comune, è diretta principalmente a persone già familiarizzate con la natura della psicoterapia, procederò secondo quello che logicamente è l'ordine inverso, e cioè dal generale al particolare. Nella prima parte, parlerò del problema dello studio scientifico delle relazioni umane ed esporrò alcuni concetti e principi basilari per lo studio dell'impresa analitica. Nella seconda parte, presenterò i principi della psicoanalisi considerata come psicoterapia autonoma. Nella terza parte, infine, descriverò le regole del gioco analitico.

Psicoanalisi o psicoterapia autonoma?

Per molti anni mi sono scontrato col problema di come chiamare il tipo di psicoterapia che pratico e la cui teoria e metodo vorrei ora esporre al lettore.

Vi sono due alternative. Da una parte, potrei riferirmi ad essa semplicemente come "psicoanalisi" perché ritengo che essa sia psicoanalisi. Freud e i primi freudiani sarebbero forse d'accordo. Il nostro scopo è il medesimo: estendere il controllo dell'Io su certe aree dell'Es, secondo il loro modo di esprimersi, o aumentare la capacità del cliente di autodeterminarsi e operare le sue scelte, come io preferisco dire. Anche i nostri metodi hanno molto in comune: nella psicoanalisi classica così come nella psicoterapia autonoma, il solo compito del terapista è di "analizzare". Di conseguenza, dando un nuovo nome al metodo terapeutico ohe descriverò, rischierei di essere criticato per aver usato una parola nuova a indicare la psicoanalisi appropriandomi di ciò che di fatto appartiene a Freud.

Purtroppo, la situazione della psicoanalisi è più complicata oggi di quanto non lo fosse poche decadi fa. Attualmente ognuno usa la parola "psicoanalisi" per indicare ciò che gli pare. Quindi, se affermassi che la terapia descritta in questo libro è psicoanalisi, molti analisti probabilmente respingerebbero questa mia pretesa. La psicoanalisi, essi potrebbero ribattere, è ciò che loro praticano e non quello che faccio io. Poiché non vi è alcun metodo riconosciuto per arbitrare una tale disputa, chi sarà a stabilire ciò che dovrebbe essere definito psicoanalisi e ciò che non dovrebbe esserlo?

Supponiamo comunque che le mie rivendicazioni siano corrette. Il mio metodo di psicoterapia sarebbe allora riconosciuto quale continuazione dello spirito della psicoanalisi freudiana e ne rappresenterebbe, forse, un ragionevole sviluppo: di conseguenza, dovrebbe essere definito "psicoanalisi". Questa possibilità sarà comunque fonte di confusione in quanto se ciò che io faccio è psicoanalisi, allora molto di quello che ora viene chiamato psicoanalisi è qualcosa d'altro.

La seconda alternativa è quella di chiamare con un nome nuovo il mio sistema di praticare la psicoterapia. Io l'ho fatto di quando in quando, riferendomi ad esso come "psicoterapia autonoma". Scelgo questa espressione per indicare lo scopo principale di questa procedura: conservare ed estendere l'autonomia del cliente. Per accentuare la natura del metodo terapeutico piuttosto che il suo scopo, la procedura potrebbe anche essere definita "psicoterapia contrattuale": il rapporto analista-analizzando non è determinato né dalle "necessità terapeutiche" del paziente né dall'"ambizione terapeutica dell'analista", ma piuttosto da un insieme di promesse e di aspettative, esplicitamente e mutuamente accettate, che io definisco "il contratto".

Il vantaggio principale di chiamare con un nome nuova la terapia qui descritta è che così facendo la si separa dalle molte altre imprese psicoterapeutiche attualmente chiamate psicoanalisi. Se le interpretazioni del comportamento, insieme alla somministrazione di tranquillanti e di stimolanti, è una forma di psicoanalisi; se la terapia di pazienti psicotici ricoverati in forma coatta è anche considerata una forma di psicoanalisi; e infine, se la cosiddetta analisi didattica, caratterizzata dall'attivo e coercitivo controllo della vita dell'analizzando da parte dello analista, è anch'essa un'altra forma di psicoanalisi, allora la psicoterapia autonoma non è psicoanalisi e deve essere ben distinta da essa.

Lo svantaggio principale di dare al mio metodo di psicoterapia un nome nuovo è quello già menzionato: che a molti esso sembrerà un ribattezzare ciò che "realmente" è la psicoanalisi. Inoltre, una nuova definizione per un procedimento psicoterapeutico tende ad implicare alcune novità radicali nonché una promessa di straordinari poteri curativi. Ma in questo caso non vi sono implicazioni di questo genere, né tantomeno io avanzo simili pretese.

Ho deciso di risolvere il problema adottando il seguente piano: userò i termini "psicoanalisi" (o trattamento psicoanalitico) e "psicoterapia autonoma" scambievolmente e come sinonimi. Ciò servirà a etichettare, almeno provvisoriamente, il particolare tipo di psicoterapia qui descritto; nello stesso tempo, lascerà lo psicoterapista e lo studioso di scienze sociali liberi di decidere se il mio metodo ha bisogno di una nuova denominazione.

In passato, gli psicoterapisti hanno di frequente manifestato la loro propensione per i rapporti eteronomi con i pazienti, imponendo neologismi psichiatrici ai loro lettori. Mi sembra quindi particolarmente opportuno che un libro sulla psicoterapia autonoma lasci il lettore libero di decidere se le idee e il metodo dell'autore differiscono da quelle dei suoi colleghi al punto di giustificare l'uso di un nuovo nome.

PARTE PRIMA
LO STUDIO SCIENTIFICO DELLA PSICOTERAPIA

Il tema di questo libro è il rapporto fra l'analista e l'analizzando. Tale rapporto è stato definito con nomi diversi, ma tutti più o meno ingannevoli. Alcuni analisti lo chiamano trattamento psicoanalitico, ma non è un trattamento. Altri tecnica psicoanalitica, ma non vi è alcuna tecnica specifica che l'analista possa applicare al soggetto, come se questi fosse un oggetto. Altri ancora parlano di situazione psicoanalitica, ma non è una singola, specifica situazione, ma piuttosto un lungo rapporto evolutivo. In effetti, userò anch'io molti di questi termini poiché non vi è alcun vantaggio nel coniare neologismi se si può evitarlo. Userò le parole "paziente", "terapista" e "trattamento" per ragioni di comodità, onde poter comunicare facilmente col lettore; è ovvio, comunque, che rifuggo dal loro implicito significato medico, psicopatologico e terapeutico.

Prima di procedere è conveniente domandarsi: Che genere di impresa è la psicoanalisi? Dobbiamo renderci conto che la parola "psicoanalisi" denota due propositi fondamentalmente diversi. Primo, la psicoanalisi è una scienza: poiché il suo oggetto è l'uomo e le relazioni umane, oggi essa fa parte delle scienze sociali. Secondo, la psicoanalisi è una forma di psicoterapia, vale a dire un rapporto umano caratterizzato da determinati fini e regole di comportamento; dal momento che il paziente ed il terapista si giudicano e si influenzano a vicenda e, nello stesso tempo, esaminano gli standard dei loro giudizi e della loro condotta, la terapia psicoanalitica è strettamente legata all'etica, alla politica e alla religione. E' perciò inutile avvicinarsi ai problemi dei quali si occupa la psicoanalisi e alle soluzioni che essa offre primariamente dal punto di vista della medicina o della psichiatria tradizionale. La psicoanalisi appartiene alla storia delle idee e alla storia dei rapporti dell'uomo con i suoi simili.

Perché studiare il rapporto analitico?

Perché studiare la situazione psicoanalitica? Secondo l'opinione psicoanalitica tradizionale, la ragione principale è che la terapia psicoanalitica è il procedimento più efficace per curare il gruppo di malattie chiamate "nevrosi". Se così è, cadiamo nella nostra stessa trappola concettuale. Perché questa formulazione è una trappola? Perché essa implica, primo, che la psicoanalisi è il miglior trattamento per le nevrosi, ma non per altre malattie mentali, come le psicosi, le perversioni e le tossicomanie; e secondo, che la psicoanalisi è una forma di cura, paragonabile ad altre cure come la terapia farmacologica, l'elettroshock e la lobotomia. Certamente questo non è un buon inizio. Eppure, una delle principali giustificazioni sociali della psicoanalisi, specialmente negli Stati Uniti, è stata la sua utilità terapeutica. Un celebre libro moderno reca il titolo II valore medico della psicoanalisi. (Franz Alexander, The Medicai Value of Psychoandlysis, Norton, New York 1932.) Ma è imprudente giustificare la psicoanalisi col suo valore medico che io ritengo, infatti, scarso. Se non altro, questo è il suo tallone d'Achille, né quest'aspetto è stato disconosciuto da eminenti colleghi, dentro e fuori della psichiatria.

Un'altra frequente giustificazione dell'importanza scientifica dello studio della situazione psicoanalitica è che l'analista possiede uno strumento unico per investigare la personalità umana e in particolare "l'inconscio". In questo modo la psicoanalisi è difesa non solo come una buona terapia, ma anche come ricerca effettiva. Comunque sia, questa non è la ragione del mio attuale interesse per quest'argomento, né tantomeno ritengo sia questo il più importante contributo della psicoanalisi allo studio dell'uomo. In che consiste allora il suo valore principale? O, meglio, per usare la metafora di Achille, qual'è il punto più solido dell'armatura del nostro guerriero?

Credo che il principale valore intellettuale e scientifico del trattamento psicoanalitico stia, come la chiave della massaia, sotto il tappeto della porta dove nessuno penserebbe a cercarlo; e cioè, nel tipo di modello che il rapporto analitico fornisce, al fine di ottenere una migliore comprensione dell'etica, della politica e dei rapporti sociali in generale. Che io sappia, nessuno ha mai fatto un suggerimento di questo genere. E' quindi opportuno che io sostenga quest'asserzione con qualcosa di più Sostanziale di una mia opinione personale.

L'individuo, il gruppo ed il problema della libertà

Il sintomo psichiatrico come limitazione della libertà.

Per quanto il concetto di "sintomo psichiatrico" sia generalmente ben compreso, ritengo necessario premettere alcune parole sul significato che ha per me l'uso di questa espressione. Secondo l'uso comune, parlerò di "sintomi" per indicare idee, sentimenti, inclinazioni ed azioni che sono considerate indesiderabili, involontarie o strane. Ma a giudizio di chi?

Il giudizio che il comportamento di un individuo non è normale e che quindi è un "sintomo", può essere espresso da un certo numero di persone: il cliente stesso; i suoi parenti; un esperto che comprenda i suoi desideri; un esperto apertamente o velatamente in antagonismo con lui; o, infine, la società in generale tramite agenti debitamente designati (per esempio, uno psichiatra del tribunale). Sfortunatamente, la gente tende ad usare il concetto di sintomo psichiatrico (o diagnosi) senza prestare troppa attenzione al problema di chi giudica e di chi viene giudicato. Non deve quindi sorprendere che un individuo consideri la propria condotta adeguata e normale, mentre altri la considerano strana e sintomo di "malattia mentale".

Nella discussione che segue, mi limiterò a quei casi nei quali il cliente considera alcuni aspetti della propria condotta come un sintomo psichiatrico, o, per lo meno, condivide il giudizio espresso da altri. In altre parole, non considererò quei casi nei quali alcuni aspetti della condotta di una persona vengono etichettati come "sintomo" da un osservatore, mentre sono invece considerati soddisfacenti dal soggetto.

Tenendo quindi presente che parleremo di "sintomi psichiatrici" solo quando una tale qualifica del comportamento coinciderà col giudizio proprio del soggetto per quel che riguarda la sua condotta, poniamoci questa domanda: cosa distingue i vari fenomeni che possono essere classificati come sintomi psichiatrici? Tutti implicano un'essenziale restrizione della libertà del paziente a tenere una condotta accettabile da parte di altri, inseriti, come lui, nel suo ambiente sociale.

Fenomenologicamente, i sintomi psichiatrici sono di una varietà senza fine. L'isterico è paralizzato: non può parlare, camminare o scrivere. Il fobico non può compiere alcuni atti: deve evitare di toccare vari oggetti, di andare per strada, o di rimanere solo. L'ossessivo-compulsivo è costretto a occuparsi di cose banali, deve controllare e ricontrollare i suoi atti, deve pensare determinati pensieri o compiere dei cerimoniali. L'ipocondriaco deve preoccuparsi della propria salute, il paranoico dei suoi oggetti persecutori, lo schizofrenico delle sue fantasie deliranti.

L'elemento comune in questi ed altri cosiddetti sintomi psichiatrici è l'espressione della perdita di controllo o di libertà. Ogni sintomo è sperimentato e descritto dal paziente come qualcosa che non può evitare di fare o di sentire o come qualcosa che è obbligato a fare. L'alcolizzato, ad esempio, asserisce che non può smettere di bere; la persona abitualmente pigra, che non può fare a meno di arrivare in ritardo; la persona volubile che non può controllare il suo temperamento; l'allucinato, che non può far tacere "le voci" e fermare "le visioni"; il depresso che non può provare piacere o autostima, e così via.

Quello che ci interessa nei sintomi psichiatrici, quindi, è che il paziente li esperimenti o li definisca (più o meno) come accadimenti involontari: inoltre, dato che non è libero di impegnarsi in o di astenersi da un particolare atto o esperienza, egli di solito pretende di non dover essere ritenuto responsabile di tali atti e delle loro conseguenze. (Più avanti tratterò del paziente psichiatrico che si rivolge al terapista col linguaggio delle scuse).

Per chiarire il significato dell'espressione "perdita di libertà" nel sintomo psichiatrico, paragoniamo i sintomi alle abitudini e al lavoro. Consideriamo tre esempi concreti: l'ipocondria, il malumore abituale e l'esagerato impegno nel lavoro (ad esempio, di un medico). L'ipocondriaco fa professione di essere malato, la persona collerica di essere intrattabile, e il medico di essere indispensabile; essi si rassomigliano per un'eccessiva adesione a un particolare ruolo. Tuttavia, questi tre tipi di persone possono differire nel grado di adesione al loro ruolo, vale a dire nel grado di libertà a impegnarsi in altre attività. Ad esempio, l'ipocondriaco è considerato tale nella misura in cui si sente costretto a rimurginare sui suoi disturbi o sui suoi guai. In altre parole, giudichiamo tale persona ipocondriaca o meno, nella misura in cui essa "è prigioniera' dei suoi sintomi.

La differenza tra sintomo e abitudine è in gran parte una questione di convenzione e giudizio: coloro che sono abituati a un tipo di famiglia autoritaria possono accettare un padre collerico come persona con un pessimo carattere; coloro che non sono abituati a una famiglia del genere potrebbero invece considerarlo come una persona mentalmente malata. Lo stesso soggetto collerico è probabile che consideri la propria condotta al di fuori del suo controllo e di conseguenza simile a un sintomo.

L'impegno nel lavoro, infine, è di solito considerato come qualcosa di volontario e liberamente scelto; tuttavia, anche il lavoro può essere qualificato come un comportamento sul quale non è possibile esercitare un controllo. E' interessante notare come il dedicarsi eccessivamente al lavoro può essere sia esaltato che criticato; per Albert Schweitzer, è la risposta ad un "richiamo", ma per l'uomo d'affari comune o per il medico che lavora troppo è una "schiavitù".

Dobbiamo tener presente che la condotta personale è altresì una forma di comunicazione e come tale è sempre qualificata o come libera e volontaria, o come coatta e involontaria. Il possesso o la mancanza di libertà di un individuo ha un effetto cruciale sul grado di libertà delle persone che frequenta; pertanto, il concetto di libertà gioca un ruolo determinante nella psichiatria e nella psicoterapia.

In effetti, quello della libertà è forse il punto di vista migliore per una classificazione delle psicoterapie. Possiamo così distinguere fra due gruppi: uno, il cui scopo è quello di aumentare la libertà personale del paziente, l'altro mirante a diminuirla. Le psicoterapie pre-freudiane erano tipicamente repressive; esse tendevano a ridurre la libertà di sentimenti, di pensiero e di azione del paziente. Il grande contributo di Freud sta nell'aver posto i fondamenti di una terapia che cerca di allargare il campo di scelta del paziente e di conseguenza la sua libertà e la sua responsabilità.

L'idea di libertà e il trattamento psicoanalitico

Anche se non chiaramente esplicitato, lo scopo del trattamento psicoanalitico fu, all'inizio, quello di "liberare" il paziente. Dapprima, Freud volle liberare il paziente dall'influenza patogena dei ricordi traumatici. Naturalmente, si trattava solo di una liberazione dai sintomi, nel senso medico tradizionale. Ma non burliamoci di ciò. Anche allora Freud tentava di liberare il paziente dal fardello dei cattivi ricordi, che è dopotutto un fardello morale. Né quest'idea è superata. Alcuni autori contemporanei sostengono che lo psicoterapista dovrebbe fare esattamente l'opposto. I "cattivi" ricordi provano che il paziente è "colpevole"; di conseguenza, egli non dovrebbe esserne liberato bensì reso più responsabile di quanto sia disposto ad esserlo. Nondimeno, lo scopo e il risultato sarebbero una maggiore libertà per l'individuo.

Successivamente alla concezione del ricordo traumatico, Freud sviluppò poco dopo l'ipotesi che la nevrosi è in gran parte una questione di inibizioni; il paziente nevrotico è ammalato in quanto eccessivamente socializzato. Scopo della terapia sarebbe quello di liberarlo da alcune inibizioni in modo che possa divenire più spontaneo e creativo, in una parola più libero. Questa era l'idea prevalente nei circoli analitici negli anni dal 1920 al 1930. Wilhelm Reich ne fu il principale sostenitore. Sebbene egli fallisse nel tentativo di accordare la libertà con la responsabilità, la sua opera, e specialmente il libro Ascolta, piccolo uomo [Tr. it. Sugar, Torino 1973], sono più importanti nella storia della psicoanalisi che non molti classici psicoanalitici. In verità, quando l'analisi dell'Io era una scoperta recente, molti analisti ritenevano che scopo dell'analisi fosse la distruzione del Super-Io (arcaico) del paziente. L'idea non era completamente da scartare. Di nuovo, il mio punto di vista è che gli analisti erano ancora impegnati nel giocare la partita della libertà. Volevano liberare il paziente dalle influenze inconsce e automatiche esercitate su di lui dagli introietti infantili o, in parole semplici, dalle idee che gli erano state instillate dentro da bambino.

Dopo la morte di Freud, lo scopo dell'analisi è stato quello di liberare il paziente dagli effetti costrittivi della sua nevrosi (intendendo per "nevrosi" un comportamento inconsciamente determinato, stereotipato, in contrasto con una condotta normale, liberamente e coscientemente determinata). Ecco di nuovo la nozione di libertà. In realtà, la moderna concezione psicoanalitica di normalità è in qualche modo identica a quella di libertà; non naturalmente libertà economica o politica, ma libertà personale. Secondo questo punto di vista, il comportamento nevrotico è automatico o abituale, mentre il comportamento non nevrotico o normale è discriminante e selettivo.

Benché fondamentale per la teoria del trattamento psicoanalitico, il preciso significato o natura della libertà non è stato esplicitamente definito, ne è stato articolato in un coerente sistema etico. Eppure, io sostengo che come psicoterapia la psicoanalisi non ha alcun significato senza un'etica articolata. Qui sta il significato morale, politico e, al tempo stesso, scientifico della situazione psicoanalitica; essa è un modello di incontro tra uomini regolato dall'etica dell'individualismo e dall'autonomia personale. Lo scopo del trattamento psicoanalitico è quindi paragonabile allo scopo della riforma politica liberale. Il proposito di una costituzione democratica è quello di dare al popolo, oppresso da un governo tirannico, una maggiore libertà nella condotta politica, economica e religiosa. Lo scopo della psicoanalisi è quello di dare ai pazienti oppressi dai loro abituali modelli di comportamento, una maggiore libertà nella condotta personale.

Libertà per chi?

Il moderno concetto di libertà è complesso. Esso proviene da varie fonti e riflette le aspirazioni di uomini che hanno vissuto in condizioni diverse; i suoi scopi di conseguenza differiscono. In verità, il concetto di libertà può agevolmente assumere due significati quasi diametralmente opposti. La psicoanalisi e molte altre cose, nella società contemporanea, testimoniano la nostra confusione circa la libertà. Chiarendo quello che è il ruolo della libertà in psicoanalisi, possiamo contribuire a chiarirne il ruolo nella moderna politica e sociologia.

Quali sono le due maggiori fonti del moderno concetto di libertà? Uno è "L'età dell'Illuminismo'': i protagonisti, uomini di elevata condizione sociale e di cultura eccezionale; scenario, la Francia, l'Inghilterra e gli Stati Uniti; l'epoca, il secolo XVIII. L'aspetto preminente dell'idea di libertà offerta in questo periodo era il suo carattere individualistico e positivo. Per uomini come Voltaire e Jefferson, la libertà era l'opportunità dell'individuo solitario di perseguire certe mete: libertà di indagare, di apprendere, di leggere, di pensare, di scrivere, di sfidare l'autorità costituita e di essere un individuo cosciente. In breve, questa è la libertà di essere una persona individuale, un uomo autentico, responsabile e autonomo. Sebbene alcune di queste libertà venissero definite come libertà da qualcosa (ad esempio, dalla tirannide teologica o dalla tirannide governativa), in realtà esse erano, per la maggior parte, libertà per qualcosa (ad esempio per l'autogoverno dell'individuo o della nazione). In altre parole, il contenuto della libertà era definito in termini di mete che l'uomo fissava a se stesso. Questo è il genere di libertà che nessuno può dare a un altro.

Esiste comunque un altro genere di libertà che, invero, non è detto che ogni uomo possa guadagnarsela per conto proprio. Questo tipo di libertà deriva da un'altra fonte. Sebbene affondi le sue radici ideologiche nel XVIII secolo, negli scritti dei messia politici (quali Rousseau e Saint Simon), la sua anima la costituirono i rivoluzionari politici del XIX secolo (Marx e i primi comunisti, Lincoln e gli abolizionisti). La caratteristica più evidente di quest'idea di libertà è di essere collettivistica e negativa. Per evitare malintesi, desidero sottolineare che uso questi termini in senso descrittivo e non peggiorativo. Ritengo che entrambe le forme di libertà siano desiderabili e necessarie. Sebbene mi occuperò più della libertà individualistica che non di quella collettivistica, non desidero favorire l'una a scapito dell'altra. Inoltre, l'etica dell'autonomia punta a una possibile riconciliazione fra entrambe.

Gli scopi della libertà collettivistica (II concetto di libertà collettivista che viene qui sviluppato è simile, ma, non uguale, a ciò che Comte e altri hanno chiamato "libertà collettiva") sono la libertà dall'oppressione politica, dallo sfruttamento economico, dalla schiavitù, dalla colonizzazione e dalla persecuzione religiosa, razziale e politica. In breve, si tratta della libertà collettiva o di un gruppo di godere dei privilegi garantiti a un altro gruppo. Senza dubbio queste concezioni influiscono sul destino dell'individuo. Ciò nondimeno, abbiamo qui a che fare con la libertà di gruppi o classi di persone, lavoratori, ebrei, negri. Il contenuto di questo tipo di libertà è formulato largamente in termini negativi, come libertà da (generalmente dalla vessazione di un altro gruppo oppressore).

Anche se alcuni uomini debbono a volte combattere per queste libertà, noi ci aspettiamo che una società civile le accordi ai suoi cittadini: e nel XX secolo, molti nel mondo occidentale godono di queste libertà senza aver dovuto far nulla per ottenerle. Ed è bene che sia così, perché solo quando tutti gli uomini, ovunque, saranno sicuri delle loro libertà collettive e negative, essi saranno capaci di perseguire su più larga scala l'individualismo e l'autonomia. Fino allora, questi valori saranno minacciati dai movimenti che favoriscono le libertà collettivisiche, dato che i loro protagonisti definiscono e considerano l'individualismo e l'autonomia come un pretesto per lo sfruttamento del debole. Che questa identificazione sia falsa poco importa nelle battaglie politiche e ideologiche. Rimane il fatto, e speriamo che si riveli così tenace come si suppone lo siano i fatti, che l'individualismo e l'autonomia non possono costituire il fondamento di una rigida ideologia politica; in verità, essi sono gli unici effettivi antidoti all'intossicazione ideologica.

Per ricapitolare, suggerisco che nel moderno concetto di libertà si combinano queste due tendenze divergenti: l'idea della libertà per l'individuo che deriva dai pensatori e dagli statisti del XVIII secolo e l'idea della libertà per il gruppo che proviene dai filosofi sociali e dai riformatori politici del XIX secolo. La prima è una nozione aristocratica; l'altra, una idea democratica. Tra le due c'è spesso un conflitto. In tale conflitto lo psichiatra ha svolto e continua a svolgere un ruolo decisivo. (Vedere T. Szasz, Law, Liberty and Psychiatry. An Inquiry info The Social Uses of Meritai Health Practices, Macmillan, New York 1963 .)Qual'era la posizione di Freud per quanto riguarda queste due forme di libertà e il loro mutuo conflitto?

Freud, il paziente e la società

La tesi che Freud sia stato fortemente influenzato dalle idee politiche e morali del XVIII e XIX secolo è ampiamente dimostrata e non vi è alcuna necessità di documentarla in questa sede. Egli aveva pari dimestichezza con gli scritti di coloro che proponevano sia la libertà individualistica che quella collettivistica. Quali di questi valori attrasse maggiormente Freud e perché? Come conciliò il conflitto fra di essi?

Sappiamo abbastanza di Freud e del primo movimento psicoanalitico per essere discretamente sicuri di diverse cose. Anzitutto, per il fatto di essere ebreo, Freud si sentiva estraniato dalle correnti principali della società austriaca. Inoltre, ai tempi della sua infanzia, la classe media ebraica di Vienna poneva le sue speranze nell'educazione e non nel sionismo. Pertanto, Freud era più interessato alla libertà individuale che non a quella di gruppo. Nello stesso tempo, i suoi concetti di famiglia modello e di stato modello erano basati più su ciò che sapeva per esperienza che su quello che aveva letto o che sperava; di qui la sua adesione ultraconservatrice all'idea del patriarcato benevolo sia nella famiglia che nello stato.

Di conseguenza, Freud combinava nella sua personalità i valori del paternalismo conservatore e dell'individualismo liberale. Questa mescolanza si manifestò in molte contraddizioni del suo comportamento sociale e personale. Ciò spiega inoltre il fatto ohe alcuni condannino Freud come autoritario e repressivo, mentre altri Io elogiano come la personificazione del liberalismo del laissez-faire. In effetti egli sembra mostrare entrambi questi aspetti. Ma quello che ci interessa maggiormente non è la personalità di Freud, per quanto importante come sfondo. E' all'atteggiamento di Freud verso il paziente e verso la società, nella situazione del trattamento psicoanalitico, che siamo principalmente interessati. All'inizio la sua posizione era relativamente chiara ma, a lungo andare, diventò eccessivamente ambigua.

Al tempo in cui Freud divenne medico, c'erano due ruoli stabiliti per lo psichiatra, tuttora largamente accettati. Uno è il ruolo di rappresentante della società: lo psichiatra ospedaliero, anche se sembra assistere il malato, in realtà protegge la società dal paziente. L'altro è il ruolo di rappresentante di tutti e di nessuno: arbitro dei conflitti tra il paziente e la famiglia, tra il paziente e il datore di lavoro, e così via, questo tipo di psichiatra si allea con chiunque lo paghi. Freud si rifiutò di svolgere entrambi questi ruoli. Al contrario, ne creò uno nuovo: di agente o rappresentante del paziente. Secondo la mia opinione, questo è il suo più grande contributo alla psichiatria.

Ritengo che la scelta di tale indirizzo dipese da una doppia identificazione tra Freud e il malato mentale. Nel malato di mente che soffriva, Freud vide se stesso come ebreo oppresso e come nevrotico inibito. Documentare queste idee ci porterebbe troppo lontano. Ci basti ricordare che Freud considerava la psicoanalisi una "scienza ebraica" e che cercò ostinatamente di mascherare questo fatto. Ma per un aspetto assai importante la psicoanalisi era una scienza ebraica, e perderemmo molto se non lo riconoscessimo. Nella gloriosa Vienna dell'imperatore Francesco Giuseppe chi, se non un ebreo, si sarebbe identificato con gente così indesiderabile come i malati di mente? Certamente non l'aristocrazia, non l'affabile classe media e neppure la povera gente ignorante. Per quanto grande, il contributo di Freud fu limitato nei suoi effetti. Sebbene parteggiasse per il paziente nella sua lotta contro le forze che lo imbrigliavano, Freud non affrontò i cruciali problemi etici e sociali dell'autonomia di fronte all'eteronomia e dell'individualismo nei confronti del collettivismo. Egli non riconobbe la necessità di rendere esplicita la posizione dello psichiatra su questi argomenti.

Perché l'autonomia?

Perché attribuisco tanta importanza all'autonomia? Qual è il merito speciale di questo concetto morale? Definiamo cosa intendiamo per autonomia, e il suo valore diverrà allora evidente. Quello di autonomia è un concetto positivo. E' la libertà di realizzare se stessi, di aumentare le proprie conoscenze, di migliorare le proprie capacità e di raggiungere la responsabilità della propria condotta. Ed è anche la libertà di dirigere la propria vita, scegliendo fra diversi modi di agire, a condizione che non ne derivi danno agli altri.

In una società moderna, basata più sul contratto che sullo status, la personalità autonoma sarà socialmente più competente e utile della sua controparte eteronoma. Inoltre, cosa decisamente significativa, l'autonomia è la sola libertà positiva la cui realizzazione non danneggi gli altri. Altre libertà, come il combattere per scopi nazionalistici o religiosi, tendono probabilmente a danneggiare altre persone; e difatti, molti di questi scopi non possono essere perseguiti nel loro pieno significato senza l'esistenza di una opposizione. Senza dubbio la realizzazione di se stessi può anche "danneggiare" gli altri; il muratore migliore può soppiantare quello meno esperto.

C'è comunque una differenza radicale tra il danno procurato da un individuo che ha maggiori capacità e quello inflitto da chi opprime gli altri o nuoce loro fisicamente. In realtà, argomentare che a causa della propria superiorità la persona più capace nuoce ad altri meno abili, è come accettare l'asserzione che sadico è colui che rifiuta di danneggiare un masochista. Naturalmente una persona meno abile può in verità soffrire in una società liberamente competitiva la quale non preveda nessuna misura per la dignitosa sopravvivenza di coloro che, per una ragione qualunque, non hanno successo nella competizione. (Vedere Ludwig von Mises, Human Action. A Treatise on Economics, Yale University Press, New Haven 194-9 e Milton Friedman, Capitalism and Freedom, University of Cricago Press, Chicago 1962.) Questa condizione, comunque, verrà corretta meglio premiando i cattivi giocatori affinché giochino meglio, piuttosto che penalizzando i bravi perché hanno giocato bene.

A causa del rapporto intimo e personale tra lo psicoterapeuta e il paziente, il concetto di libertà nell'analisi non è un risultato astratto e accademico. Sebbene all'inizio l'analista occupi un ruolo in certo senso esterno alle lotte che l'analizzando combatte per la libertà - libertà dalle sue inibizioni, dai sintomi, o dal suo "oggetto interno" - la situazione presto cambia. In primo luogo il paziente ha rapporti reali extra-analitici con la madre, il padre, il fratello, il datore di lavoro, la moglie, il figlio e così via; secondo, ha un rapporto reale con l'analista. In modi diversi, l'analizzando tende a sentirsi costretto e imprigionato, non tanto dall'"intima struttura della sua personalità" quanto da persone reali. La domanda è questa: quale sarà l'atteggiamento dell'analista nei confronti delle persone che fanno parte della vita del paziente? E, come analista, quale sarà il suo atteggiamento verso il paziente? In entrambi i casi, l'analista è destinato a influenzare il paziente nella sua ricerca di libertà personale o nella fuga da essa.

Se pratica la psicoterapia autonoma, l'analista deve sostenere le aspirazioni di libertà del paziente nei confronti di oggetti coercitivi. Questo non significa che egli deve incoraggiare il paziente a comportarsi in un certo modo particolare, ad esempio ribellandosi a un genitore, a un coniuge o a un datore di lavoro dispotico. Ma neppure significa che l'analista debba accettare e interpretare candidamente la natura dei rapporti significativi del paziente, lasciandogli assoluta libertà di sopportare, modificare o cessare qualunque relazione preesistente.

Lo stesso problema è facile che insorga nella situazione analitica stessa. Se il paziente si sente abitualmente imbrigliato nei suoi rapporti umani, quasi sicuramente si sentirà coartato anche dall'analista. Questo diverrà parte integrante della nevrosi di transfert dell'analizzando. La ragione di ciò è che tutti noi tendiamo a giocare i giochi che siamo abituati a fare. Di conseguenza il paziente sentirà che l'analista esercita su di lui un'azione costrittiva. In ciò sta la ragione più importante per evitare qualunque coercizione nell'analisi; ed in verità questo è anche il motivo per cui insisto che l'analisi non può essere altro che una psicoterapia autonoma.

Se l'analista stabilisce regole restrittive, come sosteneva Freud, egli non può mostrare al paziente la differenza fra transfert e realtà; e come lo potrebbe, se in effetti non v'è alcuna differenza? Viceversa, sarà possibile per il paziente rendersene conto se la situazione analitica è contrattuale e libera da coercizioni. Il rapporto analitico in tal modo non solo fornirà le condizioni necessarie per un certo tipo di esperienza istruttiva, ma offrirà anche un modello di rapporto autonomo, non coercitivo.

L'etica del rapporto analitico si evidenzia in quello che accade fra l'analista e l'analizzando. Ciò che distingue quest'impresa da altre consimili è che, sebbene l'analista cerchi di aiutare il suo cliente, "non si prende cura di lui". E' il paziente a prendersi cura di se stesso. Inoltre, l'analizzando si rende conto che "ci si aspetta che lui guarisca", ma non in senso medico o psicopatologico bensì in senso puramente morale, apprendendo di più su se stesso e assumendosi maggiori responsabilità circa la sua condotta. Egli impara che solo la conoscenza di sé, un impegno e un agire responsabili lo renderanno libero. Insomma, la psicoterapia autonoma è una reale dimostrazione su piccola scala della natura e delle possibilità dell'etica dell'autonomia nelle relazioni umane.

L'analista si comporta in maniera autonoma e responsabile, subordina se stesso ai termini di un contratto, senza riguardo della conseguente condotta del paziente, ed evita di limitarlo in qualunque modo. In queste condizioni, il paziente avrà un'opportunità di liberarsi da quelle costrizioni che gli impediscono di divenire la persona autonoma e autentica come egli desidera essere.

Il mandato morale della psicoanalisi

Faccio rilevare che il mandato originale della psicoanalisi era di aiutare l'individuo malato nella lotta non solo contro la sua malattia ma anche contro quelli che, con la loro condotta, erano causa della sua infermità. Un aneddoto, tratto dalla vita di Freud, illustra e suffraga questa tesi.

Un giorno, racconta Freud (Sulla storia del movimento psicoanalitico (1914), The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud, Hogarth Press, London 1957, voi. XIV), il suo amico e collega più anziano, Chrobak, gli chiese di prendere in cura una sua paziente, alla quale egli non poteva dedicare abbastanza tempo. Quando Freud arrivò, trovò che la paziente soffriva di "attacchi di ansia ingiustificati, che si calmavano solo informandola esattamente sul luogo dove si trovava il suo medico in ogni momento del giorno". Più tardi, Ghrobak disse a Freud che l'ansia della paziente era dovuta al fatto di essere ancora vergine, malgrado fosse sposata da 18 anni. Il marito era impotente. «In questi casi - disse Chrobak - non c'era nulla da fare per un medico se non proteggere quella disgrazia familiare con la sua reputazione e rassegnarsi se la gente, alzando le spalle, avrebbe detto di lui: "Non è un buon medico se dopo tanti anni non è riuscito a curarla"».

In altri termini, accettando la moglie come malata mentale, il medico sosteneva l'immagine pubblica del marito, immagine di uomo normale e capace. Freud era indignato. Ancora una volta si scontrava con l'evidenza che i suoi colleghi sapevano che la causa dell'isteria era la «chose genitale... toujours, toujours» come diceva Charcot. L'immediata replica di Freud fu: «Ma allora perché non lo dicono?». Il motivo era ovvio: i medici non erano gli agenti del paziente; di conseguenza, perché mai avrebbero dovuto "dirlo"? Sarebbe stato economicamente e professionalmente imprudente per essi agire in tal modo e altrettanto lo sarebbe al giorno d'oggi. Ho discusso questo problema altrove. Qui sarà sufficiente notare che non appena Freud e i primi Freudiani rivendicarono moralmente un certo tipo di attività psichiatrica essi l'abbandonarono. Forse questa è una affermazione troppo severa. E' evidente che essi non si resero conto abbastanza chiaramente di cosa distingueva il loro lavoro dai tentativi degli altri psichiatri.

All'inizio, gli psiconalisti ritennero che il loro tratto distintivo consistesse nel lavoro con "l'inconscio". Stando così le cose, lo si poteva studiare su psicotici chiusi nei manicomi o su prigionieri confinati nelle carceri, non soltanto su pazienti volontari nello studio dell'analista: da qui la perdita del precetto morale.

Più tardi, invece, si pensò che il tratto distintivo risiedesse nel lavoro con il "transfert" e la "resistenza". Ma anche questo poteva essere studiato in situazioni di ogni genere: ancora una volta perdita del mandato morale.

Finalmente arrivò, e tuttora permane, la catastrofe del training psicoanalitico. Gli psicoanalisti anziani, modelli nella loro professione, divennero analisti didatti. In questo ruolo essi abbandonarono perfino la pretesa di essere gli agenti dei loro candidati-pazienti e, per citare una felice espressione di C. Wright Mill, divennero invece allegri automi al servizio della élite del potere analitico. In poche decadi, gli psicoanalisti avevano compiuto un ciclo completo. Freud era indignato che il medico professionista viennese ottenesse alcuni dei suoi successi sociali sacrificando gli interessi del paziente isterico; eppure, mentre era ancora vivo e con molto maggior fervore più tardi, gli analisti didatti acquistarono e seguitano ad acquistare riconoscimenti professionali mettendo a repentaglio gli interessi dei loro candidati-pazienti.

Questa, in tre brevi paragrafi, la storia del fallimento di una idea liberatrice. Tuttavia, correggendo i nostri errori, è forse ancora possibile far rivivere la psicoanalisi come psicoterapia individualistica e umanistica. I falsi pregiudizi medici e istintuali sulla psicoanalisi non debbono ulteriormente preoccuparci. Rimangono soltanto da chiarire alcune considerazioni politico-morali.

Psichiatria per l'individuo o per la comunità?

La tendenza caratteristica assunta da Freud nella sua pratica psicoterapica fu, come ho suggerito, di considerare se stesso il rappresentante del paziente. In questo modo egli cercò di fare quanto era in suo potere per il singolo paziente, ripudiando i suoi obblighi verso la famiglia del paziente stesso e verso la società. Evidentemente sentiva di non poter fare giustizia a entrambe le parti, dato che ambedue erano assai spesso in conflitto. Dovette inoltre credere che la famiglia e la società non fossero indifese: se avessero avuto bisogno di aiuto, lo avrebbero cercato e ottenuto per conto loro.

Questo è, naturalmente, un dogma fondamentale dell'etica democratica liberale e, più specialmente, dell'etica dell'autonomia. Quando c'è un conflitto fra due o più parti, le diversità vanno apertamente riconosciute; ognuna delle parti dovrebbe avere libero accesso all'aiuto dei suoi rappresentanti in modo da promuovere i propri interessi e il proprio benessere; da ultimo, quelli che sono coinvolti nel conflitto (sia come partecipanti di primo piano sia come soccorritori) non dovrebbero esserne anche gli arbitri.

Non deve sorprenderci che questi principi siano completamente ignorati da tutte le moderne scuole di trattamento psichiatrico: terapia ambientale, terapia famigliare, terapia di gruppo - queste e molte altre pratiche tentano di raggiungere l'impossibile, vale a dire di "aiutare" il paziente e allo stesso tempo di "rendere giustizia" alla famiglia, ai suoi amici, ai datori di lavoro e al governo. Non ritengo sorprendente questo sviluppo, dato che gli stessi analisti hanno fallito nel tenersi saldi a quello che ho chiamato il loro mandato morale. Freud stesso parlò fiduciosamente di un futuro in cui una richiesta per «l'applicazione su larga scala della nostra terapia ci costringerà ad amalgamare l'oro puro dell'analisi con il rame della suggestione diretta». In tal modo si realizzerà una "psicoterapia per tutti", vale a dire per il "povero" e l' "ignorante"; qualcosa di adatto «al trattamento di una considerevole massa di popolazione». (Lines of advances in Psyco-Analytic Therapy (1919), The Standard Edition, vol. XVII, pp. 167-68.)

Ma che genere di terapia o di aiuto è necessario a "una considerevole massa di popolazione"?

La gente povera ha bisogno di lavoro e di denaro, non di psicoanalisi. L'ignorante ha bisogno di istruirsi e diventare abile, non di psicoanalisi. Inoltre, il povero e l'ignorante sono spesso privi di diritti politici e socialmente oppressi; in tal caso, ciò di cui hanno bisogno è libertà dall'oppressione. Il tipo di libertà personale che la psicoanalisi promette può avere significato solo per quelle persone che beneficiano in larga misura di libertà economica, politica e sociale.

Avvicinandoci alla seconda metà del XX secolo, troviamo psichiatri che cercano di offuscare e persino di cancellare il conflitto fra l'individuo ed il gruppo, conflitto che i primi analisti affrontarono così coraggiosamente. I nuovi termini psichiatrici - "psicoterapia di gruppo", "terapia della famiglia" e, più recentemente, "psichiatria comunitaria" sono sintomi di una tendenza infausta. Senza dubbio le famiglie, i gruppi e la comunità, tutti hanno il diritto, in una società libera, di perseguire i propri valori e i propri fini.

Ma non inganniamoci da noi stessi. La psichiatria ha sempre servito gli interessi della famiglia, dei gruppi e della comunità. Quando gli ammalati mentali erano esiliati in manicomi fuori mano per restarvi in deposito sino alla fine dei loro giorni, questa era un'iniziativa della comunità, era ciò che la comunità e non gli ammalati volevano. Se oggi la comunità ha maggiori scrupoli riguardo certe cose e vuole che "ci si prenda cura" dei malati in modo più elegante, rimane il fatto che è ancora il desiderio della comunità e non quello del singolo paziente che prevale in questo tipo di imprese psichiatriche. Dietro le porte non chiuse a chiave, ma ben sorvegliate, degli "ospedali aperti", ci sono ancora pazienti involontari, privi di protezione legale e tenuti tranquilli in una totale sottomissione. Che psicoanalisti facciano questo genere di lavoro e pretendano di servire le necessità del paziente ha solo mascherato il problema in modo più efficace; non lo ha affatto risolto.

In realtà, nel contesto del moderno stato assistenziale, la psichiatria comunitaria promette di avvicinare sempre più il giorno in cui, come è stato opportunamente detto, ognuno si occuperà di qualcun altro, ma nessuno si prenderà cura di se stesso.

2. L'IDENTITÀ' PROFESSIONALE DELLO PSICOTERAPISTA
Che genere di esperto è lo psicoterapista?

Il modello medico della psicoterapia

Finché applicheremo la struttura concettuale di malattia e di terapia alla psichiatria e alla psicoanalisi, dovremo considerare le nevrosi e le psicosi come malattie e i metodi per influenzarle come cure. In quanto medico, si ritiene che lo psichiatra possieda numerosi mezzi e capacità terapeutiche, ognuna adatta ad alleviare un particolare disturbo. Infine, come in medicina, si ritiene che il trattamento psichiatrico dipenda dalla natura e dalla causa della malattia del paziente.

In conformità a questo modello medico, è comunemente accettato che le varie malattie mentali richiedano diversi metodi di trattamento. Su questo punto concordano tutti i moderni testi di psichiatria e di psicoanalisi. Respingo come falso questo punto di vista: esso è l'estensione del mito della malattia mentale all'area della psicoterapia. Vediamone la prova.

In medicina (non psichiatrica) la specializzazione è basata principalmente sulla divisione del corpo umano in parti o funzioni. Ci sono quindi esperti in cardiologia, in dermatologia, in ginecologia, ematologia, medicina interna, neurologia, proctologia, urologia e così di seguito. Ogni specialista tratta, come regola, solo pazienti afflitti da certe malattie: comunque, egli esamina e tratta il paziente con una varietà di metodi che includono le medicine, i raggi X e la chirurgia. Apparentemente, anche la specializzazione in psichiatria poggia su una base di questo genere; in realtà le cose vanno diversamente.

Se lo psichiatra è uno specialista medico, quale struttura o funzione dell'organismo umano è il suo campo, la sua area di competenza specifica? La risposta deve essere: la mente e il comportamento. Ma è la "mente" un organo come il cervello o il cuore? E il comportamento umano è "una funzione", come il metabolismo del glucosio o l'ematopoiesi? Se rispondiamo affermativamente a queste domande, ci impegniamo moralmente e filosoficamente a considerare gli esseri umani come macchine e quindi a trattare le persone come cose.

Questo punto di vista va respinto non solo per ragioni etiche. Risulta che è altresì falso. La "mente" è una astrazione che ci aiuta a descrivere certe esperienze umane, in particolare l'esperienza della coscienza di noi stessi. Anche se abbiamo un concetto chiamato "mente" non ne consegue necessariamente che esista un oggetto fisico o un'entità biologica con questo nome. Credere questo, e quindi trattare la mente come un "organo", equivale a commettere "un errore di categoria". (Vedere Gilbert Ryle, The Concept of Mind, Hutchinson's University Library, London 1949.) Andare oltre e considerare la psichiatria come lo studio e il trattamento delle "menti ammalate" è trasformare un errore di categoria relativamente semplice in un grandioso sistema di errori di categoria.

Concludendo, lo psicoterapista osserva persone, non menti. Senza dubbio la gente è spesso infelice e sfortunata; tuttavia se per queste ragioni decidiamo di chiamarli "malati", usiamo un linguaggio metaforico e retorico e parliamo come il poeta o il politico, non come il medico o lo scienziato. Perciò lo psicoterapista non "cura" malattie psichiche, ma ha rapporti e comunica con un suo simile.

Le realtà sociali relative alla psicoterapia sono conformi a questi punti di vista e illustrano, in maniera piuttosto drammatica, come i concetti mitologici della psichiatria contemporanea conducano una vita propria: essi sono, in altri termini, utili solo come simboli istituzionali, non come strumenti.

Qual è l'attuale base della specializzazione in psichiatria? Nella psichiatria americana contemporanea ci imbattiamo in varie "scuole" di psichiatria e psicoterapia: freudiana, adleriana, junghiana, scuole esistenziali e così via. Ognuna si distingue per il metodo che usa (e implicitamente per i metodi che esclude), non per i tipi di malattie mentali che tratta. Malgrado le asserzioni degli ideologi della psichiatria, la maggior parte degli psicoterapisti è esperta nell'uso di una tecnica particolare. Sebbene i loro clienti abbiano una varietà di difficoltà personali, tutti vengono trattati in modo più o meno simile. Quindi gli psicoterapisti sono - come implica il loro nome -specialisti in un metodo di influenza personale. A questo riguardo, essi differiscono dagli specialisti medici che sono esperti in un particolare gruppo di malattie (ad esempio, il dermatologo o l'oftalmologo), ma rassomigliano invece a coloro che sono esperti in una tecnica particolare (ad esempio il radiologo o il chirurgo).

Lo psicoterapista come specialista in una tecnica

La tesi che lo psicoterapista è specialista in una tecnica, merita particolare rilievo. Per quanto sia un'asserzione semplice e non controversa, se considerata a fondo essa ha conseguenze insospettate e di grande portata.

Anche se lo psicoterapista assomiglia per certi aspetti a esperti di altre tecniche terapeutiche, al tempo stesso si differenzia da essi. Per esempio, l'essere un radiologo o un chirurgo richiede non solo abilità personale ma anche l'uso di una speciale attrezzatura (ad esempio apparecchi radiografici, radioisotopi, apparecchiatura per anestesia, incisione e sutura, e così via). In breve, questi specialisti sono esperti nell'uso di tecnologie mediche.

Se lo psicoterapeuta è anche specialista in una tecnica, che specie di tecnica è questa? E' chiaro che il suo metodo è completamente non tecnologico; non usa medicine o strumenti e neppure ha contatti col corpo del paziente. Le tecniche psicoterapeutiche utilizzano tre attività, strettamente connesse tra di loro: la comunicazione verbale, la comunicazione non verbale, e la stipula o la inadempienza di contratti o promesse. In altre parole, la speciale abilità dello psicoterapista sta nella sua perizia nel condurre il rapporto coi pazienti. Egli non usa apparecchiature speciali, a meno che non si consideri la personalità del terapista come uno strumento. Di fatto, questa equivalenza fra "persona" e "strumento" indusse Freud a ritenere che ogni psicoanalista debba essere analizzato. Ma se troppo insistente, l'analogia fra oggetto e persona diventa in verità ingannevole.

Il dilemma dell'esperto non tecnologo

Lo psicoterapista è uno scienziato?

Freud sosteneva che la psicoanalisi era una scienza; come ricerca sulla personalità umana, era scienza pura: come terapia, scienza applicata. E' giusto o falso questo punto di vista?

E' difficile rispondere a questa domanda senza aver prima definito le parole "scienza" e "scientifico". Ai giorni nostri, questi termini hanno assunto un significato largamente valutativo; quando definiamo qualcosa "scientifico" vogliamo dire che è esatto, effettivo, buono, onesto, razionale o attendibile. Simultaneamente, questi termini hanno perduto il loro sostanziale significato. Stando così le cose, è naturale che gli psicoanalisti pretendano di essere scienziati. Ogni professione contemporanea, che non sia basata sull'arte, la si considera basata sulla scienza. Il moderno professionista è costretto a questa rivendicazione perché, se il suo lavoro fosse qualificato come non scientifico, gli verrebbe addossata un'identità di valore negativo. Solo quando torneremo al significato originario della parola "scienza" e penseremo ad essa come descrizione di una attività piuttosto che come giudizio, allora sarà ragionevole chiedersi se lo psicoanalista è uno scienziato.

La scienza come possesso di capacità strumentali

In generale una persona è considerata un esperto se possiede una particolare abilità nell'uso di strumenti o tecniche speciali. (Non faccio distinzione qui fra scienziati e tecnici). Questo è il fondamento della distinzione basilare tra ruoli e status strumentali e ruoli e status istituzionali: i membri del primo gruppo hanno uno speciale rapporto con gli "strumenti", quelli del secondo con le "istituzioni". Ad esempio, falegnami e neurochirurghi possiedono capacità strumentali e occupano posizioni strumentali; re e sacerdoti non posseggono tali capacità e il loro ruolo è istituzionale.

Questa concezione del ruolo tecnico-scientifico mette il terapeuta psicoanalista in un particolare dilemma. Che tipo di esperto è egli? Che genere di abilità strumentale possiede? Batteriologi, chimici e fisici non hanno questo problema; essi sono abili nell'uso di speciali strumenti di osservazione e di misura. C'è qualcosa di paragonabile nel lavoro dell'analista? A mio avviso, nulla. L'analista ha particolari abilità ma esse sono affatto non tecnologiche; e in quanto all'attrezzatura speciale, l'analista non ne ha bisogno e non ne usa alcuna.

Si potrebbe obiettare che gli strumenti dell'analista sono il divano e la libera associazione. Poiché un carattere di strumentalità scientifica è spesso attribuito a questi due aspetti del processo analitico, sarà utile chiarirne le origini e le funzioni.

Le origini storiche del setting analitico

Il divano analitico è un residuo dei giorni in cui lo psicoterapista impersonava un guaritore medico-spirituale che curava il paziente mettendolo in uno stato di trance. Il paziente doveva addormentarsi; poiché non è possibile dormire in posizione eretta, l'ipnotista faceva quindi sdraiare il paziente su un lettino.

Senza dubbio Freud trovò conveniente l'uso del divano che lo proteggeva dall'essere squadrato, giorno dopo giorno, da una serie di pazienti; a tale scopo è tuttora utile. Inoltre, Freud considera utile il divano anche perché riteneva che facilitasse il "flusso" della libera associazione. Per mio conto, comunque, ritengo che a prescindere dal significato che esso assume per il paziente e dal fatto che l'analista esiga o meno al cliente di adottare la posizione sdraiata, l'uso del divano può sia favorire che ostacolare la libera comunicazione tra analizzando e analista.

Anche la posizione dell'analista deriva dalla situazione ipnotica. L'ipnotizzatore stava dietro al paziente, in piedi o seduto. Egli appoggiava le mani sulla fronte del soggetto o usava un piccolo oggetto, come una moneta o un orologio, sul quale invitava il soggetto a fissare la sua attenzione. Scopo di queste manovre era distrarre il paziente da certi stimoli, inclusa la presenza fisica dell'ipnotizzatore, e aiutarlo a concentrarsi sulla comunicazione verbale di quest'ultimo. Era quindi necessario che il soggetto non fosse in grado di osservare l'ipnotizzatore. Ciò si otteneva in parte istruendo il soggetto a chiudere gli occhi, in parte sistemandolo in modo da impedirgli di vedere l'ipnotizzatore. L'abituale assetto analitico, l'analista su una sedia bassa dietro la spalliera del divano, in modo da non essere visto dal paziente a meno che questo ultimo non si metta a sedere o giri la testa, è quindi un altro residuo della situazione ipnotica.

La cosiddetta regola fondamentale dell'analisi, vale a dire la regola che il paziente debba associare liberamente, deriva anch'essa da una precedente procedura. Josef Breuer scoprì l'eziologia dell'isteria e il suo trattamento ascoltando le espressioni verbali di una giovane. Egli e Freud chiamarono ciò "metodo catartico", a designare l'idea che la cura consistesse in una specie di "pulizia" dai ricordi traumatici. Queste noxe, concepite in analogia col pus, sono eliminate non attraverso fistole nella pelle, ma attraverso parole sgorgate dalla bocca del paziente.

Quando Freud cominciò a lavorare da solo, considerava le parole del paziente il "materiale" col quale l'analista lavora. Come l'ematologo richiede del sangue così l'analista chiede al suo paziente di fornirgli parole. E' così che la regola della libera associazione divenne operante.

Mi auguro che questi commenti aiutino a collocare certi aspetti quasi-strumentali della psicoanalisi nella loro prospettiva storica. Come illustrerò più avanti, il divano e la libera associazione non sono strumenti, né tanto meno sono necessari per condurre un'analisi.

Pseudostrumentalismo in psicoanalisi

Sfortunatamente i primi psicoanalisti non misero mai in discussione l'idea che ogni specialista medico che si rispetti debba essere esperto nell'uso di un certo speciale- strumentario. Freud stesso incoraggiò questa nozione asserendo che lo psicoanalista usava il divano e la libera associazione così come il medico usa lo stetoscopio e l'oftalmoscopio. Sebbene falsa, quest'idea è stata largamente accettata. Oggi, né gli analisti né i profani sembrano sicuri di cosa sia il divano, uno strumento necessario o un simbolo istituzionale. Ne sono la prova le vignette che mostrano analisti alle prese coi loro lettini piuttosto che con i loro pazienti. Ne ricordo una che mostrava due uomini con la borsa da medico che guardavano un terzo che trasporta un divano sulle spalle: «Sta facendo una visita a domicilio» era la didascalia.

Eppure sarebbe un errore biasimare Freud. Sebbene sostenesse l'uso del lettino, non lo considerò indispensabile. Freud fu un uomo intrepidamente onesto; egli rifuggiva dalle finzioni e dagli artifizi. Tuttavia, a misura che la psicoanalisi riscuoteva successo e rispettabilità sociale, essa dovette soccombere sempre più allo pseudo-strumentalismo. Questa situazione è andata talmente avanti che oggi, ai candidati degli Istituti di Psicoanalisi, che magari sono psichiatri autorizzati, spesso si proibisce di mettere i loro pazienti - incluso quelli privati - sul divano, fintanto non abbiano il permesso dell'analista didatta o della commissione d'insegnamento. Ciò dovrebbe provare, suppongo, che il divano è uno strumento delicato, non diversamente dal bisturi del chirurgo, da non fidarsi a lasciarlo usare da un principiante.

Sfortunatamente, il divano e la libera associazione furono solo i primi di una lunga serie di pseudostrumenti psicodiagnostici e psicoterapici. Concependo la persona e il corpo negli stessi termini, come oggetti da esaminare e curare, gli psichiatri e gli psicologi hanno ideato diversi artifizi apparentemente per la diagnosi e per il trattamento della personalità umana. Molti di questi sono stati largamente accettati, in buona fede, come strumenti scientifici.

Esempi dei primi sono strumenti "diagnostici" come il test di Rorschach (ideato da uno psichiatra a orientamento psicoanalitico) e altri tests proiettivi e di personalità; tra i secondi certi arricchimenti dell'armamentario terapeutico dello psicoterapista e perfino dello psicoanalista, come l'ipnoanalisi e la narcoanalisi, nonché l'uso dei moderni psicofarmaci, al fine di facilitare la psicoterapia. Infine, la pseudostrumentalizzazione ha raggiunto il suo vertice con i recenti tentativi di usare magnetofoni, cineprese e complicate misure di processi fisiologici sia del paziente che del terapista, per registrare la reciproca azione terapeutica.

Considero tutte queste invenzioni degli pseudostrumenti. Il loro uso fa sì che l'esercizio della professione rechi il marchio dello scientismo e non della scienza. Con questo non voglio dire, ad esempio, che il test di Rorschach o il Thematic Apperception Test siano inutili, ma piuttosto che la loro utilità è o insignificante o immorale.

Molti tests psicologici - e specialmente i tests proiettivi - sono insignificanti perché, a prescindere da ciò su cui due persone discutono, l'incontro sarà informativo per entrambi i partecipanti. La domanda non è, quindi, se il test di Rorschach può essere utilizzato per trarre informazioni, ma se informazioni ugualmente valide e interessanti possono essere ottenute senza di esso, conversando semplicemente col cliente-

L'immoralità dei tests psicologici, almeno in certe situazioni, è stata oggetto di adeguata considerazione negli ultimi anni. (Vedere Martin L. Gross, The Brain Watchers, Random House, New York 1962 e Banesh Hoffman, The Tyranny of Testing, Macmillan, New York 1962.) L'esecuzione di test non può avere alcun posto nella terapia psicoanalitica, neppure come preliminare a tale terapia. La ragione è che l'essere assoggettato a tests psicologici per il cliente significa di solito che la sua "mente" verrà esplorata; che si otterranno "informazioni" che solo lo specialista potrà interpretare correttamente; e infine che i risultati del test gli saranno nascosti o comunicati in base al parere dell'esperto il quale giudicherà se tale comunicazione gli sarà utile o dannosa. Quindi, indipendentemente dal fatto che il cliente sia d'accordo o meno nel sottoporsi ai test, la situazione stessa del test, al pari della situazione ipnotica, tende a porre l'esecutore del test nel ruolo dell'esperto che manipola e il cliente nel ruolo del soggetto che viene manipolato. Questo tipo di rapporto è, naturalmente, l'antitesi dei principi e degli scopi della psicoterapia autonoma.

A mio avviso, lo strumentarismo in psicoterapia serve solo uno scopo: di consacrare come attività scientifica quello che è sentito "solo" come incontro umano. Questo è un atteggiamento denigratorio sia per lo psicoterapista che per la scienza. Indica che molti studiosi dell'uomo credono tuttora che per studiare scientificamente gli esseri umani e i loro rapporti debbano prima di tutto pretendere di essere "scienziati". Ma cosa vogliamo dire affermando che uno è scienziato? Certamente non che costui intenda farsi passare per tale.

Lo studio corretto degli incontri umani,

Qual è, dunque, il primo obbligo dello scienziato? Ho dimostrato che per essere uno scienziato puro non è sufficiente rassomigliare a un fisico, come per essere uno studioso di scienze applicate non è sufficiente rassomigliare a un medico. Il dovere principale di uno scienziato è di essere onesto.

Come ogni altra cosa esistente, gli esseri umani e i loro incontri possono essere osservati in modo accurato o inesatto e descritti con onestà o fraudolentemente. All'inizio, la psicoanalisi fu un tentativo serio e riuscito di dare un onesto contributo allo studio scientifico dell'uomo. Se uno psicoanalista vuole essere uno scienziato, deve continuare ad essere sincero con se stesso, su ciò che fa e perché lo fa. Questo implica che l'analista non può accettare nulla, specialmente riguardo allo strumentario analitico, per il suo valore nominale, perché lo ha detto Freud o in conformità alle pressioni istituzionali della sua professione.

Sarà utile sottolineare maggiormente le differenze tra medico e psichiatra. Il compito del medico richiede che si occupi dei fattori fisici o causali e che tratti il paziente, almeno in parte, come un oggetto. Il compito dello psichiatra esige che si occupi di ciò che è psicologico ed esistenziale e che tratti il cliente come una persona. Lo psicoterapista non fa nulla al paziente né impiega alcun metodo su di lui. L'uso dei verbi transitivi per descrivere cosa succede fra terapista e paziente, o è un errore o non è psicoterapia autonoma. Dello psicoanalista si può dire quindi che ascolta il paziente, che parla con lui o che intavola con lui un certo tipo di rapporto contrattuale; ma non si può dire con proprietà che cura il paziente.

La mia conclusione è che lo psicoanalista è un esperto, o uno specialista scientifico, anche se non ha un'attrezzatura speciale. Non ne usa alcuna perché non ne ha bisogno. Le sue particolari capacità sono l'autodisciplina e la conoscenza di se stesso, l'atteggiamento critico e di ricerca e l'attitudine a capire e a decodificare le comunicazioni del paziente e il significato della sua "malattia mentale".

L'analista deve creare un rapporto formale o professionale col cliente, in contrapposizione a un rapporto informale o amichevole. Per questo, uno studio professionale è il primo e principale requisito. La tradizionale sistemazione analitica - il paziente disteso sul divano e l'analista seduto dietro di lui o per lo meno al di fuori della sua visuale - può essere utile ma non è un requisito. In quanto alla libera associazione, si tratta di un concetto ingannevole; essa non è necessaria per il genere di cose che ci si attende che il paziente riveli su se stesso.

Poiché il trattamento psicoanalitico è un'impresa che coinvolge persone (e niente altro), possiamo considerare il setting analitico alla stregua di un apparato usato in un esperimento fisico. In psichiatria le cose sono più semplici che in fisica perché non v'è bisogno di dispositivi speciali per compiere delle osservazioni; eppure sono anche più complicate poiché le situazioni non possono essere giudicate dalle apparenze. Come dovremo giudicarle allora? E' necessario considerare le situazioni non solo per quello che sono ma anche come si sono prodotte, da chi sono state prodotte, e cosa significano per i presenti. Questo, come vedremo più avanti, è particolarmente vero nella situazione analitica.

La tecnica psicoterapeutica e la personalità del terapista

La malattia somatica è qualcosa che il paziente ha, mentre "la malattia mentale" è qualcosa che il paziente è o fa. Se la nevrosi e la psicosi fossero malattie come la polmonite o il cancro, sarebbe possibile a una persona avere una nevrosi e una psicosi e soffrire di entrambi i disturbi simultaneamente. Ma le regole standard del linguaggio psichiatrico rendono assurdo il sostenere una doppia "diagnosi". In realtà usiamo le parole "nevrotico" e "psicotico" per caratterizzare persone e non per indicare malattie. Quindi non possiamo dire che una persona è nevrotica e psicotica, così come non si può dire che uno è ricco e povero. E' possibile però dire che una persona è nevrotica, povera e inoltre buon poeta, o che una persona è psicotica, ricca e politicamente abile.

Sostengo che ciò che è valido per la nevrosi lo è anche per la psicoterapia: in ogni caso, il comportamento individuale va visto come espressione dell'intera persona e non come un pezzo frammentario del suo comportamento separato e alieno dall'identità dell'attore.

La tecnica psicoterapeutica come caratteristica personale del terapista

La mia tesi è che la pratica della tecnica analitica nasca dalla personalità dell'analista e non possa mai essere distinta da questa. In tal senso, la tecnica dell'analista differisce radicalmente dalle tecniche medico-terapeutiche ed è invece simile a qualità personali come l'onestà e l'educazione.

Alla persona educata riesce difficile essere scortese, la persona onesta trova difficile mentire. Allo stesso modo lo stile o la tecnica dello psicoterapista è una caratteristica personale, indicativa del tipo di persona che egli è; non è qualcosa che può prendere o scartare a suo piacimento. Lo psicoterapista che preferisce essere eteronomo, sarà più o meno direttivo con tutti i suoi pazienti, indipendentemente dai loro desideri o bisogni, mentre lo psicoterapista che desidera essere autonomo, sarà più o meno analitico e non-direttivo con tutti i suoi clienti.

In altre parole la tecnica psicoterapeutica ha origine dalla personalità del terapeuta e diviene parte di essa. Pertanto il terapista non può essere più flessibile nei suoi confronti di quanto non lo sia riguardo alle altre sue abitudini personali.

Questo punto di vista comporta conseguenze sorprendenti. Se vero, lo psicoterapista non può sostenere la frequente pretesa che egli sceglie fra varie tecniche psicoterapeutiche a seconda della particolare diagnosi fatta al paziente. Questa è una semplice applicazione del modello medico alla psicoterapia: per ogni malattia c'è una terapia specifica. Ma se la psicoterapia è quella che io sostengo, allora la pretesa di uno psicoterapista generico è un inganno pretenzioso; egli non può diagnosticare difficoltà umane in poche interviste, né tanto meno può offrirsi come strumento terapeutico polivalente.

Sto io, dunque, recisamente negando che alcuni terapisti possano essere in grado di adattarsi ai vari "bisogni" dei diversi clienti e offrire terapie le più varie a pazienti diversi? Non è possibile rispondere a questa domanda con un semplice si o no. Cerchiamo prima di distinguere tra simulazione e autenticità nelle relazioni umane.

Se un individuo è una persona, può avere solo una personalità. 0, per dirlo diversamente, se una persona è se stessa (come abitualmente ci si esprime) il suo stile di comportamento è più o meno coerente. (Naturalmente, questo non vuol dire che la personalità di un individuo non possa cambiare gradualmente o anche improvvisamente dopo una crisi esistenziale). Tuttavia, sebbene una persona possa essere se stessa in un solo modo, essa può simulare di essere qualcun altro in molti modi. Di conseguenza, se è vero che un uomo può avere solo una individualità autentica (può naturalmente non averne affatto), tuttavia può assumerne diverse altre. In effetti, l'individuo eteronomo si fa una virtù di essere una cosa diversa con ogni persona; egli è una persona diversa per il padre, la madre, la moglie, il figlio, il datore di lavoro e così via.

La rappresentazione di un ruolo psicoterapeutico come imitazione

Lo psicoterapista che pretende di operare in maniera flessibile, adeguando la sua terapia ai bisogni del paziente, assume in tal modo una varietà di ruoli. Con un paziente è l'ipnotizzatore che ipnotizza; con un altro, l'amico solidale che rassicura; con un terzo, il medico che prescrive tranquillanti; con un quarto, il classico analista che interpreta e così via. Molti psichiatri esercitano in questo modo ed è possibile che aiutino alcuni dei loro pazienti. Ma il risultato dell'efficacia terapeutica, misurato secondo i criteri tradizionali, è del tutto irrilevante ai fini di questa discussione. Il punto è che lo psicoterapista eclettico è, il più sovente, l'interprete di un ruolo; egli indossa una varietà di abiti psicoterapici ma non ne possiede alcuno e generalmente non si sente a suo agio in nessuno di essi. Anziché essere esperto in una molteplicità di tecniche terapeutiche, egli soffre di ciò che, con Erikson, possiamo considerare «una diffusione dell'identità professionale». (Erik H. Erikson, The Problem of Ego Identity, «Journal of The American Psycoanalytic Association», IV (1956), 56-12.) In conclusione, il terapista che cerca di essere tante cose per tanta gente diversa, può essere niente per se stesso; egli non è d'accordo con nessun particolare metodo di psicoterapia. Se si imbarca in una psicoterapia intensiva, è probabile che il suo paziente si accorga di tutto ciò.

L'identità psicoterapeutica autentica

In contrasto col terapista la cui identità professionale è "diffusa", esiste il terapista dell'identità ben definita e costante. Ai nostri fini attuali, non importa quale terapia egli pratichi. Ciò che importa è che essa non sia una maschera o una interpretazione, ma un'espressione della sua vera personalità; in altre parole che il suo stile terapeutico e il suo stile personale siano fondamentalmente simili (naturalmente, ciò non significa che non vi siano sostanziali differenze tra i rapporti dello psicoanalista coi pazienti e quelli coi suoi amici).

E' opportuno ricordare a questo punto che Freud abbandonò l'uso delle correnti faradiche deboli nel trattamento delle nevrosi, non solo perché non erano efficaci ma perché non poteva sopportare la frode in esse implicita. Allo stesso modo scartò l'ipnosi, non solo perché non dava risultati soddisfacenti, ma perché si rese conto che la sua personalità non si adattava ad essa; il ruolo autoritario e intrusivo dell'ipnotizzatore non era fatto per lui. Nello sviluppare il metodo di cura psicoanalitico, Freud seguì le proprie esigenze, non quelle dei suoi pazienti; egli pretese un metodo psicoterapico che fosse inflessibilmente penetrante e veridico.

Le modifiche apportate da Harry Stack Sullivan alla tecnica analitica riflettono le sue esigenze per un rapporto con i pazienti più personale di quanto non fosse possibile in analisi. Sullivan era una persona più solitaria e più isolata di Freud; usava i suoi pazienti come compagni ed amici molto più di quanto non facessero Freud o i primi freudiani. Ancora una volta questo non significa che la tecnica usata da Sullivan fosse cattiva o inefficace (probabilmente per molti schizofrenici era esattamente il contrario); significa solo che non era psicoanalitica.

Queste tecniche e poche altre sono il prodotto di autentiche identità terapeutiche; esse incarnano una chiara dedizione a particolari valori umani. Al pari di Lutero, psicoterapisti come Freud, Adler e Sullivan, dicono: «Eccomi, questo è il mio sistema di lavoro e nessun altro». In larga misura dunque i metodi psicoterapici sono dati autobiografici relativi ai terapisti che li praticano. Questa dello stile terapeutico è una costatazione così ovvia per quanto riguarda i tre grandi pionieri, Freud, Adler e Jung, che ci si può soltanto chiedere come mai sia stata trascurata. Ma forse questo fenomeno non è semplicemente sfuggito; può essere stato negato per confermare l'idea che i clienti sono persone malate che gli psicoterapisti cercano di curare con diversi metodi di trattamento. (A mio avviso, queste considerazioni aiutano a dissipare il mistero dei successi di molti psicoterapisti non analitici. Se autentici, anche i terapisti antianalitici fanno probabilmente meglio di quegli analisti, formalmente accreditati, che si limitano a impersonare i loro ruoli terapeutici. Per un ritratto pungente e satirico, ma ben disegnato, dello psicoanalista non autentico, si veda la storia delle tribolazioni del "Dr. Blauberman" di Lillian Ross, Vertical and Horizontal, Simon and Schuster, New York 1963.)

A causa del persistente influsso del pensiero medico sulla psicoterapia, definizioni esplicite della prassi psicoterapeutica tendono a essere condannate come un inutile rigidità. Tecniche psicoterapeutiche specifiche sono in tal modo spesso svalutate, anche dai loro creatori, perché il loro uso è limitato. Persino Freud fu vittima di questo modo di pensare: credeva che la psicoanalisi fosse utile solo per gli isterici e per alcuni altri nevrotici, ma non per i pazienti affetti da depressione o schizofrenia.

Ma qui non c'è posto per un simile tipo di pensiero quasi medico. L'evidenza suggerisce che quando le varie forme di psicoterapia sono chiaramente identificate, ognuna attirerà, e quindi sarà utile, solo a una certa classe di persone. Sono convinto che ciò sarà vero, non solo per la psicoanalisi, ma anche per altre forme di psicoterapia. L'obiettivo di un particolare metodo psicoterapeutico è limitato non tanto dalla natura della "malattia mentale" del cliente, quanto dalla sua educazione, dai suoi interessi e dalla sua scala di valori. Persone diverse, non malattie mentali diverse, richiedono differenti metodi psichiatrici. Poiché gli psicoterapisti non possono adeguare i loro metodi alle "esigenze" dei loro clienti, l'unica soluzione razionale sta nell'identificare chiaramente i terapisti. I clienti saranno allora in grado di trovare terapisti i cui metodi siano compatibili coi loro interessi e i loro criteri. Senza un tale accordo su regole minime di base, non potrà esservi un autentico incontro psicoterapico fra cliente e terapista.

Il terapista autonomo di fronte al terapista eteronomo

Ci sono molte identità psicoterapiche che sono autentiche, ma ve ne è solo una che è psicoanalitica. Cosa distingue questo ruolo come identità terapeutica? Per meglio rispondere a questa domanda, è forse utile contrapporre il terapista autonomo alla sua controparte, il terapista eteronomo.

Il terapista autonomo è, prima di tutto, un terapista «guidato dal suo intimo». Egli assume una particolare posizione professionale e decide cosa farà e cosa non farà nel rapporto coi clienti. Questa decisione dipenderà principalmente non da ciò che il paziente desidera, né tantomeno da ciò che il terapista ritiene necessario al paziente, ma piuttosto da quello che il terapista, in quanto tale, ritiene un'attività professionale adeguata a se stesso. In un senso assai profondo, un simile terapista non lo si assume; non lo si potrà comperare né coi soldi, né coi lamenti e con la sofferenza.

Il terapista eteronomo è, invece, "guidato da fattori esterni". A questo proposito egli si avvicina di più a ciò che è considerato il ruolo tradizionale dello psichiatra; egli "risponde" alle necessità del paziente, dei suoi parenti, della società, insomma di tutti. Ad esempio, se il paziente lamenta di essere triste, lo psichiatra può rispondere prescrivendogli "una cura antidepressiva"; se un marito lamenta che la moglie è depressa e potrebbe uccidersi, lo psichiatra può rispondere facendo ricoverare la moglie.

Il primo dovere di un terapista autonomo è quello di prendersi cura di se stesso; con ciò intendo dire che deve proteggere l'integrità del suo ruolo terapeutico. Se fallisce in questo, non potrà "occuparsi" del paziente al quale promette di essere un particolare tipo di oggetto (contrattualmente attendibile). Come cercherò di provare, le aspirazioni del cliente verso l'autonomia possono essere facilitate dal terapista solo se quest'ultimo si comporta in maniera autonoma verso il paziente. In questo modo egli tende a guidare, ma non tuttavia a forzare, il paziente a comportarsi in forma autonoma. In breve, Io psicoterapista che desidera praticare terapia autonoma, non può cercare di dare un senso alla propria vita attraverso il soddisfacimento dei bisogni terapeutici addotti da altre persone.

Il terapista eteronomo affronta il suo paziente, e nel suo "paziente" tutti - dagli individui alle famiglie e ai gruppi fino alla società nel suo insieme, come se dicesse: «Dimmi di cosa soffri. Io ti curerò». Egli si offre come terapista onnicompetente. Se non sa fare qualcosa, almeno ci proverà (a differenza di alcuni dei suoi "irresponsabili" e "rigidi" colleghi i quali ammettono la propria ignoranza e impotenza).

Il terapista eteronomo troverà quindi la sua vocazione nel cercare di soddisfare le "necessità" dei pazienti (o di altri). Egli tenderà a trovare il significato della propria vita nelle necessità reali o supposte di quelli che lo circondano.

Il rischio principale di questo tipo di atteggiamento psicoterapeutico è che il terapista proietterà le proprie esigenze sui pazienti. Quando dice «mi prenderò cura di te», in realtà vuole dire «spero che tu ti occuperai di me». Un terapista eteronomo tenderà quindi a praticare una terapia anaclitica e non analitica. I suoi pazienti sono probabilmente "molto malati" ed hanno "un bisogno disperato di lui". Apparentemente i suoi clienti si appoggeranno a lui, nascostamente sarà lui ad appoggiarsi a loro; in realtà si appoggeranno l'uno all'altro, e come lo zoppo che guida il cieco, si "cureranno" vicendevolmente.

Molto tempo fa Freud osservò che uno psicoanalista non deve avere un desiderio troppo forte di "curare". Questa è saggezza. L'identità professionale dello psicoanalista (o psicoterapista autonomo) si distingue per l'assenza di zelo terapeutico o, forse più esattamente, per una sublimazione dello zelo terapeutico. Il suo ideale è quello di cambiare i pazienti solo per quel che essi desiderano cambiare. Per lo psicoterapista autonomo, è più importante che il paziente sia libero di scegliere che non il fatto che egli scelga di essere sano, ricco o sapiente.

3. IL TRATTAMENTO PSICOANALITICO COME EDUCAZIONE

La semantica della psicoanalisi e della psicoterapia ci ha abituato a vedere il cliente come un "paziente" e l'esperto che lo aiuta come un "terapista". Tuttavia, l'idea opposta, che il cliente in cerca di questa forma di aiuto non è malato e che colui che lo aiuta non è un terapista medico, è vecchia quasi quanto la psicoanalisi. Freud non si stancò mai di opporsi agli sforzi di assimilare la psicoanalisi a una psichiatria medica. Il suo giudizio a questo proposito era condiviso non solo da Adler e Jung, tra i pionieri della psicoanalisi, ma anche da altri eminenti psicoanalisti che li seguirono (ad esempio, Wilhelm Reich, Theodor Reik, Erich Fromm e Rollo May).

Perciò l'asserzione che la psicoanalisi è un'impresa educativa e non medica, non è nuova. Nel 1919, Freud asseriva che il dovere dell'analista «era di portare a conoscenza del paziente gli impulsi repressi e inconsci esistenti in lui» (Lines of Advance in Psyco-Analytic Therapy (1919). The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud, Hogarth Press, London 1955, vol. XVII, p. 159); nel 1928 egli ribadì il suo «desiderio di proteggere l'analisi dai medici» (e dai preti) (Psychoanalysis and Faith, The letters of Sigmund Freud and Oskar Pfister a cura di Heinrich Meng e Ernest L. Freud, Basic Books, New York 1963, p. 126);2 e nel 1938, alla fine della sua vita, egli scrisse: «Noi (analisti) serviamo il paziente (...) come un maestro e un educatore». (An Outline of Psychoanalysis (1938), Norton, New York 1949, p. 77.)

Se la psicoanalisi non è un'impresa medica bensì educativa, ugualmente lo sono altre forme di psicoterapia (nelle quali il terapista non ha contatti fisici col cliente e non usa medicine). Oggi quest'opinione è caldamente accettata in alcuni ambienti e vigorosamente respinta in altri. Dietro il problema scientifico posto da questa distinzione sta il problema della lealtà e del potere istituzionali di cui non mi occuperò in questa sede. Basandomi sulle prove e sui ragionamenti presentati ne Il Mito della Malattia Mentale e altrove (Tomas S. Szasz, Human Nature and Psychoterapy, «Comprehensive Psychiatry», III (1962), pp. 268-283, e Psychoanalysis and Suggestion, ibid., IV (1963), pp. 271, 280), considererò il trattamento psicoanalitico come una forma di educazione.

La domanda si può ora porre in questi termini: se la psicoanalisi è educazione, quali analogie esistono fra essa e altri tipi di situazioni educative? In questo capitolo cercherò di far luce su questo problema offrendo una nuova visione dell'educazione e specialmente dell'insegnamento e dell'apprendimento che caratterizzano vari tipi di psicoterapia. Questa analisi sarà basata sulla complessità strutturale della situazione educativa e sul tipo di influenza che il maestro esercita sull'allievo, e costituirà un esempio di sempre più alti livelli di esperienze educative ("psicoterapiche"). Questa classificazione differirà da quelle attualmente in uso in psichiatria poiché queste ultime si basano o sulle intenzioni del terapista (ad esempio, psicoterapie esplorative, ricostruttive, di sostegno, ecc.) o sul materiale esaminato nella situazione terapeutica (ad esempio, analisi dell'Es, dell'Io, del carattere, eccetera).

Gerarchie di apprendimento

Il tipo più semplice di situazione educativa si esprime nel dare e ricevere informazioni. Ad esempio, se ci si trova in una città straniera si possono chiedere indicazioni stradali e riceverle, oppure si potrà domandare come si dice in francese "uccello" ed essere informati che si dice l'oiseau.

Le caratteristiche di questo tipo di situazione educativa, che definisco "protoeducazione", sono:

L'apprendimento è limitato a un tema specifico. Il viaggiatore che riceve delle indicazioni stradali non apprende nulla su qualsiasi altra zona della città.

L'allievo non ha mezzi effettivi per controllare la validità dell'insegnamento al momento in cui lo riceve. La sua scelta si limita ad accettare o respingere l'informazione. Se l'accetta, può provare l'esattezza dell'informazione solo seguendo le istruzioni. Saprà di essere stato ingannato solo dopo aver commesso un errore.

Il metodo d'insegnamento e apprendimento aumenta di complessità quando l'istruttore insegna e l'allievo impara qualcosa di più che un'indicazione; e l'allievo, dall'informazione acquisita, può ancora dedurre altre informazioni. Questo genere di educazione può definirsi "metainformazione". Se uno è in viaggio e ha bisogno di una meta-informazione, chiederà una carta geografica; se sta imparando una lingua, chiederà un dizionario e una grammatica. Le caratteristiche di questa situazione educativa, che chiamo semplicemente educazione sono:

L'apprendimento non è limitato a una questione o tema particolare; al contrario, se l'allievo sa come usare la meta-informaziorie (ad esempio, come usare una carta geografica o un dizionario) sarà in grado di apprendere molte cose, tutte appartenenti alla stessa classe logica (ad esempio come andare da un certo punto a un altro usando la carta geografica).

L'allievo potrà giudicare la validità dell'informazione così acquisita meglio di quanto non possa farlo nella situazione di prota-educazione. Se malgrado il corretto uso della mappa non si ottiene un'informazione corretta, diffiderà di essa la seconda volta; e se l'errore si ripeterà, sarà ancora più cauto. In breve, la fiducia dell'allievo nella validità della mappa si svilupperà nel corso di un certo lasso di tempo, attraverso un suo uso ripetuto e soddisfacente.

La maggior parte delle situazioni di insegnamento-apprendimento che ci sono familiari, ricadono entro queste due categorie. In verità, esiste un qualcosa definibile come "metaeducazione"? Nell'esempio dell'allievo che riceve indicazioni e quindi un dizionario e una grammatica, cosa riceverebbe o imparerebbe nella situazione meta-educativa? La risposta è: un catalogo o una lista di libri con le istruzioni per il loro uso. Qualora l'allievo volesse parlare un'altra lingua o acquisire altre nozioni, non dovrebbe chiedere consigli né attendere che gli venga dato un dizionario. Saprebbe già cosa fare e come farlo. Capirebbe inoltre che, per raggiungere il suo scopo, dovrà usare il metodo e l'attrezzatura nel modo dovuto. Cercherò ora di dimostrare che l'apprendimento di come si impara, cioè la metaeducazione, è un importante aspetto della psicoanalisi.

Le caratteristiche di questo tipo di situazione educativa, la "metaeducazione", sono:

L'apprendimento non è limitato a una singola classe di argomenti. Al contrario, il meta-insegnante insegna all'allievo come egli ha imparato e quali conseguenze personali e sociali derivano dal suo stile di apprendimento.

Scopo della metaeducazione è insegnare e imparare circa l'insegnamento e l'apprendimento.

Poiché lo scopo della metaeducazione non è impartire informazioni effettive, la verità o falsità delle comunicazioni del maestro non è una questione rilevante. Il dovere del maestro è aiutare l'allievo ad acquisire una prospettiva metaeducativa nei confronti di se stesso. Di conseguenza la sua efficienza va misurata nei termini se l'allievo raggiunge il suo scopo, o più esattamente, sino a che punto.

Resta da notare un importante corollario di queste tre operazioni educative. In ognuna, l'educatore (il terapista) comunica a due livelli: esplicitamente, trasmette un contenuto informativo; implicitamente, insegna un metodo di apprendimento. Nel caso della protoeducazione, il maestro procura le indicazioni e incoraggia l'allievo a imparare chiedendo una guida; nell'educazione, fornisce un insieme di conoscenze e insegna all'allievo a imparare attraverso un metodo di fare da sé; infine, nella meta-educazione, fornisce un sistema per organizzare le conoscenze e incoraggia l'allievo a usare un metodo di apprendimento più autonomo e critico.

Apprendimento, psicoterapia e psicoanalisi

Applichiamo ora i concetti di protoeducazione, educazione e metaeducazione ai vari tipi di psicoterapia.

Non sono mai mancati coloro che dicono che tutta la psicoterapia, ivi inclusa la psicoanalisi, è suggestione. Se con questo intendono il dare e l'ottenere indicazioni (o protoeducazione), la loro prospettiva della psicoterapia è assai limitata. Quest'opinione è così semplicistica e manifestamente falsa che non merita alcuna considerazione.

Molti psichiatri e psicologi sostengono che il trattamento psicoanalitico è una forma più sofisticata di educazione: il paziente non riceve indicazioni, ma gli vengono insegnate alcune cose su se stesso che prima non sapeva (ad esempio sul suo inconscio, sul. suo complesso edipico, ecc.). Questa era in essenza l'opinione di Freud. Fino dove arriva, è valida: ma non ci porta molto lontano.

La mia principale obiezione a quest'idea è che essa sostiene, ritengo erroneamente, che lo psicoanalista è un maestro più o meno simile agli altri, differendo solo per la materia che insegna. Secondo la psicoanalisi classica, egli insegna al paziente qualcosa della sua primitiva situazione familiare, il complesso di Edipo, la sessualità infantile, i sogni, il transfert e la resistenza. Secondo Sullivan, egli insegna la storia e le vicissitudini dei rapporti interpersonali. Se l'analista espletasse soltanto queste funzioni, il suo ruolo non differirebbe gran che da quello di altri maestri.

Vediamo di mettere a fuoco le differenze piuttosto che le analogie tra lo psicoanalista e gli altri maestri. In generale, i maestri insegnano le così dette materie come la storia, la geografia, la fisica, eccetera, e ad essere abili nel ballo, nel nuoto, nella guida e così via. L'analista, naturalmente, fa entrambe le cose: insegna contenuti, come abbiamo già visto, e non può fare a meno di insegnare anche certe abilità. Ma non è tutto. Ritengo che il contributo specifico dell'analista al processo analitico stia, non tanto in ciò che insegna, quanto nel portare ad un nuovo e più alto livellò discorsivo e di discernimento, la situazione insegnamento-apprendimento.

Siamo ora pronti a precisare i processi educativi che distinguono la psicoanalisi dalle altre forme di psicoterapia. Per cominciare, lo psicoanalista evita di dare indicazioni. Questo non vuol dire, tuttavia, che l'analizzando non utilizzi un tal genere di apprendimento: di solito ne fa uso. La condotta dell'analista e i suoi valori possono servire da modelli che il paziente può scegliere da imitare; se lo fa, apprende tramite indicazioni. Senza dubbio, questo genere di guida non si esprime con direttive verbali o esortazioni, ma con l'esempio.

Benché l'analista non debba dare indicazioni, non può proibire al paziente di usare ciò che conosce del terapista come se fosse una indicazione. Nell'analisi, il solo mezzo adeguato per ridurre al minimo questa forma di apprendimento è di interpretarlo, e interpretarne le basì al paziente.

La maggior parte delle forme di psicoterapia non-analitica insegnano mediante indicazioni. Se il terapista ha a che fare con una situazione acuta e se il contatto terapeutico è breve, questo può essere legittimo, così come è ragionevole dirigere da una stazione all'altra un viaggiatore che cambia treni in una grande città. Se tuttavia il forestiero decidesse di rimanere per un po', e desiderasse diventare indipendente senza dover richiedere continue indicazioni, la cosa migliore sarebbe dargli una pianta e, se necessario, insegnargli ad usarla. Allo stesso modo, aiutando un paziente a imparare mediante l'educazione psicoterapeutica (meta-indicazioni) si elimina il suo bisogno di ripetuti consigli. Questo è ciò che rende l'educazione utile per il paziente che voglia emanciparsi dal rapporto anaclitico e pericolosa per il terapista che desideri incoraggiare tali rapporti.

Educazione, in questo particolare significato, significa meta-indicazione. Gran parte dell'insegnamento e dell'apprendimento in analisi, appartiene a questa classe. Ad esempio, tramite la decodificazione dei suoi sintomi e dei sogni da parte dell'analista, il paziente apprende le proprie preoccupazioni e tendenze non riconosciute ("inconsce"); e attraverso l'interpretazione dei suoi transfert, ottiene il paziente un inventario delle sue principali strategie interpersonali, delle loro origini e dei loro scopi. Con tutti questi sistemi, il maestro analitico (terapista) dà al suo allievo (paziente) più di quanto non dia il terapista che fornisce indicazioni. E tuttavia, in un certo senso, dà anche meno, perché esige all'allievo di crearsi la propria strada dalla meta-indicazione all'indicazione.

L'insight o comprensione analitica può essere adibito a vari usi: la scelta sta al paziente. Ancora una volta è come dare a un turista la pianta di una città sconosciuta; il viaggiatore analitico può orientarsi con una pianta, ma non accertare dove debba andare.

Un'analisi condotta correttamente, presupponendo cioè un analizzando interessato a questo genere di apprendimento e un analista competente nell'analizzare, è una duplice esperienza di apprendimento: il paziente apprende su se stesso e sull'autoanalisi. Sfortunatamente, questo fatto è trascurato dalla moderna psicoanalisi, in gran parte a causa del progressivo discredito dell'idea dell'auto-analisi. Anche se la situazione analitica e l'esperienza analitica del paziente richiedono due persone, un analista e un analizzando, questo non significa che l'autoanalisi sia impossibile. Ad esempio, una persona può analizzare se stessa in relazione a qualcuno che non sia l'analista. Tuttavia non desidero soffermarmi oltre su questo argomento.

Sebbene sia tipico dell'analisi, questo genere di apprendimento (mediante educazione o meta-indicazione) non è limitato ad essa. Alcune occupazioni professionali, tradizionalmente considerate come sublimazioni, possono offrire opportunità per una tale educazione. Sebbene le ansie e i dubbi sessuali dell'adolescenza possano condurre all'ipocondria e alla ricerca di consigli su disturbi immaginari, possono anche portare a scegliere come carriera la medicina. In quest'ultimo caso, lo studente apprenderà non solo i fatti sessuali specifici, ma anche il sesso in forma più astratta e complessa attraverso l'antropologia, l'endocrinologia, e la psicologia.

Ci rimangono ora da chiarire gli elementi meta-educativi della psicoanalisi. Secondo la mia opinione, l'operazione fondamentale della psicoanalisi è quella di ripartire le informazioni tra i partecipanti. Questo, naturalmente, è vero per tutti i tipi di psicoterapia. Ciò che distingue la psicoanalisi è il fatto di abbracciare tutti e tre i tipi di apprendimento dando speciale rilievo all'apprendimento dell'imparare (metaeducazione).

Altri metodi di psicoterapia abbracciano meno categorie o ne sottolineano solamente una: di solito, l'indicazione (protoeducazione). Il principale metodo di meta-educazione psicoanalitica è l'analisi della situazione terapeutica e di situazioni extra-analitiche nelle quali il paziente svolge un ruolo significativo. Ognuno di questi "giochi" deve essere esaminato minuziosamente per mettere a nudo la sua struttura; in altre parole, per accertare chi impone le regole e di che regole si tratta, a chi sono imposte e per quale motivo.

Il contenuto del trattamento psicoanalitico

Da un punto di vista teorico, la forma del trattamento psicoanalitico è più importante del suo contenuto. Questo perché le regole del gioco analitico possono essere stabilite in generale, mentre le singole mosse dei giocatori debbono essere descritte particolareggiatamente. Malgrado ciò, le regole di questo gioco hanno ricevuto assai minore attenzione da parte della letteratura psicoanalitica di quanta ne abbia ricevuta il contenuto del gioco stesso. Viceversa, in questo libro, ho sottolineato maggiormente il comportamento strategico dell'analista e dell'analizzando, i loro negoziati e il contratto col quale si impegnano, piuttosto che le manifestazioni del paziente e le interpretazioni dell'analista. Anche se ho relegato in secondo piano il contenuto conoscitivo del rapporto analitico, esso merita tuttavia seria considerazione.

La storia del trattamento psicoanalitico

Come tante altre cose in psicoanalisi, il trattamento psicoanalitico può essere compreso solo da un punto di vista storico. Man mano che il lavoro di Freud procedeva, ci furono cambiamenti nelle sue idee e in quelle degli altri terapisti circa il contenuto della terapia analitica.

Il risultato fu una grande confusione e un disaccordo su cosa la psicoanalisi "realmente" fosse e cosa meritasse tale nome. In verità, nei primi giorni della psicoanalisi molte divergenze erano centrate su cosa lo psicoanalista dovesse "insegnare" al paziente.

Nel periodo intercorso fra la pubblicazione degli Studi sull'isteria e L'interpretazione dei sogni, Freud lavorò sotto l'influenza dell'ipnosi e del metodo catartico. Il suo principale obiettivo terapeutico era scoprire i ricordi "traumatici" del paziente e renderli coscienti, vale a dire aiutare il paziente ad accettarli. Il fondamento razionale di questo metodo sta nella supposizione che la nevrosi del paziente fosse causata da ricordi traumatici inconsci, il cui effetto poteva essere dissolto rendendoli coscienti. Inoltre Freud supponeva, sulla base di buoni indizi, che i ricordi traumatici fossero di natura sessuale. Di qui che durante il periodo iniziale della psicoanalisi (prima del 1900), i ricordi sessuali traumatici del cliente fossero il principale argomento di istruzione.

Questo tema specifico e limitato che l'analista insegnava e l'analizzando imparava, crebbe rapidamente in molte direzioni. Ben presto Freud scoprì che ciò che considerava delle esperienze del paziente erano in realtà delle fantasie. Questo allargò la portata della terapia analitica onde includere le fantasie del paziente e i suoi sogni.

Successivamente ci si rese conto che la cosiddetta malattia nevrotica non era un fenomeno isolato, causato da uno o più eventi traumatici del passato, bensì un aspetto dell'intera personalità del paziente. Divenne quindi significativa la storia di tutta 'l'infanzia e non solo di partì di essa. A questo punto, la ricostruzione della nevrosi infantile diventò lo scopo principale del trattamento. Né questo bastò. Ben presto l'attenzione di Freud si rivolse alle difficoltà che il paziente, o le sue cosiddette difese inconsce, ponevano ai terapista che tentava di capire la nevrosi infantile dell'analizzando. In rapporto a ciò Freud stabilì che scopo della terapia analitica era quello di superare le resistenze interiori del paziente al trattamento. Dalla scoperta iniziale del metodo psicoanalitico, trascorsero circa tre decadi prima che l'analisi del transfert divenisse il tema centrale della situazione analitica.

Questo abbozzo dello sviluppo del pensiero di Freud, riflette i cambiamenti delle materie che l'analista, come maestro, si aspettava che l'analizzando, suo allievo, apprendesse. Come faceva l'analista a decidere quale di questi argomenti era importante? E quale il più importante, se non erano tutti egualmente significativi?

Il crescente espandersi dei temi che il maestro-analista si aspettava che l'analizzando-allievo dovesse approfondire, portò la psicoanalisi ad evolversi in due direzioni principali. Una fu il marcato prolungamento del trattamento analitico (oggidì, l'inflazione dell'investimento di tempo richiesto all'analizzando ha oltrepassato ogni limite ragionevole, ma la fine non è ancora in vista). L'altra, fu una rigogliosa crescita delle fazioni psicoanalitiche, basata, in gran parte, sulla divergenza di opinioni circa il tema più importante dell'istruzione analitica.

La storia di questo frazionismo, che ancora infuria, costituisce un inventario degli argomenti che i vari analisti consideravano interessanti, importanti o indispensabili per l'analisi. Occorre un atteggiamento prospettico nei confronti di questa controversia, per capire la psicoanalisi come impegno educativo.

Una volta sistemati i disaccordi tra Freud, Jung e Adler, l'identità della psicoanalisi come metodo terapeutico e come professione sembrava ben definita. Tuttavia, la grande quantità di argomenti che potevano essere inclusi nel repertorio dell'analista-istruttore produssero una nuova serie di dibattiti e di secessioni.

Per primo ci fu Sandor Ferenczi, con la sua idea di abbandonare l'analisi del transfert e, in realtà, ogni tipo di analisi, a vantaggio di un indugiare comprensivo sulle passate delusioni del paziente facendo eroici sforzi per annullarle. Successivamente venne Otto Rank, con la sua nozione del trauma della nascita e le pretese implicazioni terapeutiche; quindi Melanie Klein con le sue opinioni circa il significato degli engrammi preverbali e delle posizioni depressive e paranoidi precoci; Harry Stack Sullivan, con la sua enfasi sul presente piuttosto che sul passato; Sandor Rado, col suo concetto di nevrosi come disadattamento biologico più che come creazione psicologica: e infine Franz Alexander, con la sua nuova edizione della teoria traumatica della nevrosi, secondo la quale il paziente soffre di vari atteggiamenti genitoriali che l'analista deve riparare con "esperienze emozionali correttive".

Un modo più tradizionale di suddividere il campo della tematica analitica è per dicotomia. Si ottengono così materiali coscienti e inconsci; materiali dell'Es e dell'Io (e Super-Io) nonché i loro derivati; impulsi e difese; istinti e influenze sociali, e così via. Alcuni analisti pretendono che l'analisi di un membro di queste coppie è più importante che l'analisi dell'altro, o che uno debba essere analizzato prima dell'altro. Il mio punto di vista è che questo enfatizzare ogni cosa serva a distinguere diversi tipi di psicoanalisi, ognuno basato sul tema che il terapista considera particolarmente significativo per una efficace terapia.

Qualunque siano le convinzioni teoretiche dell'analista, le fantasie inconsce dell'analizzando hanno un significato pratico solo in quanto egli le esprime o le comunica. Questo può avvenire tramite lamentele, sintomi, sogni, allusioni, transfert, atti non verbali e l'intero stile di vita del paziente. Gran parte del lavoro dell'analista consiste in tentativi di comprendere e decifrare comunicazioni occulte del paziente e nell'incoraggiarlo, mediante il contatto analitico, a rivolgersi all'analista in maniera chiara ed esplicita, nel suo linguaggio di ogni giorno, e a decifrare i suoi messaggi occulti.

Nel presentare questo breve panorama storico del trattamento psicoanalitico, il mio scopo non era di condensare in poche frasi concise l'enorme massa della letteratura psicoanalitica accumulatasi negli ultimi settanta anni. Ho semplicemente cercato di porre nella giusta prospettiva storica la domanda: «Cosa insegna lo psicoanalista?» e le molte risposte che sono state offerte. L'espansione della materia dell'analisi non è di per sé un cattivo segno. Dal 1900 in poi, anche la portata di campi come la fisica e la medicina si è allargata. C'è comunque una differenza. In fisica e in medicina, i nostri valori sono fondati su fatti e stabiliti dalla prassi; sappiamo cos'è buono e cos'è cattivo, cos'è progresso e cos'è regresso. Ma nella psichiatria, nella psicoterapia e, purtroppo, anche nella psicoanalisi, manchiamo di riferimenti di questo tipo. E' necessario quindi stabilire previamente criteri ben definiti per giudicare la psicoterapia. Finché non lo faremo, non potremo valutare le diverse proposizioni ma continueremo invece a denigrare i nostri avversari, ingiuriandoli, e a valorizzare la nostra posizione attraverso il proselitismo.

Riassumendo, durante le prime decadi della sua esistenza la psicoanalisi consistette solo nell'analisi delle ricostruzioni. Gradualmente (negli anni venti e, più sistematicamente, negli anni 30), il trattamento psicoanalitico assunse il significato di analisi della nevrosi di transfert. La portata educativa dell'analisi era quindi stata elevata a un più alto livello e includeva, oltre alle produzioni del paziente, il rapporto terapeutico stesso. La psicoanalisi non ha bisogno, né può, in verità, fermarsi qui. Un'ulteriore estensione del suo ambito educativo è implicito nei suoi disegni, principi e nel suo spirito. L'indagine analitica deve ripiegarsi su se stessa; "la terapia" deve includere pertanto l'analisi della situazione analitica. Solo in questo modo è possibile raggiungere l'obiettivo classico della psicoanalisi: la completa emancipazione del paziente dalle forze che lo legano alla persona dell'analista.

Lo psicoanalista come esperto nel "rimosso"

Anche se il precedente studio storico può aver chiarito in qualche modo la natura del dialogo psicoanalitico, persiste l'interrogativo: «Quale dovrebbe essere il contenuto delle comunicazioni tra analizzando e analista?». La risposta a tale domanda non è agevole. La cosa migliore è analizzare il problema che essa comporta.

Desidero ancora una volta sottolineare che il contenuto della transazione terapeutica deve essere in maggior parte stabilito dal paziente. Ciò è vero particolarmente all'inizio del rapporto. Il cliente deve sentirsi libero di esplicitare le ragioni per le quali ha consultato il terapista e le modalità con le quali si aspetta che il terapista lo aiuti. Anche quando il trattamento prosegue, il terapista deve evitare (nei limiti del possibile), di imporre al paziente i suoi interessi e ile sue teorie, e deve lasciarlo libero di seguire la propria rotta.

Ciò non significa sostenere una tecnica non direttiva. Il terapista autonomo non è un'eco silenziosa del paziente; né tantomeno, è un analista "passivo" che risponde soprattutto con «Hmm...» «Sì, capisco...» «Sì, vada avanti...», o col silenzio. L'analista, così come io concepisco il suo compito, partcipa attivamente e in maniera significativa a un particolare tipo di dialogo. Dopo che il paziente ha stabilito il tema, l'analista, anche se meno attivo dell'analizzando, non è in alcun modo inattivo. Come contribuisce allora al dialogo?

A questo punto, incontriamo un altro aspetto familiare della funzione dell'analista come maestro. Mi riferisco all'analista specialista in fatto di repressioni o di "inconscio". Il paziente, ad esempio, può avere delle preoccupazioni circa i suoi rapporti con la madre e col padre. Egli descrive l'attuale situazione con loro e comincia quindi a ricordare la propria infanzia e il ruolo che i genitori vi hanno avuto. Per definizione, questa è la versione cosciente che il paziente ha dei suoi rapporti coi genitori; questo è tutto ciò che può dire, tutto ciò che sa.

Il compito dell'analista è ascoltare; ma che cosa? Ascoltare le incongruenze tra ciò che il paziente dice e come agisce; i sentimenti e i pensieri non conosciuti; il racconto dei rapporti del paziente con altre persone che non siano i genitori; e cogliere il suo comportamento verso l'analista, il transfert. In tutti questi modi (e in altri su cui sorvolo), l'analista cerca di trascendere l'esposizione cosciente della situazione così come la presenta il paziente e di costruire un'altra versione meno fittizia. Il terapista può realizzare ciò osservando per lunghi periodi e in tutti i dettagli i giochi reali che il paziente tende a giocare, piuttosto che accettare le spiegazioni che egli ne da.

Quello che descrivo è naturalmente ciò che in psicoanalisi di solito è definito "rendere cosciente l'inconscio" vale a dire sostituire le costruzioni coscienti (ma "false") del paziente della propria realtà, con le versioni inconsce (ma "vere") della stessa. Per quanto mi riguarda sono d'accordo con l'idea di base di questa formulazione, ma non con le impressioni che probabilmente essa crea.

I concetti psicoanalitici tradizionali, concepiti in termini di Es, Io, Super-Io, inconscio e così via, creano l'impressione che tutte le informazioni necessarie per una completa analisi siano riposte nel paziente. Il dovere dell'analista è di "liberare" le informazioni in modo che l'analizzando possa comunicarle all'analista. Coloro che sostengono questa opinione suppongono che, in aggiunta alle idee coscienti di avvenimenti, persone e rapporti, la gente possegga inoltre (risposte non si sa dove) un'altra serie o forse diverse altre serie di concetti degli "stessi" avvenimenti, persone e rapporti. Come un archeologo che scopra una città sepolta sotto un'altra, l'analista-esperto in "terapia che svela" - scopre i ricordi e gli affetti inconsci del paziente che erano sepolti sotto le sue "razionalizzazioni" coscienti.

In realtà, la situazione è diversa. Come tutti, il paziente vive in base a ciò che sinceramente ritiene essere la verità (per semplificare l'esposizione prescinderò dal paziente che mente). Egli vive secondo una visione più o meno fittizia della realtà. Ma è ciò che tutti facciamo. Per molti aspetti della vita, il paziente che viene in analisi è probabilmente non meno onesto, non meno sincero né meno realista della maggior parte della gente e forse lo è anche di più.

Il punto è che entrambi, paziente e analista, sono o dovrebbero essere interessati a quegli aspetti della vita del paziente che rivelano discrepanze. Queste ultime si manifestano in svariati modi: con disturbi e sintomi e con l'adattamento del paziente ad essi; con contraddizioni fra quanto affermato dal paziente in momenti diversi; con incoerenze tra fatti e parole e così via. E' in questi momenti che l'analista deve intervenire nel dialogo; egli contesta le spiegazioni fornite dal paziente; fa domande; suggerisce ipotesi alternative per spiegare la condotta del paziente. Se questi interventi sono appropriati e se il cliente è in grado di vedere se stesso in una nuova luce, allora, pian piano, si opereranno dei cambiamenti nella sua personalità. Egli si vedrà con occhi nuovi (forse, all'inizio, presi in parte in prestito dall'analista); osserverà nuovi aspetti; cambierà e vedrà se stesso e gli altri in maniera diversa. La sua nuova visione delle cose è ciò che abbiamo chiamato il suo «inconscio». Come per la maggior parte delle parole, sarà un termine adeguato solo se lo intenderemo a dovere e lo useremo con attenzione.

Cosa intendo dire affermando che l'analista è uno specialista che insegna al paziente "il rimosso", "l'inconscio", "il non accettato" e "il non esplicito"? Il termine "rimosso" denota una classe inconsueta. (Vedere Sigmund Freud, Repression (1915), The Standard Edition, voi. XIV, pp. 141-158; The Unconscious (1915), ibid., pp. 159-215.)

Essa differisce da altri tipi di materie come l'algebra, la storia antica o il latino. La personalità dell'allievo non altera queste materie, anche se la personalità dell'insegnante può introdurre in esse delle variazioni. Praticamente, tuttavia, queste materie consistono in gran parte, in informazioni esterne alla personalità sia dell'allievo che del maestro. Ma nella classe di fatti denominati "rimozioni", il contenuto varia in funzione della personalità dell'allievo. La materia specifica non solo varia da un paziente all'altro, ma anche tra pazienti di diverse estrazioni culturali e sociali. Dobbiamo ricordare che la rimozione è qualcosa che ognuno fa per se stesso. Tuttavia, i temi che il paziente deve reprimere sono determinati in gran parte dalla sua famiglia e dalla sua cultura. Nella Vienna dell'età vittoriana, dove Freud fece le sue prime osservazioni, era la sessualità infantile e, fino a un certo punto, anche la sessualità adulta ad essere repressa; da una persona di una certa levatura ci si aspettavano le opportune finzioni, dietro le quali nascondere tali sconvenienze. Ma altri argomenti delicati, che venivano trattati con slealtà altrove, non erano soggetti alla repressione nella Vienna di allora: ad esempio i raggiri finanziari negli alti circoli governativi o i conflitti sociali tra gruppi di minoranze nazionali o religiose.

La repressione è dunque una particolare forma di obbedienza e, pertanto, il risultato di una protoeducazione. E' facile osservare che la persona alla quale è stato insegnato questo genere di obbedienza (il così detto isterico), può agevolmente essere istruita a obbedire al comando di un'altra autorità (le indicazioni del terapista suggestivo). In un certo senso, l'ipnosi è la "logica" terapia dell'isterismo.

Queste considerazioni aiutano a spiegare perché la psicoanalisi iniziò come un'impresa socialmente "sovversiva» e perché, per restare fedele al suo mandato storico e intellettuale, deve rimanere tale. Il suo compito era, e rimane, quello di "demistificare" le finzioni sociali e personali. Freud, naturalmente, cercò di distruggere i miti vittoriani della famiglia e del sesso predominanti ai suoi tempi. Oggi, negli Stati Uniti, non sono questi i settori principalmente avvolti nelle repressioni sociali e personali; di conseguenza, l'attenzione dell'analista non può essere diretta soltanto e neppure prevalentemente a questi temi.

4. IL TRATTAMENTO PSICOANALITICO COME GIOCO

Il gioco come modello nelle scienze sociali

Il gioco è per la moderna scienza sociale quello che il sistema solare è stato per i primi fisici atomici. Nei due casi, un avvenimento o un sistema che ci sono familiari vengono usati come modello per aiutarci a visualizzare, comprendere e trattare un avvenimento o un sistema meno noto.

I concetti di "gioco", "ruolo", "regola" e "strategia" sono noti e di provata utilità allo studioso di scienze sociali, sia egli economista, stratega militare o sociologo. Sin ora questi concetti sono stati usati molto più moderatamente dallo psichiatra e dallo psicoterapista, anche se il modello del giocare una partita sembra particolarmente appropriato per chiarire il rapporto tra lo specialista psichiatra ed il suo cliente. Ne Il mito della malattia mentale avanzai una teoria del comportamento personale basata sul suddetto modello, contemplando specialmente la cosiddetta condotta anormale. Desidero fare altrettanto in questo libro per il trattamento psicoanalitico.

Prima di procedere a una discussione sulle qualità formali dei giochi e del giocare, cerchiamo di chiarire gli usi tecnici di queste parole. Naturalmente non uso le parole "gioco" e "giocare" nel loro significato quotidiano, che denota attività ricreative, frivole o divertenti. Ciò che importa non è se una particolare attività sia penosa o piacevole, ma se implica un comportamento che segua delle regole. Poiché, virtualmente, ogni comportamento umano, dalle occupazioni solitarie come l'ornitologia alle attività di massa come la guerra, comporta il seguire delle regole per raggiungere delle mete, possiamo interpretare quasi tutto quello che la gente fa come una forma di partita-da-giocare.

In questo modo il matrimonio, gli affari, la guerra e il trattamento psichiatrico, possono essere tutti considerati dei giochi. Indubbiamente, questo allarga il concetto di "gioco", proprio come il considerare la depressione, l'esaltazione, la solitudine e il suicidio come malattie allarga il concetto di "malattia". La domanda che dobbiamo porci in qualità di studiosi di psicoanalisi e di psicoterapia è la seguente: «Cosa ci aiuterà di più a capire il rapporto analitico: la semantica della malattia e del trattamento o la semantica del giocare-una-partita? Abbiamo provato con la prima; forse ora dovremmo provare la seconda».

Tuttavia non potremo farlo se condanniamo senza riserve il linguaggio della teoria del gioco. C'è una tendenza in questo senso non solo in psichiatria, ma anche in altri rami della sociologia. Così il moderno studioso di strategia militare viene a volte criticato non per quello che fa, ma per il linguaggio che usa. La semantica dell'analisi del gioco, secondo quest'opinione, implica un atteggiamento insensibile nei confronti della violenza e della sofferenza e in tal modo favorisce il conflitto internazionale.

La logica di questo argomento è davvero curiosa: sostiene che, se ci riferiamo alla guerra in termini di "macello" e "strage" ce ne saranno di meno; ma che ci saranno più guerre se ci riferiamo ad esse in termini di "giochi bellici" e "strategie minimax". Il fatto è che la guerra è stata chiamata con molti nomi sgradevoli, nessuno dei quali ha dissuaso la gente dall'intraprendere nuovi conflitti. Anche se assurda, questa argomentazione è pericolosa a causa del suo appello ai sentimenti. Il richiamo emotivo delle parole usate per descrivere ciò che fa la gente è particolarmente pericoloso nelle così dette professioni assistenziali e in nessuna più che in psichiatria.

Nel caso della psicoanalisi (e della psicoterapia) abbiamo le seguenti situazioni: un cliente, insoddisfatto per l'incapacità a far fronte ai propri problemi, cerca aiuto da un esperto preparato ad assistere le persone che desiderano un tale tipo di aiuto. Come dovremmo chiamare il cliente e l'esperto? Li chiameremo, rispettivamente, "paziente" e "terapista" (o "medico"); o li chiameremo invece "cliente" e "analista del gioco" (o "analista delle comunicazioni")?

La semantica della medicina copre immediatamente il rapporto fra l'esperto e il cliente con uno scudo protettivo: il ruolo di terapista è un ruolo dal quale l'esperto può trarre autostima, mentre quello di paziente è un ruolo dal quale il cliente può trarre fiducia. Così il linguaggio della medicina trasmette all'analisi scientifica della psicoterapia un vocabolario che sostiene le aspirazioni dello psicoterapista e del suo cliente. Se vogliamo esplorare le possibilità della teoria del gioco in psicoterapia, occorre essere pronti a rinunciare a questo sostegno semantico.

A causa dell'importante significato connotativo delle parole che usiamo per descrivere il rapporto analitico, si può pensare che il mio uso del vocabolario della teoria del gioco implichi un atteggiamento frivolo, disumanizzato e non terapeutico di fronte al serio problema della cosiddetta "malattia mentale". Respingo questa accusa. Le parole non costano nulla. Chiunque può affermare che si preoccupa di coloro che soffrono e desidera aiutarli. Tuttavia, se vogliamo capire cosa fanno i "guaritori di malattie mentali" anziché starcene davanti a loro in timore reverenziale, dobbiamo giudicare il lavoro dello psichiatra e dello psicoterapista così come giudichiamo il lavoro di chiunque altro: per quello che fanno e non per quello che dicono di fare.

Siamo ora pronti ad accostarci al rapporto psicoanalitico dal punto di vista della teoria del gioco. In questo capitalo cercherò di stabilire i fondamenti teorici di questo approccio, esaminando la natura dei giochi in generale e del "gioco" del trattamento psicoanalitico in particolare e descrivendo brevemente due tipi di persone come giocatori della partita analitica.

Giocare è improduttivo: non crea beni né altri prodotti: permette solo uno scambio di qualità fra i giocatori.

Il gioco è governato da regole applicabili solo a quel gioco, diverse dalle regole di altri giochi e dalle regole della vita reale.

Il gioco è finzione: il giocatore è cosciente di una seconda realtà che separa l'esperienza del gioco dalla realtà delle esperienze della vita reale. (Vedere Roger Callois, Man, Play, and Games, The Frcc Press of Glencoe, New York 1961, pp. 5-10; George H. Mead, Mente, Sé e Società, Universitaria, Firenze 1966; Jean Piaget, Play, Dreams and Imitation in Childhood, Heineman, Londra 1951; T. S. Szasz, Il mito della malattia mentale, cit, parte V. )

Queste caratteristiche sono puramente formali. Non ci dicono nulla sul contenuto del gioco. Per questo, è necessario un resoconto delle regole del gioco e della condotta dei giocatori. Le parti II e III di questo volume intendono fornire tale resoconto del gioco analitico. Come abbiamo già notato, analista e analizzando non hanno ruoli simmetrici in questo gioco; i due non sono "giocatori" nel medesimo senso. In cosa differiscono i loro ruoli formali come giocatori?

La natura dei giochi e del giocare

Le caratteristiche formali dei giochi e del giocare possono essere riassunte come segue:

Giocare è un'attività libera e volontaria. Un giocatore è libero di cominciare a giocare o di smettere. Un gioco al quale si è obbligati a partecipare non sarebbe "un gioco" (anche se potrebbe sempre essere descritto come un genere speciale di "gioco").

Giocare è un'occupazione separata, isolata dal resto della vita. C'è un tempo e un luogo speciale appositamente per il gioco; ad esempio il sabato pomeriggio per il gioco del calcio nelle scuole, Las Vegas e Reno per i giochi d'azzardo.

Giocare è un'attività che ha un'andamento e un risultato incerti. Quando lo svolgimento del gioco ed il suo risultato sono predeterminati, si dice che è stato "truccato".

Un'analisi del modello di gioco della psicoterapia autonoma

L'analizzando "gioca" - l'analista "lavora".

L'analisi di un modello di gioco di psicoterapia autonoma mostra le differenze fra l'attività del paziente e quella del terapista. La psicoanalisi è un gioco (nel senso suindicato) solo per il paziente; per il terapista è un'occupazione. Così dovrebbe essere. Tuttavia, c'è un rischio in questa disuguaglianza delle parti: il terapista può risentirsi che il paziente goda di una posizione meno vincolata e può tentare di privarlo di alcune sue libertà.

Questa è probabilmente la ragione per cui della grande quantità di psicoterapia che si pratica, ce n'è così poca di autonoma.

Nella psicoterapia autonoma, i ruoli del paziente e dell'analista differiscono come segue:

Solo il paziente è libero di giocare o di non giocare. Una volta che il terapista è d'accordo sul contratto, deve rimanere a disposizione del paziente. Anche in un senso più lato il paziente gode di un maggior grado di libertà. Egli può decidere di fare o di non fare un'analisi; può preferire qualche altro genere di aiuto, oppure non volerne alcuno. L'analista, invece, può rinunciare all'analisi solo cambiando la sua occupazione (o, forse, dando una nuova definizione della "psicoanalisi"): la sua posizione è paragonabile a quella del croupier al tavolo della roulette: egli lavora "giocando alla roulette", mentre il cliente gioca alla roulette.

La psicoanalisi è un'attività separata dalla vita reale solo per il paziente, non per l'analista. L'analizzando impiega all'incirca quattro ore alla settimana per fare l'analisi, l'analista quaranta o più. Lo studio del terapista è separato dallo spazio di vita reale del paziente, ma non da quello suo: infatti il terapista può trascorrere nello studio più tempo che in qualsiasi altro luogo.

Il risultato del gioco analitico è più incerto per il paziente che non per l'analista. L'analizzando cerca di raggiungere una trasformazione personale; l'analista di guadagnarsi da vivere.

La situazione analitica ha una qualità fittizia solo per il paziente. Come ho già ricordato, questo accade perché il paziente "gioca" mentre l'analista "lavora".

L'analista è compensato di tutto dalla componente economica della situazione: il denaro fluttua solo in una direzione, dal paziente al terapista. Diversamente dai giochi comuni, la psicoanalisi non è solo economicamente improduttiva per il paziente, ma effettivamente costosa; per il terapista è invece una sorgente di proventi professionali.

Le "modifiche" tipiche della psicoanalisi.

L'aver paragonato il trattamento psicoanalitico a un gioco ci consente di vedere come l'analisi sia stata cambiata e deformata. Alcune di queste modifiche costituiscono il nucleo di nuove scuole di psicoterapia; altre, anche se meno professionalizzate e sistematizzate, sono nondimeno importanti.

La libertà del paziente nel gioco terapeutico può essere ristretta o abolita. Egli può essere forzato a iniziare o a continuare la terapia in vari modi, nei casi estremi mediante un'ordinanza del giudice. Come il gioco obbligatorio cessa di essere gioco, così la psicoterapia forzata cessa di essere autonoma e analitica.

La separazione tra la psicoterapia del paziente e la sua vita extraterapeutica può sfumare sino ad essere annullata. Ciò di solito accade per l'intrusione del terapista nella vita extraterapeutica del paziente. E' responsabilità dello psicoterapista autonomo mantenere un muro impenetrabile tra situazione terapeutica e vita reale del paziente. In questo muro si può aprire una breccia in molti modi; di solito visitando il paziente in ospedale o a casa; parlando coi parenti; dando sue notizie al datore di lavoro, a un amico o ad altri coi quali abbia rapporti significativi; prestandogli o facendosi prestare del denaro o altri oggetti, e così via. Nella misura in cui per il paziente la linea di demarcazione tra psicoterapia e vita reale è incerta, la sua terapia cessa di essere autonoma ed analitica.

Il risultato della psicoterapia, come del resto quello dei giochi ordinari, è incerto. Nei giochi, l'incertezza del risultato è un corollario della libertà del giocatore; è possibile eliminare l'incertezza solo controllando il comportamento dei giocatori. Allo stesso modo il risultato della psicoanalisi, come avventura di autotrasformazione personale del cliente, è destinato a essere incerto per entrambi, paziente e terapista. Se il paziente non può sopportare questa situazione, chiederà al terapista di rassicurarlo e di guidarlo. Qualora il terapista acconsenta e cerchi di diminuire l'ansietà del paziente relativa a tale incertezza, eserciterà un'influenza antitetica agli scopi della psicoterapia autonoma. Una simile rassicurazione può essere acquistata solo al prezzo di restringere la scelta e la responsabilità personale; il paziente che ricorre alla psicoterapia autonoma non deve pagare un prezzo del genere per quello che desidera e lo psicoterapista autonomo non deve vendergli questo genere di aiuto. Spesso il terapista non può sopportare le incertezze inerenti alla psicoterapia autonoma. Potrebbe quindi imporre certe regole di condotta al paziente. Tuttavia, nella misura in cui il terapeuta acquista un controllo sul comportamento del paziente e rende la sua condotta più prevedibile, l'incontro terapeutico cessa di essere autonomo e analitico.

La separazione tra gioco e vita reale si rispecchia nella duplice esperienza di realtà: la realtà primaria della vita di ogni giorno e la realtà secondaria del gioco. La separazione tra le due realtà può cessare, ad esempio, quando una persona diventa "dedita" al gioco d'azzardo e investe in esso tutto il suo interesse, il suo tempo e il suo denaro. Per un individuo di questo genere, la realtà secondaria del gioco diviene da realtà primaria della sua vita. Esiste una separazione analoga tra l'esperienza terapeutica del paziente e la sua vita extra-analitica. La psicoanalisi ha, ed entro certi limiti deve avere, una qualità fittizia o irreale per il paziente. Questo è connesso al fatto che le regole di condotta nello studio dell'analista differiscono da quelle al di fuori di esso. Come ho già detto, questa separazione qualche volta può essere annullata. Se ciò accade, l'esperienza terapeutica perde per il paziente la sua qualità di realtà secondaria. Il rapporto terapeutico diventa allora più interessante e importante di qualunque altra cosa della vita extraterapeutica. I fini della psicoterapia autonoma vengono così frustrati. Senza dubbio questa terapia può "aiutare il paziente", ma non è né autonoma né analitica.

5. Questo riesame delle varie "modifiche" alla psicoanalisi, mette in luce il significato della transazione pecuniaria in questo tipo di terapia. Se l'analista si comporta autonomamente e si astiene dal violare la libertà del paziente nel gioco terapeutico, si priverà delle principali ricompense psicologiche di "coloro che aiutano", vale a dire del diritto e del potere di controllare i suoi "pupilli". E' in questo modo che lo psicoterapista autonomo fornisce al suo cliente la libertà di esplorare e dominare i problemi della sua vita. Il paziente deve pagare l'analista per questo. Anche se l'analista trae una certa soddisfazione non economica dal lavoro analitico (Thomas S. Szasz, On the Experiences of the Analyst in the Psychoanalitic Situation, «Journal of the American Psychoanalytic Association», 4 (1956), pp. 197-223), è difficile vedere come la psicoterapia autonoma possa essere condotta senza che il paziente paghi l'analista per le sue prestazioni professionali.

Che tipo di gioco è la psicoanalisi?

La proposta di considerare la psicoanalisi come un gioco è più simile al fare una promessa che non al mantenerla effettivamente. Ci sono molti tipi di giochi; che genere di gioco è la psicoanalisi?

I teorici del gioco generalmente ne distinguono tre tipi fondamentali: giochi d'azzardo, giochi di abilità e giochi di strategia. Ciascuno di essi può esistere in forma pura o essere mescolato a elementi di un altro tipo.

Ad esempio, il giocare a testa o croce si basa solo sulla fortuna. Giochi di carte complessi come il bridge, combinano elementi di fortuna e di strategia. Le gare atletiche sono esempi di giochi d'abilità, ma raramente avvengono in forma pura. L'esempio classico di un gioco di pura strategia sono gli scacchi.

Gli scacchi, considerati il "gioco principe" da tutto il mondo civile, sono serviti da paradigma ai teorici del gioco. Tuttavia, si tratta di un genere particolare di impresa umana: due persone si cimentano in ciò che può essere definito un "conflitto puro": ciò che è bene per un giocatore è male per l'altro, uno vince e l'altro perde. Così, gli scacchi sono un esempio di gioco così detto di somma-zero. Questo significa che la somma dei "rendiconti" dei due giocatori è zero. Indubbiamente l'eleganza degli scacchi e la sua attrattiva intellettuale stanno in queste qualità. La fortuna non ha alcun ruolo in questo gioco; ogni mossa è decisiva e inequivocabile; nulla, esclusa la strategia di ciascun giocatore, è incerto. Anche il risultato è decisivo: vincita, perdita o patta.

Tuttavia, per quanto bello, il gioco degli scacchi non è un buon modello per molte interazioni umane. Come hanno rilevato i moderni studiosi della contrattazione, la maggior parte delle situazioni sociali che cerchiamo di capire con l'aiuto della teoria del gioco non sono giochi di puro conflitto. Il datore di lavoro e l'impiegato, il marito e la moglie, il medico e il paziente, l'analista e l'analizzando non hanno scopi antitetici come due giocatori di scacchi. Di conseguenza, oltre ai giochi di puro conflitto, dobbiamo considerare e studiare anche i giochi di collaborazione pura, e quelli di motivi misti. (Vedere Thomas C. Schelling, The Strategy of Conflict, Harvard University Press, Cambridge Mass 1960, specialmente cap. IV.)

In un gioco di collaborazione pura, i giocatori hanno identiche propensioni circa il risultato. Essi vincono insieme e perdono insieme; questo è un gioco di somma non zero. Nel bridge, ad esempio, i due compagni giocano individualmente, l'uno con l'altro, un gioco di interesse comune di somma non zero; come squadra, invece, essi giocano contro i loro avversari un gioco di puro conflitto, di somma-zero. In tal senso, le persone che giocano giochi di coordinazione (o collaborazione o di interesse comune) sono qualificate come "partners", quelle che giocano giochi di conflitto, come "avversari".

Ora che il gioco degli scacchi risulta non essere più il nostro gioco tipo, ci troviamo a disposizione un repertorio più ricco di concetti relativi ai giochi. Cerchiamo di applicare alcune di queste idee alla situazione psicoanalitica.

La prima che ci sembra opportuno notare è che può essere ingannevole parlare di una situazione psicoanalitica o di un gioco psicoanalitico, come se si trattasse di un incontro umano ben definito. E' caratteristico del rapporto psicoanalitico il non essere un qualcosa di dato, ma piuttosto un qualcosa che evolve; non una situazione unica, ma tante.

Inizialmente il gioco può benissimo essere un gioco di conflitto puro. Il paziente può desiderare una cura magica, libera da spese e da responsabilità, mentre l'analista può voler condurre un dialogo razionale, con un cliente autoresponsabile. In realtà questa situazione non presenta problemi. I giocatori possono scoprire rapidamente che i loro interessi sono antagonistici; e, a meno che il paziente o il terapista non vadano in cerca di guai, debbono o rivedere e rinegoziare i loro interessi o separarsi.

Più tardi, il gioco può essere un gioco di (quasi) pura collaborazione; il paziente desidera ricevere e l'analista vuole offrire un aiuto analitico. In realtà questa situazione può rendersi sempre più stretta, sempre che l'analista e l'analizzando abbiano successo nel negoziare le rispettive richieste e promesse.

Il paziente psicoanalitico come risolutore di problemi

Il modo di considerare gli individui che cercano (o "hanno bisogno") di psicoterapia, ha conseguenze di grande portata sul nostro concetto di cliente. Se pensiamo a questi individui come pazienti sofferenti di una malattia che non sono in grado di controllare (e che può seriamente compromettere la loro capacità di giudizio su ciò che è meglio per loro stessi), procurarsi il trattamento giusto diventa allora una questione di fortuna. Se invece li consideriamo come persone assediate da problemi di vita che essi desiderano padroneggiare, avremo in tal caso un'idea diversa del cliente. Questi diventa un individuo più o meno auto-determinante ad quale, per quanto inabile o sofferente, ha scelto di comportarsi in determinati modi; di conseguenza, il suo ricercare o meno la psicoterapia (o qualunque altra forma di intervento psichiatrico) va considerato come una mossa strategica nel gioco della sua vita.

Invece di venire alle prese coi problemi della diagnosi e della analizzabilità, ci troviamo di fronte al compito di distinguere tra una diversità di persone intese come risolutrici di problemi. In un gruppo di individui che cercano una psicoterapia, saranno tutti egualmente idonei e capaci per il gioco analitico? Certamente no. Le persone variano nel loro interesse di cambiare la propria vita attraverso la psicoterapia e nella loro attitudine alla introspezione, alla comunicazione, all'assunzione di responsabilità e così via. Sebbene significative, nessuna di queste qualità è idonea per classificare i pazienti analitici.

C'è, comunque, una distinzione fra due tipi di personalità risolutrici di problemi che considero significativa al riguardo. Espongo ora quest'analisi perché la ritengo utile alla comprensione del rapporto psicoanalitico.

Due categorie di persone: colui che cerca e colui che evita.

Messa di fronte a un conflitto, una persona può rispondere i due modi: cercando ciò che gli piace o evitando quello che gli è sgradevole. Sebbene questa sia un'astrazione ideale, la gente si distingue per la sua tendenza a seguire un certo tipo di condotta piuttosto che un altro.

Colui che cerca persegue ciò che desidera. Se non può ottenerlo, cercherà uno scopo sussidiario che gli consenta di raggiungere in un secondo momento lo scopo primario; ad esempio, egli risparmierà per rendere possibile un successivo acquisto. Una personalità di questo genere è quella dell'"uomo economico" della teoria politico-economica classica, il quale cerca sempre di raggiungere il massimo grado di utilità (uno scopo positivo). (Vedere K. E. Boulding, Conflict and Defense. A General Theory, Harper and Brothers, New York 1962, in part. cap. V.)

D'altra parte, colui che evita tende ad appartarsi da ciò che non vuole. Invece di cercare di elevare al massimo grado l'utilità, egli tenta di ridurre al minimo gli inconvenienti (uno scopo negativo). Ad esempio, se un uomo è costretto a lavorare, cercherà di lavorare il meno possibile. Colui che cerca è mosso dalla speranza del guadagno; colui che evita dalla paura della perdita.

Benché, forse, inconsapevole di questa polarità, Freud elesse a suo paziente ideale colui che cerca e non colui che evita. Egli suppose che il suo paziente, ad esempio una donna isterica, perseguisse uno scopo positivo: un soddisfacimento istintuale (sessuale). Di conseguenza il lavoro del terapista consisteva nel chiarire lo scopo e rimuovere le inibizioni che le impedivano di raggiungerlo. Tuttavia l'impresa si fondava sulla premessa che il paziente fosse più interessato a ottenere dei soddisfacimenti piuttosto che ad evitare problemi e compiti penosi. Gran parte della teoria e della pratica psicoanalitica si fondano su questo punto di vista.

Colui che cerca e colui che evita pongono l'analista di fronte a due diversi problemi. Descriverò ognuno di essi, forse in forma alquanto esagerata, perché i pazienti sono spesso motivati da un instabile equilibrio di fini positivi e negativi. Ciò nonostante, i seguenti commenti si attengono strettamente alla mia esperienza di psicoterapista e sono basati su di essa.

Colui che cerca

Colui che cerca considera l'impresa analitica come un mezzo per raggiungere un fine particolare, ad esempio, un miglior auto-controllo, una maggiore capacità lavorativa, un matrimonio più felice o un divorzio. Egli ha un impegno assunto prima di iniziare l'analisi, nei confronti di certi valori, e cerca i modi di realizzare le sue aspirazioni.

L'analista e il processo analitico possono o meno aiutare questo tipo di individuo. Indipendentemente dal risultato, né l'analista né l'analizzando si troveranno mai in quella situazione difficile che "colui che evita" e il suo terapista incontreranno spesso. Così, l'analista non dovrà affrontare il problema di trovarsi di fronte a una persona che in realtà non vuole nulla, eccetto pace e tranquillità, salvezza e sicurezza; e l'analizzando, se è il tipo di persona che cerca, non si sentirà obbligato a continuare con un analista che non sembra aiutarlo. Per la sua personalità, colui che cerca tenderà a persistere nei suoi sforzi per raggiungere i suoi obiettivi, ma non necessariamente con un singolo metodo; se un metodo fallisce ne proverà un altro. Se un determinato analista fallisce con lui, ne proverà un altro; e se l'analisi di per sé sembra poco promettente, cercherà altri modi per risolvere i suoi problemi.

Siccome è libero di avvalersi di altri mezzi di autorealizzazione, colui che cerca non «ha bisogno» di aiuto analitico tanto quanto ne ha invece bisogno colui che evita. Paradossalmente, tuttavia, è più probabile che sia il primo a sollecitare l'aiuto analitico, non perché ne abbia più bisogno di colui che tende a evitare, ma perché è un "cercatore". Infine, e per le stesse ragioni, sarà probabilmente lui e non colui che evita a beneficiare di più dell'analisi o a "guarire" dalla sua "nevrosi" senza alcun aiuto terapeutico formale. L'analista desideroso di successi terapeutici farà bene a limitare la sua clientela ai "cercatori". Così selezionati, i suoi pazienti non saranno però soggetti adeguati a delle analisi protratte, economicamente lucrative, come invece spesso lo sono i soggetti appartenenti alla categoria di coloro che evitano.

Colui che evita.

Il cercatore è come un uomo d'affari o un imprenditore i cui scopi sono i massimi profitti; colui che evita è come l'impiegato e l'operaio i cui fini sono il minimo sforzo. A causa della natura dei così detti sintomi psichiatrici, molti pazienti che ricevono la psicoterapia e molti di quelli che non la vorrebbero ma vi sono costretti sono in gran parte motivati dal desiderio di evitare i problemi piuttosto che di superarli. Ad esempio, l'isterico cerca di evitare le tentazioni; il fobico, il confronto con l'autorità; lo schizoide, le persone che lo controlleranno e così via.

Ne consegue dunque che, sebbene sia colui che evita quello che "realmente ha bisogno" dell'analisi, egli probabilmente dimostrerà verso l'analisi lo stesso atteggiamento che dimostra verso le altre cose, vale a dire la eviterà. Ciò nonostante, spinte dalla loro sofferenza, molte persone con stili di vita orientati nel senso di evitare sollecitano l'aiuto psicoterapeutico. Questo tipo di paziente e il suo terapista supporranno probabilmente che una modificazione della sofferenza del paziente, attraverso il lavoro analitico, sia un traguardo meritevole. In realtà potrebbe non esserlo (da qui il bisogno di un periodo di prova adeguatamente condotto).

Lasciatemi aggiungere che personalmente considero coloro che evitano tanto «analizzabili» quanto i cosiddetti «cercatori». Il problema non è che essi non siano analizzabili, quanto che sperano di ottenere qualcosa con niente o, per dirla più tecnicamente, sperano di usare la psicoterapia autonoma per migliorare la loro tendenza a vivere in maniera eteronoma. Questo apparentemente paradosso nasce dall'ambiguità implicita nelle parole "cercatore" ed "evitatore"; ognuna può essere descritta nei termini dell'altra. Così il cercatore tenta di evitare la frustrazione, l'ignoranza e la mancanza di padronanza; l'evitatore cerca di raggiungere la pace, l'armonia e la sicurezza. Pertanto coloro che evitano hanno tanta ragione di cercare l'aiuto analitico per il conseguimento dei loro fini, quanta ne hanno i "cercatori" per raggiungere i loro.

E' necessario che l'analista riconosca questo problema e, se è il caso, ne discuta col cliente. Il paziente deve allora affrontare il suo problema e risolverlo in maniera soddisfacente.

Ma qual'è esattamente il problema? Eccolo in breve: se il paziente è libero di utilizzare l'analisi nel modo che ritiene conveniente, potrà usarla per evitare conflitti e problemi, non per risolverli; per sottomettere se stesso all'analista e non per liberarsi dagli oppressori interni; per minimizzare il dolore e gli sforzi, e non per aumentare al massimo il piacere e la creatività; in breve, può usare l'analisi per diventare ancora più eteronomo invece che autonomo.

Pazienti di questo genere sono stati una continua spina nel fianco degli psicoanalisti. Ma non è necessario che lo siano. Non è compito dello psicoanalista cambiare la gente. Freud lo disse spesso, ma spesso sembrò dimenticarlo. Quando i pazienti usano l'analisi per evitare problemi, sono spesso classificati come "resistenti"; quando evitano il dolore a costo di danneggiarsi, come "masochisti"; e quando evitano la vita stessa perché troppo dura, "passivi". Per quanto accurate possano essere queste classificazioni, esse non diminuiscono il problema né per il paziente né per l'analista.

Come regola, occorre un lungo periodo di lavoro analitico prima che l'analista e il paziente possano completamente afferrare il significato di evitamento delle abituali (nevrotiche) strategie di vita del paziente. Quando l'hanno colto, sorgono diverse questioni: Qual è per il paziente la maniera migliore per raggiungere il suo scopo di evitare: attraverso i suoi sintomi e il suo stile di vita o attraverso l'analisi e il cambiamento della sua personalità? Il cliente deve integrare i suoi fini negativi con alcuni positivi? Deve tentare di abbandonare alcuni dei suoi scopi negativi?

Per il terapista autonomo, il paziente che evita presenta un problema molto più difficile di colui che cerca. Anche il compito del paziente è più difficile; tuttavia, egli ha più da guadagnare che non il cercatore. Questo perché, una volta che le strategie dell'evitamento sono ben stabilite, è difficile che cambino "spontaneamente". Questi stili di vita sono notevolmente stabili. Così, a meno che il soggetto che evita non abbia la fortuna di incontrare un analista competente e il buon senso di far uso dell'analisi, è improbabile che muti la sua personalità.

D'altra parte il cercatore ha molte opportunità per una auto-trasformazione personale al di fuori della psicoanalisi.

Qual è il compito dell'analista quando è messo di fronte a un inveterato evitatore? Certamente il suo lavoro non è quello di tentare di cambiare le persone che evitano in persone che cercano, più di quanto non lo sia l'inverso. Tuttavia, il terapista dovrebbe riconoscere e incoraggiane il paziente a riconoscere che l'analisi si fonda più su una filosofia di ricerca che non su una filosofia di fuga. Essi dovrebbero inoltre rendersi conto che se questa preferenza di valore è necessaria per l'analista, non lo è per il paziente. L'analizzando deve essere libero di scegliere tra vari scopi e valori. In breve, solo 1 analista deve dare importanza all'autonomia. Sarebbe preferibile che anche il paziente lo facesse, ma non glielo si può esigere.

Il rapporto tra analista e paziente è paragonabile a quello tra governo e cittadino, in un ideale società aperta. In una simile società, l'individuo deve essere libero di abiurare la libertà; se non lo fosse non avrebbe la libertà di abiurare. Il governo, invece, non deve essere libero di scegliere il dispotismo, indipendentemente da quanti dei suoi cittadini lo chiedano. In breve, l'individuo può agire come schiavo, ma il governo non deve agire come un tiranno. Allo stesso modo l'analizzando può agire come uno che evita, ma l'analista deve agire come un cercatore. Non occorre dire che sarebbe preferibile ridurre al minimo tali conflitti di valori. Diversamente il cittadino eteronomo sovvertirà la società aperta e il paziente eteronomo tenderà a forzare il suo terapista in un ruolo complementare direttivo-oppressivo. L'analista deve resistere a questa tentazione, lo stesso che ad altre, senza né costringere il paziente né dimetterlo dalla terapia.

In linea di principio, la psicoterapia autonoma potrebbe aiutare una persona a evitare i problemi della vita meglio di quanto non vi riuscisse prima. Se il suo scopo principale è di "giocare sul sicuro", egli può usare il rapporto analitico per migliorare la sua abilità a vivere senza un serio impegno verso le persone o i valori. E' anche possibile che l'analisi possa minare questa abilità. In particolare il paziente può rendersi conto, e questo può costituire per lui uno shock, che malgrado il pieno successo della fuga dai rischi e dalle difficoltà sociali, le sue strategie, da un punto di vista esistenziale, lo lasciano a mani vuote. Per di più, la partecipazione al gioco analitico può rendere una tale persona sempre più inadatta a funzionare pianamente in quei giochi eteronomi e burocratici nei quali prima eccelleva. Prima o poi un tale soggetto o lascerà la terapia o si troverà di fronte alla domanda: di che utilità è la consapevolezza delle scelte per una persona che non vuole fare delle scelte? Questa è la difficile situazione dinanzi alla quale si trovò Adolf Eichman quando la Germania fu sconfitta, nel maggio del 1945. Ecco quanto egli si disse, secondo Hannah Arendt:

Presentivo che avrei dovuto condurre una difficile vita individuale, senza alcuna guida; non avrei ricevuto direttive da nessuno, non mi sarebbero più stati dati ordini o comandi, non vi sarebbero stati più adeguati regolamenti da consultare; in breve, mi stava davanti una vita mai conosciuta prima. (Eichmann in Jerusalem. A report ori the Banality of Evil, Viking, New York 1963, p. 28.)

Questo pensiero sintetizza il dilemma dell'uomo eteronomo nel contemplare la possibilità di un'esistenza autonoma. Lo psicanalista non può né ha bisogno di risolvere questo problema per il paziente, ma deve lasciarlo libero di cercare altre guide o di intraprendere il compito, lento e penoso, di imparare a reggersi da solo.

PARTE SECONDA
LA TEORIA DELLA PSICOTERAPIA AUTONOMA
5. IL CONTRATTO INIZIALE TRA PAZIENTE E TERAPISTA

Il rapporto tra paziente e analista può essere diviso in quattro fasi: 1) le interviste iniziali; 2) il periodo di prova; 3) la fase contrattuale; 4) il periodo finale. Nella prima fase il cliente e il terapista si incontrano e si valutano reciprocamente, il paziente indica ciò che vuole comperare e il terapista ciò che offre in vendita. Le due parti hanno così l'opportunità di decidere se desiderano o meno intraprendere ciò che viene definito tradizionalmente il processo analitico. Se decidono affermativamente, ha inizio il periodo di prova. Il rapporto terapeutico può restare in questa fase (qualche volta per un lungo periodo di tempo), proseguire nella fase contrattuale o terminare. Se l'analisi progredisce e arriva al contratto, la sua conclusione deve seguire determinate regole.

In questo capitolo descriverò, in termini teorici, la prima fase del trattamento psicoanalitico.

Il gioco come trattamento e il gioco come educazione

L'applicazione alla psicoanalisi del modello di riferimento medico-terapeutico crea continue difficoltà durante il rapporto analitico. In psicoanalisi, quando cliente e specialista si incontrano per la prima volta, ci riferiamo al primo generalmente come al "paziente" e al secondo come al "terapista". Come per altri terapisti, si si attende che l'analista faccia una diagnosi, consigli una terapia e, in alcuni casi, esegua il trattamento. E' quindi generalmente accettato che compito iniziale del terapista sia quello di valutare la "psicodinamica" del paziente e decidere se è "analizzabile". Ritengo, viceversa, che non sia questo il compito dell'analista.

Per comprendere le ragioni per cui i pazienti per la psicoterapia autonoma non possono essere selezionati come, diciamo, i pazienti chirugici, dobbiamo paragonare il ruolo del paziente al ruolo dell'allievo. Questo ci aiuterà a capire la differenza tra il giudizio medico di selezione del paziente e il giudizio educativo di selezione dell'allievo (che in realtà non è affatto un processo di selezione).

Il ruolo del paziente e il ruolo dello studente

Un malato è un profano. Perfino da un medico, quando è ammalato, ci si aspetta che si comporti come se non sapesse che cosa gli succede. In tal modo, la persona malata, essenzialmente ignorante per quanto riguarda la natura della malattia, si reca dal medico. Il medico, con la sua conoscenza e le sue capacità specifiche, fa una diagnosi ed esegue la cura necessaria. Il ruolo del paziente è di solito limitato al diritto di accettare o di rifiutare la cura che gli viene prescritta.

Se l'allievo è un adulto indipendente (o se gli si permette di agire autonomamente), è lui stesso (e non qualcun'altro, per quanto esperto) che stabilisce la "diagnosi", vale a dire il problema da risolvere. I problemi educativi, non meno dei problemi medici, variano assai.

Ad esempio, l'allievo può mancare di conoscenze mediche o di dimestichezza con il russo; se desidera diventare medico o imparare il russo, studierà queste materie. Allo stesso modo una persona può difettare di conoscenza di se stessa e di capacità interpersonali; la sua condotta o quella degli altri può confonderla e causarle insoddisfazione: al fine di migliorare il suo benessere personale, può decidere di saperne di più su se stesso e sui suoi rapporti con gli altri. Una tale persona può cercare l'aiuto di un analista.

Esiste un'altra differenza tra la situazione del paziente medico e dello studente auto-responsabile; essa è relativa ai fini intrinseci ai ruoli di paziente e di allievo.

Il paziente è malato e aspira a guarire. Il suo medico ha, di regola, lo stesso scopo. Questo perché la malattia e la salute del corpo umano sono problemi sui quali c'è un ampio accordo tra le persone del mondo occidentale. Infine, la persona malata ha di solito un'identità personale in aggiunta al suo stato di persona malata e da esso indipendente. Essa va dal medico non in cerca di una nuova identità, ma per modificare certe condizioni che interferiscono con lo svolgimento del suo abituale ruolo sociale e quindi col vissuto della sua abituale identità.

Al contrario, l'allievo non è ammalato; egli è (parlo in senso descrittivo e non peggiorativo) ignorante o incapace (non del tutto, naturalmente, perché in realtà nessun adulto può esserlo). La sua ignoranza o scarsa abilità riguarda soltanto certe attività o certe materie. Uno studente di fisica è ignorante in questa scienza nel senso che desidera imparare di più; uno studente di medicina è ignorante nello stesso senso per quanto riguarda la medicina. Ma mentre il malato è considerato tale e si trova nel ruolo di paziente perché le funzioni del suo corpo deviano dalla norma, lo studente è considerato ignorante ed ha il ruolo di studente, non perché devii dalle norme educative socialmente accettate, ma perché vuole soddisfare un'aspirazione personale.

Inoltre non vi sono norme educative paragonabili alla norma largamente condivisa della salute fisica. Per uno studente di greco l'educazione è una cosa; per uno storico d'arte, un'altra; per un fisico, un'altra ancora; per un atleta, una quarta e via dicendo. Ci sono molte forme di sapere e di capacità, e ognuno di noi può essere intelligente o capace in alcune di esse, ma non in tutte. Il fatto è che selezionare se stessi per il ruolo di studente in una materia particolare, è anzitutto una scelta esistenziale. Questa in parta è un giudizio su se stesso, in parte un impegno di autotrasformazione.

Di conseguenza, se la psicoterapia è un processo di apprendimento (anziché un processo di recupero della salute perduta), e se implica una trasformazione del sé (anziché un'alterazione della struttura o della funzione del corpo, dobbiamo essere molto chiari riguardo a chi decide e che cosa si decide circa l'autotrasformazione di qualcuno. Come i poliziotti e i giudici, gli psichiatri sono spesso chiamati da persone e organismi sociali che desiderano che la personalità di un'altro individuo venga trasformata. Anche se il termine "psichiatra" è applicato sia allo psichiatra che accetta questo genere di lavoro sia al suo collega psicoanalista, essi sono impegnati in imprese diametralmente opposte. Il primo cura pazienti la trasformazione della cui personalità è desiderata da altri; il secondo deve invece limitare i suoi contatti a coloro che desiderano la propria autotrasformazione.

Secondo la mia opinione, l'analista non ha il diritto di agire come se il suo compito fosse quello di stabilire, e tanto meno di imporre, se una persona debba o meno diventare un paziente analitico. Il suo diritto si limita a non accettare chiunque egli non desideri trattare. Egli non dovrebbe perciò dire alla persona che cerca aiuto analitico che per lui sarebbe più adatto un altro tipo di cura. Se l'analista rispetta la dignità umana e la autodeterminazione, non è questo che deve fare.

Insomma, il terapista che desidera praticare la psicoterapia autonoma deve rinunciare al ruolo di psicodiagnosta perché ciò degrada il paziente. Questo non significa che il terapista debba accettare chiunque venga da lui e chieda di essere analizzato. Significa solo che il processo selettivo deve essere reciproco anziché unilaterale; autonomo piuttosto che coercitivo per entrambi i partecipanti.

Chi seleziona e chi viene selezionato

Questo fa sorgere il problema della selezione dei pazienti per l'analisi. Nell'approccio tradizionale, l'analista cerca di stabilire se il paziente è analizzabile; accetta quei pazienti che lo sono e respinge quelli che non lo sono (vale a dire che fa loro altre raccomandazioni). Questo punto di vista è incompatibile con i principi della psicoterapia autonoma.

Il cliente che cerca l'aiuto di un analista ha sicuramente dei dubbi. Cos'è che non va in lui? Può essere aiutato? Se si, è l'analista il genere di aiuto di cui ha bisogno o che desidera? L'analista conosce il suo mestiere? La procedura analitica standard, sul modello del rapporto medico-paziente, tende a collocare questi dubbi in un certo stampo; è quindi probabile che il paziente esprima i suoi timori sotto forma di due domande (che di fatto fa): «Sono un buon paziente?» e «Posso essere analizzato?» A questi dubbi spesso ne corrispondono altri analoghi nella mente dell'analista, che infatti può chiedersi: «Sarà un paziente facile o difficile?» e «E' un paziente analizzabile?». Se la risposta alla seconda domanda è no, ciò spesso comporta che entrambi, paziente e terapista, debbano accontentarsi di una forma di terapia inferiore. E' questo un legame psicologico che va assolutamente evitato. In realtà queste domande sono talmente fondamentali per l'incontro analitico che richiedono un ulteriore approfondimento e chiarimento.

Il terapista è un'autorità riconosciuta che il paziente trova, paga per i suoi servizi e cerca di accontentare (e di scontentare). Di qui il problema della necessità per il paziente di essere condiscendente con il terapista. Ciò è diametralmente opposto allo scopo dell'analisi che è di liberare il paziente dall'oppressione intrapersonale, interpersonale e sociale. Sono cose note. Freud formulò questo problema parlando del transfert del paziente sul terapista e dell'obbligo dell'analista di analizzare, piuttosto che sfruttare, questo tipo di legame umano.

Sebbene si tratti di una formulazione valida, non dobbiamo dimenticare che la situazione psicoanalitica gioca un ruolo cruciale nel determinare che tipo di rapporto si svilupperà tra queste due persone e cosa si potrà o meno fare con esso. Quindi, se la situazione analitica è oppressiva per il paziente, se lo costringe a sottomettersi a trattamenti indegni e ad umiliazioni «non necessarie al fine di mantenere il rapporto col terapista, allora non vi sarà "analisi di transfert" approfondita quanto si voglia che possa liberare il paziente. Infatti una situazione di questo genere si presenta al paziente come un doppio legame: l'analista che da un lato opprime il paziente, impegnandolo in una situazione terapeutica autoritario-coercitiva, mentre dall'altro "interpreta" i suoi atteggiamenti infantili, dipendenti o sottomessi nei confronti di altre persone.

La domanda «Sono un buon paziente?», è una trappola sia per il paziente che per il terapista. Se l'analista suggerisce una risposta affermativa, essa significa «si, sei un bravo figliolo (studente, penitente, etc.)», e che il terapista accetta per sé un ruolo superiore in modo da poter giudicare la condotta del cliente nel suo ruolo di paziente. Se la risposta è no, il significato è lo stesso, ma la condanna è più pesante. In entrambi i casi, il rapporto terapista-paziente si struttura secondo una polarità superiore-inferiore. Credo che molti incontri psicoterapeutici si infrangano su questo scoglio: più il cliente si sforza di essere «un buon paziente analitico», più è destinato a fallire, a prescindere dal fatto che riesca o meno ad accontentare il terapista.

In questo genere di situazioni c'è solo una via d'uscita: assumere una meta-posizione analitica o logica rispetto al problema. La trappola deve essere esaminata e superata. Qui è di nuovo importante l'uso appropriato del periodo di prova e di contratto. Non appena si chiarisce cosa vogliono il terapista e il cliente, è possibile per ognuno di loro decidere se impegnarsi o meno in un rapporto analitico con l'altro. Ciò significa che l'analista non ha bisogno di preoccuparsi se il paziente è un "nevrotico", un "borderline" o se è "analizzabile".

Il problema che queste astrazioni cercano di risolvere deve essere formulato in termini operativi più pratici, come: «Il paziente capisce ciò che l'analista si aspetta da lui? E' interessato a partecipare al gioco analitico? Può, in effetti, parteciparvi?». A queste domande si può dare una rapida risposta facendo gradualmente conoscere al paziente le regole richieste dalla situazione analitica. Se 'il terapista si comporta in questo modo, il problema di selezionare i pazienti per l'analisi diventa più semplice. Invece di dover fare profonde congetture circa la «psicodinamica» occulta del paziente, è la sua stessa condotta durante le interviste iniziali a sistemare la questione. Se il paziente non vuole un'analisi o non può tollerare le condizioni che gli vengono imposte, deciderà di non acquistare ciò che l'analista vende. Così è come funziona in generale il processo di selezione per quanto mi riguarda. In realtà non sano io a selezionare i pazienti: sono loro che mi scelgono o mi rifiutano.

Il significato dell'auto-selezione del paziente

Se un giovane sceglie come carriera la medicina, il sacerdozio, la fisica o la politica, è giustificato considerare questa scelta come espressione di ciò che egli è e di cosa desidera diventare; allo stesso modo, se una persona è assillata da problemi vitali e sceglie di consultare un certo tipo di guaritore piuttosto che un altro, questo è espressione di ciò che egli è e di cosa desidera essere. Lo psicoterapista non può eludere questo problema. Egli ha davanti a sé tre possibilità. Primo, può accettare la scelta del paziente come la più conveniente per lui. Secondo, può stimare il paziente incapace di conoscere ciò di cui ha bisogno e, di conseguenza, prescrivergli id tipo di terapia da seguire. Terzo, può completare le informazioni del paziente circa il tipo di aiuto disponibile e lasciare che si basi su di esse per ulteriori decisioni. Il punto è che il terapista non può decidere il tipo di terapia che il paziente deve seguire (anche se il paziente potrebbe volerlo) e quindi prefiggersi di analizzarlo.

Lo psicoterapista autonomo deve evitare questo tipo di interventi eteronomi poiché non c'è modo di giudicare se una determinata persona con dai problemi vitali debba essere "trattata" con psicoanalisi, consigli religiosi, medicine, elettroshock, o una qualunque delle molte procedure esistenti. L'analista è tenuto a considerare le decisioni del paziente, inclusa la sua scelta terapeutica, come atti di auto-rivelazione e quindi come fonti di informazione sul paziente da "interpretargli», piuttosto che come errori da "correggersi" autoritariamente da parte del terapista.

Un esempio illustrerà ciò che intendo. Una giovane colta, è infelice nel suo matrimonio e si annoia nel suo ruolo di madre e di donna di casa. Questa donna può consultare uno psichiatra organicista e vedersi prescrivere una serie di shock; può farsi visitare da un medico generico ed essere curata con tranquillanti; può decidere di rivolgersi a un sacerdote per un aiuto spirituale, a un analista per una psicoterapia, a un amico per una relazione amorosa oppure a un avvocato per un divorzio.

Se ci accostiamo al problema di questa giovane da un punto di vista medico-psichiatrico, ammetteremo che è ammalata. Di conseguenza dobbiamo accertare la natura e la gravità della sua malattia. Se si tratta di una seria depressione "psicotica" dovrebbe essere trattata con elettroshock; se è una depressione "psicogena" può essere indicata la psicoanalisi; se invece è solo una reazione a un problema "lieve" e "transitorio", può essere accettabile M trattamento del medico generico o del sacerdote. Sebbene questo tipo di concettualizzazione possa apparire utile e seducente, in realtà è ingannevole e di nessun valore. I criteri estrinseci alle esperienze e allo stile di vita del paziente non debbono portare il terapista a decidere se una determinata persona con problemi vitali debba essere "curata" con la psicoterapia, l'assistenza religiosa, l'elettroshock o con altri "mezzi" non formalmente "terapeutici" (ad esempio il divorzio, il cambiare lavoro, ecc.).

Senza dubbio una persona può cercare un tipo di soluzione per i suoi problemi piuttosto che un altro per mancata conoscenza della gamma completa di possibilità disponibili; ma quest'argomento non coglie l'essenziale: un'ignoranza di questo tipo è parte integrante della personalità dell'individuo o del suo io.

Diagnosi o dialogo?

Ancora una volta l'analogia tra il problema del paziente che cerca aiuto per le sue difficoltà vitali e il problema dell'allievo, specialmente di chi si trovi ad affrontare Ja scelta di una carriera, è illuminante. Uno può entrare nell'azienda paterna, un altro studiare musica, un terzo diventare scienziato, un quarto, muratore. Ognuno fa una scelta, in bene o in male. E' quindi possibile che uno studente che abbandona la scuola superiore e lavora diligentemente in un'iniziativa per lui ricca di significato concluda, negli anni della maturità, di aver agito saggiamente in gioventù; mentre un altro, che continua gli studi all'università e si laurea, può sperimentare una seria crisi di identità sui quarant'anni, quando si renda conto che mai avrebbe dovuto diventare, ad esempio, un avvocato. Non esiste modo "obiettivo" di giudicare la saggezza di tali scelte professionali.

Queste considerazioni convalidano l'atteggiamento dello psicoterapista autonomo verso il suo cliente. La sua condotta deve aiutare e non ostacolare una scelta consapevole riguardo all'eventuale terapia che il paziente dovrebbe cercare per i suoi problemi vitali. Il terapista può farlo tenendo presente che il suo dovere è: primo, «non fare diagnosi al paziente, ma impegnarlo in un dialogo denso di significato»; secondo, non cercare di raccogliere dati dal paziente, ma fornirgli informazioni appropriate.

Spesso il terapista cerca di raccogliere in breve tempo quante più informazioni possibili sul paziente. All'assistente sociale si insegna come condurre accurate e sistematiche interviste preliminari; al giovane psicologo come manovrare batterie di «test diagnostici»; e al giovane psichiatra come condurre "interviste diagnostiche» per stabilire la "psicodinamica" del paziente. Troppo spesso gli analisti hanno seguito ila medesima strategia; ma per essi è una trappola. Quale è lo scopo di queste informazioni? E' chiaro che il medico, lo psicologo, l'assistente sociale e così via, hanno bisogno di questi dati perché quello che ci si attende da loro è una decisione, sotto la veste di una diagnosi psicopatologica. Ad esempio, uno psichiatra ospedaliero può inviare un paziente allo psicologo aspettandosi che quest'ultimo decida, sulla base di determinati test proiettivi, se il paziente soffre di "schizofrenia" o di "isteria". Ognuna di queste diagnosi implica determinate azioni. In breve, a uno specialista occorrono certe informazioni se desidera giungere a un giudizio razionale e quindi decidere una linea dà condotta. Ed è giusto che sia così. Ma è questa la posizione dello psicoanalista di fronte a un paziente che cerca l'analisi?

Nella maggior parte dei casi i clienti dell'analista sono preselezionati in quanto vengono scelti, da loro stessi o da altri, come persone che desiderano o hanno bisogno di analisi. Ciò nonostante, il problema della selezione del paziente viene spesso discusso come se il terapista e un vasto gruppo eterogeneo dà persone "mentalmente malate" dovessero reciprocamente affrontarsi. In che modo essi arrivino a trovarsi di fronte è raramente specificato. Secondo questo modo di vedere, il primo compito dell'analista è dividere 'il gruppo in due parti: quelli che possono essere analizzati e quelli che non lo possono. In realtà non è questo il compito dell'analista. Senza dubbio può esserci un ridotto numero di persone, tra quelle che lo consultano, che non sanno né quello che l'analista fa né quello che loro stessi vogliono. Ma esse non pongono seri problemi allo specialista in psicoanalisi.

Dobbiamo supporre che l'analista pratichi solo analisi (se usa altri metodi, per di più di carattere totalmente diverso, la selezione dei pazienti potrà essere difficile; ma non mi occuperò ora di questo problema). Il terapista che offre al paziente solo un certo tipo di "aiuto" deve perciò spiegarlo ai pazienti che lo ignorano. Una volta informati, la maggior parte di coloro che desiderano un aiuto non analitico, se ne andrà subito.

Di conseguenza, il così detto problema della selezione del paziente comincia realmente solo dopo che l'analista incontra un cliente ohe sa cosa gli si offre e lo vuole acquistare. Questa situazione è totalmente paragonabile a quella di un cliente informato che cerca di procurarsi l'assistenza di un esperto.

Idealmente, le persone che desiderano accrescere le loro conoscenze o migliorare la loro capacità si autoselezionano per il ruolo di allievo o apprendista. Questo è di solito il caso dello studente che chiede di essere ammesso alla Facoltà di Medicina, di Legge o a un Istituto Tecnico e del cliente che cerca i servizi di un insegnante di pianoforte o di un maestro di tennis. Il paziente che cerca l'assistenza di un analista si trova in una posizione simile. Egli è un soggetto autonomo che si autoseleziona per il ruolo di analizzando, in quanto desidera intraprendere un processo di apprendimento analitico. E' presuntuoso da parte di chiunque discutere il diritto di autoselezione. Il postulante, specialmente se paga di persona l'onorario dello specialista o l'insegnamento della scuola ha il diritto di scegliere ciò che vuole studiare e, pertanto, cosa vuole diventare. Quindi Ja responsabilità iniziale dell'esperto, della scuola o dello psicanalista è di fornire informazioni in modo che il cliente o studente possa operare una scelta consapevole.

Oggigiorno, nella pratica privata della psicoterapia, specialmente nelle grandi città, chi seleziona inizialmente è, di regola, il cliente, non il terapista. Se l'analista è conosciuto per il tipo di lavoro che svolge, molti pazienti si recheranno da lui perché desiderano procurarsi il genere di servizio che egli offre. Se avessero voluto una cura organica o il ricovero in ospedale, avrebbero cercato degli psichiatri conosciuti perché dispensano questo genere di rimedi.

La presa di contatto iniziale tra il paziente e il terapista autonomo

Nella situazione iniziale della psicoterapia autonoma ci sono due persone: un cliente che cerca aiuto e un esperto che offre i suoi servizi. Lo scopo di entrambi è di ampliare le scelte del cliente nella condotta della sua vita. Se l'analista segue la strada tradizionale del terapista medico, pone il paziente in una situazione paradossale. Ci si aspetta che il paziente apprenda a migliorare la sua capacità nel prendere delle decisioni ma, per far ciò, lo si priva dell'opportunità di decidere se vuole diventare questo tipo di allievo (analizzando). Questo si verificherà ogni qual volta il maestro (analista) si arrogherà il compito di selezionare il cliente per il ruolo di allievo. D'altra parte, se la decisione resta al paziente, è quest'ultimo e non l'analista che deve possedere le informazioni pertinenti.

Nella misura in cui le interviste iniziali servono allo scopo di raccogliere dati, le informazioni debbono essere raccolte non solo per e dall'analista, ma anche per e dal paziente. Il chiarimento iniziale del gioco analitico e il conseguente periodo di-prova, aiutano il paziente a capire cosa sia l'analisi. Una volta informato, il paziente potrà decidere razionalmente e responsabilmente se sottoporsi o meno all'analisi.

Fin qui ho sottolineato come non sia il terapista ma il paziente a decidere il da farsi. Questo contrasta col tradizionale rapporto medico, dove è lo specialista a decidere per il cliente. Nella psicoterapia autonoma è il cliente a prendere tutte le decisioni che riguardano in modo fondamentale la sua vita. Non solo è libero di decidere ma deve decidere se vuole o meno essere analizzato te, se lo vuole, da chi. Questo naturalmente non significa che il paziente decide al posto del terapista. Come il paziente, il terapista è libero di decidere - e in effetti deve decidere - se desidera prestare la sua opera a un particolare cliente che lo consulta. Anche se ciò può sembrare ovvio, le sue implicazioni sono significative.

Lasciatemi ripetere che d'analista decide solo della propria condotta. Senza dubbio questo avrà conseguenze per ili paziente. Tuttavia l'analista non stabilisce se il paziente è analizzabile ma solo se egli desidera aiutarlo come terapista.

Per prendere questa decisione non occorre che il terapista faccia una diagnosi. Dal momento che non accetta né respinge i)l paziente sulla base di una diagnosi, perché farne una? Un pazienta può essere considerato isterico, depresso, ossessivo o schizofrenico. Tutto ciò non fa alcuna differenza per il terapista autonomo ai fini della sua decisione da accettare o respingere il paziente. Perfino la storia del paziente, sebbene importante per la terapia, è irrilevante ai fini di questa decisione. In realtà, la decisione del terapista di accettare o meno un paziente in analisi si fonda, e deve fondarsi, su argomenti come l'interesse del paziente ad essere analizzato, la sua attitudine all'auto-osservazione e all'auto-riflessione, la sua disposizione ad osservare le regole dell'analisi, e i suoi mezzi per pagare i servizi dell'analista. Un paziente può essere analizzabile secondo i miei criteri e può ricevere da parte degli psicopatologi qualunque diagnosi, dalla normalità alla schizofrenia. In verità, perfino le così dette personalità psicopatiche possono intraprendere con successo la psicoterapia autonoma se non vengono loro fatte delle concessioni nel trattare i termini del periodo di prova e del contratto.

Insomma, solo se il cliente e il terapista sono entrambi liberi di decidere ciò che vogliono e sono pronti a farlo, possono trattare le condizioni per la collaborazione terapeutica. Questa negoziazione consapevole è la base del contratto analitico.

6. IL PERIODO DI PROVA
La psicoanalisi come gioco: il modello degli scacchi

Agli inizi della storia della psicoanalisi, Freud paragonò il trattamento analitico al gioco degli scacchi. Tuttavia, egli usò questa analogia per richiamare l'attenzione non sul carattere contrattuale del rapporto terapeutico ma su alcuni altri aspetti. Ad esempio affermò che lo psicoanalista che desidera insegnare a un medico non analista a praticare l'analisi si trova in una posizione paragonabile a quella dello scacchista esperto che cerca di insegnare il gioco degli scacchi a un principiante. In entrambi i casi, argomentava Freud, si possono precisare solo le mosse iniziali e quelle finali della partita; non si possono fare invece delle affermazioni teoriche di carattere generale circa le mosse che caratterizzano il mezzo della partita; queste vanno imparate con la pratica.

Freud utilizzò l’analogia con gli scacchi per parlare dei rapporti tra i giocatori. Sebbene i due giocatori collaborino nel giocare a scacchi, il loro reciproco rapporto nel gioco è antagonistico. Analogamente, sebbene l'analista e l'analizzando collaborino nel mantenere la situazione analitica, il loro reciproco rapporto è, secondo Freud, antagonistico. Questo perché il paziente reprime idee e sentimenti che l'analista cerca invece di scoprire; il paziente "resiste" agli sforzi interpretativi del terapista e così via. Sebbene suggestive, queste idee non centrano il bersaglio.

Esclusi questi brevi riferimenti all'analogia con gli scacchi, nel senso usato da Freud, i teorici della psicoanalisi non hanno fatto ulteriore uso del gioco come modello per l'incontro terapeutico. In un saggio scritto approssimativamente una decina d'anni fa, usai l'idea del gioco per sottolineare la natura contrattuale dell'impresa psicoanalitica. (On the Theory of Psychoanalytic Treatment, «International Journal of Psychoanalysis», 38 (1957), pp. 166-182.) Il mio principale punto di vista era che, come le persone che partecipano a un gioco si impegnano a obbedire alle sue regole, allo stesso modo l'analista e l'analizzando si impegnano a seguire le regole del gioco analitico. A differenza del trattamento medico ordinario, la psicoanalisi è governata da regole di contratto e non da regole di status. La tecnica analitica tradizionale è stata recentemente discussa in termini di regole di strategia del vincere di Stephen Potter. Secondo lo scrittore Jay Haley, il gioco analitico è caratterizzato da una serie di tortuosi attacchi da parte dell'analista il cui scopo è quello di sottomettere il paziente; a sua volta, il paziente deve imparare che, qualunque cosa faccia, rimarrà sempre ridotto al silenzio; quando è abbastanza svelto da riconoscerlo, la terapia è conclusa. (Strategies of Psychoterapy, Grane & Stratton, New York 1963, specialmente il cap. IV e l'epilogo.)

Purtroppo, la teoria satirica della psicoanalisi di Haley è confermata da alcune moderne opere sulla tecnica analitica. Ma il rapporto di Haley non è equilibrato, in quanto il suo intero caso si basa su un'esagerazione degli aspetti autoritari e costrittivi della psicoanalisi; al tempo stesso sono completamente negletti i suoi aspetti egualitari, contrattuali e non costrittivi.

Per vedere la satira di Haley nella giusta prospettiva, dobbiamo tracciare un parallelo tra psicoanalisi e politica. Negli ultimi 20 secoli si è operata una metamorfosi in molte società: i governi un tempo autocratici, che reggevano le così dette società chiuse, sono diventati più aperti e democratici. Questo non significa che ogni società contemporanea sia completamente aperta o libera. Proprio come gli Stati Uniti hanno ereditato dal loro passato il problema dei negri, così la psicoanalisi eredita molti problemi dalla sua storia medica. Alcuni difetti sociali in una società relativamente aperta non ne fanno una società chiusa, né poche regole eteronome rendono la psicoanalisi un gioco puramente coercitivo dell'arte di sottomettere l'avversario. A dir il vero questi difetti sono indesiderabili e, se lasciati senza correzione, possono ben distruggere la società o la terapia. Il nostro scopo dovrebbe quindi essere quello di correggere i difetti. Freud creò uno strumento "unico" per esplorare la condizione umana e per allargare la libertà personale. Ciò che egli creò non era perfetto: sta a noi migliorarlo.

Che tipo di gioco è il periodo di prova?

Come ho sottolineato, il rapporto psicoanalitico non è una situazione, ma molte insieme. Considerando questo rapporto come un gioco, ci sarà utile distinguere le due parti che lo compongono: il periodo di prova e la fase contrattuale.

Il periodo di prova è necessario perché paziente e analista, pur conoscendosi appena, cercano tuttavia un qualche tipo di associazione. Nessuno dei due conosce le condizioni che l'altro desidera stabilire. Il periodo di prova è una specie di situazione di contrattazione. Come tutte le situazioni di contrattazione, si tratta di un gioco di strategia di tipo a motivazioni miste: i giocatori hanno alcuni interessi in comune ed altri che contrastano. A questo punto della terapia, paziente e terapista non sono né compagni in un'impresa comune né avversari in un conflitto; piuttosto sono membri di una associazione precaria. Il destino di tale associazione è sconosciuto: in effetti non si può conoscere. In pratica dipende dalle specifiche mosse e contromosse di entrambi i partecipanti. Alcuni esempi chiariranno queste note.

Il cliente vorrebbe essere accettato come paziente dall'analista, ma non può conoscere i termini dell'analista finché egli stesso non farà alcune mosse. Ad esempio, il paziente può non sapere che linea seguire per ottenere ciò che desidera dall'analista. Dovrà drammatizzare i suoi sintomi per provare che egli è più "malato" e quindi stimolare l'obbligo morale del terapista ad aiutarlo? 0 dovrà lusingarlo, per convincerlo, che forse è l'unico terapista in grado di aiutarlo? 0 ancora, dovrà lasciar cadere delle frasi allusive per assicurare l'analista che il denaro non ha importanza per lui e stimolarne in tal modo l'interesse pecuniario per il suo caso?

Reciprocamente, l'analista desidera un paziente analitico per praticare la sua professione e guadagnarsi da vivere. Ma egli non sa se il paziente potrà pagare l'onorario o è disposto a pagarlo; oppure se, anziché l'analisi, il paziente si aspetta consigli, rassicurazioni, tranquillanti o medicine per dormire.

Insomma, l'associazione tra cliente e analista è precaria per entrambe le parti. E in effetti così deve essere; soltanto allora sarà una genuina contrattazione. In qualunque momento ognuno dei due può perdere l'altro. Effettivamente, ritengo che il pericolo della perdita sia spesso maggiore per il terapista che non per il paziente, ma il paziente do ignora. Il paziente può chiedere, ad esempio, che il terapista intervenga presso la moglie. L'analista può respingere questa richiesta senza però terminare il rapporto. Ma finché non lo avrà messo alla prova il paziente non potrà comunque saperlo. D'altra parte l'analista deve prepararsi ad essere inflessibile su determinate posizioni; altrimenti perderà d'opportunità di svolgere il suo compito di analista. Il problema è questo: come mantenersi fermo senza sentirsi eccessivamente minacciato dalla possibile perdita del paziente? Allo stesso tempo il terapista deve guardarsi dal commettere l'errore contrario: non deve essere troppo esigente. La domanda allora è questa: come può mantenersi fermo e negoziare in modo significativo senza esigere troppo dal paziente?

Anzitutto l'analista potrà fare questo solo se le sue condizioni saranno minime. Con ciò voglio dire che il terapista chiederà al paziente di fare o di astenersi dal fare solo le cose indispensabili per preservare l'integrità del gioco analitico. Se queste condizioni sembreranno minime al paziente, dipenderà dalla sua personalità; esattamente come il fatto che l'onorario gli sembri alto o basso dipenderà dalla sua condizione economica.

In secondo luogo, l'analista, come il paziente, non sarà in grado di giocare il gioco analitico a meno che non possa contrattare da una posizione di una certa forza. Con questo voglio dine che egli non deve essere troppo bramoso di denaro o pazienti; altrimenti è probabile che arrivi a un compromesso e vada incontro a qualche richiesta del paziente anche se ciò può viziare le condizioni necessarie per l'analisi. E' mia impressione che i terapisti, specialmente giovani, spesso rovinino il gioco analitico in questo modo. Di solito non lo ammettono (o non ne sono consapevoli) e si lamentano di essere costretti a praticare una psicoterapia di sostegno perché nessuno dei loro pazienti è analizzabile. E' ciò che spesso mi dicono giovani colleghi, sia nella mia veste di amico che in quella di loro analista. Quando indago sulle circostanze del loro contatto iniziale col paziente, molto spesso scopro che hanno ceduto di fronte ad alcune delle prime richieste del paziente (richieste che avrebbero potuto respingere senza perderlo) e che trovano poi impossibile riguadagnare il terreno perduto.

Terzo, solo se l'analista apprezza l'autonomia e capisce il gioco analitico sarà in grado di contrattare efficacemente; con ciò non voglio riferirmi a un onorario alto, ma all'integrità della situazione analitica, alla propria autonomia e a quella del paziente. Se agisce in tal modo, allora, medico o no, con o senza un training analitico formale, potrà con la pratica divenire un abile esperto della psicoterapia autonoma.

La tesi che una persona non può efficacemente contrattare da una posizione di debolezza, è ugualmente applicabile al paziente. Quando un individuo ha perso il potere di aiutarsi, quando crede di non aver nulla da offrire a un altro, in breve quando è veramente indifeso, allora qualcun altro deve assumersi la responsabilità per lui. Se nessuno lo fa, quest'individuo perisce.

Comunque, una persona che sia realmente così debole, vale a dire la cui mancanza di risorse non sia, almeno in parte, di carattere strategico, non arriverà mai allo studio dell'analista; sarà eliminato dal gioco grazie al metodo dell'analista di prendere appuntamenti. Come minimo, il paziente dell'analista sarà sufficientemente fiducioso in se stesso da fissare da solo l'appuntamento e mantenerlo. Anche se allora affronterà il terapista con una quasi completa mancanza di risorse, l'analista può ancora comportarsi autonomamente; la sua mossa indicherà al paziente che egli offre un certo genere di servizi e che la natura di questi servizi non è influenzata dal disperato bisogno o dalla completa debolezza del paziente. Quest'atteggiamento può sembrare duro; non credo che lo sia, è semplicemente onesto. La condizione del paziente, per quanto penosa, non obbliga il terapista, in quanto analista, ad aiutarlo. (Questo è un giudizio personale. Coloro che credono che le condizioni del paziente obblighino il terapista ad aiutarlo, né si interessano alla psicoterapia autonoma né desiderano praticarla. Io credo fermamente che il terapista sia e debba essere prima di tutto un essere umano e poi un analista. In molte situazioni umane, dentro e al di fuori del suo studio, il terapista sarà e dovrà essere di aiuto al suo prossimo. Ma insisto che egli, e quelli come lui che intendono essere analisti, debbano avere chiaro in mente quando il terapista funziona come analista e quando non.)

Messo di fronte a questa mossa iniziale, il paziente dovrà scegliere tra il cercare un altro terapista che risponda diversamente alla sua debolezza e l'assumersi maggiori responsabilità verso se stesso. (Per alcuni pazienti, la ferma presa di posizione iniziale del terapista può costituire il momento decisivo nell'incontro terapeutico). Se il paziente preferisce andarsene dev'essere libero di farlo e non dovrebbe essere "sedotto" alla terapia dall'analista. Se il paziente sceglie di restare, la contrattazione fra lui e il terapista continua.

Conflitto e collaborazione nelle situazioni assistenziali

Paragoniamo questo modello di contrattazione del periodo di prova della terapia analitica al criterio medico tradizionale e a quello freudiano classico. Secondo il pensiero medico ordinario, la relazione tra paziente e dottore o tra analizzando e analista è un semplice gioco di pura collaborazione; il paziente è ammalato e vuole guarire; il medico è un abile professionista che vuole restituire al paziente la salute. Quindi tutti gli interessi del paziente e del medico coincidono; non vi è conflitto.

Quel grande cinico che fu George Bernard Shaw dedicò la maggior parte della sua vita a esporre analoghe ipocrite descrizioni della collaborazione umana. Nell'opera II dilemma del medico, ritrasforma il gioco medico da pura collaborazione in puro antagonismo. Secondo Shaw, solo il paziente è interessato a riacquistare la propria salute. Al medico nulla potrebbe importargli meno. Egli è interessato al denaro, alla posizione sociale, e considera la malattia come un problema stimolante ma astratto; il malato come un corpo istruttivo; e, nella commedia, la moglie del paziente come un oggetto sessuale. Benché l'idea che il dottore e il malato partecipino a una associazione armoniosa e condividano identici scopi sia pura finzione, l'opposta raffigurazione di Shaw, di completo antagonismo, è una feroce esagerazione. Se fosse vera, la professione del medico sarebbe finita da lungo tempo. Come Shaw, Freud fu più impressionato dagli elementi antagonistici del gioco analitico (medico) che non da quelli di collaborazione; di qui la sua analogia tra psicoanalisi e scacchi. Possiamo anche dire che Freud sottolineò eccessivamente le "resistenze" del paziente ad essere analizzato; a volte egli dà l'impressione che solo l'analista sia interessato a che il paziente si analizzi mentre il paziente sarebbe solo interessato a non essere analizzato. Altre volte, paragona l'analista a un leone feroce che "balza un volta e una soltanto" sul paziente-agnello presumibilmente indifeso. (Analysis Terminable and Interminable {1937), Collected Papers, Basic Books, New York 1959, V, pp. 316-357.) Ciò che Freud intendeva era che l'analista deve mantenere le sue promesse, inclusa la promessa (minaccia) di terminare la terapia. Nell'insieme, credo che l'accento esagerato posto da Freud sugli elementi antagonistici del rapporto medico-paziente fosse necessario e salutare; era un antidoto che Freud opponeva alla falsa ipocrisia non solo dei rapporti sessuali ma di molti altri aspetti della vita sociale. Come Shaw, Freud fu un critico della società. E il rischio professionale del critico sociale è appunto quello di esagerare il conflitto a spese della collaborazione. Ricordiamoci però che il suo scopo non fu di stimolare il conflitto, ma al contrario di incoraggiare una più autentica collaborazione tra gli uomini.

La cosa fondamentale di tutto ciò, per noi studiosi dell'uomo, è che entrambi i ritratti della medicina e della psicoanalisi sono parzialmente veri; entrambi vanno tenuti presenti in una adeguata analisi del problema secondo la teoria del gioco. In altre parole la psicoanalisi è un gioco complesso, di motivazioni miste, che combina elementi tipici di due generi di gioco; quelli di interesse comune e quelli di contrasto. Il dilemma psicologico che simili incontri umani pongono è acutamente espresso da un aforisma coniato dal grande scrittore ungherese Frigyes Karinthy. Commentando la triste situazione dei rapporti fra i due sessi, ossia tra persone che, in modo significativo, vengono chiamate "amanti", suggeriva ohe il motivo di tale situazione stesse nel fatto che ognuna delle due parti voleva qualcosa di diverso: l'uomo la donna e la donna l'uomo.

Il rapporto tra analista e analizzando, specialmente durante il periodo di prova, non è dissimile dall'eterno problema fra i sessi. Il paziente vuole un'analisi; desidera essere un individuo autentico, autonomo, libero, ma vorrebbe raggiungere questo risultato nella maniera più economica possibile, psicologicamente e finanziariamente. Aiutare il paziente a raggiungere questo scopo deve anche essere uno dei fini ohe l'analista si propone. Ma, evidentemente, è destinato ad essere uno dei fini sussidiari. E' possibile che l'analista abbia desideri più pressanti e personali di quello di aiutare il paziente. In particolare, come analista, il terapeuta desidera un'opportunità per esercitare il suo talento nella professione prescelta; gli piacerebbe poter operare come analista e per far ciò ha bisogno di un analizzando idoneo. Inoltre il terapista desidera del denaro e vorrebbe guadagnarlo onestamente nell'autentico esercizio della sua vita lavorativa.

Questo modo di riconsiderare le aspirazioni dell'analizzando e dell'analista ci dice che Karinthy aveva ragione; virtualmente tutti i rapporti umani significativi, siano essi tra analista e analizzando, tra marito e moglie, tra datore di lavoro e impiegato, sono pieni dei pericoli inerenti a quei giochi che combinano, in un delicato equilibrio, elementi di contrasto e di collaborazione. In tutti questi tipi di rapporti ci troviamo di fronte al compito di mantenere quest'equilibrio. Se ci spostiamo verso l'eccessiva cooperazione, affondiamo nella noia sterile e nella mediocrità; se ci spostiamo verso l'eccessivo conflitto, rischiamo di rovinare i nostri obiettivi e i nostri giochi.

Quando termina il periodo di prova?

Fin dall'inizio della terapia il paziente sarà consapevole che di terapista sta negoziando un certo genere di contratto. Tuttavia, i dettagli e le implicazioni del contratto stesso non saranno del tutto espliciti sino alla fase contrattuale della terapia. L'analista non dovrebbe terminare il periodo di prova e iniziare la fase contrattuale, finché il paziente non sa cosa offre il terapista e finché il terapista non è sicuro che il paziente sarà soddisfatto di acquistare solo quel prodotto. Se non si ottempera a questa esigenza, è probabile che il paziente faccia precipitare delle situazioni che renderanno difficile al terapista aderire ai propri termini del contratto; il terapista sarà allora costretto o a rompere il contratto (spesso sotto forma di "modifiche" della tecnica) o a terminare la terapia.

Supponendo che il periodo di prova sia stato ben condotto e che il paziente sia interessato a proseguire il suo compito di autoesplorazione, ecco giunto il momento per definire il contratto, vale a dire per assestare l'impresa analitica. Per l'analista questo significa, primo, che ha accettato il cliente come analizzando; secondo, che vedrà il paziente ad appuntamenti regolarmente fissati, a meno che non si renda inevitabile disdirli; e, terzo, ohe agirà come analista del paziente finché il paziente stesso sentirà bisogno di questo tipo di aiuto.

E' chiaro che l'analista inoltre promette, implicitamente, di fare del suo meglio come terapista: aiuterà il paziente a chiarire la sua storia, la sua situazione attuale, le sue aspirazioni; analizzerà le sue produzioni verbali e non verbali, i suoi sogni, i suoi "sintomi", la sua "nevrosi", e, ultimo ma non meno importante, i suoi transfert.

Il contratto analitico insomma obbliga l'analista a prestare determinati servizi al paziente; obbligo, comunque, limitato solamente a ciò che ha promesso, vale a dire ad analizzare. Il contratto analitico quindi differisce radicalmente dal consueto rapporto medico-paziente; quest'ultimo infatti non è regolato da un contratto mutuamente accettato, ma piuttosto dalle cosiddette necessità mediche o psicologiche del paziente e dai tradizionali obblighi terapeutici del medico.

Nell'accettare il contratto, l'analizzando si obbliga a fare soltanto una cosa: pagare gli onorari dell'analista (e pagarli secondo i termini accordati). Sebbene ci sia un tacito accordo tra analista e analizzando che il cliente acquista l'opera dell'analista per uno scopo particolare (vale a dire per essere analizzato), l'analizzando deve essere libero di decidere in che modo vuole usare l'aiuto dall'analista. Ciò può essere garantito solo se gli viene richiesto di osservare un'unica regola: pagare gli onorari. Così il paziente è autorizzato a resistere agli sforzi dell'analista (per quanto sottili) per cambiare la sua personalità. In nessun altro modo possiamo ottenere una condizione di autentica autotrasformazione. Ogni altra richiesta renderà il paziente soggetto all'influenza eteronoma del terapista che sarà ricompensato con un cambiamento di personalità forzato e non autentico.

Questo stato di cose è conforme al carattere commerciale dell'impresa analitica; l'analista offre qualcosa e il paziente l'acquista. Come per ogni compratore, cosa l'analizzando farà con ciò che acquista è affar suo. L'analista non può dire al paziente: «Se userai l'analisi in questo o in quest'altro modo, dovrò modificare i termini del nostro accordo». Ancor meno può dire «Se desideri fare un certo uso dell'analisi, non 'ti analizzerò», e quindi por fine al trattamento. (In alcuni casi l'analista può addivenire a tale conclusione, ma dovrebbe farlo durante il periodo di prova. Una volta concluso tale periodo, dovrà rinunciare a questa mossa nel corso dalla partita).

Credo necessario questo tipo di accordo affinché il paziente possa sentire, come dovrebbe, che la terapia è cosa sua e può farci ciò che gli aggrada. Questa fu l'idea etica fondamentale di Freud riguardo la psicanalisi; essa fu intesa come un metodo per rendere la gente libera di vivere la propria vita come lo riteneva opportuno, non come lo ritenevano opportuno le famiglie, la società o il terapista. Questo fine non può essere raggiunto se il terapista lo enuncia semplicemente, ma poi lo tratta come un ideale irraggiungibile.

La sua condotta rivelerà se ci crede o meno. Se ci crede, influenzerà il paziente solo nel senso dell'autonomia e della libertà così da renderlo capace di intraprendere i comportamenti che desidera praticare e di astenersi da quelli che desidera evitare. Se non ci crede, influenzerà il paziente nel senso di determinati tipi di comportamento (ad esempio, l'omosessuale nel senso dell'eterosessualità, il cleptomanie nel senso del non rubare, il fobico nel senso di affrontare la situazione fobica e così via). Se questo genere di sforzi per combattere "i sintomi" può essere "terapeuticamente legittimo", essi non hanno diritto di cittadinanza in psicanalisi. Freud riconobbe ciò, anche se lo contraddisse nella tecnica terapeutica che propose per il fobico e per l'ossessivo. (9 Lines of Advance in Psycho Analytic Therapy (1919), The Standard Edition, vol. XVIII, pp. 165-166.)

7. LA FASE CONTRATTUALE: I. I CONCETTI DI CONTRATTO E DI STATUS

Prima di prendere in considerazione la natura del contratto analitico, esaminiamo la natura dei contratti in generale. Questo chiarirà la differenza tra l'uso che io faccio del termine contratto e l'uso che ne fanno gli altri psicanalisti.

Che cosa è un contratto?

Nel linguaggio di ogni giorno, la parola "contratto" sta a designare un accordo tra due o più persone per fare o per astenersi dal fare qualcosa. Un contratto è un accordo, un patto, una convenzione. La situazione umana indicata da queste voci - e gli atti che ne conseguono, descritti con verbi come "pattuire" e "contrattare" - sono particolarmente rilevanti nel Diritto. Nella teoria legale, il "contratto" viene definito come una promessa, o un insieme di promesse, protette con la legge dalla inadempienza. In questo modo la stessa definizione legale di contratto riconosce che si può addivenire a una rottura del medesimo.

A cominciare da Freud, gli psicoanalisti hanno trattato l'accordo tra analista e analizzando come se fosse un contratto. Essi hanno comunque usato il termine in modo vago, per riferirsi a ogni genere di accordo o intesa fra cliente e terapista circa ciò che ognuno dei due farà o non farà. In nessuna parte della letteratura sulla psicoterapia ho trovato una disamina delle promesse specifiche che paziente e terapista si fanno reciprocamente, né delle penalità nelle quali si incorre in caso di inadempienza. Come nei miei precedenti scritti sul trattamento psicoanalitico, continuerò a usare la parala "contratto" nel senso più stretto del termine. Cosa intendo dunque per contratto analitico?

Il contratto analitico è simile ai normali contratti (legalmente impegnativi) tra venditori e compratori. Esempi di questi sono gli accordi tra una persona ohe sottoscrive una polizza assicurativa sulla vita e la società che assicura il rischio; tra colui che compera immobili, azioni od obbligazioni e il venditore: tra l'individuo che si assicura le prestazioni di qualcuno per imparare la danza o il pattinaggio e la persona che promette di compiere la prestazione.

Inoltre, il contratto analitico, come il contratto legale, si propone la chiarezza piuttosto che l'incertezza e specifica i possibili rimedi nel caso che una delle parti contraenti dovesse mancare alle promesse. Tuttavia presentano anche delle differenze in quanto i consueti contratti sono scritti, mentre i contratti analitici sono verbali; ed ancora, i partecipanti a questi ultimi sanno ohe non esistono sanzioni, né legali né sociali, per punire la parte inadempiente.

Finora il gioco analitico è stato definito, nel migliore dei casi, in modo frammentario. Non sono state specificate le mosse che un giocatore può fare se il partner manca alle promesse fatte: eppure le penalità per infrazione alle regole sono parte integrante di ogni gioco; senza di esse, nessun gioco può essere definito in maniera adeguata. La mia esposizione del gioco analitico, e in particolare del contratto, includerà quindi precise specificazioni e asserzioni, non solo circa le mutue promesse tra analista e analizzando, ma anche riguardo alle azioni che uno dei partners può intraprendere se l'altro bara, commette un errore o si dimostra incapace a giocare la partita.

L'organizzazione dei rapporti sociali

Vi sono due principi fondamentali che regolano i rapporti umani: lo status e il contratto. I rapporti regolati dallo status sono più semplici - legalmente, psicologicamente e socialmente — di quelli regalati dal contratto. Quest'idea fu sviluppata più di un secolo fa da Sir Henry Maine nel suo classico studio sul diritto antico. Egli osservò che nelle moderne società vi è una "graduale dissoluzione della dipendenza famigliare e, al suo posto, un aumento degli obblighi individuali"; e concluse che «il movimento delle società che progrediscono è stato fin qui un movimento dello Status al Contratto». (Ancient Low (1861), J. M. Dent & Sons, London s.d., pp. 99-100.) Esamineremo dapprima questi concetti e li useremo poi per chiarire il rapporto tra medico e paziente, psicoterapista e cliente.

Lo status e la famiglia

La famiglia è il nostro più importante rapporto di status. Da bambini vi occupiamo ì ruoli di figlio, fratello, nipote e così via. Da adulti, se formiamo delle famiglie per conto nostro, stabiliamo una serie complementare di rapporti di status. Dato il significato che la psicoanalisi e altre teorie della personalità attribuiscono alle esperienze dell'infanzia, è evidente l'importanza ohe assume, per la vita umana, il rapporto di status. Per dirla in modo diverso, come giocatori iniziamo la nostra vita apprendendo le regole ddl gioco di status che ci vengono insegnate. Non potrebbe essere altrimenti perché, dati i loro limiti biologici e psicologici, i bambini piccoli non possono fare dei giochi di contratto.

Il modello della famiglia e le regole di status che ne governano i rapporti sono facilmente estensibili a più larghi gruppi sociali e alla comunità politica. La società primitiva è una vasta famiglia regolata da obblighi e privilegi di status. Allo stesso modo, la società predemocratica è una replica della famiglia autocratica. A capo di essa vi è il sovrano, considerato spesso come divino o dotato di poteri sovrannaturali; sotto di lui in varie posizioni stanno i sudditi, indottrinati in modo da conoscere ognuno il suo posto. In una società del genere, i rapporti tra le persone sono predeterminati dalle regole della società; ciò che una persona può o non può fare, è parte del suo status (ed è ciò che, appunto, indichiamo con esso).

Tutte le società erano un tempo regolate da questi principi. In effetti, spesso si asserisce che gruppi (comitati, organizzazioni e perfino intere società) si comportano in maniera più "primitiva" o meno coscienziosa di quanto non facciano gli individui. E infatti così sembra. Tuttavia, prima o poi anche le società e le nazioni crescono. Al pari dei bambini, lo fanno ripudiando i rapporti di status e scegliendo di essere governate da contratti. Abbiamo osservato ciò nel corso della storia e lo vediamo accadere oggi, da noi e all'estero. Vorrei precisare quello che intendo dire.

Il negro americano si ribella perché vuole ripudiare, una volta per tutte, il suo status. Egli chiede di essere trattato come una persona, non come un negro. In altre parole, vuole essere accettato come individuo che stipula contratti, libero di contrattare come un qualunque

altro uomo, e non come individuo che occupa uno speciale status 'inferiore. Ogni tipo di discriminazione, sulla base di criteri sia religiosi che razziali o psichiatrici, fa uso di rapporti di status; ognuna mira a privare la vittima del suo diritto al contratto, e a trasformarla in occupante di uno status.

Nel mondo assistiamo ai fermenti di protesta di quei popoli fino a pochi anni fa o tuttora colonizzati: tutti chiedono la libertà dai ceppi dello status coloniale e il diritto ad essere nazioni che si autogovernano, vale a dire in grado di contrattare liberamente. L'attrattiva dell'ideologia comunista sulle masse dei cosiddetti paesi sottosviluppati non dovrebbe sorprendere. A gente la cui vita è stata ristretta negli angusti confini di miseri status, preclusa ogni via di scampo, il sistema politico comunista offre un certo grado di libertà reale. Li libera da un gioco sociale governato da regole di status sostituendolo con uno governato da regole contrattuali. Senza dubbio il gioco comunista non offre all'individuo (al giocatore comune) tante mosse (tanta libertà politica), quante ne godono i cittadini di una moderna democrazia occidentale.

Non dimentichiamo, comunque, che Inglesi e Americani sono stati governati sulla base del contratto da centinaia di anni. Il loro ideale era un accordo nel quale si impegnavano liberamente sia i governanti che i sudditi; il principio cioè del "consenso di chi è governato". Viceversa, i Russi e molti altri popoli vivevano ancora sotto la tirannide autocratica di un monarca o di un capo quasi divino. Non esisteva contratto sicuro contro l'arbitrio di quest'ultimo. In effetti, il termine "sovrano assoluto" si riferisce a un capo di stato dotato di poteri illimitati, libero dai vincoli di qualunque contratto.

L'essenza del contratto, almeno in questo contesto, è la limitazione di potere. Perché un contratto abbia senso, debbono esistere effettivi provvedimenti per la sua realizzazione.

Il contratto e la società moderna.

Il contratto è nello stesso tempo un fenomeno antico e relativamente moderno. Gli antichi Ebrei fecero un patto con Jehovah; promisero di osservare determinate pratiche religiose in cambio della sua promessa di trattarli come popolo prediletto. Su una base più informale, Greci e Romani fecero dei patti coi loro dei. Naturalmente questi popoli antichi stipularono accordi impegnativi anche tra di loro.

Tutto ciò non meraviglia, poiché fare e mancare alle promesse è facoltà squisitamente umana. Nietzsche, che tanto influenzò Freud, giunse a suggerire che «allevare un animale capace di fare promesse (...) è il compito che la natura si è prefissa». Il risultato è l'uomo. Per quanto ne sappiamo nessun altro animale ha questa capacità. Sebbene l'intuizione di Nietzsche fosse brillante, dobbiamo vederla nel suo contesto. Il fatto che l'uomo faccia promesse è una conseguenza di altre sue capacità, vale a dire creare e usare simboli, stabilire regole, formare lingue e organizzare giochi. Di conseguenza, giocare un gioco di linguaggio, che è capacità umana fondamentale, vuol dire impegnarsi in un esercizio che comprende obblighi e promesse; gli interlocutori si impegnano a usare segni e regole relative ai segni, reciprocamente accettate. (Non sorprende quindi che si consideri lo schizofrenico, che manca appunto a questa promessa, come un essere umano inferiore).

Sebbene sia una qualità umana fondamentale, antica nelle sue radici, la contrattazione ha raggiunto solo recentemente un compiuto significato sociale nella vita quotidiana. Forse perché un contratto è, generalmente parlando, un'intesa fra pari che respinge la costrizione e favorisce la libertà. Sebbene presenti in qualche forma nelle civiltà antiche o primitive, queste idee e questi fenomeni sono fiorita solo in Occidente e dal Rinascimento in poi. Anteriormente le intese sociali si fondavano su rapporti tra persone di ineguale condizione: tra il forte e il debole, l'uomo libero e lo schiavo, il sovrano e il suddito. Simili rapporti erano costrittivi, basati sul comando, anziché cooperativi, fondati sul contratto; essi favorivano la solidarietà di gruppo e la coesione sociale, piuttosto che l'individualismo e la fluidità sociale.

In tutte le società contemporanee, l'importanza dei rapporti di status sta diminuendo mentre va aumentando quella dei rapporti contrattuali. Esistono varie ragioni per questo. Un processo di livellamento sociale, attivo sia nelle democrazie che nelle nazioni comuniste, sta sradicando le grandi disuguaglianze di classe sociale e di ricchezza, tipiche delle società feudali preindustriali. L'influenza della famiglia e della Chiesa, le due istituzioni governate dallo status anziché dal contratto, sta diminuendo continuamente. Al tempo stesso sta guadagnando importanza, malgrado le controversie su "l'uomo di massa" e su "l'uomo organizzazione", l'individuo come unità della struttura sociale. Il risultato è stato il rapido aumento della necessità e del significato del contratto come metodo per regolare i rapporti sociali.

Effettivamente, quando degli individui responsabili desiderano intraprendere un'impresa che richiede gli sforzi di più di un uomo, non c'è che un sistema per creare la collaborazione tra di essi: il contratto. La differenza fra contratto e comando si fa ancora più netta. Il primo si appella agli incentivi, il secondo alle sanzioni. L'uomo che comanda minaccia dei danni al suo simile; quello che contratta gli promette aiuto. Il comando è sadomasochistico, il contratto, reciprocamente edonistico; e forse, cosa più importante ai fini del nostro interesse per la psicoterapia autonoma, il comando implica schiavitù, mentre il contratto implica libertà. La persona che viene comandata può scegliere tra obbedire ed essere punita, la persona alla quale viene offerto un contratto, può scegliere tra l'accettarlo, il respingerlo o il continuare a negoziare.

Contratti e promesse tendono quindi ad allargare la sfera dell'azione indipendente; ordini e status, a restringerla. Gli studiosi del contratto, sono arrivati ad asserire che «il contratto è libertà». In realtà, i due concetti sono così strettamente legati fra loro che possiamo anche sostenere che la libertà è libertà di contrattare. Infine, il contratto rafforza la posizione morale dell'uomo, limitando le sue possibilità di nuocere a un altro uomo. L'opportunità di danneggiare, rubare ed uccidere, come disse il giudice Homes «è aperta all'intero mondo dei senza scrupoli». La legge può punire il furfante, ma ciò è di scarso aiuto alla vittima. Il contratto limita le possibilità di essere danneggiati da coloro coi quali si è stabilito di trattare. Anche se esiste una quantità di persone disposte a infrangere i contratti, siamo liberi di non contrattare con loro. Quindi, con una prudente selezione, è possibile limitare il circolo di coloro che possono nuocere non mantenendo le promesse fatte.

Come ho già suggerito, i contratti sono strategie al servizio di un edonismo illuminato; essi cercano di elevare al massimo le gioie e di ridurre al minimo le pene. Quindi i contratti che regolano rapporti che si estendono per lunghi periodi di tempo debbono prevedere e provvedere alle future contingenze. Molti contratti lo fanno. Le controversie tra le parti contraenti possono quindi essere sistemate ancor prima che sorgano. Anche il contratto analitico deve regolarsi analogamente; analista e analizzando debbono prevedere le possibili difficoltà e preparare in anticipo l'adeguata soluzione: ad esempio, come comportarsi se l'una o l'altra parte disdice un appuntamento, va in ferie e così via.

Lo status, il contratto e il rapporto medico-paziente

Gli attuali rapporti tra medici e pazienti sono complessi. Alcuni sono regolati da norme di status, altri da contratti, la maggioranza da una combinazione dei due metodi. Cosa dà origine a queste diverse situazioni mediche? In generale, il modello adottato dipende dalla posizione sociale dei partecipanti. Nell'interazione fra due persone (o fra due gruppi), se una delle parti è più sofisticata e socialmente più potente, tenderà a dominare l'altra. Se invece, entrambe le parti sono uguali o quasi, è probabile che venga adottato un rapporto contrattuale di mutua collaborazione. Così, non solo il medico può dominare il paziente, ma viceversa.

Se il paziente è povero o si sente indifeso a causa della malattia, il medico può sfruttare la situazione assumendo una posizione di superiorità; può esigere che il paziente si sottometta ai suoi ordini o che subisca le conseguenze. Le penalità per il tentativo di ripudiare il ruolo 'inferiore di paziente, variano. Il paziente può perdere l'assistenza del medico o essere sottoposto a procedimenti diagnostici e terapeutici, razionalizzati e giustificati da un punto di vista medico, ma dolorosi e non necessari. (Nei primi anni di professione medica, ho veduto spesso praticare punture lombari non necessarie a pazienti che non collaboravano; si trattava, naturalmente, di casi di assistenza pubblica). Oppure la persona può essere punita mediante sanzioni legali o sociali: ad esempio, l'internamento in un ospedale psichiatrico.

Se è il paziente, invece, ad essere più potente, il medico può essere posto in una condizione di inferiorità. Ciò si verifica meno spesso che non il contrario, ma non è certo impossibile. Nelle società in cui prevalgono notevoli disuguaglianze sociali ed economiche, è facile che 'il medico sia relativamente povero e socialmente poco importante; egli può quindi trovarsi alla mercè di persone e famiglie ricche e politicamente influenti. Sarà allora il paziente a comandare e il medico ad obbedire. I tentativi del .medico per ripudiare il suo status di inferiorità possono essere puniti con sanzioni che vanno dalle privazioni economiche alla perdita della vita. Il medico che diventa l'agente di una potente istituzione è simile al suo collega, il dipendente schiavo di una potente famiglia feudale; egli abbandona la sua indipendenza che affondava le radici nell'uguaglianza con una molteplicità di clienti individuali che erano al tempo stesso la sua fonte di guadagno.

Questi sono alcuni degli aspetti economici e politici del rapporto medico-paziente che possono renderlo non equilibrato. La mancanza di equilibrio può anche essere dovuta a ragioni mediche e psicologiche. La situazione medica, della quale la situazione analitica è stata tradizionalmente considerata una sottospecie, è di solito una replica della situazione familiare. Come i genitori si prendono cura del bambino, così i dottori si prendono cura del paziente. Il ruolo di medico e analista, come guaritore e come figura paterna responsabile, è fortemente radicata nel pensiero psicoanalitico. (Alcuni psicanalisti credono fermamente che persone "paterne" e "materne" siano analisti particolarmente efficienti). Questa concezione della situazione analitica ha conseguenze di notevole portata.

Se il rapporto tra analista e paziente è analogo a quello tra padre e figlio, allora, per definizione, esso è contrario agli scopi dell'analisi. Come può l'analista aiutare il suo cliente ad essere autonomo e libero nella propria condotta di vita se il rapporto tra di essi è basato sullo status, con il paziente relegato ad un ruolo inferiore, ed ancor più, se l'analista assoggetta il paziente a un'influenza eteronoma, basata sull'autorità e sul comando?

L'errata analogia tra analista e genitore, o tra analista e guaritore medico, è ingannevole in un altro senso. Quest'atteggiamento tradizionalmente "terapeutico" implica una devozione virtualmente senza limiti da parte dell'analista verso l'analizzando. Molti medici e psicoterapisti coltivano questo atteggiamento. Così, il cosiddetto psicoterapista di sostegno, credendo che il suo "prendersi cura" del paziente sia di per sé terapeutico, incoraggia la credulità del paziente circa la sollecitudine del terapista nei suoi confronti. Anche gli psicoterapisti esistenziali, se dobbiamo giudicare da una recente rassegna del loro lavoro (Medard Boss, Psychoanalysis and Daseinsanalysis, Basic Books, New York 1963), incoraggiano l'idea che il terapista debba votarsi, con dedizione illimitata, al benessere del suo paziente. Se il paziente diventa psicotico, il terapista lo assisterà; se non può alimentarsi, sarà il terapista a nutrirlo; e così via.

Questo atteggiamento è fittizio. Come il genitore o il medico, anche il terapista ha i suoi limiti, oltre i quali non può o non vuole interessarsi al paziente. Impegnato ad essere assolutamente onesto col paziente, l'analista deve riconoscere i suoi limiti e informarne il paziente. Se agisce altrimenti, farebbe delle promesse che non potrebbe mantenere. Nessuno, e certamente nessun psicoterapista, può impegnarsi a prendersi completa cura di un'altra persona. Se il paziente dovesse diventare psicotico, richiedesse il ricovero in ospedale e costanti attenzioni come un bimbo malato, come potrebbe il terapista mantenere la sua promessa di prendersi illimitata cura di lui, senza venir meno alla promessa fatta ad un altro paziente? Come potrebbe mantenere le promesse fatte ad altri (moglie, figli, amici)? Il terapista che crea l'impressione che la sua devozione e il suo dovere verso il paziente siano illimitati è un impostore, poiché lo scopo della sua strategia è di farsi grande e di rendere il paziente dipendente, grato e colpevole.

Freud si rese conto che la situazione analitica differisce da quella medica in maniera significativa. Di conseguenza, esaminò la situazione medica e la adattò alle esigenze dell'analisi. Ma, a mio avviso, il suo fu solo un inizio. Il gioco analitico che egli costruì, e che i suoi seguaci istituzionalizzarono, presenta numerose lacune. In particolare conserva troppi aspetti del gioco medico basato sullo status; vale a dire, non è sufficientemente contrattuale. Il mio scopo è quello di continuare il lavoro iniziato da Freud e trasformare la psicoanalisi in un tipo di psicoterapia pienamente contrattuale. Spero che questo libro chiarisca ulteriormente il significato delle mie intenzioni.

Il contratto come comunicazione

Esaminiamo ora il contratto come un particolare tipo di comunicazione. L'analista è principalmente un esperto nel decifrare i messaggi nascosti del paziente. Sebbene importante, questa funzione del terapista deviò l'attenzione dall'esame attento delle sue comunicazioni con il paziente. In passato si è pensato alle comunicazioni dell'analista principalmente come a delle chiarificazioni, interpretazioni, traduzioni e domande. In altre parole, l'analista traduce dal linguaggio del paziente al linguaggio dell'analisi. Ma questo non è tutto.

L'analista fa anche delle promesse. Promesse o contratti formano una speciale classe di comunicazioni. Esse non sono asserzioni su fatti, né tantomeno chiarificazioni, interpretazioni, traduzioni o domande. Le promesse sono asserzioni sul futuro comportamento di chi parla, sono comunicazioni circa le sue intenzioni di seguire determinate regole. Non tutte le affermazioni sul futuro comportamento di qualcuno sono comunque vere promesse. Qui sta una delle differenze tra l'assumere un ruolo di status e fare un contratto.

Ad esempio, se un terapista dice o da ad intendere che cercherà di curare la nevrosi di un paziente, questa non è una promessa. Non è chiaro che genere di condotta è richiesta al terapista per mantenere o venire meno a tale promessa. Alcuni interpreterebbero l'affermazione come un obbligo ad analizzare il paziente; altri a praticargli un trattamento di elettroshock; altri ancora a rassicurarlo e così via.

I contratti o le promesse sono significativi in proporzione alla loro esattezza. Se Tizio e Caio decidono di incontrarsi all'angolo di via del Corso e via Frattina, alle 5 di martedì, questo è un contratto; se sono d'accordo nel vedersi dopo il lavoro, non lo è più. L'essenza di una promessa sta nella costrizione che impone al futuro comportamento di chi promette. Stabilendo quello che sarà il proprio futuro comportamento, si rinuncia a un certo grado di libertà. La persona che dice ad un'altra «ti vedrò alle 5 del pomeriggio», è fisicamente libera di agire in maniera diversa. Tuttavia è moralmente obbligata a mantenere la promessa agendo in conformità all'accordo.

Pertanto, se la psicoterapia autonoma deve essere contrattuale, il terapista non può fare al paziente vaghe promesse come, ad esempio, «mi prenderò cura di te», «proteggerò i tuoi interessi» o anche «ti analizzerò»; deve invece promettere di fare e di evitare determinate cose. Ecco perché sottolineo i dettagli apparentemente poco importanti come l'obbligo dell'analista a non prescrivere medicine, a non comunicare con terzi e così via. Un contratto significativo può essere formulato solo in termini di atti così concreti. Inoltre, una volta stabilito un contratto adeguato e confacente a entrambe le parti, è facile individuare il comportamento che viola i termini dell'accordo. Ad esempio, alcuni pazienti manifestano preoccupazioni circa la partecipazione dell'analista alla loro vita. Riguardo al suicidio, essi potrebbero volere che l'analista li salvi ed anche che li lasci morire tranquilli; oppure potrebbero desiderare che l'analista li ricoveri con la forza in ospedale ed anche che si fidi della loro padronanza di sé stessi.

Se l'analista promette semplicemente di adempiere ai suoi obblighi come medico o psicoterapista, egli non precisa la condotta che ciò comporterà. In verità può facilmente fare questo genere di promesse in quanto rimane libero di agire come vuole. Ma l'essenza di una promessa è che limita la libertà d'azione di chi promette; altrimenti non è una vera promessa. Di conseguenza, molte sono le attività dalle quali l'analista deve impegnarsi ad astenersi: fra queste, il prendere decisioni "terapeutiche" circa il ricovero in ospedale del paziente e il proteggerlo (con manovre extra-analitiche) dal commettere un suicidio. Questa è una promessa che l'analista può mantenere, oltre ad essere coerente con le altre promesse fatte all'analizzando.

Una volta stabilito il contratto, l'analista non è più libero di porsi la domanda: «debbo far ricoverare il sig. Rossi per prevenire un suicidio?» Egli ha rinunciato alla sua libertà di agire al riguardo. Naturalmente può far ricoverare il Sig. Rossi; ma lo fa a costo del suo impegno morale verso il paziente. Né la cosa si ferma qui: la violazione del contratto da parte del terapista è probabile che diventi di dominio comune e influenzi i suoi rapporti con altri pazienti e coi colleghi.

Libertà di contrattare

La libertà è un elemento essenziale del contratto. In verità, non ha significato parlare di un contratto tra persone che non sono libere. Questo fatto è importante in psichiatria e in psicanalisi dato che frequentemente gli psicoterapisti stabiliscono rapporti con pazienti in circostanze nelle quali uno o entrambi non sono liberi di contrattare. Il risultato è che la grande maggioranza degli incontri tra psichiatri e pazienti, e perfino molti tra analisti e i loro clienti, non possono essere contrattuali e pertanto sono non analitici.

Ad esempio, il paziente può essere un bambino, un detenuto, una persona ricoverata in manicomio. Nessuno di loro può stipulare il tipo di contratto bipersonale necessario per un lavoro analitico; e tantomeno lo può il povero che non è in grado di pagare l'analista per i suoi servizi. Per cui, anche se una persona è analizzabile (nel senso tradizionale) l'analisi può nondimeno essere inattuabile. Alla prigione e all'ospedale psichiatrico possiamo aggiungere il servizio militare e le società totalitarie, situazioni sociali in cui il contratto analitico non può essere realizzato per le limitazioni imposte ad una o a entrambe le parti. Nella misura in cui sia il terapista che il paziente non sono liberi (in particolare non liberi rispetto al modo di condurre i reciproci rapporti) sorge un limite esterno, situazionale alla psicoanalisi. Questo limite è insormontabile, quali che siano le doti professionali del terapista e la preparazione psicologica del paziente.

L'idea che l'analizzando debba essere una persona indipendente e socialmente libera non è nuova. Freud disse che cercava di seguire la regola «di non prendere in cura un paziente che non fosse sui juris, non dipendente da altri nei rapporti essenziali della sua vita». (Introductory Lectures on Psychoanalysis (1915-1917), The Standard Edition, voll. XV-XVI, p. 460. ) Ma, detto ciò, egli ed altri analisti procedettero senza curarsi delle conseguenze di questa affermazione e parlarono di "analisi" di bambini, detenuti, psicotici ricoverati in ospedale e privati di tetti i diritti umani, e così va. Coloro che parlano in questo modo dimenticano che non è possibile usare il verbo "analizzare" transitivamente e intendere la psicanalisi come psicoterapia autonoma. L'uso transitivo implica un'attività da parte di un soggetto nei confronti di un oggetto, come quando un chimico "analizza" una sostanza sconosciuta. Ma niente di ciò accade in psicoanalisi. In questo contesto "analizzare" significa, fra le altre cose, contrattare con qualcuno; se il partner del terapista non è in condizioni di contrattare, è assurdo parlare di analisi.

Per la stessa ragione, non ci può essere analisi se l'analista non è in posizione per contrattare. Questa possibilità, sebbene reale e frequente, è di solito ignorata (forse non è soltanto trascurata, ma negata). Quand'è che l'analista non è libero di contrattare per un'analisi? Ciò accade, il più sovente, quando il terapista è il datore di lavoro o un dipendente del paziente oppure un suo superiore in un sistema di training autoritario e coercitivo.

Ad esempio, l'analista può essere il direttore di un reparto di psichiatria e il paziente un suo medico interno o un membro del suo staff. Viceversa, il paziente può essere un professore universitario, mentre l'analista può occupare una posizione inferiore in seno all'Istituto di Medicina. A volte il terapista è impiegato dall'Università per analizzare i medici interni o i membri giovani dello staff (ed è pagato parzialmente o interamente dall'istituzione e non dai pazienti). Oppure il paziente può essere professionalmente importante o eccezionalmente ricco, in grado quindi di beneficiare l'analista in forme diverse dal semplice pagamento dell'onorario. In ognuno di questi casi c'è un conflitto di interessi, attuale o potenziale, tra

il ruolo del terapeuta come analista e come beneficiario della generosità del paziente, o tra il ruolo del paziente come analizzando e come beneficiario della generosità dell'analista. Alcuni conflitti di interesse di questo tipo possono essere riconosciuti in anticipo e prevenuti. Se si riesce a preservare l'integrità della situazione analitica (e questo può dipendere parzialmente dalla personalità dei due individui), allora è possibile negoziare un contratto analitico e svolgere un lavoro analitico. Se invece i conflitti di interesse restano misconosciuti, o peggio vengono ignorati ed è loro concessa un'esistenza extra-analitica non analizzata, allora l'analisi sarà un'impostura.

Questo è il caso dell'attuale analisi didattica. L'analista didatta non è libero di contrattare; la sua libertà essenziale nei confronti dell'analizzando è limitata dalle regole e dai regolamenti del sistema di training psicoanalitico. Quando si urtano gli interessi del paziente e quelli dell'organizzazione didattica, sono questi ultimi a prevalere.

La posizione dell'analista didatta di fronte al candidato è paragonabile a quella dello psichiatra dell'ospedale statale di fronte al paziente internato (o viceversa). Nel manicomio statale né lo staff psichiatrico né il paziente internato sono liberi; lo psichiatra è obbligato a "prendersi cura" del paziente e il paziente è costretto ad assumere il ruolo di malato. I due non possono contrattare poiché ognuno è privato della libertà di agire responsabilmente verso il partner. Così al paziente internato non è consentito di assumere o congedare lo psichiatra, di disporre dei propri fondi, di regolare i propri movimenti nello spazio e nel tempo e così via. Analogamente, all'analista didatta non è consentito il salvaguardare le confidenze del suo candidato-paziente, di stabilire l'onorario, di permettere al paziente l'autonomia nella sua condotta di vita, e così via.

Possono esservi ancora altre restrizioni, sia per il candidato che per il didatta, alla libertà di contrattare reciprocamente. L'assegnazione dell'analista didatta al candidato e del candidato al didatta, la frequenza delle sedute, la lunghezza minima dell'analisi, la posizione del paziente sul divano: tutto questo può essere determinato da terzi. In breve, il contratto fra l'analista didatta e l'istituto psicoanalitico e quello fra il candidato e l'istituto, lasciano poco spazio a un rapporto contrattuale fra candidato e analista didatta. Questo è stato uno dei tragici errori della psicoanalisi come professione. Ed è probabilmente il motivo principale per cui gli aspetti autonomi e contrattuali della psicoanalisi sono rimasti così a lungo in forma embrionale. Come un feto deformato da un campo di radiazioni ionizzanti, la psicoanalisi è stata deformata dal campo sociale che coloro che la praticano hanno dovuto attraversare.

Il sistema di training analitico è contrario ai valori fondamentali del trattamento psicoanalitico come terapia autonoma. La primitiva promessa della psicoanalisi come psicoterapia contrattuale si è così dissolta nel nulla. Al suo posto abbiamo assistito alla nascita e alla crescita di questo mostro psicoterapeutico contemporaneo che è la psicoanalisi istituzionalizzata, medicalizzata. Questa psicoanalisi è una disciplina professionale coesiva, un influente movimento sociale e una potente ideologia. Ma come forma di assistenza umana, è una mistificazione. Non è una terapia medica bona-fide, non una psichiatria organi-cista direttiva, non la psicoanalisi freudiana; al contrario è un imprevedibile miscuglio di questi tre elementi.

8. LA FASE CONTRATTUALE: II. IL BRIDGE CONTRATTO E LA PSICOTERAPIA CONTRATTUALE
Dal periodo di prova al contratto

E' utile, sia per concettualizzare l'incontro terapeutico che per condurre l'analisi, considerare il periodo di prova e la fase contrattuale come due fasi distinte della terapia. Al tempo stesso è necessario avere un'idea chiara circa la connessione fra queste due fasi del trattamento.

In termini di teoria del gioco, il periodo di prova è un gioco a motivazioni miste, mentre il periodo contrattuale è un gioco di interesse comune. Durante il periodo di prova alcuni degli scopi dei giocatori coincidono mentre altri sono in contrasto; durante la fase contrattuale i loro interessi convergono progressivamente. Sebbene questa possa essere considerata una situazione ideale, nella pratica è spesso possibile avvicinarsi ad essa.

Qual è la connessione tra la fase di prova e la fase contrattuale? Benché le abbia descritte come due diversi tipi di gioco, sono in realtà due fasi dello stesso gioco. Là fase di prova e la fase contrattuale della psicoterapia autonoma, sono connesse funzionalmente: la prima è uno stadio introduttivo o preliminare che può o meno condurre a un successivo stadio di lavoro. Un rapporto simile esiste tra il fidanzamento e il matrimonio nel gioco famigliare; fra la trattativa e l'accordo (e il lavoro) nel gioco degli affari; e tra la dichiarazione e il giocare una mano in una partita di bridge.

In ognuno di questi casi osserviamo una sequenza di rapporti umani a due fasi: un periodo di associazione precaria seguito da un altro di associazione stabile. Così il gioco del matrimonio, se giocato autonomamente, presuppone che i partecipanti cerchino di conoscersi mutuamente e coordino i loro fini e le loro speranze in vista della loro unione potenziale. Se non hanno "gli stessi interessi" per il matrimonio, vale a dire se non si propongano di giocare un gioco di interesse comune come marito e moglie, il loro rapporto crollerà in un conflitto.

E' chiaro dunque che se vogliamo trovare un modello di gioco per il rapporto analitico, questo dovrà essere il bridge e non gli scacchi. In effetti, analizzando la struttura di questo gioco, otteniamo un utile spunto per la comprensione della psicoanalisi.

Il bridge e la psicoanalisi

Il bridge è un gioco complesso, in parte di fortuna e in parte di strategia. Inoltre, seppure ogni coppia ingaggia con l'altra un gioco di puro conflitto, i partners giocano fra loro un gioco di collaborazione pura. Infine è un gioco bifasico: un periodo di dichiarazione precede il gioco di una mano. Comunque, se vogliamo usare il bridge come modello per la psicoanalisi, dobbiamo concentrarci su quegli aspetti del gioco che sono rilevanti ai nostri fini. Salteremo quindi la distribuzione delle carte e, pertanto, il fattore fortuna nel gioco; dobbiamo anche ignorare il rapporto competitivo fra le due squadre. Ciò che rimane sono i due giocatori, i partners di una coppia, ognuno con 13 carte io mano.

Una somiglianza di fondo tra il bridge (auction o contratto) e la psicoterapia contrattuale è che entrambi sono giochi bifasici: ognuno comincia con una posizione iniziale caratterizzata dalla reciproca esplorazione e da un impegno di prova per una futura collaborazione. Entrambi evolvono verso una di queste due situazioni successive. Se è possibile giungere a un accordo ci sarà un contratto e quindi un reciproco impegno per un gioco di comune interesse; se non si potrà giungere a un accordo, non vi sarà contratto. Nel caso del bridge questo può significare o una nuova distribuzione di carte oppure che la squadra in difesa collaborerà non già nel giocare una mano o nel mantenere un contratto ma nel tentare di sconfiggere gli avversari. Nel caso del paziente e del terapista, ciò significherà la possibilità di separarsi oppure la decisione di continuare un rapporto di prova senza promesse di impegno contrattuale più duraturo. E' come un fidanzamento prolungato che può finire in una separazione o in un matrimonio. A volte i pazienti preferiscono non entrare in una situazione di impegno di alcun genere; ne può quindi derivare un periodo di prova prolungato. Se può essere mantenuta una reciproca, adeguata autonomia, non c'è alcuna ragione valida perché l'analista non accetti questo genere di sistemazione provvisoria. In verità, per alcuni pazienti, la maggior parte della terapia può svolgersi in quello che l'analista considererebbe la fase di prova.

Auction bridge e bridge contratto

Le differenze tra l'auction bridge e il bridge contratto sono più istruttive delle analogie. Come i termini stessi indicano, l'auetion-bridge (bridge asta) rassomiglia a un procedimento di asta, mentre il bridge contratto a un processo di contrattazione. I termini sono adeguati e si possono prendere abbastanza alla lettera. Come in un'asta, la dichiarazione nell'auction-bridge tende ad essere illimitata perché, per giocare una mano, ogni squadra deve rilanciare sull'altra. Inoltre, le penalità per la dichiarazione in eccesso e per il mancato rispetto del proprio contratto sono leggere. Di conseguenza, le regole del gioco dell'auction-bridge incoraggiano la dichiarazione non meditata nella speranza che, con un po' di fortuna, il giocatore sia in grado di realizzare la dichiarazione. E' infine significativo che, seppure è necessario che due partners comunichino fra loro (ad esempio per stabilire il seme da giocare), questa necessità non è molto grande. Piuttosto ogni giocatore è propenso a giocare in maniera egoistica, ad essere più interessato alle proprie carte e a ciò che può fare con esse, che non a stabilire una solida associazione con il compagno.

Il bridge contratto, benché somigliante all'auction-bridge per quello che sono le apparenze esterne, come ad esempio le carte usate e le regole per giocare una mano, è un genere di gioco radicalmente diverso. Le regole del bridge contratto non premiano unicamente chi gioca la mano; al contrario, la difesa può essere più conveniente. Di conseguenza, il livello della dichiarazione non è quello di un'asta: quanto più alto, tanto meglio. Non si può acquistare nulla ad un'asta facendo delle offerte basse, anche se in questo modo si risparmia denaro. Analogamente, non si può vincere giocando l'auction bridge con una dichiarazione limitata e costantemente prudente.

Nel bridge contratto, d'altra parte, la dichiarazione serve a ciascun giocatore per informare il compagno della forza o debolezza del proprio gioco, in modo da poter giungere a un contratto che possa essere rispettato. A lungo andare (con giocatori di eguale bravura), vincerà quella coppia che abitualmente né si mantiene bassa, né eccede nelle dichiarazioni. La coppia che dichiara al di sotto delle sue possibilità non raggiunge il punteggio che avrebbe potuto fare; può anche lasciar giocare e vincere la coppia avversaria, pur avendo avuto la possibilità di fare una dichiarazione migliore di quella degli avversari. La coppia che eccede nella dichiarazione viene penalizzata severamente per la sua inadempienza al contratto.

Il bridge contratto e la psicoterapia contrattuale.

C'è uno stretto parallelismo fra il bridge contratto e la psicoterapia contrattuale. I giocatori di bridge si conoscono attraverso la dichiarazione; il paziente e il terapista giungono a conoscersi effettuando determinate mosse durante il periodo di prova. In entrambi i giochi, ciascun giocatore deve cercare di accertare ciò che il compagno possiede o di cosa è privo; deve inoltre informare il compagno su ciò che lui stesso ha o non ha. All'inizio, l'associazione è precaria. Nessuno dei due partecipanti sa cosa ne verrà fuori; ognuno basa i propri piani, per l'azione successiva, sull'informazione che riceve dal compagno. Quindi, nel bridge contratto, un giocatore dichiara sulla base di ciò che il suo partner ha dichiarato (e su ciò che hanno dichiarato i suoi avversari; ma per il momento possiamo lasciar da parte quest'aspetto) ed anche sulla base delle carte che ha in mano.

Se una persona si impegna a giocare questa mano e non un'altra, sarà influenzata dalle mosse del compagno, ma solo entro certi limiti; non farà, ad esempio, una mossa incompatibile con le carte che ha. In breve, un buon giocatore di bridge non farà promesse che non è in grado di mantenere (a meno che non faccia deliberatamente un contratto che sa di non poter rispettare, per frustrare i suoi avversari - altra situazione del bridge che dobbiamo accantonare).

Il periodo di prova che precede la fase contrattuale della psicoanalisi è paragonabile alla dichiarazione nel bridge-contratto. In entrambi i casi i giocatori sono interessati o a cambiare un gioco a motivazioni miste in uno ampiamente cooperativo, oppure a respingere un'associazione reciprocamente vincolante. Nel brigde i compagni cercano di arrivare a un contratto che siano in grado di rispettare; se dalla dichiarazione emerge che ciò non è possibile, si accordano per non contrattare. Allo stesso modo cliente e analista cercano di stabilire un contratto reciprocamente soddisfacente; ma se non possono farlo, decideranno di non vincolarsi in un rapporto terapeutico.

In una situazione di gioco di questo tipo, i giocatori possono raggiungere i loro scopi solo comunicandosi reciprocamente la verità circa il proprio comportamento e le proprie aspettative. Ho già sottolineato come paziente e analista debbano comunicarsi onestamente ciò che ognuno offre all'altro. Se i giocatori non sono sinceri si inganneranno l'un l'altro e renderanno difficile, se non impossibile, ogni ulteriore collaborazione. In particolare, il terapista che promette, con parole o atti (ad esempio con certe mosse nella fase iniziale della terapia), di fare per il paziente cose che in seguito non vorrà o non potrà realizzare, agisce come un giocatore di bridge che dichiari in eccesso; quando mostrerà al compagno il proprio gioco, quest'ultimo si renderà conto di essere stato ingannato. Al pari dei giocatori di bridge che si ingannano vicendevolmente, i pazienti e i terapisti che agiscono in questo modo vanno incontro ad una comune sconfitta.

Due tipi di bridge - Due tipi di psicoterapia

Le differenze tra l'auction-bridge e il bridge contratto aiutano a spiegare le differenze tra le psicoterapie organizzate in modo elastico (caotico), sulla base di una "comprensione psicodinamica", e la psicoanalisi (contrattuale).

Sebbene le differenze possano sembrare piccole o sottili, l'auction bridge e il bridge contratto sono due giochi radicalmente diversi. Le analogie si riferiscono ad elementi non essenziali, come le carte e la struttura del gioco, il giocatore di bridge inesperto rimarrà impressionato dalla somiglianza tra questi due tipi di bridge; l'esperto resterà invece stupito dalle differenze, sino al punto di poter considerare l'auction-bridge come il contrario del bridge contratto o come una sua deformazione. (In realtà fu l'auction bridge ad essere inventato per primo; in seguito fu perfezionato nel bridge contratto).

Si possono fare, e sovente si fanno, identiche considerazioni su due tipi di gioco psicoterapeutico, vale a dire sulla cosiddetta psicoterapia a orientamento psicoanalitico (che d'ora in avanti indicherò come "terapia psicodinamica" o "terapia armonica") e la psicoanalisi. Le somiglianze tra esse sono superficiali, le differenze fondamentali. Senza dubbio entrambe le imprese consistono soprattutto in uno scambio reciproco di comunicazioni verbali e non verbali tra un paziente e un terapista che si incontrano in un ambiente professionale, di solito lo studio del terapista. Tuttavia, esse differiscono radicalmente negli scopi della terapia e nel comportamento dei partecipanti. In verità, all'esperto del gioco terapeutico possono perfino apparire antitetiche. Naturalmente, la polarità che spesso è tracciata fra la terapia armonica e la psicoanalisi rappresenta un giudizio, e come tale rivela qualcosa, non solo dell'oggetto, ma anche della persona che giudica e dei suoi particolari interessi. Per un individuo che conosce poco il gioco delle carte, le analogie tra l'auction-bridge e il bridge contratto supereranno di gran lunga le differenze mentre, per un esperto bridgista, l'auction bridge è un sacrilegio che non merita il nome di bridge.

La situazione è la stessa in psicoterapia. Per l'internista o il chirurgo, o anche per lo psichiatra organicista, le somiglianze fra terapie psicodinamiche e analisi sono notevoli, le differenze insignificanti. Tuttavia per lo psicoanalista, per il sociologo e per molte persone che cercano una psicoterapia, le differenze fra terapie armoniche e psicoanalisi spesso sono, e certamente devono essere, molto più significative che non le analogie. Esaminiamo le differenze utilizzando il contrasto fra 1'auction-bridge e il bridge contratto.

La dichiarazione - Il periodo di prova

Il bridge e la psicoanalisi sono giochi a due fasi. In ogni fase i giocatori hanno una meta prossima ed una lontana; la prima non è che un mezzo per raggiungere l'altra. In entrambi, il carattere del primo periodo del gioco (dichiarazione nel bridge e periodo di prova in psicoterapia), dipenderà dal fatto che si tratti di auction bridge o di bridge contratto e di psicoterapia psicodinamica oppure autonoma. Qual è lo scopo della fase iniziale in ciascuno di questi giochi? Nell'auction bridge, essendo la difesa una strategia meno interessante e remunerativa dell'attacco, i partners saranno più portati a creare un'attiva associazione che non a darsi l'un l'altro delle corrette informazioni sulle carte in loro possesso. Di qui la probabilità che ogni giocatore faccia al compagno "promesse" che rischia di non poter mantenere, facendo dichiarazioni in eccesso o dando informazioni errate.

Più precisamente, nell'auction-bridge la dichiarazione ha lo scopo di scegliere il seme che diventerà "atout" o di giocare "senz'atout". Non vi sono penalità per la dichiarazione in difetto. Indipendentemente da quanto sia bassa la dichiarazione, il giocatore e il compagno segneranno tutte le mani vincenti; in altre parole, i contratti possono essere rispettati in eccesso, ottenendo un profitto. Inoltre, le penalità per le dichiarazioni in eccesso e per il mancato rispetto del proprio contratto sono lievi. Questo rende la dichiarazione nell'auction bridge molto meno impegnativa che nel bridge contratto.

La pratica generale della psichiatria, e specialmente della psicoterapia non analitica e non contrattuale, è fondata sugli stessi principi nell'auction bridge. Il periodo iniziale è al servizio di un particolare scopo: e cioè che ogni partecipante faccia del suo meglio per andare d'accordo con l'altro in modo che si possa sviluppare un "rapporto terapeutico". Quindi paziente e terapista non utilizzano questo periodo per scambiarsi delle informazioni sulle reciproche aspettative; al contrario il terapista eccede nella dichiarazione, offrendo al paziente qualunque cosa ritiene che quest'ultimo necessiti o desideri; il suo obiettivo principale è di continuare col paziente abbastanza a lungo da interessarlo "alla terapia". E' probabile che il paziente giochi un gioco complementare; che faccia, cioè, del suo meglio per essere un "buon paziente" e per evitare di essere respinto dal terapista, perdendo così l'opportunità di essere curato.

Come i giocatori dell'auction bridge, il terapista e il paziente che agiscono in questo modo, sprecano la prima fase del loro incontro. Essi non approfittano di quest'opportunità per prepararsi a una più armoniosa, futura collaborazione. Al contrario, ingannano se stessi e il compagno credendo di doversi preoccupare solo di una cosa alla volta. Si comportano seguendo il principio di prendere ciò che si può, secondo il detto «meglio l'uovo oggi che la gallina domani». Così, i giocatori dell'auction bridge sono soddisfatti se possono accordarsi su un contratto remotamente plausibile che gli permetta di giocare; si preoccuperanno poi di rispettarlo.

Allo stesso modo, il terapista psicodinamico e il paziente sono soddisfatti se possono stabilire un rapporto terapeutico remotamente plausibile che dia al terapista una opportunità per sottoporre il paziente al genere di trattamento che il terapista stesso ritiene necessario, e che dia al paziente l'opportunità di assoggettarsi al tipo di influenza terapeutica che crede lo possa aiutare; solo più tardi si preoccuperanno del fatto che "la terapia" sia terapeutica o nociva. E come dovranno preoccuparsene! In tali condizioni, d'associazione è male impostata e non potrà funzionare in modo onesto ed efficiente una volta che ne esista la possibilità. Solo allora i compagni di squadra scopriranno di essersi fuorviati a vicenda e di aver raggiunto non una situazione di pura collaborazione ma, in effetti, di conflitto non riconosciuto. Ciò che inizia come psicoterapia non contrattuale, presto diviene una psicoterapia caotica. Né il terapista né il paziente sanno cosa l'altro intende fare; invece di collaborare in uno sforzo comune, ognuno è occupato a proteggersi dalle intrusioni dell'altro.

Nel bridge contratto, i giocatori cercano di arrivare a un contratto che siano in grado di rispettare. Se ciò appare impossibile, proveranno a far fallire il contratto che i loro avversari hanno stabilito e che a loro volta tenteranno di rispettare. La dichiarazione in eccesso è severamente penalizzata ed è, pertanto, evitata; anche una dichiarazione in difetto costa cara. (Una caratteristica distintiva del bridge contratto è che una coppia non può segnare per la partita i punti fatti, relativi a quelle mani che non si era impegnata a realizzare; ciò invece è possibile nell'auction bridge).

La dichiarazione è una parte molto più importante nel bridge contratto che non nell'auction bridge. E' relativamente facile imparare a giocare correttamente le proprie carte; è molto più difficile, e richiede coordinazione col compagno, imparare a fare una buona dichiarazione. La vera abilità nel bridge contratto consiste soprattutto nel fare una dichiarazione accurata e tuttavia piena d'immaginazione. Ogni giocatore deve arrivare ad una precisa intesa col compagno su quello che, come coppia, possono e debbono fare, ed anche su quello che non possono e non debbono fare. Se il contratto è frutto di un buon negoziato, vale a dire se la dichiarazione è stata esatta, un buon giocatore di solito è in grado di rispettarlo. Le regole di gioco del bridge contratto ricompensano inoltre una buona dichiarazione. Guadagnare il privilegio di giocare una mano non è di alcun vantaggio; la squadra che si difende può segnare dei punti altrettanto efficacemente.

Il periodo di prova ha per la psicanalisi lo stesso significato che la dichiarazione ha per il bridge contratto. Primo, il terapista e il paziente debbono informarsi sul genere di cose che vogliono e che possono offrirsi l'un l'altro. Se sono in grado di farlo, arriveranno a un contratto (per giocare la psicoanalisi); ma non si impegneranno in questo contratto se non saranno sicuri di poterlo rispettare. Come la dichiarazione nel bridge contratto, il periodo di prova è situato in un contesto che scoraggia il semplice accordo tra i giocatori, basato su vane speranze e false promesse. Paziente e terapista procedono con l'intendimento di doversi prima conoscere; solo allora prenderanno in considerazione se unirsi in una associazione impegnata in un compito ben definito. Inoltre comprendono, e sono d'accordo, che è meglio non formare una associazione piuttosto che formarne una che non possa far fronte ai propri obblighi.

Il periodo di prova nella psicoterapia contrattuale è quindi un'impresa altamente responsabile per entrambi i partecipanti. A differenza di quelli che si imbarcano in una psicoterapia caotica, il terapista autonomo e il suo paziente mantengono un'associazione precaria, vale a dire prolungano il periodo di prova finché o si dissolve o si trasforma in una solida unione. Al contrario lo psicoterapista caotico e il suo paziente non si rendono generalmente conto di quanto sia precaria la loro associazione, se non dopo essersi convinti della sua stabilità.

Giocare le proprie carte - rispettare il contratto terapeutico

A causa della sua struttura, nell'auction-bridge i giocatori non hanno alcun incentivo a fare una dichiarazione accurata o a farne una più alta del necessario (se non per togliere il gioco ai loro avversari). Fintanto che il seme dell'atout è scelto correttamente, ai fini di segnare punti durante la partita una dichiarazione bassa è valida quanto una alta; e naturalmente è più sicura, in quanto protegge dall'andare sotto. Ciascun giocatore cercherà di fare quindi il proprio gioco o di aiutare il compagno a fare il suo; ogni giocatore cercherà inoltre di scegliere l'atout correttamente e di dichiarare il meno possibile. Il risultato è che i punti segnati durante il gioco raramente saranno quelli annunciati nella dichiarazione. Il gioco è pertanto non contrattuale, o contrattuale soltanto in senso molto generico.

Nel bridge contratto, bisogna dichiarare con esattezza il massimo punteggio realizzabile poiché non vengono accreditati (come punti partita) i punti non dichiarati. Ciascun giocatore cercherà pertanto di fare una dichiarazione informativa e precisa; cercherà inoltre o di dichiarare il massimo che ritiene di poter realizzare (fino al livello di manche o di slam), oppure di sconfiggere i suoi avversari. Come risultato, il numero di prese segnate durante il gioco è spesso identico a quello annunciato nella dichiarazione finale. Il gioco è squisitamente contrattuale.

Il modo di condurre le terapie psicodinamiche è paragonabile a una partita di auction-bridge. I partners fanno solo le più vaghe offerte di accordo: nel bridge si accordano solamente sul seme; nella psicoterapia unicamente sul tipo di rapporto (psicologico anziché, diciamo, chirurgico o dermatologico). Ma entro questi ampi limiti, non è chiaro in anticipo come sarà il rapporto. Difatti il terapista spesso progetta di realizzare le proprie idee sulla terapia solo dopo che il paziente si è impegnato nel rapporto; e questo accade abbastanza spesso anche per il paziente. In tal modo, la fase attiva della terapia presto diviene non un contratto franco, ma un conflitto caotico in cui ogni partecipante cerca di indurre l'altro a giocare secondo le proprie regole e a perseguire i propri scopi.

Davanti a una situazione di questo tipo è probabile che il terapista faccia ricorso a una costante revisione del rapporto e dell'"intesa" tra lui ed il paziente. Ad esempio, il terapista può cominciare con un rapporto bipersonale confidenziale, usando solo la conversazione. Presto il paziente può diventare depresso e incapace di dormire; il terapista può rispondere prescrivendo delle medicine (revisione numero uno). La depressione può farsi più profonda e il terapista preoccuparsi che il paziente possa suicidarsi; può allora consigliare il ricovero e la cura ospedaliera del paziente (revisione numero due). E così via.

Altri cambiamenti possono servire più direttamente alle necessità del terapista. Ad esempio, se il terapista desidera aumentare il suo onorario, può ridurre la frequenza degli appuntamenti col paziente e aumentarne il prezzo; se sente il bisogno di un periodo di riposo, può prescrivere al paziente una "interruzione"; oppure, se si stanca di un paziente, può terminare il trattamento.

La caratteristica distintiva della psicoanalisi è il contratto. Esso limita il terapista in quello che può fare nei confronti del paziente. Egli ha un contratto col paziente ed è impegnato moralmente (per ora non legalmente) a rispettarne i termini. Né, tantomeno, di terapista può alterare il contratto perché lo richiede il paziente. Al contrario, una tale richiesta è un portare acqua al mulino analitico.

C'è un'importante differenza fra il contratto analitico e il "contratto" sul quale si accordano i partners nel bridge, e cioè il potere di ciascun giocatore nei confronti del compagno. Nel bridge, i partners sono sullo stesso piano: ognuno di essi può aiutare o nuocere al compagno, tanto quanto quest'ultimo può aiutare o nuocere a lui. Ma questo non è vero nel caso della psicoanalisi; l'analista può aiutare o nuocere al paziente molto di più che non viceversa. Il cliente è in una posizione più debole dell'analista. Il contratto analitico serve in parte a ridurre questa diseguaglianza e a proteggere il paziente dal potere dell'analista.

A questo proposito, possiamo prendere la Costituzione degli Stati Uniti come modello del contratto analitico. Anche qui si tratta di un accordo fra due parti moralmente uguali, ma di fatto (socialmente) diseguali: i governanti e coloro che sono governati. Cosa specifica la Costituzione? In modo significativo, richiede poco a chi è governato; implicitamente, è ovvio, esige che si obbedisca alle leggi. Principalmente, comunque, la Costituzione (ed altri documenti analoghi) precisa determinate cose che coloro che sono al potere debbono e non debbono fare. In effetti, è una promessa da parte dei governanti a limitare il proprio potere. Nell'adempimento delle funzioni di governo essi rinunciano all'autorità arbitraria e all'azione discrezionale a vantaggio di misure specifiche, ad esempio, di regolari processi.

Così come io lo concepisco, il contratto analitico si propone la stessa cosa. Nell'esercizio della tradizionale funzione curativa, il terapista rinuncia al potere arbitrario e ai giudizi discrezionali, con cui di regola si giustifica, a favore di specifiche limitazioni.

Naturalmente, questo atteggiamento può essere mantenuto solo verso quel paziente che si assume la responsabilità della propria condotta e delle sue conseguenze sociali.

Libertà, costrizione e rapporto psicoanalitico

Il terapista tradizionale stabilisce alcune regole per il paziente e le giustifica appellandosi agli interessi della "terapia". Questo è un argomento specioso del quale facilmente si abusa; per cui dovremo essere cauti al riguardo. In realtà non esiste una tale cosa chiamata "terapia"; c'è solo un determinato terapista, un determinato paziente e le loro comunicazioni, in particolare le loro reciproche promesse. In teoria, le "necessità dell'analisi" richiedono e giustificano l'idea che terapista e paziente seguano certe regole. In pratica, comunque, "la terapia" non ha necessità; solo il terapista e il paziente ne hanno.

Non è quindi sufficiente per l'analista proclamare la sua adesione all'etica dell'autonomia; deve anzitutto viverla. Se l'etica dell'autonomia è fondamentale per la psicoanalisi, la sua prassi deve iniziare dal di dentro, nella situazione analitica. Questa è la ragione principale per cui l'analista non deve imporre ai pazienti vari tipi di regole che non siano quelle minime e accordate, necessarie per la psicoterapia autonoma.

Queste considerazioni convergono in una singola proposizione: per preservare l'autonomia del paziente nella situazione terapeutica, l'analista deve levitare ogni costrizione non necessaria. Poiché l'unica cosa della quale l'analista ha realmente bisogno (o dovrebbe averne) è il denaro, l'unica sua legittima richiesta al paziente è il denaro. Difatti, che altre esigenze può avere l'analista nella sua qualità di terapista autonomo? Certamente non può chiedere al paziente di sdraiarsi sul divano o di associare liberamente, di astenersi dal comportamento sessuale sbagliato o dall'infrangere la legge, o nessuna delle miriadi di cose che i terapisti richiedono ai loro pazienti.

Come chiunque altro, il terapista è una persona reale ed ha pertanto necessità reali. Ma nel corso dell'analisi può aspettarsi che il paziente soddisfi uno solo dei suoi bisogni, e cioè la sua necessità di denaro. Praticare l'analisi è una professione; è il modo con cui l'analista si guadagna da vivere. Ecco perché è "realistico", psicologicamente e socialmente, che il paziente paghi l'analista.

Se l'analista si aspetta che il paziente soddisfi altre necessità, rovina l'analisi. Ad esempio, il terapista può sentire il bisogno di essere un buon genitore, di essere amato e ammirato, di essere perdonato, di soccorrere il debole, di fare segrete alleanze coi pazienti contro il mondo esterno, di fare il medico, di ricostruire personalità e così via. Ma perché aspettarsi che sia l'analizzando a soddisfare questi bisogni? Secondo me, non c'è motivo che il paziente soddisfi uno di questi (o altri) bisogni più di quanto non dovrebbe soddisfare, ad esempio, i desideri sessuali dell'analista. Il terapista deve appagare le sue aspirazioni e le sue necessità mediante oggetti che non siano il paziente. Ripeto, l'analizzando deve all'analista solo del denaro. E' ovvio che la propria trasformazione costerà al paziente più che non il solo denaro, ma il costo extra non va pagato all'analista.

L'intesa che l'analizzando sia privato di certe opportunità di soddisfare i bisogni dell'analista, può anche essere fonte di difficoltà; è necessario rendersi conto di ciò e guardarsene. Ad esempio, l'analista può essere portato a credere di "dare" molto al paziente e di non "ricevere" nulla in cambio; ciò farà sentire il terapista generoso e magnanimo, e, in via reattiva, forse altrettanto esigente. La situazione è paragonabile a certi rapporti tra figlio e genitore o tra marito e moglie dove ognuno si sente sfruttato dal partner o colpevole nei suoi confronti. Come possiamo evitare tutto ciò?

La miglior salvaguardia è la base economica del rapporto analitico. L'analista di solito ha bisogno del denaro che il paziente gli paga. Per il terapista, l'onorario è l'evidenza tangibile che egli "riceve" qualcosa dal paziente; è quindi probabile che si senta meno sfruttato (specialmente se considera l'onorario abbastanza alto). Comunque, affinché la transazione pecuniaria abbia il significato che le attribuisco in questo caso, l'analista deve sentirsi a suo agio a questo riguardo. Se egli nega o minimizza ciò che il denaro significa per lui, priverà il paziente della possibilità di pagarlo col solo denaro e lo graverà dell'aspettativa di altre forme di "pagamento". Se, d'altra parte, l'analista sopravvaluta il denaro, commetterà altri errori. Timoroso di perdere il paziente, stabilirà parcelle troppo basse e se ne risentirà. Avido di guadagnare quanto più possibile, stabilirà parcelle troppo alte e allora sarà il paziente a risentirsene. Oppure l'analista abbandonerà del tutto l'analisi e offrirà al paziente qualunque cosa quest'ultimo mostri di voler acquistare.

Se il contratto analitico è stato negoziato correttamente, l'onorario dovrebbe soddisfare entrambe le parti. L'analista si deve sentire ben pagato per le sue prestazioni, e l'analizzando dovrebbe sentire che deve all'analista solo del denaro e solo nella misura in cui può permetterselo. Di nuovo, ciò comporta determinate conseguenze pratiche. Il contratto per l'onorario o, più genericamente, per l'importo che il paziente deve all'analista, spesso non viene rispettato in due modi. Primo, l'analizzando può rifiutarsi di pagare o essere in ritardo nel pagamento; se l'analista non sospende il trattamento, ma riduce gli onorari o lascia che il paziente accumuli un debito, avrà terminato il rapporto analitico e creato in sua vece una situazione psicoterapeutica che non è né analitica né autonoma. Secondo, in risposta alle aspettative dell'analista o per ragioni sue personali, l'analizzando può voler fare per l'analista qualcosa di più che non pagare l'onorario (ad esempio finanziarne le ricerche, fargli regali di valore e così via); se l'analista consente al paziente di adempiere in eccesso il contratto, ciò che avrà ottenuto è la distruzione del rapporto analitico.

Le condizioni che ho delineato sono quelle di un'analisi ben riuscita; esse creano un'atmosfera nella quale il paziente si rende conto che la terapia è sua e di nessun altro. D'altra parte, se il terapista prescrive varie regole (come quella che il paziente si sdrai sul lettino, faccia libere associazioni, racconti i suoi sogni), creerà inevitabilmente una situazione nella quale il paziente potrà collaborare o meno, potrà essere un buon paziente o un cattivo paziente e così via.

Tutte queste possibilità e le complicazioni che ne derivano si evitano se l'analista rinuncia al ruolo tradizionale di medico o di terapista che cerca di svolgere un lavoro sul paziente o sulla sua malattia. Al contrario, adottando il ruolo dell'esperto che offre i suoi servizi e diventa contrattualmente obbligato nei confronti del cliente, il terapista manterrà abbastanza potere per realizzare il suo compito che è quello di svolgere il ruolo di analista. Al terapista non occorre altro potere all'infuori di questo, perché non ha bisogno di giudicare se il cliente è un buon paziente o un cattivo paziente, di intervenire come autorità nella vita extra-analitica del cliente; anzi, il possesso di tale potere interferisce con lo svolgimento del compito analitico.

L'integrità del rapporto analitico

Le regole del gioco analitico servono a un unico scopo fondamentale; preservare 1 (integrità del rapporto analitico. E' impossibile giocare il bridge contratto se ad uno dei giocatori è consentito di barare perché si lamenta di un mal di testa. Un contratto non è tale nella misura in cui può essere rotto. Questa, è soltanto questa, è la ragione per cui l'analista deve evitare i ruoli di medico e di psichiatra. Questi sono ruoli di status, non ruoli di contratto; essi danno a chi li riveste il diritto, e di fatto la responsabilità, di prendere la situazione nelle sue mani e, se necessario, di "salvare il paziente contro lui stesso".

Ma se l'analista vuole salvane un paziente contro lui stesso, non può analizzare quel paziente. Altrimenti è una beffa parlare del paziente come di un agente autonomo. Moltissime persone sono capaci e desiderose di comportarsi come pazienti analitici autoresponsabili, ma il terapista non potrà mai scoprire chi esse siano se egli stesso non agisce autonomamente, vale a dire contrattualmente.

Il terapista che si trova a suo agio nel ruolo da me indicato, troverà molti pazienti che non solo accettano quest'assetto ma lo preferiscono. Questo bisogno non ci sorprende. I pazienti che consultano gli analisti spesso vogliono l'analisi e non qualcos'altro. Di conseguenza, sono contenti di trovare un analista che offre loro l'analisi e non qualcosa di diverso. Molti pazienti non desiderano che lo psicoterapista faccia altre cose diverse dalla psicoterapia. Comunque, essi diventano confusi quando il terapista appare disposto, anzi desideroso di svolgere anche altre attività. Complicazioni in psicoterapia, sorgono quindi non tanto dalla richiesta di interventi non psicologici da parte del paziente, quanto dalla smania del terapista di svolgere un ruolo di medico.

E' possibile senza dubbio che alcuni pazienti non desiderino acquistare un prodotto puramente psicoterapeutico o analitico. L'obbligo del terapista è di chiarire ciò che offre. Se il paziente desidera qualche altro tipo di prodotto terapeutico, presto smetterà di vedere l'analista e, forse, ne cercherà un altro. Se comunque l'assetto gli sembrerà soddisfacente, lo sarà senza false rappresentazioni da parte dell'analista.

Il terapista autonomo offre in vendita solo le sue capacità come analista. Se il paziente è malato, dovrà consultane un medico; se desidera ottenere medicine, dovrà cercare di procurarsele da qualcuno che non sia l'analista e così via. Alcuni analisti in verità si comportano in questo modo. Molti altri, invece, no: prescrivono medicinali ed usano perfino la terapia convulsivante mentre "analizzano" il paziente. Essi giustificano quest'annacquamento del ruolo analitico asserendo che il paziente "ha bisogno" di tali terapie coadiuvanti e dichiarando che essi sono, dopotutto, medici e debbono pertanto offrire al paziente le loro capacità mediche. Questa è un'assurdità. .

Indubbiamente, il terapista ha tutti i diritti di esercitare in questo modo. Se i suoi pazienti ne traggono beneficio, la ricompensa del terapista sarà una professione lucrosa. Ciò nonostante, la precedente argomentazione è un assurdo o anche peggio, poiché mina alle basi il contratto analitico e quindi distrugge la psicoanalisi come psicoterapia autonoma. Possiamo concedere che il paziente in analisi possa aver bisogno di medicinali come pure di molte altre cose. Il mio punto di vista è il seguente: se il terapista intende svolgere il suo lavoro come analista in maniera corretta ed efficiente, non può offrire altri servizi. Né tantomeno ha bisogno di farlo; il paziente è libero di procurarseli da altri.

L'argomento aggiuntivo che l'analista è un medico e quindi è debitore al paziente della gamma completa delle sue conoscenze e delle sue capacità, è assurdo. Il terapista deve al paziente niente di più e, certamente, niente di meno di quanto abbia stabilito per contratto: se promette al paziente solo della psicoterapia, gli deve unicamente della psicoterapia. Inoltre, il fatto che il terapista sia un medico è, in gran parte, storicamente accidentale; la sua preparazione medica e il suo titolo lo aiuteranno assai poco, se pure lo aiuteranno, nel suo compito di psicoterapista.

E' possibile che il terapista possieda capacità addizionali e totalmente estranee a quelle di analista e di medico. Ad esempio il terapista può essere un esperto giocatore di bridge, un perfetto musicista, o un consumato giocatore di borsa. Supponiamo che l'analizzando desideri trarre vantaggi da una di queste abilità; forse che l'analista insegnerà al paziente come giocare a bridge, suonare il piano o guadagnare giocando in borsa? Se presta al paziente le sue capacità mediche, perché non pre-

stargli le altre? Accenno a questa linea di ragionamento non solo per chiarire questo problema, ma anche per suggerire una spiegazione che possa aiutare alcuni pazienti a capire perché l'analista si rifiuta di aiutarli in altro modo che non sia l'analisi. La limitazione del ruolo di analista può deludere il paziente. Ma è solo la disillusione non dissipata da queste realistiche spiegazioni che può essere sottoposta a un fecondo esame analitico.

9. IL PERIODO FINALE
La concezione analitica tradizionale della fine analisi

Rivediamo, sulla base della teoria psicoanalitica codificata, i princìpi che regolano la conclusione della psicoterapia autonoma. Per quanto la terapia psicoanalitica possa differire da altre forme di trattamento psichiatrico, il concetto che l'analista ha del proprio ruolo di terapista assomiglia alla tradizionale opinione medica del ruolo di dottore. In tal modo, l'analista ha accettato le premesse di base del modello malattia-guarigione: il paziente è malato; il terapista fa una diagnosi, realizza un trattamento, decide quando il paziente sta bene e lo congeda terminando così la terapia.

Con minori variazioni, questo tema è stato applicato alla situazione analitica da parte dei teorici della psico-analisi: l'analizzando si presenta all'analista con un disturbo psichico; l'analista diagnostica il disturbo e, se si tratta di una nevrosi appropriata (vale a dire se il paziente è analizzabile), intraprende l'analisi. Il paziente sviluppa una nevrosi di transfert, che è sottoposta a una analisi sistematica; quando la nevrosi di transfert è adeguatamente analizzata, il rapporto terapeutico viene concluso dall'analista.

C'è molto di valido in questa schematica visione del processo analitico, ma lo spirito che l'ispira è falso. Esso suggerisce che l'analisi è un processo di ristabilimento da una malattia anziché un'impresa educativa e di autotrasformazione e che, così come la guarigione del paziente medico da una malattia è giudicata dal medico, allo stesso modo la guarigione dalla nevrosi del paziente analitico viene giudicata dal terapista. Per cui l'analista dovrebbe avere il ruolo principale nel decidere quando la terapia dovrebbe terminare. Gli analisti di regola si comportano in questo modo, anche se ciò è apertamente in contrasto con quello che è lo scopo e lo spirito dell'analisi come terapia autonoma.

Poiché i teorici dell'analisi basano i loro ragionamenti sul modello medico, essi cercano dei criteri psicopatologi-ci quasi medici per la loro decisione di terminare la cura. Questo è un dilemma che gli analisti non sono stati mai capaci di risolvere adeguatamente. Per parte mia, sostengo che l'analista non ha il diritto di terminare l'analisi. Questo non è suo compito; è compito del paziente. Non ci sorprende allora che la voluminosa letteratura sul così detto problema della fine analisi abbia solo creato una grande confusione.

Lo sforzo per stabilire i criteri psicodinamici di fine analisi è paragonabile allo sforzo per stabilire dei criteri di analizzabilità. Il terapista ohe desidera accertare se un paziente è analizzabile sta dm effetti cercando di predire il futuro comportamento del paziente. Ma non ci sono buone ragioni per agire in tal modo. Invece di cercare di scoprire se il paziente è analizzabile, il terapista ha bisogno unicamente di determinare se il paziente vuole o meno comperare i suoi servizi. Se il paziente non è analizzabile, entrambi, terapista e paziente, lo scopriranno non appena si conosceranno meglio. Ripeto, quindi, che non c'è alcuna valida ragione perché l'analista cerchi di predire il comportamento del paziente. Al contrario è suo dovere informare il paziente del proprio comportamento futuro, regolato dalle norme dell'analisi.

Se il terapista accetta la responsabilità di terminare la terapia (come fa per l'inizio, quando cerca di stabilire l’analizzabilità del paziente), deve avere delle basi razionali per decidere quando terminarla. Inoltre l'analista non è libero di ricercare una base adeguata per questa decisione, in quanto il suo tradizionale modello concettuale lo spinge a fondare il suo giudizio sulla condizione psichica dell'analizzando. Da questo punto di vista, pertanto, la decisione del paziente di terminare non è una ragione adeguata per farlo. Dal mio punto di vista, sì.

Come sappiamo, è difficile valutare lo "stato mentale" di un'altra persona. Ciò nonostante l'analista si mette nella situazione di supporre che alcuni stati mentali sono delle indicazioni a cessare l'analisi, mentre altri no; e in tal modo accetta la responsabilità di fare tali valutazioni "diagnostiche" e agire di conseguenza.

I risultati sono disastrosi. Teoricamente sono stati suggeriti una quantità di criteri di fine analisi. Praticamente, il metodo di terminare l'analisi è stato avvolto nel mistero. Sorge il sospetto che i criteri psicoanalitici di fine analisi e la conclusione reale dall'analisi siano solo remotamente connessi. Indubbiamente, spesso si afferma ohe i criteri analitici di terminazione descrivono condizioni ideali alle quali si spera che il paziente si avvicini ma che raramente può raggiungere. Ma questo è un evadere il problema. Resta il fatto che sono stati creati degli standard di fine analisi e che gli analisti confrontano con essi il comportamento dei loro pazienti. Ma dobbiamo porci la questione della legittimità e della validità delle valutazioni diagnostiche che l'analista ha fatto sull'analizzando.

Quali sono i criteri di fine analisi? Ecco a continuazione quelli suggeriti da eminenti analisti:

1. raggiungimento da parte del paziente della fase genitale nello sviluppo psicosessuale;

2. sviluppo del paziente fino alla maturità emotiva;

3. adeguata analisi e risoluzione della nevrosi di transfert;

4. adeguata analisi delle "posizioni depressive e schizoidi" del paziente;

5. "cambiamento strutturale" nella personalità del paziente. (Gli analisti neo-freudiani hanno aggiunto altri criteri).

Alcuni di questi concetti sono più significativi e utili di altri. In particolare, l'analisi della nevrosi di transfert è un concetto prezioso; ma in che consiste un'analisi "adeguata" della medesima, è un'altra faccenda. Eppure, per quanto significative o assurde possano essere queste condizioni (e gli analisti divergono al riguardo), il loro valore per il genere di decisione da prendere che stiamo considerando è limitato.

I ruoli del passato e del futuro nelle decisioni terapeutiche da prendere

Ci occuperemo ora delle seguenti questioni: come fa il medico ad accertare la natura della malattia del paziente e la cura da applicare? Come si assume lo psicoanalista una responsabilità come quella di decidere quando iniziare e quando terminare un'analisi?

Il medico usa tre metodi per fare una diagnosi: raccoglie la storia della malattia del paziente, esamina il corpo del paziente, ne esamina le funzioni somatiche con varie procedure speciali. Il primo di questi metodi (che per secoli fu la principale tecnica del medico per accertare la natura della malattia del paziente) si basa interamente su avvenimenti del passato; gli altri due valutano avvenimenti attuali.

Si suppone spesso che la decisione sulla terapia medica derivi logicamente dalla diagnosi medica. A volte le cose stanno così. Comunque questa supposizione offusca l'importante ruolo della previsione degli avvenimenti futuri nelle decisioni relative al trattamento. Il medico coscienzioso e il malato intelligente vorranno sapere non solo cosa fa soffrire il paziente ma anche cosa gli gioverà o cosa potrà danneggiarlo. Quindi, nel decidere circa la terapia, essi prendono in considerazione anche il futuro. In generale, il medico guarda principalmente al passato se il suo compito è diagnostico, al futuro se è terapeutico. Così, quando una persona è malata e consulta un medico si preoccuperà spesso della natura della sua malattia: di che si tratta? E' contagiosa? Ereditaria? Seria? D'altra parte, quando uno sciatore con una caviglia rotta consulta un ortopedico si preoccuperà della natura e delle prospettive della terapia: «Per quanto tempo la caviglia rimarrà ingessata? Quando potrò ancora sciare?». Poiché la diagnosi è ovvia in casi come questo, la decisione da prendere è centrata sulle prospettive della terapia.

Come regola, il probabile paziente analitico è simile a questo tipo di paziente medico; la "diagnosi" è ovvia e quindi non è un problema. In un senso molto profondo, la persona che cerca l'aiuto psicoanalitico fa la sua propria diagnosi: soffre di ansie ipocondriache, ha una situazione coniugale infelice e non sa come venirne fuori; è omosessuale e così via. Il paziente sa cosa lo fa soffrire; infatti egli si definisce "malato" nel senso che ha bisogno di aiuto psicoterapeutico. Di conseguenza, la prima preoccupazione del paziente non riguarda la natura delle sue difficoltà ma piuttosto la possibilità di superarle: la psicoanalisi è in grado di aiutarlo? Quanto tempo occorrerà? Quanto gli costerà?

Il probabile analizzando concentra quindi la sua attenzione sul futuro. L'analista che segue gli orientamenti tradizionali, sentendosi obbligato ad accertare se il paziente è analizzabile o meno, metterà a fuoco il passato. Il paziente vuol sapere cosa gli accadrà (in analisi) mentre l'analista vuol sapere cosa gli è accaduto (nell'infanzia). Per cui è facile che gli interessi dell'analista e dell'analizzando entrino in conflitto poco dopo il loro incontro. Inoltre, come ho già notato, la storia del paziente, per quanto accuratamente raccolta, fornisce prove insufficienti per questo genere di decisioni da prendere.

A differenza dell'analista tradizionale, lo psicoterapista autonomo tratta il problema dell'analizzabilità lasciando ohe il paziente assuma la responsabilità di decidere se desidera o meno essere analizzato; egli basa quindi i suoi giudizi, necessari per stabilire se accettare o meno il paziente come analizzando, non sui dati anamnestici del paziente ma piuttosto sul suo comportamento attuale durante la fase di prova della terapia.

La soluzione del problema di come terminare l'analisi può essere vista allo stesso modo. Ritengo che il terapista non abbia bisogno, e in verità non debba, assumersi la responsabilità di concludere la terapia. Sebbene la decisione di terminare l'analisi appartenga al paziente, ciò non significa che l'analista non possa esprimere le sue opinioni al riguardo. Su quali criteri si basano queste opinioni?

Ancora una volta è necessario un cambiamento nella nostra consueta prospettiva temporale al riguardo. All'inizio del trattamento, il terapista non deve concentrare la sua attenzione sul passato ma, al contrario, lasciare passato e futuro ai margini della sua attenzione e porne al centro il presente. Al prendere in considerazione la fine, il terapista non deve mettere a fuoco il passato o il presente, bensì il futuro. A questo punto le domande importanti non sono «cosa è stato fatto?» o «è stato questo o quel problema sufficientemente analizzato», ma piuttosto «che altro o cosa ancora il paziente vuole ricevere dal trattamento?», oppure «l'analista crede di poter continuare ad essere utile al paziente?».

Le mie opinioni sugli aspetti pratici della conclusione della psicoterapia autonoma sono esposti nel capitolo XV. A continuazione si riportano alcune ulteriori osservazioni sui principi che sottendono la fine del trattamento.

I principi per terminare l'analisi in maniera autonoma

Scopo fondamentale dell'analisi è quello di aumentare la capacità del paziente a prendere decisioni. Di conseguenza l'analista deve scrupolosamente evitare di interferire o usurpare la responsabilità del paziente a scegliere tra diverse linee di comportamento. Le decisioni sul trattamento stesso, vale a dire se cominciare l'analisi, continuarla o terminarla, sono tra le decisioni più importanti che l'analizzando deve prendere. Se il terapista le prendesse in sua vece, l'idea stessa della terapia autonoma sarebbe una beffa. Una situazione terapeutica di questo genere sarebbe paragonabile a un rapporto tra padre e figlio nel quale il padre asserisse ohe il figlio è libero di spendere i suoi risparmi come più gli piace ma in realtà interferisse ogni qualvolta non è d'accordo.

Richiamiamo alla mente uno degli aspetti più significativi del contratto terapeutico sottoscritto dall’analizzando e dall'analista alla fine del periodo di prova: il terapista rinuncia al tradizionale diritto del medico di concludere la terapia del paziente (eccetto che per il mancato pagamento dell'onorario). Di conseguenza l'analista non ha nessun bisogno pressante di stabilire quando il paziente è "curato" e pronto per essere dimesso dal trattamento. In realtà, il suo contratto con l'analizzando glielo proibisce esplicitamente.

Si potrebbe obiettare che tutto ciò non è né medico né "terapeutico". Lo è, invece, e per una buona ragione. L'analista negozia un contratto col paziente e deve attenersi ai suoi termini. Non deve né mancare alle sue promesse né adempiere a obblighi che non ha contratto. L'analista non promette di curane il paziente, di formulare per lui delle norme per una adeguata salute mentale, o di decidere quando la terapia debba terminare. Di conseguenza l'analista non ha bisogno di, e in effetti non deve, prendere su di sé il problema di terminare l'analisi. Questo è un problema del paziente. Come potrebbe esserlo di qualcun'altro? Che legittimo interesse può avere l'analista nel continuare o terminare la cura?

Il gioco medico e le regole che ne stabiliscono il termine.

Ancora una volta dobbiamo considerare anzitutto la situazione medica. Per il medico sarebbe una pratica discutibile continuare a curare un paziente e accettarne per tale motivo il denaro al di là del periodo in cui si renda necessaria l'assistenza medica. In parte, quindi, si tratta di un problema di etica medica; ma non è tutto.

Il medico molto occupato ama impiegare il suo tempo in maniera utile. Questo desiderio gli offre un incentivo personale, indipendente da quello finanziario, a dedicane il suo tempo e le sue energie a pazienti malati, forse soltanto ad essi. E' qui dove il gioco medico diventa più complicato. Il medico "particolarmente occupato" può diventare come la madre di una numerosa famiglia che deve sottrarre le proprie cure ai figli più grandi per dedicarsi ai più piccoli. Comunque, se il medico è libero di stabilire che il paziente A, guarito o quasi, ha meno bisogno di lui del paziente B che è ammalato, cosa gli impedirà di dichiarare che il paziente C è incurabile e quindi meno bisognoso della sua attenzione del paziente D che è solo leggermente ammalato ma ha probabilità di guarire? E cosa accade quando compare un nuovo paziente che offre di pagare più di tutti gli altri pazienti del medico? Non avrà il medico la tentazione di considerare quest'ultimo come un caso, per lo meno, particolarmente interessante e meritevole? Chiaramente vi è tutta una gamma di possibili azioni arbitrarie (e venali) da parte di medici ohe giocano secondo queste regole del gioco medico.

Il gioco analitico e le regole che ne stabiliscono il termine.

Richiamiamo alla mente le tre regole fondamentali del gioco analitico. Primo, l'analista, a differenza del medico, non è impegnato nel compito di guarire malattie; secondo, il suo rapporto col paziente è regolato da un contratto, non dalle necessità vere o presunte del paziente; terzo, l'analista non congeda il paziente quando è guarito. Se conservasse questa opzione, tenderebbe a viziare l'intero sforzo "terapeutico". Curiosamente quest'ultimo fenomeno è completamente sfuggito all'attenzione degli psichiatri e degli psicoanalisti.

Perché l'analista deve rinunciare all'opzione di interrompere il rapporto terapeutico? Prima di poter rispondere a questa domanda dobbiamo ricostruire brevemente gli aspetti essenziali della situazione analitica. Se paziente e analista passano alla fase contrattuale possiamo supporre che ognuno considera l'altro persona degna di fiducia. Il paziente si fiderà dell'analista e gli confiderà i suoi imbarazzanti segreti. E' necessario e conveniente che il paziente lo faccia, poiché questa è la strada per la scoperta di sé e per un'aumentata auto-responsabilità. Di conseguenza, l'analista deve incoraggiare quelle condizioni che facilitano al paziente la franca scoperta di se stesso e metterlo in guardia contro quelle che tendono a inibirla. Nulla ha maggiori effetti nell'inibire la franchezza di una persona del timore che le sue confidenze vengano usate contro di lui. Pertanto l'analista garantisce al paziente che ogni sua comunicazione, e non solo i segreti, sarà considerata assolutamente privata. Ma ci sono altri rischi connessi a questo auto-svelarsi.

A causa della natura del rapporto analitico la terapia diventa importante per il paziente in proporzione all'impegno che vi mette. Ciò finisce per connettersi al timore di perdere il rapporto analitico. Come può il paziente perdere quest'importante "oggetto"?

Anzitutto l'analista può ammalarsi, morire, o trasferirsi in un'altra città. Né l'analista né il paziente possono fare granché in questi casi. (Comunque, se un terapista pensa di dover lasciare la città o di non poter essere, per qualunque altra ragione, disponibile per il paziente se non per un limitato periodo di tempo, non dovrebbe accettare pazienti per psicoterapie a lungo termine).

In secondo luogo l'analista può decidere di modificare, interrompere o terminare la terapia. Perché dovrebbe fare una di queste cose? Come il medico generico anche l'analista può preferire di curare solo "persone malate", possibilmente solo "persone molto malate". Se così è, il suo analizzando sarà minacciato da ogni progresso compiuto in analisi in quanto il "premio" per tale progresso sarà l'abbandono da parte dell'analista a vantaggio di un paziente psicologicamente più invalido. Oppure l'analista può desiderare di guadagnare di più e un paziente in grado di pagare un onorario più alto può aver richiesto una terapia. Se l'agenda dell'analista è completa, come può trovargli posto? Giungendo alla conclusione che uno dei suoi analizzandi è migliorato sufficientemente da poter terminare. Oppure l'analista può essersi stancato di un paziente. Non sarà forse tentato di concludere che l'analizzando è incurabile o che, per lo meno, non è ulteriormente analizzabile da lui e liberarsi così di un paziente difficile?

Ci sono molte altre possibilità. Una importante è che l'analista, a causa delle auto-rivelazioni del paziente, possa sentirsi mal disposto nei suoi confronti, per lo meno durante certi periodi. I pazienti, quasi invariabilmente, temono che il loro auto-tradirsi finisca per alienargli l'analista e porti alla fine del trattamento.

Questi rischi sono inerenti al rapporto psicoterapeutico. Per il terapista autonomo non c'è che un solo rimedio par essi: porre pienamente la terapia nelle mani del paziente perché ne faccia ciò che ritiene opportuno (entro i limiti del contratto). Ciò significa che l'analista (e fino ad un certo punto il paziente) deve rinunciare alla facoltà di alterare il trattamento: non può ridurre le ore, aumentare l'onorario, interrompere o sospendere il trattamento e così via.

Ognuna di queste mosse potenziali nel gioco psicoterapeutico può servire da potente arma nelle mani del terapeuta. Quindi, se il terapista vuole assicurare delle condizioni favorevoli al paziente affinché questi apprenda su se stesso e sui suoi rapporti con gli altri e sviluppi la sua autonomia, dovrà rinunciare a quelle che, in effetti, sono armi contro il paziente. Solo quando il terapista rinuncerà ai tradizionali privilegi del medico, il paziente sarà genuinamente libero di usare il trattamento per il suo proprio sviluppo personale. In verità, quando l'analisi è così strutturata l'analizzando non potrà usarla per nessun altro scopo.

Sulla conclusione dei giochi: implicazioni del modello del bridge.

Ho usato il modello del bridge contratto per gettar luce sulla natura della collaborazione terapeutica tra analista e analizzando. Il periodo di prova è simile alla dichiarazione: i giocatori negoziano un contratto. La fase contrattuale è come giocare le proprie carte: chi dichiara più alto fa il lavoro necessario per rispettare il contratto. Questo modello aumenta la nostra comprensione del problema della conclusione del trattamento analitico? Ritengo di si.

Il gioco del bridge contratto si compone di unità: un singolo contratto, una manche e una partita (rubber). In questo modo la partita è l'insieme, i contratti e le manches sono parti dell'insieme. La discussione, la chiarificazione e l'interpretazione di determinati argomenti, problemi o fenomeni di transfert sono come giocare una o più mani e portare a termine manches e partite. Con ognuna di esse, il gioco progredisce. Ma non c'è nulla nelle regole sia del bridge che della psicoanalisi che possa dirci quando l'associazione di due giocatori di bridge o dell'analista e dell'analizzando dovrebbe terminare. Sono decisioni queste prese dai partecipanti. Indubbiamente alcune situazioni rendono la sospensione più ragionevole di altre. Ma questa ragionevolezza del punto di interruzione è una decisione umana, e i partecipanti a un gioco, o l'analista e il paziente, possono essere d'accordo o meno.

Nel caso del bridge, i giocatori possono aver deciso all'inizio di completare una o più partite prima di smettere. Comunque, quando la partita è informale il gioco può interrompersi in qualunque momento. Nella psicoterapia autonoma i partecipanti sii accordano previamente circa la durata del trattamento; a patto che la condotta del paziente sia corretta, il terapista deve rimanere nel gioco indefinitamente! In questo, l'obbligo dell'analista è paragonabile a quello del Banco di Monte Carlo (o di altre imprese di gioco d'azzardo onestamente gestite); il cliente può iniziare o cessare di giocare, a suo piacere; il banco deve giocare. Esclusi i giorni di festa e certe ore del giorno quando è chiuso, il casinò deve restare aperto per affari. Non può smettere di accettare scommesse quando sta perdendo molto, mentre il cliente può andarsene dopo aver vinto una grossa cifra. Ma anche con queste concessioni, alla lunga il Banco è in posizione più favorevole per vincere di quanto non lo siano i clienti. Queste considerazioni aiutano anche a spiegare perché la roulette è un gioco solo per coloro che scommettono, mentre è un affare per il croupier e per il proprietario dell'impresa.

La stessa distinzione è applicabile all'analizzando e all'analista. Per il primo l'analisi è un'attività parziale, non del tutto reale, attentamente separata dal resto della sua vita. Per il secondo è un'occupazione totalmente reale, una parte notevole e integrante della sua vita. Così l'analizzando può abbandonare il ruolo di paziente e continuare a vivere la sua vita reale, extra-analitica; l'analista non può abbandonare il ruolo di terapeuta a meno che non cambi professione. La realtà o carattere pratico del gioco analitico per l'analista comporta conseguenze di vasta portata per la sua vita. Queste, comunque, non sono connesse con la presente discussione.

Dobbiamo renderci conto chiaramente che, discutendo della fine, poniamo delle questioni non sul gioco ma sul periodo di tempo durante il quale i giocatori dovrebbero continuare a giocare. La struttura dei giochi generalmente non fornisce una risposta a queste domande. Il numero di partite che due giocatori di bridge giocano dipende non dal gioco ma da loro stessi. Alcune squadre di bridge mantengono un'attiva associazione per anni e decadi, altre durano solo per una serata o per meno di un'ora. Chi, se non i giocatori stessi, dovrebbe stabilire per quanto tempo essi dovranno giocare insieme? Ci sono sempre nuove mani da distribuire, nuovi contratti da dichiarare e da rispettare. In linea di principio, l'associazione del bridge è di durata indefinita. In pratica, la durata del gioco (in questo senso più vasto) dipende dalla decisione dei due partners di continuare o meno l'associazione; il gioco termina quando quest'ultima finisce.

Ritengo che per il rapporto analitico dovremmo avere dei punti di vista analoghi. Nel bridge c'è sempre un'altra mano da giocare. In analisi c'è sempre qualcos'altro da dire sull'infanzia del paziente, sulla situazione analitica e, ultimo ma non meno importante, sulla situazione attuala del paziente; come ogni nuova distribuzione in un gioco di carte, quest'ultima è una sorgente senza fine di nuovi "problemi di realtà". Chi potrà dire quando argomenti e problemi saranno esauriti e il gioco sarà quindi terminato? Non c'è e non ci può essere nulla nelle regole del gioco analitico che imponga ai giocatori di smettere di giocare. Il momento di porre termine all'impresa deve essere deciso dai giocatori, separatamente o di comune accordo. Per i motivi già menzionati, è necessario che l'analista prometta di non porre fine al gioco fintanto che il paziente desideri giocare. Questo non significa che l'analista non possa sollevare il problema della fine e suggerire le ragioni pro e contro una tale decisione. Né tantomeno significa che, sebbene la decisione finale stia nelle mani del paziente, analista ed analizzando non possano collaborare nel cercare di raggiungere una decisione. Idealmente, l'analisi dovrebbe terminare, come per altri giochi o imprese di collaborazione, con il reciproco consenso dei partecipanti.

Autonomia, libertà e psicoterapia

Questi principi su come terminare una psicoterapia autonoma sono logicamente coerenti, psicologicamente solidi e fedeli all'etica dell'autonomia. Nessun paziente può essere considerato autonomo se ciò che rivela di se stesso minaccia il rapporto terapeutico. Una persona è libera solo quando conosce le circostanze per le quali

verrà penalizzata: essa può mantenere la sua libertà non impegnandosi in atti che sono proibiti. Il contratto analitico non deve promettere nulla di meno. In verità, perché lo dovrebbe? Perché l'analista dovrebbe desiderare di mantenere il privilegio di porre termine all'analisi, in particolare con la motivazione di agire nel miglior interesse del paziente?

Quando l'analista è sul punto di impegnarsi in un rapporto contrattuale deve porsi questa domanda: «Che genere di rapporto voglio avere col paziente?» Come analista, il terapista deve avere col paziente un impegno di durata indefinita. Se non si cura di agire così con un determinato paziente, sarebbe più saggio non accettarlo in analisi; e se non vuole agire così in assoluto, non dovrebbe diventare analista. In parte il problema si centra, ancora uria volta, sulla personalità e sugli interessi del terapista. Se è interessato all'analisi e gli piace questo genere di lavoro non desidererà di essere coercitivo. In effetti si renderà conto che, per l'analista, esercitare un potere sul paziente, sia per dare ordini che per terminare il trattamento, è un ostacolo e non un aiuto.

Nelle cose umane, potere è comprensione Sono antitetici fra loro. Lo psicoterapista deve scegliere fra controllare il paziente e condividere con lui le informazioni. Se opta per il controllo avrà poco bisogno di comprendere (anche se può desiderare di rivestire le sue tattiche costrittive con razionalizzazioni pseudoscientifiche). Come la storia ci mostra, per controllare la gente dobbiamo renderla schiava e, per mantenere il controllo, dobbiamo impedirle l'accesso alle informazioni.

Malgrado il rapporto inverso tra desiderio dell'uomo di controllare il suo simile e desiderio di comprenderlo, gli psicoterapisti sembra abbiano voluto il meglio di due mondi incompatibili. Essi hanno provato a combinare la comprensione del paziente con il suo controllo (con la pretesa che fosse nel suo miglior interesse). Gli analisti hanno così cercato di controllare l'uomo sulla base di una pretesa comprensione scientifica del suo comportamento. Ma questo è un assurdo perché, come ho indicato, quanto più vogliamo controllare il comportamento di una persona tanto meno abbiamo bisogno di capirla.

Infine, il rapporto inverso tra potere e comprensione spiega il perché quanto più intimamente capiamo una persona tanto più è difficile controllarla; il nostro autentico comprendere ci impedisce di influenzarla con la forza. In verità, possiamo capire un'altra persona solo nella misura in cui siamo disposti ad astenerci dal dominarla o dal sottometterci ad essa. Viceversa, se vogliamo dominare gli altri (individui o gruppi), ciò sarà più facile se possiamo dichiararli diversi o infraumani o, più brevemente, al di là dei limiti della nostra comprensione, Questo è l'atteggiamento tipico di coloro che desiderano controllare ed opprimere i membri di razze diverse, pazienti mentali o nemici politici.

Riassumendo, se il terapista desidera veramente liberare il paziente e aiutarlo a diventare personalmente libero, deve stabilire una situazione terapeutica dove tale libertà possa svilupparsi e fiorire. In ciò il suo ruolo è paragonabile a quello del legislatore. I padri fondatori desiderarono creare una società di uomini liberi. Volendo dare a un popolo la possibilità di essere politicamente libero, cercarono di creare una situazione politica in cui tale libertà potesse svilupparsi e fiorire. La Costituzione degli Stati Uniti è un contratto tra il popolo americano ed i suoi governanti per assicurare la libertà politica. A questo scopo, il governo è d'accordo nel rinunciare a certi tradizionali diritti di chi esercita il potere come torturare i sudditi, farli processare in segreto e dai loro avversari, perquisire arbitrariamente le loro abitazioni e persone, chiedergli di incriminarsi o di soffrire le conseguenze, ed altri metodi per garantire l'ordine sociale. Personalmente concepisco il contratto analitico in termini simili. Esso garantisce al paziente alcuni diritti assenti nel tradizionale rapporto medico-paziente. Come risultato, il paziente acquisisce un'opportunità di diventare personalmente libero e contrae l'obbligo di comportarsi responsabilmente.

PARTE TERZA
IL METODO DELLA PSICOTERAPIA AUTONOMA
10. IL CONTRATTO INIZIALE TRA PAZIENTE E TERAPISTA
Il principio dell'autonomia e il metodo psicoanalitico

Gaio, il famoso giurista romano, diceva che la parte principale di ogni cosa è l'inizio. Questo è particolarmente vero per il rapporto psicanalitico.

Le prime fasi dell'incontro terapeutico sono cruciali; piccoli errori da parte del terapista possono distruggere lo sviluppo del rapporto analitico o impedirgli di diventare veramente analitico e autonomo. Pertanto, il modo in cui paziente e psicoterapista si incontrano per la prima volta e la natura delle loro reciproche comunicazioni iniziali, sono eccezionalmente importanti.

E' la condotta iniziale del terapista e non quella del paziente che costituisce la mossa d'apertura significativa nel gioco terapeutico. Una volta stabilitosi un certo clima terapeutico, può essere difficile o impossibile alterarlo. Difatti sorge subito una domanda: «Perché si dovrebbe prima stabilire un gioco, solo per modificarlo più tardi?» Di conseguenza, se il terapista intende praticare la psicoterapia autonoma, il momento di iniziarla è quando ha il primo contatto col paziente.

La condotta dello psicanalista deve scaturire direttamente dal suo impegno nei confronti dell'etica dell'autonomia. Sebbene mai chiaramente articolata in teoria, quest'idea non è del tutto nuova nella pratica analitica. Ad esempio, fa parte del folclore della tecnica psicoanalitica che l'analista pretenda che sia il paziente stesso a fissare l'appuntamento iniziale. Se qualcun altro si mette in contatto con l'analista, gli si chiederà di invitare il paziente a chiamare lui stesso. E' questo un consiglio saggio, anche se sovente giustificato con motivi falsi e ingannevoli, ad esempio come un buon metodo per eliminare pazienti scarsamente motivati. Se la sua attuazione può aiutare a ottenere ciò, non ne è questa la principale ragione d'essere. A mio avviso, la sola giustificazione adeguata per questa regola (e per molte altre in analisi) è che essa mantiene o aumenta l'autonomia dei partecipanti al rapporto.

Non c'è posto in analisi per il terapista che si compiace a rappresentare il classico ruolo del professionista importante e occupatissimo, che delega quanto più lavoro può alle segretarie e agli altri assistenti. Così l'analista non può incaricare altri di stabilire e riscuotere l'onorario; egli deve discuterne e stabilirlo di persona col paziente e accettare inoltre il pagamento direttamente da lui. Ritengo che questa prassi sia quella abitualmente seguita. Ma, ancora una volta, la ragione che la determina non sta solo nel fatto che la transazione pecuniaria tra analista e analizzando è parte integrante dell'analisi, ma piuttosto che l'intervento di terzi in questa transazione sminuirebbe, senza necessità alcuna, la posizione autonoma dei partecipanti.

Le stesse considerazioni valgono per fissare gli appuntamenti. Il terapista autonomo deve farlo di persona. Non occorre che questa sia una regola rigida; si tratta piuttosto di un principio metodologico, fermamente basato sulla teoria. Stabilire gli appuntamenti è una faccenda privata tra paziente e terapista. Per proteggere l'autonomia dei partecipanti e la "privacy" della situazione, deve essere escluso ogni intervento di terzi. E' assurdo, quindi, che il terapista insista che il potenziale paziente fissi da sé l'appuntamento iniziale, e deleghi poi una parte dell'accordo alla propria segretaria. Ancora più assurdo è che l'analista deleghi alla segretaria il compito di discutere gli appuntamenti con un paziente che sia in trattamento.

Insomma, l'obbligo dell'analista di agire autonomamente è di vasta portata, mentre quello dell'analizzando è limitato.

Come si diventa pazienti in psicoterapia

I servizi degli psicoterapisti sono generalmente sollecitati in uno dei seguenti modi. Primo, il probabile cliente telefona per un appuntamento. Secondo, può telefonare un parente o un amico del paziente. Terzo, il paziente è inviato da un collega professionista (medico, psicologo, professore, etc.) che telefonerà personalmente, o tramite la segretaria, per un appuntamento. Quarto, persone che rivestono un'autorità sociale, come avvocati, giudici, sorveglianti di condannati in libertà vigilata, assistenti scolastici o assistenti sociali, possono mettersi in contatto con il terapista apparentemente a nome del paziente e col proposito di fissare un appuntamento per lui.

A prescindere da chi si mette in contatto col terapista (o col suo studio), l'analista deve parlare di persona con chi lo interpella o, se occupato, richiamarlo non appena possibile. A chiunque non sia il paziente l'analista spiegherà che sarà felice di parlare col paziente per fissare un appuntamento. Se l'interlocutore vuole spiegare perché ciò è impossibile il terapista deve ascoltare educatamente ma rimanere fermo; se lo desidera può comunque controbattere i propri argomenti. Ad esempio, l'interlocutore può asserire che il paziente è "troppo nervoso" o "troppo inquieto" e che pertanto ha chiesto alla moglie (padre, etc.) di telefonare al suo posto; il terapista può far notare che il paziente dovrà parlare con lui durante un'intervista, e chiedere perché mai se ne voglia fissare una se il paziente non può nemmeno conversare per telefono. In questo modo il terapista illustrerà all'interlocutore anche qualcosa del proprio lavoro.

Questo tipo di chiarificazione iniziale può prevenire un insieme di malintesi che è probabile che sorgano se il terapista lascia che il paziente, o chiunque chiami per lui, mantenga le proprie idee personali sul terapista e sul lavoro che svolge. Se il terapista stabilisce alcune regole iniziali fin dal principio, eliminerà come pazienti coloro che desiderano fare dei giochi ai quali il terapista non vuole partecipare.

Questi principi si applicano anche se ad inviare il paziente sono altri medici. Timorosi di perdere i pazienti inviatigli in questa forma e di subire quindi un danno economico, gli psicoterapisti spesso commettono un errore in questo tipo di situazione. Ad esempio, il medico che invia un paziente può incaricare la propria segretaria di fissargli un appuntamento. Ma lo psicoanalista non può seguire questa routine medica e praticare poi la terapia autonoma col paziente che gli è stato così inviato. Al contrario, deve spiegare ai colleghi medici le ragioni delle norme su come fissare gli appuntamenti e il loro carattere confidenziale. Allora, se il medico che invia il paziente desidera raccomandargli il consulto con uno psicanalista, anziché, diciamo, con uno psichiatra che usa principalmente medicinali e trattamenti di shock o che pratica psicoterapia di gruppo e famigliare, non avrà nulla da obiettare che sia il paziente a fissare il proprio appuntamento.

Se, d'altra parte, il medico che indirizza il paziente è sprezzante di queste norme, è probabile che cerchi di controllare quei pazienti che potrebbero beneficiare dell'analisi e utilizzi l'invio allo psichiatra principalmente come mezzo per punire il paziente. E' chiaro che, in circostanze di questo genere, lo psicoterapista autonomo non può avere un rapporto di collaborazione col collega medico.

Infine, un rappresentante di un organismo o istituzione sociale può telefonare per fissare un appuntamento per qualcuno che viene definito come paziente. Anche in questo caso il terapista può decidere di spiegare le proprie regole all'interlocutore. Oppure, se è chiaro che chi chiama non sta cercando uno psichiatra che possa fare qualcosa per il paziente ma piuttosto uno che faccia qualcosa al paziente, sarà meglio che l'analista spieghi che non è questo il genere di psichiatria che pratica e faccia abortire il rapporto ancora prima che inizi.

Chiarificazioni prima dell'intervista iniziale

Il primo contatto fra cliente e terapista è abitualmente una conversazione telefonica. Il paziente può dare il suo nome e chiedere un appuntamento. Deve il terapista rispondere con l'indicazione di un'ora per l'appuntamento in modo che lui e il paziente possano programmare il loro primo incontro? Anche se ciò può sembrare dettato dal buon senso, il farlo potrebbe rivelarsi un errore. Persino prima che il rapporto terapeutico sia stabilito dobbiamo accettare e utilizzare uno dei principi basilari della psicoterapia autonoma; il terapista non deve mai ingannare il paziente. Uno dei mezzi più efficaci per il terapista per adempiere a quest'obbligo è chiarire la propria posizione per quanto può riguardare il paziente. In pratica questo significa varie cose.

Ad esempio, la lista del terapista può essere completa.

Egli può quindi non essere in grado di accettare un nuovo paziente in analisi; potrebbe tuttavia vedere il paziente per una valutazione, per chiarire dei problemi, per indirizzarlo a dei colleghi o per metterlo nella sua lista d'attesa. Una persona che telefona ha diritto a queste informazioni. Se ciò gli viene rifiutato e gli si concede un appuntamento, il paziente può avere l'impressione di aver fatto il primo passo verso l'inizio di un'analisi quando, in effetti, non Io ha fatto.

Se l'analista non può accettare un nuovo paziente in terapia intensiva dovrebbe accertare cosa vuole il paziente nel chiedere un appuntamento. Se la risposta è un'analisi (o termini analoghi) il terapista deve spiegare che la sua lista di lavoro analitico è completa. Questo scambio telefonico eviterà al paziente e all'analista molti inconvenienti. Distinguerà inoltre coloro che cercano aiuto dall'analisi (o da altre forme di psicoterapia) da quelli che cercano aiuto da un particolare analista.

Perché tutte queste complicazioni? Il paziente ha chiesto un appuntamento, non un'analisi: perché non dargli semplicemente un appuntamento? Le ragioni (e ne ho già indicate alcune) sono ovvie. Tuttavia, poiché la prassi di informare il paziente dell'effettiva situazione e dei metodi del terapista non è generalmente accettata, queste domande meritano delle risposte esplicite.

Il paziente può non avere le idee chiare circa i metodi di lavoro dell'analista; e anche se le avesse, potrebbe essere reticente nel fare all'analista delle domande prima di incontrarlo. In ogni caso, se il paziente ottiene un appuntamento, visita il terapista e solo allora gli viene detto che il terapista non ha tempo per accettare nuovi pazienti, la sua prima esperienza con la psicoterapia sarà stata nociva, non terapeutica. Un tale paziente riterrà, a ragione, che avrebbe dovuto essere informato per telefono e non nello studio dell'analista; gli avrebbero fatto risparmiare tempo, angoscia e denaro.

Peggio ancora, il paziente può concludere che il terapista mente dicendo di non aver tempo. I terapisti spesso allegano questo motivo per non accettare una paziente in terapia quando in realtà non è questa la ragione. Il paziente può credere di non essere accettato in trattamento perché non è analizzabile, o perché è psicotico o qualcosa del genere: e non può essere biasimato di trarre tali conclusioni per false che possano essere. La mancanza di tempo terapeutico può essere una ragione accettabile per "respingere" un paziente solo se questi ne è informato prima che il terapista gli dia anche un solo sguardo. Una volta che i due si sono incontrati1, non ci si può aspettare che il paziente creda che la decisione del terapista non sia basata, almeno in parte, sulle impressioni che quest'ultimo ha riportato su di lui.

A volte un paziente vede diversi terapisti, dicendo a ciascuno qualcosa di sé, solo per venire informato che il terapista non ha tempo disponibile per accettarlo come paziente. Dopo una o più esperienze di questo genere, è probabile ohe il paziente chieda all'analista, mentre gli telefona, se ha tempo per la terapia. Ma nel frattempo molto danno può essere stato fatto; il paziente ha già imparato ad aspettarsi che l'analista gli nasconda dei fatti che lo riguardano in maniera vitale, come forse fecero i suoi genitori qundo era bambino. Riassumendo, sostengo che se il terapista non può accettare nuovi pazienti in terapia ha tutte le ragioni per dirlo ai probabili pazienti e nessuna valida per tacerlo.

Se l'analista ha tempo libero e il paziente chiede semplicemente un appuntamento, la situazione può non richiedere ulteriori discussioni. Comunque, se l'analista ha motivo di credere che il paziente voglia essere analizzato o il paziente lo informa di ciò, un ulteriore chiarimento della situazione può di nuovo evitare successive difficoltà e malintesi. Di solito dico al paziente che ho tempo per un nuovo paziente (se ce l'ho e se la domanda è in discussione), ma che non posso decidere da intraprendere un'analisi senza aver prima avuto diversi contatti con lui. Se il paziente è ancora interessato, suggerisco di fissare un appuntamento per discutere la cosa di persona.

Ci sono molte domande che i pazienti possono fare al telefono prima di fissare la loro prima intervista. A quanto ammonta l'onorario dell'analista? Qual è la sua religione? Quanto durerà l'analisi? L'analista pratica l'ipnosi? L'analisi sarà di giovamento? L'analista la consiglia? E così via. Come deve comportarsi il terapista di fronte a tali domande? Su che base o principio deciderà se rispondere o meno alle domande, ed eventualmente a quali?

Molti analisti evitano di rispondere a tutte queste domande. Ritengo che ciò sia un errore. Altri', usando l'intuizione come standard di giudizio, rispondono ad alcune ma non ad altre. Già è un po' meglio ma non abbastanza. Esiste un criterio per decidere quale delle domande del paziente merita una risposta onesta e realistica? Il nostro criterio deve essere l’attinenza della domanda alla situazione terapeutica. Le domande pertinenti dovrebbero avere una risposta, le altre no.

Se il paziente si informa sull'onorario, non vi è giustificazione alcuna per eludere o rifiutare una risposta. Se fa domande sulla religione dell'analista, le sue origini nazionali o l'appartenenza ad una o un'altra organizzazione professionale, ritengo che il terapista debba ancora dare risposte semplici e obiettive; queste domande mirano a informazioni che possono aiutare il potenziale cliente a decidere se intraprendere o meno il trattamento con lui. Se lo scopo della psicoanalisi è di aiutare il paziente ad ampliare al massimo le sue scelte nel condurre la propria vita, come possiamo noi, rifiutando delle informazioni, interferire con la sua possibilità di prendere decisioni auto^responsabili? 0, per dirlo in maniera diversa, come possiamo aspettarci che il paziente si comporti in maniera autonoma quando, proprio all'inizio del nostro rapporto con lui, gli rendiamo impossibile il comportarsi in quel modo nei nostri confronti?

Naturalmente c'è un altro genere di domande, quali «L'analisi mi sarà di aiuto», che non rispondono al criterio. Domande come questa non dovrebbero ricevere una risposta. Comunque, anche in questi casi, l'analista non deve essere evasivo, ma dire francamente: «Non so», oppure, «non posso rispondere a questa domanda».

Infine, c'è un terzo tipo di domande come: «E' sposato?» o «ha dei bambini?». Queste appartengono a ciò che l'analista, ma non necessariamente il paziente, può considerare affari personali non connessi alla situazione terapeutica. Credo che la risposta dovrebbe essere qualcosa come: «Preferisco non rispondere». Indubbiamente ci sono discrepanze fra i terapisti riguardo a certe domande: alcuni ritengono che le domande si riferiscano a cose riguardanti la posizione «realistica» del paziente nella situazione terapeutica; altri, che esse rappresentino semplici "curiosità" sull'analista. A lungo andare tali differenze non sono importanti. Ciò che importa è che l'analista abbia delle idee chiare su questi problemi e inoltre che indichi al paziente, rispondendo sinceramente ad alcune domande ma non ad altre, che egli ha diritto:

a. a chiedere qualunque cosa;

b. a ricevere risposte franche e realistiche a domande che lo riguardano nel suo ruolo di analizzando, ma non a quelle che cercano di soddisfare la sua curiosità nei confronti dell'analista.

I principi metodologici che ho tracciato si adattano non solo alla prima conversazione telefonica tra paziente e terapista ma anche alla situazione terapeutica che può svilupparsi in seguito.

Le interviste iniziali

Lo scopo delle interviste iniziali o preliminari è quello di fornire al cliente e al terapista l'opportunità di conoscersi. In altre parole, il terapista autonomo deve scoprire cosa il cliente desidera acquistare e informare il cliente di ciò che egli offre in vendita. Rivediamo alcune delle azioni specifiche di questa fase iniziale della terapia.

Dopo essere entrato nello studio del terapista il cliente è invitato a sedersi su una sedia o su un divano con schienale. Il terapista siede in faccia al cliente, non troppo lontano da lui. Più di due metri circa fra i partecipanti creano un'atmosfera di "distanza". Altrettanto fa una scrivania o un altro mobile collocato fra il terapista e il cliente.

Il modo di comportarsi del terapista, così come l'arredamento dello studio, dovrebbe essere un qualcosa tra una severa riservatezza e un'eccessiva cordialità. L'occasione richiede una combinazione di gentilezza e di obiettività professionale. Dopo aver messo il paziente a suo agio il terapista dovrebbe mostrare che tutta la sua attenzione è rivolta al paziente e ai suoi problemi.

Io trovo utile esordire con una domanda come: «Per quale ragione è venuto?», oppure «Cosa posso fare per lei?». Faccio una pausa e lascio che sia il paziente a parlare. Senza domande o sollecitazioni molti pazienti fanno un resoconto dettagliato e significativo delle circostanza per le quali cercano sollievo. Altri rispondono brevemente alla mia prima domanda nominando solo alcuni sintomi o problemi acuti e aspettano quindi da me una più attiva partecipazione.

Che fare col paziente al quale riesce difficile incominciare? Credo che sia imperdonabile per il terapista sedere silenziosamente durante la prima o la seconda intervista e attendere che sia il paziente a dire qualcosa. All'inizio del rapporto il paziente non sa che tipo di partita ci si aspetta che giochi. Cortesia e tatto, al pari dei principi analitici, richiedono che sia il terapista a scoprire perché il paziente non può andare oltre l'enunciazione del disturbo iniziale.

Inizialmente, qualche ulteriore spiegazione sulla natura della situazione terapeutica può essere adeguata. Il paziente può essere angustiato da certi equivoci, ad esempio che deve dire al terapista tutto ciò che gli viene in mente o che non deve rifiutargli nessuna informazione, e può stare cercando di resistere a una simile costrizione. Oppure può non sapere ciò che il terapista desidera ascoltare ed essere quindi in attesa di una guida più specifica. In una situazione del genere, spiego al paziente che posso lavorare solo sulla base delle informazioni che egli mi fornirà, che può dirmi qualunque cosa ritenga importante, che non ha bisogno di dirmi niente che non voglia svelare e che il rapporto tra di noi è assolutamente confidenziale.

Questo genere di chiarimento (naturalmente non occorre dire tutto in una sola volta) spesso rompe il silenzio. Se ciò dovesse fallire, si può chiedere al paziente perché gli riesca difficile esprimersi. In nessun caso, comunque, il terapista deve lasciarsi forzare dal silenzio del paziente o dalle sue richieste di fargli delle domande. Se il terapista intende praticare la psicoterapia autonoma deve avere un paziente capace e desideroso di auto-esprimersi nei limiti che egli stesso sceglierà. Questa richiesta non deve solo essere spiegata al paziente verbalmente, ma deve essere messa in atto sin dal principio. Se il terapista comincia, nella prima ora, a chiedere al paziente di parlargli della madre, dell'infanzia o di qualunque altra cosa, dandogli così delle direttive affinché si comporti in un certo modo, il paziente può aspettarsi che il terapista perseveri in questo tipo di comportamento direttivo. Di conseguenza il terapista deve, il più presto possibile, mostrare che si aspetta che il paziente si assuma la responsabilità di comunicare o meno con lui.

Se il paziente è interessato alla propria auto-esplorazione e il terapista è abile e accorto e non assume una posizione difensiva nei confronti della natura e del valore di ciò che sta facendo, si svilupperà tra essi un dialogo ricco di significato. Nel corso di questo il paziente andrà progressivamente aprendosi e il terapista, corrispondentemente, gli spiegherà il metodo del suo sforzo psicoterapeutico. Nella misura in cui ciascuna parte verrà meno al proprio contributo a quest'impresa, la terapia vacillerà. Ripeto ohe, a mio avviso, la prima responsabilità del terapista, oltre ad ascoltare con attenzione, intelligenza ed immaginazione ciò che il paziente gli dice, è di rendere edotto il paziente della posizione del terapista nella situazione. Questo può, e in verità deve, essere fatto in vari modi. Possiamo qui citare solo alcuni esempi.

Ad esempio, parlando della moglie, il paziente può suggerire che il terapista parli con lei. Non si può passar sopra a una simile osservazione. Né, tantomeno, si può rispondere come un analista da fumetti, dicendo stupidamente «perché desidera che lo faccia?». Il suggerimento del paziente richiede una spiegazione semplice ma chiara della linea di condotta dell'analista di non comunicare con nessun altro che non sia il paziente. Solo in tal modo può diventare una realtà viva per il paziente (e del resto anche per l'analista) il fatto che la terapia che sta per intraprendere è per lui, non per qualcun altro. Se il paziente desidera coinvolgere la moglie nella terapia, è libero naturalmente di farlo, ma non è libero di coinvolgerci anche l'analista.

Questioni che spesso diventano difficili problemi di terapia possono essere evitate o, per lo meno, dipanate se il terapista ha un'idea chiara del gioco terapeutico disposto ad accettare. Egli deve chiarire al cliente le regole di questo gioco e deve rispettarle lui stesso. Uno studente di un college, ad esempio, può chiedere una terapia per difficoltà nello studio e conflitti sulla scelta della carriera. Al termine della prima ora, nota casualmente di non aver mantenuto una media adeguata e di essere stato invitato dal preside a lasciare la scuola o a fare qualche terapia; e chiede: «Mi farebbe il favore di chiamare la scuola e dire che sono in cura da lei?». Se il terapista telefona alla scuola, il suo ruolo di analista secondo me è finito. Questo perché, acconsentendo, permette al paziente di coinvolgerlo nei suoi accordi con l'amministrazione scolastica che lascia continuare al paziente la scuola senza un adeguato rendimento. Inoltre il terapista, partecipando alla vita extra-analitica del paziente, stabilisce un precedente. Se l'analista agisce così una volta, perché non in seguito?

Ci sono naturalmente molti modi di trattare una situazione del genere, ma solo uno è autonomo e psicoanalitico. La linea di condotta più semplice è quella di soddisfare le richieste del paziente: ciò può essere particolarmente allettante per il terapista economicamente insicuro, che può presentire di perdere il paziente se non agirà in tal modo. Un'altra soluzione è interpretare al paziente che sta tentando di "usare" la terapia come sostituto del conseguimento di un grado accademico e nondimeno lasciarglielo fare. Questa doppiezza pseudoanalitica rassicura il terapista; avendo messo a posto la propria coscienza con l'interpretazione, si sente libero di comunicare con le autorità scolastiche. L'analista deve ripudiare simili soluzioni del problema. Non può agire in modo collusivo; deve agire autonomamente. Questo significa che non deve in alcun modo interferire col libero uso da parte del paziente del rapporto terapeutico. Ciò che il paziente ci fa sono affari suoi. Al tempo stesso il terapista non deve permettersi di partecipare alla vita extra analitica del paziente.

Di conseguenza deve spiegare al paziente che l'accordo di usare la terapia come un requisito della scuola è stato combinato dallo studente e dalle autorità scolastiche, non dall'analista; in verità, egli non può essere d'accordo su ciò e non vi prenderà parte. Che accadrà in seguito? Se le autorità scolastiche hanno agito in buona fede e hanno voluto unicamente garantire una psicoterapia allo studente, accetteranno probabilmente la sua affermazione che la sta facendo o, se desiderano una prova, potranno avere il conto mensile del terapista o l'assegno annullato del paziente. Comunque, se ciò non soddisfa le autorità scolastiche ed esse insistono per comunicare con il terapista circa i "progressi" dello studente nella terapia, allora, ancora una volta, cesseranno di esistere le condizioni per l'analisi. E' preferibile appurare ciò quanto prima.

Desidero sottolineare ancora una volta come, in una situazione del genere, il terapista autonomo non decide che non può analizzare il paziente. Farlo sarebbe scorretto e improprio. Supponendo che il paziente sia interessato all'analisi e sia per il resto accettabile all'analista, il compito del terapeuta è di rifiutare di essere trascinato in un accordo fra studente e scuola. Qualunque cosa in più sarebbe un infrangere la libertà di scelta del paziente. Ad esempio, lo studente può decidere di continuare l'analisi e lasciare che le autorità scolastiche decidano se permettergli o meno di continuare la scuola. Questo significa che al paziente deve essere concessa completa libertà nelle sue trattative con le autorità scolastiche. Quindi l'analista non può interpretare come "acting-out" inaccettabile l'uso che lo studente fa dell'analisi come giustificazione per il rendimento accademico, anche se, naturalmente, deve mostrare allo studente che genere di gioco sia. Reciprocamente, lo studente deve rendersi conto dell'intenzione dell'analista di non restare coinvolto. Se lo studente ritiene di non poter trattare da solo con la scuola, di aver bisogno di un alleato che negozierà in sua vece, allora o non è un soggetto adatto all'analisi (in quel particolare momento), oppure le sue complicazioni con la scuola debbono essere ulteriormente chiarite prima di poter iniziare l'analisi.

Prima che l'intervista iniziale sia conclusa, il terapista deve sollevare due argomenti se il cliente non lo ha ancora fatto. Uno è l'onorario, l'altro l'orario e la frequenza dei successivi appuntamenti.

L'accordo finanziario fra terapista e cliente deve essere chiaramente inteso e strettamente mantenuto. Io discuto col paziente dell'onorario e spiego la mia abitudine di presentare la parcella ogni fine mese. Una volta fissato, l'onorario non deve essere cambiato: esso è parte del contratto impegnativo fra il terapista ed il paziente.

Se il terapista ha motivo di credere che il paziente può difficilmente permettersi il costo della terapia, deve discutere questo problema col paziente stesso. Io non accetto clienti per i quali il costo dell'analisi rappresenta un sacrificio economico notevole. Situazioni economiche forzate non forniscono una atmosfera psicologica adatta a un lavoro terapeutico di questo tipo. In verità, la situazione genera un giustificato antagonismo nei confronti del terapista e tende a produrre un atteggiamento masochistico nell'analizzando.

Può apparire chiaro alla fine della prima intervista che il paziente desidera proseguire a un ulteriore chiarimento della sua situazione col terapista, oppure ciò può farsi evidente solo dopo diverse interviste esplorative. A questo punto il terapista deve decidere se desidera lavorare col paziente poiché, quante più sedute fa al paziente, tanto più è obbligato, a mio avviso, a continuare a vederlo. Personalmente, questo non mi è parso un grosso problema in quanto riesco a mantenere un buon interesse terapeutico verso la maggioranza di coloro che vogliono lavorare con me. Forse c'è una specie di selezione naturale durante le prime interviste che conduce alla fusione in un'unica categoria 'di due gruppi distinti di persone: quelle che io preferisco non trattare e quelle che preferirebbero non essere curate da ine. In ogni caso, se il terapista ha motivo di credere che non desidera curare una determinata persona dovrebbe evitare di indagare profondamente nella storia della sua vita. Un tale cliente, quanto prima lo si congeda o lo si affida ad un collega, tanto meglio è.

Se tanto il paziente che il terapista desiderano continuare, con che frequenza debbono incontrarsi per creare la continuità e la profondità necessaria all'analisi? Il minimo auspicabile sono tre sedute settimanali; quattro sarebbero preferibili. Al giorno d'oggi raramente vedo pazienti cinque o più volte la settimana, anche se l'ho fatto in passato. Occasionalmente, vedo un paziente due volte la settimana.

La frequenza e l'intervallo ideale tra gli appuntamenti dipende sia dal paziente che dall'analista. Terapisti giovani e inesperti dovrebbero vedere i loro pazienti relativamente spesso; diversamente non saranno in grado di comprenderli. Terapisti abili e con esperienza, d'altra parte, possono essere in grado di fare un lavoro analitico con sedute leggermente più discontinue. In ogni caso considero due ore settimanali il minimo assoluto; quest'assetto funziona solo se il terapista è abile e il paziente ben dotato e motivato per un'autoesplorazione. Comunque, alcuni terapisti trovano che tre appuntamenti alla settimana sono generalmente insufficienti e perfino il più sagace analista può aver bisogno di un maggior contatto con alcuni pazienti difficili da capire.

Con questi princìpi in mente, il terapista può suggerire al paziente di intraprendere un periodo di prova con un certo numero di sedute settimanali a un determinato onorario per seduta. Ogni seduta deve durare 50 minuti. Tentativi di sedute più brevi sono deplorevoli. Se il paziente è d'accordo su questa proposta, inizia il periodo di prova.

11. IL PERIODO DI PROVA
Perché è necessario il periodo di prova?

E' difficile per il terapista formarsi un'adeguata impressione della personalità del paziente in una o due interviste. Messi di fronte a questo problema, molti terapisti fanno assegnamento su procedure tecniche per ottenere informazioni "diagnostiche" ulteriori; il paziente è sottoposto a un interrogatorio intensivo circa la sua storia, a "interviste stressanti" e "interpretazioni di prova", a richieste di sogni e di fantasie e, ultimo ma non meno importante, a tests psicologici (particolarmente il Rorschach e il Thematie Apperception Test).

Nessuno di questi provvedimenti è compatibile con la pratica della psicoterapia autonomia poiché al loro scopo è quello di far sì che il paziente riveli su se stesso più informazioni di quanto non desideri. Inoltre, tali metodi di raggiro psicologico non sono né sicuri né molto efficaci. E se raggiungono il loro scopo, sono peggio che inutili per l'analista poiché creano precisamente quel tipo di rapporto psicologico tra cliente e terapista che entrambi debbono persistentemente cercare di evitare. Nella prima o seconda intervista, né il terapista né il paziente possono decidere se proseguire o meno la terapia.

Comunque è auspicabile ohe il paziente abbia un'opportunità di conoscere in che consiste la terapia. E' meglio quindi che paziente e terapista comincino con l'ammettere onestamente la necessità di conoscersi meglio prima di poter decidere sul loro futuro rapporto. Se dopo le prime interviste vogliono continuare, la fase successiva dovrebbe essere di conseguenza definita come "periodo di prova".

Durante il periodo di prova, il terapista può giudicare il paziente e il paziente il terapista. Al terapista queste sedute forniscono l'opportunità di conoscere meglio il paziente, la sua storia, la sua attuale situazione, le sue aspirazioni e così via; al paziente esse forniscono l'opportunità di familiarizzarsi con lo stile terapeutico dell'analista; cosa fa e cosa non fa, quando parla e quando resta in silenzio, cosa si aspetta e pretende e così via. Non vi sono scorciatoie in questo processo. Nessun protocollo del Rorschach può adeguatamente far conoscere un paziente e un analista, così come nessuna presentazione professionale del terapista può farlo conoscere a un paziente nella giusta maniera. Quando discuto del periodo di prova, abitualmente dico al paziente che il suo scopo è non solo di dare a ciascuno di noi l'opportunità di osservarci, ma di aiutarlo a capire, attraverso questa semplice esperienza, cosa sta per intraprendere.

Il periodo di prova assolve altrettanto bene un'altra funzione. Fornisce l'opportunità di negoziare e definire il "contratto terapeutico". (Il termine "contratto terapeutico" si riferisce alle regole mediante le quali il terapista e il paziente si propongono di giocare "il gioco della terapia"). Inizialmente il paziente non conosce le regole del gioco analitico. Il terapista non sa se il paziente è in grado di giocare secondo tali regole e, qualora ne sia capace, se è interessato al gioco. La maniera migliore per il terapista di spiegare le regole del gioco e per il paziente di capirle, prima di decidere di partecipare al gioco, è che entrambi si impegnino in un gioco di prova. Questo è lo scopo fondamentale del periodo di prova.

Senza dubbio il terapista inculca al paziente le regole del gioco analitico in modo informale e indiretto dal momento del loro primo contatto, ad esempio, insistendo che sia il paziente stesso a fissare il primo appuntamento. Durante il periodo di prova le regole diventano sempre più esplicite; esse costituiscono anche un tema di discussione e, entro certi limiti, di contrattazione fra le due parti. Rivediamo le principali regale che debbono essere discusse e chiarite prima che paziente e terapista possano dar inizio alla fase contrattuale del trattamento.

Definizione preliminare del gioco analitico

All'inizio del periodo di prova, può darsi che il paziente conosca soltanto due regole: che deve pagare un dato onorario e che l'analista non gli suggerirà come comportarsi né nella seduta analitica né fuori di essa.

Frequenza delle sedute.

Ben presto nel periodo di prova, o a volte anche prima di questo, analista e paziente debbono discutere la frequenza delle sedute. Personalmente preferisco iniziare fissando tre o quattro sedute la settimana. Il numero che suggerisco per il momento (diversamente che in seguito, prima di iniziare la fase contrattuale) dipende dagli impegni di entrambi e qualche volta anche dalla situazione finanziaria del paziente. Spiego al paziente che queste considerazioni hanno un peso in tale decisione e, se necessario, che c'è bisogno di una continuità nel trattamento. Infine faccio spesso presente che possiamo riconsiderare il problema della frequenza delle sedute man mano che procediamo col periodo di prova.

Il divano.

Metodologicamente, il periodo di prova differisce dalle fasi successive del trattamento in un unico punto importante: non è stato stabilito fra terapista e paziente nessun contratto impegnativo. E' quindi necessario considerare se il paziente debba sedere o sdraiarsi. Nel mio studio, il paziente usa un divano con schienale ugualmente confortevole per sedersi e sdraiarsi. Invito il paziente ad assumere la posizione che preferisce. Se il paziente chiede qual è la posizione che io preferisco, rispondo che per me questo fa ben poca differenza, ma che se per lui non è un problema preferirei che si sdraiasse. Credo che, se il terapista si limita a consigliare senza insistere per l'una o l'altra posizione, la situazione terapeutica rimane sufficientemente libera. Comunque, la convinzione del terapista che l'analisi possa essere effettuata solo quando il paziente è sdraiato può essere fonte di serie difficoltà.

La libera associazione e la regola fondamentale.

Freud esigeva che il paziente "associasse liberamente", vale a dire che non censurasse coscientemente i suoi pensieri e che riportasse francamente le sue "libere associazioni" all'analista. Ritengo che questa regola sia troppo coercitiva in quanto dà al paziente l'impressione di dover fare qualcosa che, secondo la mia definizione delle regole del gioco, non occorre che faccia. In maniera specifica, Freud esigeva una completa franchezza da parte dell'analizzando. In cambio gli prometteva "la più assoluta discrezione". Questo patto, egli diceva, costituisce la situazione analitica. (An Outline of Psychoanalysis (1938), Norton, New York 1940, p. 63. )

Pur avendo lo stesso obbiettivo di Freud, preferisco procedere in maniera leggermente diversa. Spiego al paziente (se già non lo sa) che posso lavorare solo con le informazioni che egli mi fornisce. Lo incoraggio a parlare su qualunque cosa desideri; posso anche fargli notare che è libero di trattenere delle informazioni, ma aggiungo che posso sapere solo ciò che mi dirà. Da parte mia, prometto una totale riservatezza.

Questo modo di procedere, in luogo di richiedere al paziente di associare liberamente o di svelarsi quanto più è possibile, definisce la situazione 'in termini più funzionali. L'analizzando si familiarizza col procedimento e si responsabilizza per ciò che comunica.

I sogni.

A meno che il paziente non accenni all'argomento, io non menziono i sogni all'inizio del periodo di prova. Anche se penso che i sogni siano comunicazioni dense di significato e ne faccia uso in terapia, non ritengo che siano la via regia per l'inconscio. Se l'analista crede che lo siano è probabile che incoraggi il paziente a riportare i sogni: questo distorce il procedimento analitico. In termini di metodo psicoanalitico, comunque, ciò esemplifica un problema più generale della questione dei sogni.

Sostengo che l'analista non deve considerare nessun particolare tema (sogni, sessualità, avvenimenti dell'infanzia, problemi attuali, transfert o che so io) più importante o più interessante di un altro. Un tale ordine di argomenti impone una struttura formale alla situazione analitica e quindi priva il paziente della libertà di definire lui stesso la situazione. Esso riflette inoltre i pregiudizi teoretici dell'analista sulla terapia. Al tempo stesso serve a rinforzare quei pregiudizi, come accade per le profezie che si auto-determinano. Invitando il paziente a comunicare su un particolare argomento (ad esempio, la sessualità) o in termini di un particolare linguaggio (ad esempio sogni, sintomi) l'analista riconferma i suoi pregiudizi sulle difficoltà del paziente e sul cambiamento di personalità necessario per correggerle.

L'analista può e in realtà dovrebbe avere solo due preferenze circa la condotta del paziente: preferire la comunicazione verbale a quella non verbale e la comunicazione diretta a quella indiretta. Nessun'altra preferenza è compatibile con l'etica dell'autonomia.

Procedure mediche

Molti dei pazienti che mi consultano non si sentono fisicamente malati e non pensano di aver bisogno di assistenza medica, né io ho motivo di credere altrimenti. Raramente si aspettano che li esamini fisicamente o che partecipi in qualche altro modo alla cura della loro salute.

Supponiamo, comunque, che la salute fisica del paziente è incerta e che egli si aspetti una qualche sorta di aiuto medico dal terapista. Cosa dovrebbe fare l'analista? Dovrebbe spiegare che, sebbene medico (se lo è), egli non svolge un lavoro ordinariamente considerato medico. Questo riguarda non solo la questione dell'esame fisico, ma anche il problema dei medicinali e di ogni terapia organica. Così il terapista definisce il proprio lavoro col paziente come esclusivamente psicologico o educativo. Se necessario, il terapista può specificare che, come analista, egli ascolta e parla, cerca di chiarire problemi e situazioni, discute linee di condotta alternative e altri tipi di scelta e cerca di decodificare messaggi dissimulati. Per dare maggiore incisività può aggiungere che non fa niente di più. E' irrilevante che il terapista sia qualificato ad aiutare il paziente in altri modi, ad esempio prescrivendo sedativi o dando consigli. Il terapista rifugge da altri interventi non perché non sia in grado di realizzarli adeguatamente, ma perché lo distraggono dal compito che analista e analizzando si sono proposti.

Comunicazioni con terzi.

Personalmente mantengo una rigorosa linea di condotta: nessun coinvolgimento con chiunque non sia il paziente. Una volta che la questione è stata discussa, mi aspetto che il paziente scoraggi altre persone dal comunicare con me per quanto riguarda lui e la sua analisi. Al tempo stesso, poiché non pongo alcuna restrizione al paziente, egli è libero di fare dell'analisi l'uso che più gli piace. Può vantarsene in giro o tenerla nascosta; può cercare di usarla a proprio vantaggio a scuola o sul lavoro, oppure la sua carriera può soffrirne; può usare la nota mensile dell'analista come prova in tribunale e nei procedimenti fiscali, o può scegliere di non farlo; e così via.

Consideriamo un esempio tipico. L'analizzando può richiedere lettere o dichiarazioni per la commissione di leva, scuole e altri organismi. Si dice spesso che il terapista dovrebbe stare attento in tali casi per tema di nuocere al paziente; egli dovrebbe rilasciare informazioni solo con l'approvazione e il consenso del paziente. Ma procedere in questo modo equivale a perdere interamente la qualità essenziale dell'analisi.

Nella terapia autonoma è un fatto privo di importanza se, comunicando con terzi, l'analista "aiuta" o "danneggia" il paziente. (La distinzione è sterile in parte perché spesso è impossibile sapere in anticipo le conseguenze reali di tali azioni). In verità, nella misura in cui il paziente riesce ad assicurarsi l'aiuto extra-analitico dall'analista, riesce anche a rendere l'analisi un'influenza nociva e non terapeutica su di lui. Il paziente è ad esempio uno studente mediocre per il quale l'analista raccomanda indulgenza alle autorità scolastiche, dato che è "in terapia" e "sta andando bene". Nel far ciò il terapista si innalza a una posizione di potere che non dovrebbe avere, e riduce il paziente a quella posizione eteronoma e irresponsabile dalla quale l'analisi avrebbe dovuto riscattarlo.

Questo non vuol dire che l'analista debba essere freddo e disinteressato nei confronti di tali questioni. Anzitutto esse sono farina per il mulino analitico. In secondo luogo, l'analista deve, come sempre, essere d'aiuto nel discutere le aspirazioni del paziente e i metodi coi quali progetta di perseguirle. Rimanendo fermo nella sua determinazione di mantenere l'autonomia analitica, il terapista dovrebbe essere il più possibile di aiuto per liberare il paziente e renderlo capace di perseguire i suoi fini, con qualunque metodo decida. Ecco un esempio. Anche se l'analista non praticherebbe un aborto a una paziente che lo desideri, egli dovrebbe essere così libero nel discutere la "situazione di realtà" relativa agli aborti nel suo paese e all'estero, come lo è, diciamo, per "la situazione di realtà" del lavoro della paziente. Lo stesso genere di considerazioni vale per qualunque cosa il paziente voglia fare al di fuori dell'analisi e per la quale chieda l'aiuto dell'analista.

Ricovero in ospedale psichiatrico e suicidio.

Alcuni pazienti attraversano una lunga analisi senza far mai riferimento alla possibilità di suicidarsi. Altri riportano idee di suicidio o esprimano il timore di potersi uccidere fin dall'inizio della terapia. Analogamente, alcuni pazienti possono non sollevare mai la questione del ricovero in ospedale psichiatrico, mentre altri possono discuterne fin dal primo incontro col terapista. In effetti, alcuni pazienti che consultano l'analista possono essere stati ricoverati in precedenza; altri possono aver tentato il suicidio. Riunisco qui questi due fenomeni perché la minaccia di suicidio è spesso una ragione per consigliare al paziente il ricovero in ospedale psichiatrico (o, se rifiuta, per rinchiuderlo), e anche perché la posizione del terapista autonomo è identica su entrambi i problemi.

Durante il periodo di prova, se il paziente non solleva la questione del ricovero in ospedale psichiatrico, e io non ho motivo di ritenere che ciò possa diventare un problema in seguito, neppure io ne faccio cenno. Ma, come ho sottolineato, faccio tutto ciò che posso per spiegare al paziente che prometto solo di analizzarlo e che tutti i contatti si terranno nel mio studio.

Se la questione della necessità per il paziente di un ricovero in ospedale psichiatrico sorge agli inizi della terapia, l'analista deve spiegare al paziente che egli non esercita la psichiatria ospedaliera. Se il paziente ritiene di aver bisogno di essere rinchiuso in ospedale per la propria o l'altrui protezione, deve richiederlo, come ogni cosa non analitica, a qualcun altro che non sia l'analista. L'analista può offrirsi per raccomandare delle istallazioni ospedaliere, così come può raccomandare un internista o un chirurgo a un paziente che richiedesse tali informazioni, ma non deve andare oltre. Questa posizione è necessaria; essa protegge l'integrità della situazione analitica e assicura il paziente che l'analista ha rinunciato al ruolo psichiatrico abituale che gli consente di far ricoverare "malati mentali", con o senza il loro consenso.

In breve, l'analista deve rinunciare per sempre al gioco dell'ospedale psichiatrico e l'analizzando deve esserne sicuro. E' curioso con quanta facilità gli analisti abbiano accettato la regola di non dover visitare dal punto di vista fisico i loro pazienti, ma non quella di non dover neppure partecipare al loro ricovero in ospedale psichiatrico. Quindi l'analista non solo deve rinunciare all'abituale ruolo di medico, ma anche a quello di psichiatra.

Come per le visite mediche o le 'medicine, così il paziente deve essere libero di prendere le sue decisioni sul ricovero in ospedale psichiatrico; allo stesso tempo, fin quando il paziente si attiene alle regale del gioco analitico, l'analista deve essere disposto ad analizzarlo.

La posizione dell'analista è la medesima per quanto riguarda la minaccia di suicidio; egli non può permettere che questa diventi un motivo per modificare il contratto. Quest'intendimento è vantaggioso sia per il paziente che per il terapista. Per alcune persone, l'autodistruzione è una possibilità maggiore che per altre. Il compito dell'analista è di analizzare questo desiderio o timore, come farebbe per qualunque altro. Agire in caso di pericolo di suicidio del paziente (cosa ben diversa dal discutere, fra le altre possibili linee di condotta, l'eventuale ricovero del paziente), per l'analista equivale a rinunciare al mandato analitico e compiere un "acting out".

In verità, solo se il paziente è profondamente convinto che l'analista rispetta la sua autonomia, incluso il suo diritto di togliersi la vita, può impegnarsi effettivamente nell'esplorazione analitica e nella padronanza delle sue idee di suicidio. Con quest'accordo fra paziente e terapista, le comunicazioni dell'analizzando circa il suicidio rimangono il linguaggio dell'autodistruzione che è compito dell'analista analizzare; senza di esso, le comunicazioni dell'analizzando diventano messaggi coercitivi intesi a influenzare la condotta del terapista.

Come termina il periodo di prova?

La durata del periodo di prova varia. Dipende anzitutto dal paziente, da che genere di problemi porta al terapista e da che tipo di soluzione cerca per essi. In secondo luogo dipende dal terapista, da quando si sente pronto a intraprendere la psicoterapia autonoma col paziente. Secondo la mia esperienza, il periodo di prova può essere breve (una settimana o due) così come prolungarsi per diversi mesi e non convertirsi mai in un altro tipo di accordo.

Il periodo di prova tende ad essere minimo con quei pazienti che sono ben informati sulle questioni analitiche e che vogliono essere analizzati. Molti dei miei pazienti, e altrettanto vale per i pazienti analitici in genere, sono dei professionisti, uomini e donne. Alcuni hanno avuto precedenti esperienze di psicoterapia. Rapidamente imparano ciò che mi aspetto da loro. In tali casi posso spesso decidere in una mezza dozzina di sedute o meno se posso lavorare col paziente. Se non ho motivi di dubitare che il paziente possa aderire alle regole del gioco analitico e possiamo accordarci sull'onorario e su un reciproco, conveniente orario di appuntamenti, allora quasi sempre accetto il paziente in trattamento.

All'altro estremo, il periodo di prova può durare diversi mesi. Ad esempio, il paziente può lamentarsi di problemi così complessi e così vaghi da richiedere un notevole lavoro per chiarire perché è venuto e cosa vuole: o può aver avuto una precedente esperienza di analisi o di psicoterapia e può essere esitante a imbarcarsi in un altro periodo di terapia; o può trattarsi di uno studente indeciso tra il continuare gli studi o lasciarli, oppure tra il risiedere nella città dove vive l'analista o trasferirsi altrove per gli studi. In queste e analoghe situazioni il paziente generalmente preferisce continuare la terapia per un lungo periodo, ma su una base in qualche modo provvisoria.

Su tali persone non è conveniente esercitare pressioni, sia perché "entrino in analisi" (vale a dire, si impegnino ad avere appuntamenti regolari per molti mesi) sia perché la lascino perdere. Viceversa, io accetto i termini del paziente se egli può accettare i miei. Di conseguenza ciò che segue è un lungo periodo di prova. Gli appuntamenti vengono fissati di settimana in settimana. Anziché promettere al paziente che sarò disponibile per lui fino a quando vorrà venire, mi impegno unicamente a vederlo fino a che il suo problema sarà chiarito, sarà indirizzato a un altro terapista, stabiliremo un regolare accordo terapeutico o, infine, finché non deciderà di interrompere. In alcuni casi l'intero decorso della terapia consiste in tale «periodo di prova»; quando è finito, il paziente decide che questo era proprio tutto ciò di cui aveva bisogno o che voleva.

A volte il paziente, che appare in una situazione caotica e niente affatto pronto a mettersi nella routine analitica, vuole terminare il periodo di prova e iniziare "l'analisi regolare". Di solito ciò è dovuto al timore che il terapista possa cessare la terapia e quindi "rifiutarlo". Il paziente può cercare di proteggersi contro questa minaccia facendo quel genere di promesse che ritiene che il terapista si aspetti da lui. Io mi rifiuto di aderire a tale richiesta e spiego al paziente le ragioni del mio comportamento. Posso accennare a vasti settori della vita del paziente che non capisco o a problemi che mi aspetto interferiscano con l'analisi. In alcuni di questi casi andiamo avanti con l'analisi. In altri, un ulteriore periodo di terapia rende chiaro che il paziente effettivamente è poco disposto a aderire alle regole dell'analisi; il paziente in realtà si aspettava che il terapista cedesse alle sue attese e, quando si rende conto che non agirà in tal senso, interrompe.

Può anche accadere che il paziente, timoroso di essere abbandonato dal terapista, utilizzi la sperimentalità del periodo di prova per le sue necessità emotive. Questa circostanza, naturalmente, deve essere analizzata; la stessa situazione sarebbe insorta se il paziente e il terapista si fossero accordati nel procedere più presto a una terapia intensiva. Ci sono molte altre aspettative, necessità e problemi che pazienti e terapisti portano nella situazione terapeutica e che coloriscono per ognuno il significato del periodo di prova. Niente può sostituire il cercare di comprendere quanto più possibile quello che accade in terapia e formularlo chiaramente. Il paziente deve essere impegnato in questa avventura, perché senza di lui non potrà riuscire.

12. LA FASE CONTRATTUALE: I. L'ADEMPIMENTO DEL CONTRATTO

La differenza principale tra il periodo di prova e la fase contrattuale della terapia sta nel genere di impegno che l'analista prende col paziente. Nel primo, il suo impegno è temporaneo e con riserva, nel secondo, duraturo e incondizionato. Prima di entrare nella fase contrattuale, l'analista e l'analizzando debbono addivenire a un'intesa circa il tipo di impegno che il terapista si accinge a prendere; egli offre al paziente i suoi servizi come analista per tutto il tempo che il paziente desidera e durante il quale è disposto ad adempiere i suoi impegni verso l'analista.

L'adempimento del contratto analitico dipende in notevole misura dal fatto che l'analista compia o meno i passi necessari a renderlo effettivo. Non è sufficiente che l'analista dichiari un contratto; quando arriva il momento egli deve agire. Non basta preannunciare il genere di mosse che si faranno in un gioco; al momento opportuno occorre muovere. Non solo le parole ma anche le mosse forniscono informazioni; in analisi i partecipanti si scambiano entrambi i tipi di informazione.

Se l'analista fa al paziente tutte le interpretazioni giuste ma non le sostiene con le mosse corrette, i suoi sforzi analitici saranno annullati.

Rendere effettivo il contratto analitico

Le mosse mediante le quali il terapista definisce il gioco sono state già indicate trattando del periodo di prova. Nella fase contrattuale il terapista sarà chiamato a definire e interpretare ulteriormente molte regole del gioco. La sola nuova regola, che diventa effettiva in questo momento (ma che già sarà stata discussa durante il periodo di prova), è la promessa del terapista di continuare il trattamento finché il paziente desidererà interromperlo e il relativo corollario: il suo rifiuto a prendere la decisione di terminare. Durante la fase contrattuale è probabile che il paziente metta alla prova questa regola in vari modi. Comunque, la sua ultima conseguenza, vale a dire che il paziente stesso deve decidere quando terminare il trattamento, viene messa a fuoco solo durante il periodo terminale.

Sebbene di per sé significativo, lo scopo principale del contratto è di creare una situazione propizia all'apprendimento psicoanalitico. Così, gran parte del lavoro terapeutico durante la fase contrattuale consiste nell'analizzare i problemi del paziente in modi più o meno tradizionali. Non dirò molto su quest'aspetto della tecnica analitica. Per indicazioni sul tipo di cose da cercare e da fare e su certi altri aspetti dell'analisi (come ad esempio, difese, transfert, e così via) rimandiamo il lettore ai classici scritti di Fenichel, Freud, Glover ed altri maestri della psicoanalisi.

Da parte nostra possiamo quindi procedere a un ulteriore esame della fase contrattuale della psicoterapia autonoma, prestando speciale attenzione alle misure usate per rendere effettivo il contratto.

Come fissare gli appuntamenti

L'analista non ha prodotti da vendere; non può curare una malattia, prescrivere una medicina per alleviare l'ansia del paziente o fornire una giustificazione medica per un impegno del paziente. Egli può unicamente contrattare la vendita di tempo e di servizi.

E' implicito nel contratto, e spesso deve essere reso esplicito, che si garantisce la prestazione dei servizi in un certo modo. In altri termini, il terapista deve essere puntuale; deve cominciare e finire la seduta secondo l'accordo prestabilito. Dato che gli analisti generalmente aderiscono a questa regola, non mi dilungherò oltre. Tuttavia molti terapisti si aspettano che anche i loro pazienti siano puntuali. A mio avviso, questo illustra un equivoco di fondo del rapporto analista-analizzando.

Il terapista e il paziente non seguono le stesse regole. I loro ruoli sono complementari, non intercambiabili. Entrambi sono uguali in quanto ognuno deve rispettare l'autonomia dell'altro e in quanto il potere è distribuito in modo (quasi) eguale tra loro. In termini di regole da seguire, tuttavia, il rapporto tra analista e analizzando è un rapporto di cooperazione, paragonabile a quello tra due compagni nel doppio a tennis. Per la durata di un "game", un giocatore serve mentre l'altro è a rete; sebbene entrambi giochino a tennis, ognuno gioca secondo un insieme di regole alquanto diverse.

Nella psicoterapia autonoma, la maggior parte delle restrizioni ricadono sull'analista; il paziente ha una grande libertà di azione. Ad esempio, egli non è soggetto all'obbligo di essere puntuale nei suoi appuntamenti con il terapista. Deve essere puntuale solo nel pagamento dell'onorario. Ricordiamoci che il paziente si avvicina all'analista col desiderio di comperare i suoi servizi. Possiamo quindi supporre che abbia un incentivo ad accettare la consegna della mercanzia che desidera acquistare. In effetti la maggior parte dei pazienti sono puntuali.

Comunque, hanno diritto a non esserlo. Quando ritardano abitualmente, compito dell'analista è ricercare le ragioni di questo comportamento e, se lo comprende, interpretarlo. Se l'analista punisse il paziente per i ritardi o lo influenzasse ad essere più puntuale, uscirebbe dal suo ruolo di analista.

La disdetta degli appuntamenti crea un problema simile. Di tanto in tanto d'analista, come del resto il paziente, avranno necessità di annullare degli appuntamenti. In generale i motivi saranno interessi o doveri professionali, necessità o progetti personali, oppure malattie. Gli analisti hanno tradizionalmente seguito una politica a senso unico; essi potevano annullare l'appuntamento ma il paziente no (o, se lo faceva, doveva pagarlo ugualmente). Seguendo questa regola si pone un fardello pesante e del tutto non necessario sul rapporto analitico. La regola è chiaramente discriminatoria ai danni del paziente. Essa viola i principi del contratto analitico. L'analista promette di prestare al paziente un servizio regolare e puntuale; eppure, per rispettare le proprie personali necessità, mantiene il privilegio di interrompere la prestazione. Se il terapista può avere questo privilegio (e naturalmente dovrebbe averlo), perché non può averlo anche il paziente?

La spiegazione abituale del fatto che il paziente debba pagare per gli appuntamenti annullati (indipendentemente dalla causa) è che l'analista ha perso un'ora del suo tempo e che il paziente ne è responsabile. Ma questo argomento è contraddetto dal comportamento dell'analista: egli dice di avere affittato un'ora ma rimane libero di assentarsi dall'appuntamento. Se realmente affittasse del "tempo", sarebbe obbligato a compensare il paziente. Questa è una prassi comune nella vita commerciale; ad esempio, un impresario è responsabile dei danni economici per la ritardata costruzione di un edificio. L'analista che si prende due mesi di vacanza in Europa, ritarda la "consegna" dell'analisi del suo paziente. Non sto suggerendo di non farlo, ma sottolineando che lo si fa senza indennizzare il cliente per l'inconveniente.

Di conseguenza, se il terapista desidera rendere il rapporto fra lui e il suo paziente il più egualitario possibile, deve dare al paziente gli stessi privilegi di disdetta di cui egli stesso gode. Perciò al paziente deve essere concesso di annullare gli appuntamenti, se vuole assistere a una riunione professionale o recarsi in Europa, senza dover pagare le sedute annulliate. (E' meno probabile che ciò costituisca un problema per il terapista che gode di buone entrate, che non per quello che non ne ha).

A questo punto è pertinente una breve osservazione su un altro tipo di annullamento. Il contratto analitico implica il seguente scambio: l'analista vende i suoi servizi; il paziente compera questi servizi e (ed ecco il punto) deve prenderli in consegna nello studio dell'analista. Cosa accade se il paziente altera la propria situazione (o la situazione diventa diversa non per "errori" o interventi attivi da parte sua) in modo tale da non potersi recare nello studio dell'analista? Questo può accadere ad esempio se il paziente è arrestato per un delitto, ricoverato per psicosi, o reso inabile (per più giorni) da qualche malattia. In tali circostanze la responsabilità dell'analista verso il paziente cessa, almeno per quel periodo (l'analista non può andare dal paziente e prestargli i suoi servizi, diciamo, a casa sua o all'ospedale).

Una simile interruzione può essere trattata in due modi, a seconda delle preferenze del paziente e degli accordi previ che analista e analizzando hanno preso circa questa eventualità. Se il paziente desidera riprendere le sedute presso l'analista non appena possibile, deve pagare per l'assenza. D'altra parte, se preferisce non pagare le "visite" non effettuate durante quello che potrebbe essere un lungo periodo, può scegliere di non pagare ma di dover attendere non solo fino a che sarà di nuovo in condizioni di andare dall'analista, ma finché il normale programma dall'analista consentirà di riprendere il rapporto. L'analista deve, naturalmente, riprendere il paziente e non penalizzarlo per l'interruzione. Solo in questo modo la frequenza dell'analizzando presso lo studio dell'analista diventa un impegno e una responsabilità di cui il paziente risponde a se stesso e non all'analista; il terapista non lo premia né lo punisce per il mancato incontro.

Nella mia pratica concedo ai pazienti gli stessi privilegi di disdire le sedute che concedo a me stesso. Le loro assenze raramente diventano un problema. Tuttavia a volte, specialmente con pazienti ipocondriaci, ciò accade. In questo caso offro al paziente la scelta tra pagare per gli appuntamenti disdetti per "malattia" o smettere la terapia.

Complicazioni per procedure non analitiche.

L'autonomia del terapeuta come analista e del paziente come analizzando può essere minata, in qualunque momento del trattamento, da una varietà di esigenze che ognuno dei due partecipanti può desiderare di soddisfare. Il pericolo maggiore per un rapporto pienamente contrattuale e reciprocamente autonomo sta nel bisogno di ciascuno di costringere l'altro. Questo rischio è in parte psicologico, proveniente dalle aspirazioni delle due parti contrattanti, e in parte situazionale, derivante dalle aspettative sociali implicite nei ruoli di chi soffre e di chi aiuta. Quindi, come terapeuta, l'analista può facilmente assumere una posizione preminente; pertanto deve stare costantemente in guardia contro ciò. Dall'altra parte il paziente può prontamente assumere una posizione di inferiorità e far ricorso al grande potere di una condizione di debolezza, usando cioè la sofferenza per costringere il partner. Quindi il terapista deve anche guardarsi dalla strategia del paziente di ottenere la superiorità mediante la paradossale manovra di impadronirsi di ciò che appare come un ruolo inferiore.

Dare consigli e prescrivere medicinali sono cause frequenti di squilibrio nel rapporto analitico. In questi modi il terapista comunica al cliente di essere pronto a adottare misure di controllo sugli impulsi, necessità o problemi del paziente. Se lo fa, chi sarà a decidere il grado che il controllo del terapista dovrebbe assumere? E come verrà deciso?

Queste domande non hanno risposta. In pratica il paziente tenterà spesso di indurre lo psichiatra ad assumere un sempre maggiore controllo su di lui. Lo farà agendo come se stesse progressivamente perdendo il controllo di se stesso. Quanti più consigli darà il terapista e quanti più medicinali prescriverà, tanto più il paziente sembrerà deteriorarsi; diventerà sempre più depresso e "impotente" ed avrà sempre maggior bisogno di sedativi.

Corrispondentemente aumenterà la pressione sullo psichiatra perché "faccia qualcosa". Ben presto il terapista comincerà a preoccuparsi che il paziente possa commettere un suicidio. Cercherà allora di aumentare il controllo sul paziente ricoverandolo in ospedale, trattandolo con elettroshock, e così via. In questo circolo vizioso, il paziente può essere in grado di provare che è padrone di se stesso solo uccidendosi. Naturalmente una volta che incomincia a scendere la china, il terapista ha rinunciato, o dovrebbe aver rinunciato, a ogni speranza di analizzare il paziente.

L'analista competente non dovrebbe aver bisogno di fare simili cose. Dovrebbe limitarsi ad essere un analista. A questo punto è forse opportuna qualche osservazione, dato che il terapista potrebbe trovare l'atteggiamento analitico difficile da mantenere.

Se il paziente può essere definito dipendente, indifeso e malato, il terapista è giustificato nell'adottare una misura di contrailo nei suoi confronti. Dato che simili persone richiedono protezione, il ruolo da "protettore" diventa legittimo. D'altra parte, se il terapista considera il paziente autonomo ed autoresponsabile, la protezione non è legittima. Se tale persona è ciononostante "protetta", possiamo giustamente parlare di degradazione, sfruttamento e oppressione. Un esempio di ciò è il rapporto tra segregazionisti e negri.

E' chiaro il perché fornire protezione è seducente per il protettore: gli dà il controllo del rapporto. Qui sta la croce del problema per il terapista che trova difficile l'atteggiamento di autonomia; rinunciando al "dovere" di proteggere il paziente, deve anche rinunciare al "privilegio" di controllarlo. Il terapista autonomo virtualmente non ha controllo sul suo paziente; di qui la paura di perderlo. Ne consegue allora che, nella misura in cui il terapista ha paura della perdita dell'oggetto, cercherà un tipo di rapporto eteronomo coi suoi pazienti. Gli psicoterapisti spesso hanno bisogno dei loro pazienti più di quanto i pazienti non abbiano bisogno dei loro psicoterapisti (non solo economicamente ma anche psicologicamente). Per superare quindi uno dei limiti della pratica della psicoterapia autonoma, il terapista deve essere largamente libero dalla paura di perdere il paziente e, quindi, dal desiderio di controllarlo.

Un altro genere di complicazione non analitica che il terapista deve evitare è parlare del paziente con terzi. Del tutto erroneamente, si ritiene spesso che l'utilità di questa pratica consista nel proteggere le confidenze del paziente. Senza dubbio queste ultime richiedono protezione assoluta; e se l'analista non discute del paziente con altri, le confidenze del paziente sono, ipso facto, perfettamente protette. Così dovrebbe essere. Tuttavia restringere il rapporto dell'analista soltanto al proprio paziente serve anche a un altro scopo. Per vederlo chiaramente, consideriamo un caso tutt'altro che insolito in psicoterapia.

Supponiamo che il paziente voglia liberare il terapista dall'obbligo di mantenere confidenziali le sue comunicazioni, e che inoltre richieda al terapista di comunicare con altri, ad esempio, di dare una diagnosi al rettore di un collegio o al direttore del personale di una società. Cosa dovrebbe fare l'analista?

Non ho bisogno di insistere sul fatto che l'analista non gioca un consueto gioco medico. Il "materiale" che l'analizzando comunica all'analista non è come il campione di sangue che il .paziente medico dà al suo dottore. In quest'ultimo caso, il paziente "possiede" il sangue e di conseguenza anche l'informazione che il dottore può ricavarne. Quindi il paziente può dare istruzioni al medico di trasmettere quest'informazione a terzi e, nel normale andamento delle cose, questo è quanto il dottore farà. Non ha motivo alcuno per non farlo.

E' sciocco tuttavia cercare di seguire le stesse regole in analisi dato che non c'è nulla che l'analista possa comunicare ad altri che anche il paziente non conosca o non abbia diritto a conoscere. Poiché lo scopo dell'analisi è ampliare al massimo grado l'autonomia del paziente, l'analista non ha maggiori ragioni di informare una terza persona della "diagnosi" del paziente di quante ne avrebbe di dire alla moglie del paziente che il marito la odia, o all'agente di borsa del paziente che il suo cliente vuole comperare un centinaio d'azioni della General Motors a 92. Qualunque cosa il paziente voglia far sapere alle diverse persone della sua vita può dirgliele lui stesso; di fatto deve dirgliele, dato che l'analista non lo farà in sua vece. Se l'analista svolgesse questa sorta di ruolo, parteciperebbe attivamente alla vita extra-analitica del paziente viziando così l'intero sforzo analitico.

"Frustrare" e "soddisfare" il paziente

Il problema di quanto l'analista dovrebbe soddisfare o frustrare il paziente ha tormentato a lungo ila psicoanalisi. Le opinioni di Freud ad riguardo non hanno aiutato a risolvere il problema. Messo di fronte a pazienti fobici e ossessivi i quali, malgrado un intenso lavoro analitico, erano restii a rinunciare ai loro sintomi, Freud suggerì che il terapista adottasse certe forme di "attività" per esercitare una pressione sul paziente affinché cambiasse. Il "principio" fondamentale che propose fu:

«Il trattamento analitico deve essere portato avanti, per quanto possibile, in condizioni di privazione, in uno stato di astinenza». (Lines of Advance in Psycho-Analytic Therapy (1919), The Standard Edition, vol. XVII, p. 162.)

Questo dettame si è rivelato una ricca sorgente di confusione. Senza dubbio per "astinenza" Freud non intendeva l'astinenza sessuale. Ferenczi e altri, tuttavia, consigliavano ai pazienti di non masturbarsi o di non avere rapporti sessuali. Ma i suggerimenti di Freud riguardo all'astinenza erano solo leggermente meno infelici:

«(...) Per crudele che possa sembrare, dobbiamo fare in modo che la sofferenza del paziente, a un livello che sia in qualche modo effettivo, non termini prematuramente... Per quanto riguarda i suoi rapporti col medico, il paziente deve essere lasciato con molti desideri insoddisfatti. E' conveniente negargli precisamente quelle soddisfazioni che desidera con maggiore intensità ed esprime con più insistenza». (Ibid., pp. 163-164.)

Vediamo qui Freud sostenere la manipolazione e la coercizione del paziente, apparentemente nell'interesse dell'analisi. Ciò è assurdo. Tali manovre sono antianalitiche e non trovano posto nella psicoterapia autonoma. I problemi che indussero Freud a ricorrere a tali interventi "attivi" si chiariscono facilmente considerando la psicoanalisi come rapporto contrattuale: su ciò è opportuno dire ora qualcosa.

Ritengo che Freud abbia formulato la regola dell'astinenza per contrapporsi alla "naturale" tendenza del terapista a confortare il paziente. Egli ritenne quindi necessario sottolineare che l'analista non deve adeguarsi ai desideri del paziente se essi ostacolano il lavoro dell'analisi. Ad esempio, se il paziente desiderasse l'affetto del terapista, l'analista non dovrebbe concederlo semplicemente per farlo "sentire meglio". Lo scopo della terapia non è di raggiungere la "felicità" e neppure il "benessere", ma di apprendere su se stessi e sviluppare l'autonomia personale. Per me, la regola dell'astinenza significa esattamente questo e niente di più recondito.

Comunque, per un insieme di ragioni che non ci riguardano, nella psicoanalisi divenne popolare l'idea che la condizione psicologica più adatta per un paziente che intraprende l'analisi fosse uno stato di frustrazione. Molti analisti, quindi, ritengono che il paziente debba sentirsi ansioso, fare sacrifici finanziari per il trattamento e così via; perché, altrimenti, l'analisi cesserà di essere efficace. Secondo me quest'opinione è completamente falsa. ( Vedere Thomas S. Szasz, The Meaning of Suffering in Therapy, «American Journal of Psychoanalysis», 21 (1961), pp. 12-17.)

L'analista non ha maggiore diritto di "frustrare" il paziente di quanto ne abbia di "soddisfarlo". Per di più, cosa intendiamo per "frustrazione" e "gratificazione"?

Considerare il rapporto analitico come contrattuale semplifica le cose. L'analista si impegna col paziente a fare alcune cose per lui. Strettamente parlando, quindi, se l'analista rispetta il suo contratto non "premia" il paziente; si comporta semplicemente come una persona onesta che fa il suo lavoro e mantiene le sue promesse. Viceversa, se l'analista cessa di rispettare il contratto, egli non "frustra" il paziente (anche se, indubbiamente, il paziente può sentirsi frustrato); si comporta semplicemente come una persona disonesta che non fa il suo lavoro e infrange le sue promesse.

Naturalmente, in pratica, le cose non sono così semplici. Ma consideriamo il problema classico che dà origine alla nozione di «astinenza» e riformuliamolo in termini di autonomia e contratto. Il paziente è una giovane attraente il cui marito è impotente. Va dall'analista e si innamora di lui. Dovrebbe quest'ultimo soddisfare i desideri sessuali della paziente? Se non lo farà, lei si sentirà "frustrata' e pertanto nello stato di astinenza adatto per essere analizzata. Per ime, questo è uno strano modo di considerare il problema.

Anche se la paziente può desiderare di intraprendere una relazione sessuale col terapista, non è questo il genere di attività che il terapista ha promesso di vendere. Di conseguenza, questa situazione richiede prima di ogni altra cosa una chiarificazione e quanto prima tanto meglio. In gran parte, forse, perché una situazione di questo genere non fu adeguatamente chiarita nei primi tempi dell'analisi, ed anche perché i medici occasionalmente intraprendono un'attività sessuale con le loro pazienti, non era del tutto ingiustificato per il paziente aspettarsi che il terapista agisse in un simile modo. La nozione allora prevalente, che la giusta prescrizione per la malattia "isteria" fosse Penis normalis, dosit repetatur, non poteva essere di aiuto. Se questo era un "trattamento", perché i medici non avrebbero dovuto "somministrarlo"? Cerchiamo di non ingannarci al riguardo; non si tratta di un semplice gioco di parole. Solo in questa luce possiamo capire perché gli analisti pensarono che negare ad pazienti certe cose è lo stesso che frustrarli. Questo naturalmente è vero per coloro che sono indifesi, specialmente i bambini e le persone fisicamente invalide. Se un bambino è affamato la madre non può dirgli di cercare del cibo e nutrirsi da solo. Ma è questo il modello adeguato al paziente analitico?

Per tornare al nostro ipotetico caso della giovane isterica che ha bisogno di "sesso", il compito dell'analista non è di preoccuparsi del suo stato di "astinenza" ma di accertare perché, se vuole un amante, non lo cerca al di fuori della situazione analitica. Anche se, naturalmente, dal punto di vista della esperienza questo genere di situazione è erotica, (e, se la paziente è attraente, l'analista può sentirsi tentato), teoricamente non è di natura specificatamente sessuale. Supponiamo che il marito della paziente abbia perso tutto il suo denaro e che essa desideri che sia l'analista a mantenerla. Considererà egli un "frustrare" la paziente il proprio rifiuto di aiutarla economicamente? Il tener presente la natura contrattuale della psicoterapia autonoma aiuterà sia l'analista che l'analizzando ad evitare di confondere ed equiparare l'adesione al contratto con la "frustrazione" del paziente.

Un altro aspetto di questo problema merita un breve cenno. Dai miei contatti con giovani terapisti ho tratto l'impressione che molti credono che vi sia qualcosa di implicitamente e misteriosamente "buono" o "analiticamente corretto" nel rifiutare di rispondere a una domanda del paziente, semplicemente perché egli l'ha posta. Il terapista stava forse sul punto di spiegare qualcosa ma, come reazione alla domanda diretta del paziente, si gela e rimane in silenzio. (Si tratta di solito dello stesso terapista che, paradossalmente ma comprensibilmente, sbaglierà altresì contaminando la situazione analitica col "fare troppo" per il paziente; vale a dire, facendo cose non contemplate nel contratto). Un simile terapista è troppo timoroso di essere controllato dal paziente e controreagisce cercando di controllare il paziente.

La mia opinione è che il paziente ha diritto al genere di aiuto che l'analista ha promesso dà dargli. Sebbene alcune delle domande del paziente possano rimanere senza risposta (ed è auspicabile che egli ne comprenda la necessità), molte altre meritano una risposta seria. In sintesi, l'analista non deve desiderare di "frustrare" il paziente, e quindi rifiutarsi di rispondere a delle domande, e nemmeno desiderare di "gratificarlo" e quindi rispondere a domande che mirano alla rassicurazione piuttosto che all'informazione.

13. LA FASE CONTRATTUALE: II. ANALISI DELLA SITUAZIONE ANALITICA

I concetti di autonomia e contratto sono decisivi per la psicoanalisi. Coloro che praticano questo tipo di terapia non debbono quindi sorprendersi di trovare alcuni dei loro problemi strutturati in termini di autonomia contrapposta all'eteronomia e di mantenimento di promesse in contrapposizione all'inadempienza. Molti problemi tradizionali della psichiatria e della psicoterapia assumono una veste nuova e più trattabile se avvicinati da questo punto di vista.

Generalmente il paziente va dal terapista in cerca di aiuto per i suoi disturbi. Non va a negoziare un contratto. Tuttavia questa specie di dissonanza tra compratore e venditore non è inconsueta. Ad esempio, una persona che vuole assicurare la propria vita consulta un agente assicurativo che gli spiega i contratti offerti dalle varie compagnie di assicurazione sulla vita. Il cliente deve decidere se vuole acquistare una polizza, ed eventualmente di che tipo.

Analogamente, anche se il paziente può venire con l'intenzione di acquistare della "terapia", l'analista deve anzitutto spiegare cosa ha da vendere. Se il paziente non ne è informato, l'analista deve anche spiegare quali altri tipi di terapia psichiatrica sono in vendita. A meno che il paziente non abbia una scelta tra una varietà di terapie e di terapisti, non potrà negoziare efficacemente con l'analista. Se può ottenere aiuto solo sottomettendosi alle condizioni dell'analista, allora, in effetti, egli è costretto dal suo stesso bisogno ad acquistare qualunque cosa l'analista venda.

Alcuni si avvicinano al terapista esattamente con questo spirito; asseriscono di aver bisogno di un aiuto terapeutico che solo l'analista che hanno consultato può fornire; di conseguenza debbono sottomettersi, e in verità lo faranno di buon grado, alle condizioni dell'analista. L'analista non deve accettare questa definizione della situazione ma deve sfidarla e cercare di chiarirla. Senza dubbio il cliente può sinceramente credere che un determinato terapista sia l'unico a poterlo aiutare. Il che, occasionalmente, potrebbe essere vero. Tuttavia è importante tenere presente che il paziente che cerca aiuto analitico ha delle scelte. La pratica della psicoanalisi è possibile solo in una società capitalistica, competitiva e pluralistica; una simile società offre una varietà di terapie alle persone in dubbio. Sottolineo questo punto perché, anche se il paziente può sentire che una certa forma di trattamento è la sola "giusta per lui", in effetti è lui che l'ha scelta preferendola a molte altre.

Analisi della situazione analitica

In gran parte, l'analisi della situazione analitica è l'analisi del contratto. Un accordo contrattuale, per la sua stessa natura, può essere rotto in due modi: per inadempienza o per eccessivo rispetto degli obblighi. Questi due tipi di violazione del contratto corrispondono approssimativamente agli atteggiamenti caratterologici della persona che sfrutta e di quella che si lascia sfruttare. Fino a un certo punto, da prima è tipica del così detto individuo esigente orale o avido, o del sadico; la seconda, della così detta persona matura o generosa, o del masochista.

La persona che abitualmente non rispetta i contratti.

Un buon esempio della persona che cerca di evitare i suoi obblighi contrattuali è il paziente che abitualmente recita il ruolo del malato. Egli non vede nulla nella vita se non i propri malanni, bisogni, problemi e sofferenze; si aspetta segretamente di dover essere (e in qualche modo lo sarà) ricompensato ("aiutato") per i suoi disturbi. Questo paziente in effetti dice: «Non voglio negoziare. Ciò che voglio è fare le cose a modo mio. Perché non mi date quello di cui ho tanto bisogno?».

Questi pazienti spesso esibiscono, per lo meno inizialmente, sintomi di conversione isterica; o possono soffrire delle cosiddette malattie psicosomatiche, oppure sono dei «nevrastenici» che si lamentano di ansietà cronica, stanchezza e depressione. All'inizio sembrano interessati e ben disposti a partecipare al gioco analitico. Ma non appena si definisce più nettamente il contratto, si ribellano contro di esso. Non passerà molto che si lamenteranno amaramente del tempo e dei soldi che debbono investire nel trattamento. Subito dopo metteranno alla prova il terapista; disdiranno gli appuntamenti e rimanderanno il pagamento dell'onorario. Simili pazienti hanno spesso avuto lunghe e fortunate carriere usando tali tattiche coi parenti e a volte anche con altri terapisti. Hanno quindi imparato che non debbono mantenere le promesse e che possono rompere i contratti (o non farne affatto); i loro sintomi e loro sofferenze vengono accettate come valide scuse.

In una situazione di questo tipo, l'analisi del contratto e dell'atteggiamento del paziente nei suoi confronti, e inoltre una posizione inflessibile del terapista verso il contratto, sono indispensabili per una efficace terapia analitica. Se il terapista modifica il contratto, fornendo ad esempio al paziente sedativi o giustificazioni mediche per questo o quell'altro scopo, oppure riducendo l'onorario o lasciando che il paziente accumuli un debito, allora, invece di analizzare la condotta del paziente, il terapista gli avrà consentito di agire nuovamente, nella situazione terapeutica, il suo abituale modo di comportarsi.

E' come se il paziente dicesse: «Non posso rispettare i termini del contratto perché sono troppo malato (o troppo esausto, o con troppe preoccupazioni economiche, e così via)». Il paziente parla perciò il linguaggio del "Non posso" o delle giustificazioni. Il terapista o accetta quest'idioma o lo rifiuta. In generale, il terapista non analitico (specialmente il così detto terapista di sostegno) si comporta nel primo modo; il terapista analitico nel secondo.

Compito dell'analista è tradurre dal linguaggio del "non posso" al linguaggio del "non voglio", o dal linguaggio delle scuse al linguaggio della responsabilità. Gran parte del lavoro quotidiano dell'analisi consiste nel fare questa sorta di traduzione per il paziente e di insegnargliela a fare per conto suo.

Il terapista che manca di contestare l'idioma del paziente lo accetta come persona irresponsabile. Lo psicoanalista non deve farlo. Egli deve essere capace di comprendere il linguaggio del paziente ma deve rifiutarsi di adottarlo per l'incontro terapeutico. Al contrario, deve trattare il paziente come persona autonoma e responsabile. Questo si può raggiungere solo assegnandogli delle responsabilità e aspettandosi che le assuma. A questo proposito, la terapia è tutt'altro che moralmente neutrale. Il paziente deve assumersi la responsabilità di rispettare il contratto col terapista. Se non lo fa, il contratto avrà fine.

Questo, posso aggiungere, è l'unico sistema con cui l'analista può costringere il cliente. Il terapista autonomo non può e non deve influenzare direttamente il paziente perché si comporti responsabilmente con gli altri: questo è un problema loro, non del terapista. Ciò non significa, naturalmente, che il terapista non possa fare commenti sulla condotta del paziente consistente nel rompere i contatti con quelli che lo circondano.

La persona che abitualmente eccede nell'adempimento del contratto.

In contrasto con coloro che abitualmente ingannano o cercano di ottenere qualcosa per nulla, ci sono quelli che credono di dover pagare nella vita un prezzo per qualunque cosa; più desiderano una cosa, più alto è il prezzo. Qui il terapista è di fronte alla persona oppressa da un senso di colpevolezza cronico, timorosa di sfruttare il partner e di essere biasimata per questo. Una simile persona non solo onora il contratto ma tende a eccedere nel rispettarlo; è iper-responsabile. Così il paziente è eccessivamente premuroso verso l'analista e le sue necessità; si comporta come se l'analista fosse debole e il paziente forte; paga prontamente le sue parcelle e non si lamenta mai del costo dell'analisi; si offre di fare dei lavori all'analista e cerca di portargli dei doni, e così via. Questi pazienti sono spesso disposti a fare un contratto per l'analisi a delle condizioni economiche e d'altro genere possibilmente troppo onerose per loro.

Di regola, uno o entrambi i genitori di queste persone definivano i loro ruoli in termini di grande sacrificio personale per il bambino. Come risultato il bambino è cresciuto sentendosi intollerabilmente colpevole per gli sforzi dei genitori a suo favore, e cerca di mitigare la sua colpevolezza "ripagando" ampiamente il genitore e, di conseguenza, chiunque possa fare qualcosa per lui. Queste persone spesso diventano pazienti analitici perché la loro tendenza a eccedere nell'adempimento dei contratti incoraggia i datori di lavoro, gli amici, i coniugi e i figli a sfruttarli. Ma presto o tardi finiscono per avere dei risentimenti.

Anche queste persone parlano il linguaggio dei bisogni. Al contrario dello sfruttatore che è in sintonia unicamente con le proprie necessità, lo sfruttato è in sintonia solo con le necessità degli altri con esclusione delle proprie. Più esattamente, per queste persone è vitale percepire accuratamente i bisogni degli altri e, se possibile, soddisfarli. Di qui il loro eccedere nel ri^ spetto dei contratti e il loro soddisfare eccessivamente le richieste del partner per evitare sentimenti di colpa per aver mancato ai loro obblighi.

Sia lo sfruttatore che lo sfruttato presentano determinati problemi all'analista che cerca di stabilire un rapporto contrattuale col paziente. Lo sfruttatore si oppone al contratto perché il suo atteggiamento è «Sono troppo debole e indifeso per negoziare un contratto: lei deve accettarmi come sono fino a che non diventerò più forte; allora sarò ben felice di agire più responsabilmente». Naturalmente questa è una promessa destinata a non essere mantenuta. Una volta che il terapista l'accetta, l'analisi è finita.

Anche lo sfruttato si oppone al contratto, ma lo fa più sottilmente. 11 terapista incauto può facilmente perdere il senso del comportamento e dei sentimenti del paziente. Il suo atteggiamento può essere parafrasato come segue: «Non posso negoziare con te perché sei troppo debole; anche se credi che stiamo trattando ti sbagli in quanto mi sento obbligato a accettare i tuoi termini per evitare di ferirti e quindi sentirmene responsabile». Qui la terapia è minacciata dalla colpevolezza, dal masochismo e dal diniego di dipendenza del paziente. Se il terapista ignora questa possibilità (il che può accadere specialmente se ha bisogno di pazienti e di denaro), può stipulare un accordo terapeutico con un paziente per il quale il dispendio di tempo, di denaro e di fatica richiesti sono eccessivi. Così quello che può sembrare un contratto diventerà un ripetersi dell'abituale stile di vita masochistico del paziente.

Scambio di doni e di favori

Dare e ricevere doni è, almeno nella nostra cultura, una transazione fondamentale nella vita famigliare, fortemente carica di significato emotivo. Forse, meglio di ogni altra cosa, il dono premuroso simboleggia amore, affetto e specialmente gratitudine. Di conseguenza, il "linguaggio" dei doni offre al paziente un mezzo pronto di comunicazione col terapista. Nella pratica psichiatrica medica e non analitica, è parte "normale" e ammessa del rapporto terapeutico che il paziente, grato, offra al medico un regalo come segno di apprezzamento per il suo aiuto. Se il paziente è ricco, il dono può essere sostanzioso, eccedente di gran lunga il più esorbitante onorario del medico per il particolare servizio prestato.

Poiché fare e ricevere doni è una componente così normale della vita famigliare e anche di molti rapporti cliente-specialista, l'analizzando sarà di solito incline, a un certo momento della terapia o alla sua conclusione, a offrire all'analista un dono. E si aspetterà anche di riceverne favori. Il terapista, d'altra parte, può essere tentato di accettare regali dal paziente e di concedergli dei favori. In questa situazione, come in molte altre, l'analista non può semplicemente adagiarsi sulle convenzioni sociali, per quanto convenienti a volte possano essere. Appunto perché scambiarsi doni e favori possiede un notevole significato emotivo per il paziente (e possibilmente anche per il terapista) e poiché è un'attività convenzionale, tale transazione offre all'analizzando un veicolo socialmente accettabile per esprimere e dissimulare i suoi transfert sull'analista. Il compito dell'analista è chiaro: deve analizzare tale condotta, non parteciparvi. Come può e deve l'analista far ciò?

L'analista deve, naturalmente, rinunciare al desiderio di ricevere doni dai pazienti o di accordar loro dei fa-fori. Qui, ancora una volta, un onorario adeguato gioca un suo ruolo; se l'analista è pagato per i suoi servizi, il suo desiderio di "percepire" dal paziente in forme extramonetarie è ridotto. Il desiderio del terapista di fare dei favori al paziente è, per molti versi, una fonte di difficoltà più complessa per il lavoro analitico; certamente l'analista che desidera aiutare i suoi clienti attraverso la psicoterapia autonoma deve dominare quest'inclinazione.

Comunque, anche se l'analista può essere libero da ogni desiderio di comunicare col paziente per mezzo di doni e favori, il paziente può non esserlo. Pertanto ogni terapista analitico deve essere preparato a trattare questo problema con tatto ed efficacemente.

A differenza delle regole sull'onorario o sulla frequenza alle sedute, le regole sullo scambio di doni non dovrebbero essere stabilite all'inizio del trattamento. Farlo sarebbe inopportuno e indiscreto; all'inizio del suo rapporto col terapista il paziente è generalmente occupato coi suoi problemi personali e forse con la paura della terapia, non col problema dei doni al terapista. Quindi, se il terapista introducesse l'argomento, stabilirebbe una proibizione. In alcuni pazienti ciò può servire a stimolare un desiderio di realizzare il comportamento proibito; in altri, può bloccare il successivo sviluppo di un desiderio di scambiare dei doni. In ogni caso, l'eccessiva e prematura intrusione dell'analista nella situazione terapeutica renderebbe l'analisi della tendenza del paziente a comunicare attraverso il "linguaggio" dei doni più difficoltosa o impossibile.

Per queste ragioni, trovo che la cosa migliore sia trattare il problema dei doni e dei favori solo quando si presenta nella situazione terapeutica.

Personalmente non accordo favori ai pazienti, ma accetto da essi piccoli doni (di poco valore venale) una o, occasionalmente, due volte. Mi comporto in questo modo perché credo che, oltre ai suoi aspetti affettivi, dare e ricevere doni sia un potente mezzo per definire la struttura di un incontro umano. La situazione paradigmatica nella quale un dono è generosamente offerto e avidamente accettato è il rapporto tra genitore e figlio. Ne consegue che il donatore tende a sentirsi superiore o "uno al di sopra" del ricevente. Da qui il detto: «E' più facile dare che ricevere».

Quando, nel corso del rapporto terapeutico, il paziente mi porta un piccolo dono, egli agisce in maniera socialmente appropriata; per cui rifiutare il dono, anche se il rifiuto è accompagnato da spiegazioni, significa metterlo "sotto".

In effetti è come dire al cliente che, poiché egli è un paziente, è troppo poco importante per fare un regalo al terapista. Tuttavia, se il paziente è già al corrente (come in effetti può esserlo se è un professionista o una persona ben informata sulla psicoanalisi) che gli analisti di regola non accettano doni, allora è opportuno rifiutare anche il primo regalo. Inoltre, se il dono è di valore, vale a dire costa più che una frazione dell'onorario di una seduta, l'analista non deve accettarlo.

L'accettazione di un tale dono farebbe parte del reale, economico eccesso di adempimento del contratto analitico da parte del paziente; l'analista accetterebbe una ricompensa economica maggiore dell'onorario sul quale si era accordato col paziente.

Un tale atteggiamento può richiedere seri sacrifici all'analista. Nel nostro attuale clima morale dove ogni cosa facciano gli psichiatri è tanto facilmente razionalizzata come necessaria agli scopi "terapeutici", una così stoica auto-disciplina è tanto rara quanto fuori moda. Ma dato che gli analisti abitualmente non accettano doni dai loro pazienti, perché sottolineo così fortemente questo punto? A causa di un compromesso che dà l'impressione che l'analista si astenga da questa pratica mentre, in effetti, vi partecipa sottilmente. Mi riferisco a quei casi nei quali, alla conclusione della terapia, un analizzando ricco dona una sostanziosa somma di denaro per sostenere la ricerca, l'istituto o l'organizzazione dell'analista. Anche se il denaro non viene dato direttamente al terapista e neppure durante la terapia, è nondimeno donato all'analista ed è in realtà una parte del rapporto analitico.

Questi lasciti sono naturalmente simili a quelli che ricchi ex-pazienti spesso fanno ad ospedali e a istituti di ricerca. Tuttavia, un regalo di questo tipo fatto da un antico paziente analitico non può essere paragonato a quello di un antico paziente medico. Dovrebbe piuttosto paragonarsi al suo corrispettivo nella condotta dell'analista. Come sarebbe a dire? Consisterebbe nella «donazione» da parte dell'analista al paziente dell'onorario relativo agli ultimi mesi di terapia, vale a dire nel trattamento gratuito al paziente durante il periodo terminale o forse nell'offerta di una grossa somma di denaro dopo la fine. Ciò sarebbe generalmente considerato una grave violazione del rapporto analitico. Affermo che accettare la generosità finanziaria di ex-analizzandi è un'analoga violazione del rapporto analitico.

Richieste di favori da parte del paziente, come ad esempio la richiesta di un libro dell'analista in prestito, devono essere respinte. Primo, debbono essere rifiutate perché concedere dei favori tende a mettere il paziente in una posizione di inferiorità. Secondo e ben più importante, l'accettare confonderebbe il paziente circa il ruolo del terapista che è quello di analizzare le comunicazioni del paziente. L'analista deve evitare in maniera particolare di intraprendere azioni che diminuiscono l'autonomia del paziente o (le motivazioni verso d'auto-responsabilità.

Da questo punto di vista, non fa granché differenza ciò che il paziente chiede all'analista; fintanto si tratti di qualcosa di distinto dall'analizzare, l'analista deve rifiutarsi di esaudire tutte e qualunque richiesta del genere. In verità, richieste di consigli, di pillole per dormire, di interventi presso parenti sconvolti e perfino di gratificazioni sessuali, ricadono tutte nella stessa categoria. Ognuna è un desiderio ragionevole che il paziente può avere, e l'analista non deve certo scoraggiare il paziente dal soddisfare uno qualunque di questi desideri; ma non deve essere lui a soddisfarli! Accordare uno qualunque di tali favori è un "acting out" da parte dell'analista perché, così facendo, esce dal suo ruolo di analizzare e intraprende invece in parte una transazione di "vita reale" col paziente.

Ricapitolando, se il paziente offre dei doni e il terapista li accetta, il risultato sarà un eccessivo rispetto del contratto. Il paziente può rispondere con degli sforzi per compensare questo squilibrio, ad esempio volendo ridurre l'onorario o cercando di "ottenere" di più dal terapista. Il terapista può rispondere, a sua volta, con alcuni atteggiamenti impropri (non analitici) per mitigare la colpa di "prendere" troppo dal paziente, ad esempio prolungando le sedute.

D'altra parte, se il paziente richiede dei favori e il terapista li esaudisce, come risultato il contratto non sarà rispettato, per difetto. Sia il paziente che il terapista possono allora rispondere con degli sforzi per compensare questo squilibrio. In aggiunta a questi problemi, adempimento in eccesso o in difetto del contratto, la partecipazione a simili attività extra-analitiche col paziente confonde il rapporto analitico, introducendovi transazioni di "vita reale" tra paziente e analista non analizzate (e spesso non analizzabili).

Se l'analista si comporta come terapista autonomo, eviterà di dettare delle proibizioni al paziente. E' essenziale, naturalmente, che l'analista non assuma mai il ruolo di un'autorità che vieta. Un simile atteggiamento andrebbe contro lo scopo fondamentale della psicoterapia autonoma. Terapista e paziente non debbono cercare di controllare il reciproco comportamento; al contrario, ognuno deve influenzare l'altro controllando la propria condotta.

Questi principi sono esemplificati dal modo con cui l'analista tratta il desiderio del paziente di offrire doni e richiedere favori. Il terapista non proibisce al paziente di fare regali, ma non li accetta e ne spiega il motivo. Allo stesso modo non proibisce al paziente di chiedere favori, ma non li esaudisce e ne spiega la ragione.

Le condizioni necessarie per contrattare

Come abbiamo visto, la contrattazione può fallire se una delle due parti ritiene di essere più debole o più forte dell'altra. Come i giochi, i contratti richiedono due partecipanti approssimativamente uguali. Nei giochi ordinari i giocatori debbono essere ben accoppiati in quanto a abilità (anche se non necessariamente per altri aspetti). Qual è il corrispettivo di ciò nella psicoterapia autonoma (contrattuale)?

Non ci si deve aspettare e neppure è necessario che paziente e terapista abbiano un'eguale conoscenza di psicologia e un'uguale abilità nel condurre la psicoterapia. Quello che ci si aspetta è che essi siano approssimativamente uguali nella loro volontà e capacità di assumersi la responsabilità di sé stessi e nei confronti dell'altro. Ciò significa che ciascun partecipante deve credere di aver qualcosa da dare al partner e di potergli fare, in cambio, delle legittime richieste. Non si può parlare di negoziati e contratti se non si hanno due parti ognuna delle quali ha bisogno di qualcosa e ha qualcosa da offrire. Il paziente, da parte sua, ha bisogno e desidera un aiuto psicoterapeutico; in cambio offre al terapista denaro e una responsabile collaborazione nella terapia. Il terapista, d'altra parte, vuole e ha bisogno di denaro e di opportunità per svolgere il lavoro che ha scelto; in cambio egli offre al paziente la sua conoscenza e capacità analitica. Su questa base essi possono negoziare e contrattare tra loro in maniera significativa. Il negoziato è impossibile o tende a fallire ogniqualvolta c'è un eccessivo squilibrio tra la posizione di contrattazione del paziente e quella del terapista. La persona che sfrutta può ritenere di non avere molto da dare o che il terapista ha abbastanza o troppo e pertanto non ha bisogno o non merita nulla da lui. Colui che è sfruttato può avere la sensazione che il terapista sia bisognoso e quindi debba avere qualunque cosa chieda, o che egli stesso abbia poche necessità e possa pertanto dare agli altri quasi tutto ciò che desiderano. In entrambi i casi i negoziati vacilleranno. Queste considerazioni mettono in luce la necessità per il paziente e per il terapista di riconoscere francamente sia quello di cui hanno bisogno, sia quello che si offrono scambievolmente.

Trovo quindi difficile immaginare come la terapia contrattuale possa funzionare senza che il paziente paghi l'onorario all'analista, in quanto è il pagare l'analista che più di ogni altra cosa mette il paziente in condizioni di essere parte negoziante responsabile in un contratto con lui. Analogamente, la situazione sarebbe più complicata se il terapista non avesse bisogno del denaro del paziente. Cosa potrebbe dare il paziente a questo terapista? Naturalmente è possibile fare della psicoterapia e "aiutare" un paziente senza che questi paghi l'analista per i suoi servizi: ma una tale terapia non sarebbe né contrattuale né, secondo i nostri termini, analitica.

Come in ogni situazione contrattuale, il contratto tra paziente e terapista e il rispetto dei termini del medesimo può avere uno di questi tre risultati: può essere reciprocamente vantaggioso e ugualmente giusto per entrambi; il paziente può sfruttare il terapista; il terapista può sfruttare lill paziente. Il terapista autonomo deve mirare onestamente e sinceramente a contratti che siano non solo reciprocamente vincolanti, ma altresì reciprocamente equi e soddisfacenti. Egli può far ciò, da una parte esercitando i propri sforzi in questa direzione, e dall'altra informando il paziente (nel contesto appropriato) dei pericoli dello sfruttamento unilaterale e aumentando la sua vigilanza contro questo rischio.

L'analisi dei giochi di linguaggio

In termini psicoanalitici tradizionali, l'obbiettivo di gran parte del lavoro analitico è di aiutare il paziente a guadagnare l'accesso al proprio inconscio. In altre parole, analista e analizzando collaborano nel rendere cosciente l'inconscio (del paziente).

Formulare l'impresa analitica in termini di comunicazioni, regole da seguire e partite da giocare, ci consente di descrivere il processo analitico in maniera diversa e, credo, più accurata. Ho già indicato parte del lavoro che l'analista deve fare, ad esempio nel tradurre i messaggi del paziente dal linguaggio dei bisogni a quello delle promesse. Vorrei ora sviluppare questo tema mostrando cosa implica l'analisi dei giochi di linguaggio.

In parte, il problema del paziente è che le sue aspirazioni e strategie interpersonali sono camuffate non solo per gli altri, ma anche per se stesso. Egli si esprime indirettamente, attraverso sofferenze, sintomi, sogni, allusioni e così via. Compito dell'analista è di aiutare il paziente a rendere esplicito ciò che è implicito, a comunicare direttamente anziché indirettamente. Per fare questo, gran parte del lavoro terapeutico deve essere dedicato all'analisi dei giochi di linguaggio. Anche se i giochi praticati da diverse persone variano ampiamente, possiamo distinguere alcune categorie di giochi di linguaggio (ad esempio il linguaggio dei sintomi somatici, dei rapporti personali infelici, delle persecuzioni). Di fatto, abbiamo qui un metodo per trasformare la nosologia psichiatrica tradizionale in una tipologia del comportamento personale, operativamente significativa, secondo il linguaggio predominante usato dal paziente per esprimere i suoi problemi esistenziali.

Il linguaggio delle scuse e il linguaggio della responsabilità

Tra i molti giochi di linguaggio che la gente fa, ne sceglierò due che sono particolarmente pertinenti al lavoro dello psicoterapista contemporaneo. Gran parte della cosiddetta psicopatologia che il terapista cerca di capire, decodificare e tradurre in un altro idioma, si incentra sui tentativi del paziente di evadere la responsabilità delle sue aspirazioni, desideri, sentimenti, pensieri e azioni. «Interpretando» (vale a dire indicando) le evasioni del paziente dall'auto-responsabilità e rifiutandosi di assumere delle responsabilità al suo posto, l'analista incoraggia e insegna al paziente ad accettare e sviluppare un atteggiamento più fiducioso in se stesso. E' chiaro, allora, che la psicoanalisi è un esercizio morale o, se si preferisce, una terapia morale. Dal momento che tratta della natura e del valore di diversi stili di condotta personale, non potrebbe essere altro che questo.

Nel caso che stiamo considerando, paziente e terapista hanno a che fare con due linguaggi, quello delle scuse e quello della responsabilità. Questi corrispondono approssimativamente all'esperienza di sé della persona come di un qualcuno indifeso e dipendente da altri (eteronomia), di fronte a una esperienza di sé come di un qualcuno capace e indipendente (autonomia). La prima è caratterizzata dalle espressioni chiave "non posso", "debbo", "dovevo", "non potevo evitarlo" e "mi era stato ordinato"; la seconda dalle espressioni "voglio", "ho deciso", "ho scelto" ed "è stata colpa mia". Alcuni esempi possono illustrare il ruolo dell'analisi del gioco di linguaggio nella psicoterapia autonoma.

Cominciamo dal caso di un giovane studente, obbligato dal padre a intraprendere la carriera di medico, che si lamenta di una inibizione nel lavoro. Egli dice: «Non posso studiare, che devo fare?». Ha paura di dire al padre e a se stesso (non occorre che ci interessiamo qui della natura precisa dei suoi conflitti intrapersonali o interpersonali): «Non voglio studiare medicina», «Non voglio ricevere ordini da te». Al contrario, si fa valere mediante il linguaggio delle giustificazioni; egli raggiunge così alcuni dei suoi scopi, pur evitando la responsabilità delle conseguenze dei suoi atti (o di alcune di essi). Questo spiega perché il cosiddetto comportamento nevrotico è, in un senso ben preciso, "normale" e utile, personalmente e socialmente, e perché non può e non dovrebbe essere cambiato da nessuno che non sia il paziente stesso. Il paziente, comunque, lo cambierà solo se potrà agire in maniera più soddisfacente per lui stesso.

Ecco un altro esempio. Una giovane, madre e donna di casa, è insoddisfatta della sua vita. Si innamora di un altro uomo, ha una relazione con lui e pensa di divorziare. Cerca aiuto da uno psicoterapista al quale fa affermazioni di questo genere: «Per quanto mi sforzi, non riesco ad amare mio marito. Non posso continuare a vivere con lui». Il terapista la incoraggerà ad accettare una maggiore responsabilità di fronte a se stessa e alla propria situazione di vita. Ella dovrebbe essere in grado

di dire (a se stessa e ad altri quali l'analista e il marito) fino a che punto non vuole amare il marito (che potrebbe non meritare il suo amore) e non vuol continuare a vivere con lui. L'analista suppone che con una più chiara comprensione dei propri desideri, sia di continuare che di interrompere la vita matrimoniale, la paziente sarà in una posizione migliore per decidere la linea di condotta che desidera seguire.

La natura contrattuale del rapporto analitico fa di esso una situazione ideale per effettuare la traduzione dal linguaggio delle scuse al linguaggio della responsabilità. E' necessario quindi che l'analista assuma la responsabilità per la propria parte di condotta dell'analisi e non nasconda i suoi atti e i suoi motivi dietro una cortina di silenzio o di giustificazioni psicoanalitiche. Al tempo stesso, l'analista deve sfidare, con tatto ma persistentemente, le scuse del paziente. Man mano che la terapia procede, molte di queste verranno indirizzate verso l'analista. Il seguente esempio è illustrativo.

Un giovane, in analisi per omosessualità, è richiamato per il servizio militare. Egli dice all'analista: «Il consiglio di leva vuole che mi procuri una sua dichiarazione su ciò che non va in me». Si noti la forma linguistica della richiesta; è l'ufficio di leva e non il paziente a richiedere l'opinione dello specialista. Il compito analitico è di discutere chi vuole e che cosa vuole e per quale motivo, e chi è disposto a fare e che cosa e per chi. In altre parole, il paziente vuole davvero che l'analista gli rilasci una dichiarazione? Se così è , quali sono le possibili implicazioni e conseguenze di questo atto per il paziente e per l'analista? Qual è la decisione dell'analista e su quali basi la prende? Quali sono le alternative del paziente?

Ecco un altro esempio. Un paziente, ipocondriaco e nevrastenico cronico, disdice le sue sedute analitiche perché è malato. Qui il compito è tradurre il «non potevo venire» in «non volevo venire». Ciò si può ottenere solo se la situazione analitica è dissimile dalla maggior parte delle ordinarie situazioni dove la malattia è una legittima scusa (può esserlo anche in analisi, ma non per gli individui che giocano abitualmente il gioco della malattia). L'analista non deve né punire né premiare il paziente per il fatto che è malato. Può evitare di farlo spiegando al paziente che non è obbligato a rispettare i suoi appuntamenti analitici se si sente incapacitato. Al tempo stesso l'analista deve ricordare al paziente che il contratto analitico richiede il pagamento di un onorario per ogni seduta, stimolando i suggerimenti del paziente su come trattare la questione dell'onorario degli appuntamenti mancati. Questo genere di dialogo rende edotto il paziente che la sua malattia, per quanto spiacevole, è sotto la sua responsabilità e non sotto quella dell'analista.

E' poi necessario esaminare le conseguenze di varie possibilità, tanto per il paziente che per l'analista.

Se il paziente non paga, risparmia denari e priva l'analista di un onorario che avrebbe potuto guadagnare con un paziente non ipocondriaco.

Se il paziente presume che l'analista accetti le sue scuse come valide, mette il terapista nella posizione di fidarsi o non fidarsi di lui; ma il compito del terapista è di analizzare il paziente, non di giudicare l'autenticità delle sue giustificazioni.

Se il paziente si rimette al giudizio dell'analista per quanto riguarda la gravità dei suoi disturbi, e di conseguenza la validità delle sue scuse, mette il terapista nella posizione di giudice della capacità del paziente a partecipare alla seduta analitica; ma questa non è un'incombenza del terapista, e se questi la considera tale, non sarà più in grado di analizzare il paziente.

Se il paziente paga l'onorario, che si rechi o meno alla seduta analitica, la sua autonomia nei confronti del terapista rimane intatta e il terapista può concentrarsi sul compito di analizzarlo.

Riassumendo, le comunicazioni dell'analizzando composte nel linguaggio delle scuse debbono essere sistematicamente esplorate e decodificate, ed egli deve essere invitato a riformulare i suoi messaggi nel linguaggio della responsabilità. Quindi, oltre ad analizzare la nevrosi di transfert è necessario che il terapista faccia fronte ai tentativi del paziente di non rispettare il contratto. Gli si deve mostrare come lo fa, interpretando i suoi sforzi per eludere o modificare il contratto. Ma non è sufficiente. Dato che l'analista è l'altra parte contrattante, egli deve effettivamente assoggettare il paziente ai termini dell'accordo. Il terapista che interpreta le evasioni dal contratto del paziente, ma che al tempo stesso consente che accadano, diventa precisamente un'altra persona con cui il paziente intraprende nuovamente le sue abituali strategie di gioco.

14. IL PERIODO CONCLUSIVO
Come termina il rapporto analitico?

Cominciamo col genere di asserzione relativa alla conclusione dell'analisi e col genere di procedure per raggiungerla, che io considero inaccettabili. Si afferma spesso che il trattamento psicoanalitico può o deve essere interrotto quando la nevrosi di transfert del paziente è risolta. Ciò è paragonabile all'affermazione che un medico può cessare di curare un paziente quando la sua malattia è guarita. Entrambe le affermazioni sono tautologiche: esse asseriscono semplicemente che la malattia richiede una terapia e la salute invece no.

La procedura tipica, ma scorretta, di terminare l'analisi è strettamente legata a questo modello concettuale di terapia medica. Secondo questa procedura è responsabilità del terapista stimare il progresso del paziente in analisi e decidere quando si deve metter fine alla terapia. Ma, come ho già detto, nell'accordarsi sul contratto analitico l'analista autonomo rinuncia al potere e al diritto di esercitare questa opzione (salvo per il mancato pagamento dell'onorario o forse, come una sorta di disperata autodifesa contro la diretta aggressione del paziente). Quindi, la decisione di interrompere o di sospendere l'analisi di un paziente rientra nella stessa categoria della decisione di dargli tranquillanti o trattamenti di elettroshock: sono mosse non permesse allo psicoterapista autonomo.

Questi sono dunque i modi in cui l'analisi non può e non dovrebbe concludersi. Come fare allora? Poiché è il paziente a dover prendere la decisione, la risposta dipende in gran parte dalla personalità del paziente e dal suo rapporto con l'analista. In verità è probabile che la fase terminale della psicoterapia autonoma riveli le strategie di gioco tipiche dell'analizzando e sia quindi utile al lavoro analitico. Se tuttavia l'analista impone al paziente le sue idee sulla fine dell'analisi, ad esempio provando "a svezzare" i così detti pazienti dipendenti o stabilendo una data per il termine, egli oscurerà il contributo del paziente a questo aspetto dell'incontro. Agendo così il terapista, non solo infrange l'autonomia del cliente, ma sacrifica altresì importanti occasioni di lavoro analitico. In verità, esattamente come il periodo di prova può essere la parte più significativa dell'incontro analitico per alcuni pazienti, per altri può esserlo il periodo terminale.

Da questo punto di vista e in base a questo metodo, ne consegue che il contributo dell'analista al periodo terminale non dovrebbe variare molto da paziente a paziente, mentre quello dell'analizzando è destinato a variare in rapporto alla sua personalità e ai problemi che sta cercando di risolvere. E' quindi possibile fare delle generalizzazioni sulla condotta dell'analista nella fase terminale, ma non su quella del paziente; il contributo dell'analizzando può essere unicamente accennato con esempi illustrativi.

Il ruolo dell'analista nella conclusione dell'analisi

In un certo senso, la preparazione alla fine dell'analisi comincia al principio della psicoterapia autonoma. Di regola i pazienti fanno domande sulla durata e conclusione dell'analisi quasi fin dal momento in cui incontrano il terapista. Si comprende come i possibili pazienti si preoccupino non soltanto di quello in cui stanno per imbarcarsi, ma anche di come ne verranno fuori. Quindi il periodo finale deve essere visto nel contesto della relazione che lo precede: le interviste iniziali, il periodo di prova e la fase contrattuale.

Il terapista che segue la tecnica analitica tradizionale, stabilendo regole che il paziente dovrà seguire, desidererà anche applicare determinate regole per dirigere il periodo conclusivo. Al momento in cui analista e analizzando avranno percorso tale distanza, il paziente si aspetterà di essere istruito sulle regole per terminare e sarà ben felice di seguirle. D'altra parte, se l'analista indica di voler preservare e allargare la sfera d'azione personale del cliente e insiste che tutte le decisioni, incluso l'inizio, la continuazione e la fine dell'analisi, sono di responsabilità del paziente, la situazione cambierà radicalmente. Il cliente non si aspetterà che sia l'analista a dirgli quando o come terminare l'analisi, ma al contrario penserà di deciderlo in larga misura per conto proprio.

Non si tratta unicamente di una situazione ideale; è anche un dato di fatto. Esso deriva logicamente dal metodo psicoterapeutico. Man mano che il rapporto progredisce, il paziente della psicoterapia autonoma si rende conto che il rapporto è soltanto suo e può farne ciò che vuole. Se desidera continuare o terminare in qualunque momento, può farlo, a prescindere dall'opinione dell'analista.

Naturalmente, se un paziente domanda la mia opinione sul termine dell'analisi e io ne ho una, gliela comunico, così come farei per qualunque altro argomento che lo riguardasse; se invece non ne ho alcuna, ugualmente gli comunico questo pensiero. Fra me e i miei pazienti esiste quindi un'intesa sul periodo finale dell'analista molto prima che si arrivi a questo punto. Quando vi giungiamo, essa viene sottoposta allo stesso esame di qualunque altra cosa nella relazione terapeutica. Come ho già detto, il modo di terminare spesso rivela una quantità di dati sui tipici giochi sociali e sulle strategie interpersonali del paziente. L'analisi della fase terminale serve quindi da riassunto di gran parte del lavoro analitico che l'ha preceduta. In molti casi, il paziente stesso è in grado di capire e di analizzare il gioco conclusivo.

Esempi di fine analisi

Nella psicoterapia autonoma, il periodo terminale può riflettere il problema esistenziale più importante dell'analizzando e il suo modo abituale o preferito di cercare di risolverlo.

I seguenti esempi, nei quali ho contraffatto le informazioni che potrebbero permettere un'identificazione, illustrano alquanto questi temi.

Esempio n. 1: Il desiderio di evitare di prendere decisioni responsabili.

Un internista stava completando la sua analisi verso la fine del terzo anno. Ci accordammo su una data di conclusione che cadeva poche settimane prima della partenza del paziente per un'altra città, per lavoro. Circa due settimane prima del nostro ultimo incontro, riportò il seguente sogno:

«Lei stava partendo per una vacanza, e mi indirizzava al dottor X. Io dicevo: ' Ma questo non ci lascerà assolutamente tempo per finire". Lei rispondeva "No, ma dobbiamo concludere in ogni caso"».

Nel sogno, il paziente era sorpreso ma non sconvolto che lo mandassi via così bruscamente. Il Dr. X era uno psichiatra-organicista e direttivo che il paziente considerava "l'ultima persona" alla quale si sarebbe rivolto per aiuto. Suggerì che il sogno potesse significare che egli sperava ancora che lo avrei "mandato via a calci", cosa che il padre non aveva mai fatto. Lo avrebbe preferito se io, anziché lui, avessi preso la decisione di terminare.

Il padre del paziente era molto legato all'unico figlio, in verità troppo legato per il benessere del figlio. Il padre gli era sempre intorno, pronto e desideroso di aiutare il figlio. In realtà era "servizievole" anche quando il figlio non aveva alcun bisogno di aiuto e avrebbe preferito essere lasciato solo. Il paziente doveva quindi emanciparsi della protezione del padre interamente attraverso i suoi propri sforzi. Si lamentava che il padre non lo avesse mai incoraggiato ad essere indipendente e fiducioso in se stesso.

Il contratto analitico permise di ricreare simbolicamente quella che era una situazione in parte oppressiva, ma tuttavia confortevole per il paziente. Essendo perpetuamente disponibile, l'analista si comportava in gran parte come il padre del paziente. Il problema non è insolito: la situazione analitica spesso assomiglia ad alcuni aspetti del rapporto che l'analizzando ha coi genitori. L'unico sistema corretto di trattare ciò è discuterne e "analizzarlo". Ed è appunto quello che facemmo. Tuttavia il paziente continuò a sperare che mi "dimostrassi" diverso da suo padre "mandandolo via a calci". Se avessi deciso io di terminare l'analisi, avrei soddisfatto il suo desiderio. Paradossalmente, tuttavia, io avrei solo dimostrato che ero simile al padre. Inoltre, avremmo perduto l'occasione di usare la fase terminale, come ogni altra parte 'della terapia, per l'analisi.

Esempio n. 2: Il desiderio di evitare di essere abbandonato

Un giovane si preparava a concludere l'analisi, dopo circa un anno. Temeva qualunque relazione protratta o impegno significativo; di conseguenza anche l'analisi gli faceva paura. A causa del divorzio dei genitori, quando era bambino, i suoi primi rapporti significativi erano terminati sempre in modo sorprendente e di solito per lui spiacevole. Non appena progettò di terminare l'analisi, divenne chiaro che voleva sorprendermi. Fece vari progetti di prova per terminare, cambiandoli poi improvvisamente e decidendo ogni volta di continuare la terapia per qualche altro mese.

Visto che io lo seguivo nei suoi incerti piani, cominciò a chiedersi se non mi danneggiasse mettendomi in una posizione così imprevedibile. Da parte mia ritenevo di dover accettare questi termini dato che prima della fase contrattuale non avevo specificato che avrei dovuto essere informato in modo certo e definitivo della conclusione dell'analisi. Al contrario, il nostro accordo era, come al solito, che il paziente poteva venire fin quando voleva.

Così la fase terminale, che occupò una parte considerevole dell'analisi, fu la più importante dell'intero incontro terapeutico. In essa il paziente ricreò molte delle situazioni nelle quali era stato trattato male dai genitori, ma questa volta invertendo i ruoli; egli era il genitore capriccioso, e io il bambino che lui era stato.

Esempio n. 3: Il desiderio di perfezione e di permanenza

La paziente era una giovane, figlia unica. Il supremo interesse vitale di sua madre era di rendere la vita alla figlia «solida e sicura». Qualunque cosa e chiunque, specialmente il padre della paziente, erano usati prima dalla madre e poi dalla paziente stessa a questo scopo. Il risultato fu che la paziente non si emancipò mai dalla madre, anche se pretendeva di averlo fatto; questa sua pretesa la faceva sentire adeguata e l'aiutava a mantenere la finzione di avere «una buona madre». In realtà non aveva mai esaminato, né rivisto, e neppure portato a un onesto e significativo confronto, il suo rapporto con la madre. Qualunque cosa facesse e qualunque rapporto intraprendesse, rimanevano analogamente incompleti e irrisolti. La paziente razionalizzava tutto ciò attraverso una strategia di perfezionismo. Tutto doveva essere «esattamente così»; continuava a occuparsi dei suoi rapporti significativi con la pretesa speranza di migliorarli, ma in realtà lasciandoli immutati.

Il suo rapporto con me divenne per la paziente «una cosa stupenda» che lei era riluttante a concludere. Il problema della fine non venne nemmeno sfiorato nei primi quattro anni di terapia, che si protrasse per molti anni ancora. La sua durata rifletteva la profonda convinzione della donna di non essere mai completamente pronta a passare a una nuova attività, a un nuovo rapporto, a una nuova fase di vita. In verità, il cambiamento la spaventava. E' significativo che avesse cominciato la terapia con la stessa riluttanza. Ci aveva pensato sopra per più di dieci anni, e aveva atteso finché il suo modello stabile di vita non aveva minacciato di disintegrarsi.

Durata dell'analisi

Come regola, il rapporto analitico continua per diversi anni. Molti psichiatri e psicoanalisti, incluso Freud, deplorarono questo fatto ed espressero la speranza che, a tempo debito, venisse ideato un più "efficiente" e rapido procedimento analitico. Come molte altre idee sbagliate sulla psicoanalisi, anche questa poggia sulla nozione che l'analisi sia una forma di trattamento per la nevrosi paragonabile, diciamo, al trattamento medico per la tubercolosi polmonare. Se così fosse, sarebbe possibile migliorare l'analisi, esattamente come si perfezionano altri trattamenti medici, rendendola più rapida ed efficace nella sua azione e inoltre più economica e quindi alla portata di più persone. Tuttavia aspettarsi che la psicoanalisi "si perfezioni" in questo senso significa fraintendere la natura dell'impresa analitica.

La psicoanalisi non è una cura medica bensì un'educazione. Non è come essere guariti da una malattia, ma piuttosto come arrivare a conoscere un'altra persona o a imparare una lingua straniera o un nuovo gioco.

Quanto tempo occorre per ognuna di queste cose? E' a questo genere di esperienze umane che bisogna paragonare l'analisi. Si può così capire perché l'impresa analitica, per la sua stessa natura, escluda la rapidità. Questo non significa comunque che, per essere utile, ogni analisi debba durare tre, quattro o più anni.

C'è un altro equivoco fondamentale nell'aspettativa che, con una maggiore conoscenza e capacità, gli analisti debbano essere in grado di aumentare la rapidità delle analisi. L'equivoco sta nel non rendersi conto che la durata di una particolare analisi non dipende né dalla natura della "malattia mentale" del paziente, né dall'efficienza o dall'inefficienza del "trattamento" usato (anche se ciò ha la sua importanza), ma piuttosto dalla necessità e dal desiderio del paziente di continuare a ricevere una "educazione analitica".

Studenti che prendono sempre nuove lauree, non diventano necessariamente i migliori scienziati, né sempre i peggiori. Viceversa, studenti che abbandonano presto gli studi o che completano rapidamente la loro educazione, possono fare molto o poco con ciò che hanno appreso; alcuni possono seguitare un processo di autoeducazione mentre altri possono dimenticare rapidamente tutto quello che hanno imparato. La situazione è analoga in psicoanalisi. Alcune analisi durano a lungo, e devono durare a lungo, a causa del tipo di persona che il paziente è; altre sono e debbono essere relativamente brevi. E' un grave errore collegare l'efficacia dell'analisi con la sua durata. Di fatto, le due cose quasi non sono in relazione fra loro. Alcuni imparano più rapidamente di altri, sia a scuola che mi analisi. Lo stesso accade per gli analisti: alcuni lavorano più rapidamente di altri.

Riassumendo, la durata di una determinata analisi riflette due cose: la necessità del paziente e gli stili personali dell'analista e dell'analizzando come giocatori analitici. E' questo che dobbiamo aspettarci senza sovrapporre all'analisi concetti e valori alieni da essa. Soltanto a queste condizioni il trattamento psicoanalitico può essere un incontro autentico e autonomo fra analista e analizzando.

EPILOGO
CONSIGLI AI TERAPISTI
Imparare a praticare la psicoanalisi

Ho sostenuto che il rapporto analitico è come un gioco con l'analista e l'analizzando quali giocatori. Questa visione del procedimento analitico ha delle conseguenze non solo per quanto riguarda la teoria e la prassi della psicoanalisi ma anche per il suo insegnamento e il suo apprendimento.

Come impariamo a giocare i giochi di abilità e di strategia? E' importante essere chiari nel rispondere a questa domanda, perché ciò che è vero per i giochi di questo genere lo è anche per la psicoanalisi. Vi sono alcune cose sui giochi che si possono insegnare e apprendere attraverso la parola stampata e l'istruzione didattica; ve ne sono altre invece che non possono essere trasmesse per questa via e che debbono essere acquisite con là pratica.

Ciò che può essere insegnato e appreso formalmente sono le regole del gioco e ì principi che sottendono gli scopi e la struttura del gioco. Ho cercato di mettere a nudo questi due aspetti della psicoanalisi. Quello che non può essere insegnato e appreso formalmente è come giocare un determinato giocò: in questo caso, come essere un analista o un analizzando. In verità, dovrebbe essere ovvio che esistono serie limitazioni a qualunque impresa del genere. Dopotutto non si può dire ai giocatori come giocare un gioco; questo è affar loro. La vera essenza dei giochi è che i giocatori sono liberi di giocare o meno e, all'interno delle regole del gioco, di giocare come ritengono opportuno. Se una persona è costretta o a giocare contro il suo volere o a giocare in un certo modo, cessa di essere un giocatore (nel senso comune); anche se può apparire agli altri come se stesse giocando un gioco, in realtà sta lavorando e non "giocando".

Con questo non si intende negare che alcuni modi di giocare siano più efficaci di altri. Desidero semplicemente richiamare l'attenzione sul ruolo cruciale della libertà nel gioco; una persona le cui mosse in un gioco sono regolate da altri, è considerata una marionetta o un robot. Generalmente ci sì aspetta che i giocatori siano interamente liberi, entro le regole del gioco. Attenendosi à ciò, quasi in ogni gioco un buon giocatore svilupperà il suo stile particolare. Come si applica questo alla situazione analitica?

E' chiaro che sia l'analista che l'analizzando debbono essere lasciati liberi di comportarsi come ritengono opportuno, fintanto che osservino le regole del gioco analitico. L'analista competente svilupperà così il suo stile distintivo di analizzare; è probabile che questo stile vari alquanto da paziente a paziente e che possa anche cambiare, a misura che l'analista invecchia ed è sottoposto a svariate esperienze. Il paziente, naturalmente, deve essere libero di svolgere come ritiene opportuno il ruolo dell'analizzando più di quanto non lo sia il terapista nello svolgere il suo ruolo di analista. Dopotutto, lo scopo della terapia è di osservare e analizzare le strategie di gioco del paziente: se l'analista gli dice come comportarsi, cosa resta da analizzare? Il valore della situazione psicoanalitica sta nel costringere il paziente solo leggermente e in senso generale, vale a dire unicamente secondo certe regole di gioco, piuttosto che con richieste di atti specifici di acquiescenza.

Oltre ad imparare le regole e i principi della psicoterapia autonoma, il terapista che desideri diventare competente in questa attività deve praticarla. Il terapista alle prime armi può trarre profitto dalla "supervisione" del suo lavoro se la relazione tra lui e il supervisore è anch'essa autonoma, vale a dire se il supervisore è agente del terapista.

Cosa dire dell'analisi personale del terapista? Lo aiuta a imparare ad essere analista? Ho di proposito tralasciato la discussione di questo tema nelle parti anteriori di questo libro e non mi dilungherò molto al riguardo neanche adesso.

Ritengo che sia generalmente utile per il terapista avere una analisi personale, ma lasciatemi aggiungere qualche precisazione. Personalmente, ho delle serie riserve circa il valore delle "analisi didattiche" obbligatorie, praticate in conformità alle richieste delle varie organizzazioni psicoanalitiche. Sebbene una simile "analisi" possa aiutare il terapista a guadagnare credito, è improbabile che lo aiuti a liberarsi dalle sue intime costrizioni. Analisi personali intraprese al di fuori della giurisdizione di un sistema di training organizzato, è più probabile che siano personalmente utili al terapista. Ma anche qui dobbiamo essere sensati in ciò che ci aspettiamo. Avere una "buona analisi" non lo rende a uno un buon analista, né conoscere i propri "punti ciechi" lo assicura contro l'inettitudine analitica.

In altre parole, non considero un'analisi personale indispensabile per una competenza ad analizzare. Infatti, se l'analisi del terapista è autonoma può avere un solo effetto: di lasciarlo personalmente libero di fare ciò che vuole. Alcuni analisti analizzati vorranno praticare la psicoterapia autonoma; altri preferiranno una pratica differente. L'idea che l'analisi personale dello psicoterapista è destinata a far di lui un analista migliore di quanto sarebbe stato senza di essa è illogica e probabilmente non vera.

Ciò che più di ogni altra cosa occorre all'analista è un genuino interesse per il lavoro analitico e una buona disponibilità ad entrare in rapporto col cliente sulla base di principi ben meditati piuttosto che con un intento terapeutico amorfo. Se questa persona ha poi ricevuto anche un periodo di lavoro analitico ed è perciò pratico del gioco analitico dal punto di vista dell'analizzando, tanto meglio.

Esiste un altro tipo di istruzione che può risultare utile ai probabili giocatori; vale a dire consigli su alcuni aspetti del gioco (nel nostro caso, su alcuni tipi di situazioni analitiche ricorrenti). A conclusione, offrirò alcuni suggerimenti di questo tipo a coloro che sono interessati a praticare la psicoterapia autonoma.

Indicazioni ai terapisti

Dimenticate di essere medici

Se siete psichiatri, non lasciate che la vostra preparazione medica vi intralci ila strada. Se non siete preparati dal punto di vista sanitario, non aspirate segretamente ad essere un medico. Se il servizio che vi proponete di vendere è l'analisi, il vostro dovere nei confronti dei clienti e di voi stessi è di essere un'analista competente. La competenza in un'altra disciplina (ad esempio in medicina) non è una giustificazione per l'incompetenza nella teoria e nella prassi della psicoanalisi.

Sarete "utili" e "terapeutici" se rispetterete il vostro contratto

Non pensate di dover soddisfare richieste del paziente per servizi non analitici. Non siete responsabili della saIute fisica del paziente: è lui ad esserlo. Non occorre che dimostriate di essere umani, che vi interessate a lui, o che siete degni di fiducia in quanto vi preoccupate della sua salute fisica, del suo matrimonio o dei suoi affari economici. La vostra unica responsabilità verso il paziente è di analizzarlo. Se lo fate in modo competente, sarete "umani" e "terapeutici"; se non lo fate, avrete mancato con lui, a prescindere da quanto possiate essere umanitari per altri aspetti.

Dovete conoscere il vostro paziente

Dovete vedere il paziente abbastanza spesso e per un periodo sufficientemente lungo per conoscerlo bene. Deve esserci continuità nel vostro rapporto. Per capire e padroneggiare un nuovo gioco, alcuni giocatori richiedono più tempo di altri. Se siete terapisti principianti, farete bene a chiedere meno e a vedere il vostro paziente più spesso di quanto avreste potuto altrimenti. Con i vostri primi pazienti abbiate almeno quattro sedute settimanali e, se possibile, anche cinque o sei. Se vedete i vostri pazienti solo tre volte la settimana, potreste avere delle difficoltà nel seguire le mosse del gioco; e se solo due volte la settimana, le vostre possibilità di diventare un abile psicoterapista autonomo sono scarse.

Non lasciatevi costringere da "situazioni di emergenza"

Se vi siete comportato in maniera autonoma all'inizio del trattamento e avete progredito soddisfacentemente fino alla fase contrattuale del rapporto, una delle maggiori minacce per la terapia è una situazione di emergenza. Ricordate il vostro contratto e non sentitevi costretto ad abbandonarlo a causa di un'emergenza. Non è importante che l'emergenza sia reale o che il paziente stia mettendovi alla prova per vedere se manterrete il vostro ruolo analitico (in ogni caso non potrete accertarlo se non lo manterrete). Ecco un esempio. Il paziente, omosessuale, viene arrestato dalla polizia. Interverrete? No, questo è un problema che riguarda il paziente e il suo avvocato.

Se intervenite in una situazione di emergenza, coinvolgete il paziente in un altro gioco e sciupate la vostra utilità come analista. Ad esempio, il vostro paziente è depresso; forse potete volerlo ricoverare in ospedale e trattarlo con elettroshock. Secondo il mio punto di vista, questo equivale a interrompere una partita di bridge per consigliare il partner su come dirigere i suoi affari o come ottenere il divorzio. Il consiglio può essere buono, cattivo o indifferente, ma non fa parte di una partita di bridge.

Una volta che siete usciti dal gioco analitico, potreste trovare difficile, se non impossibile, rientrarvi. E' questa un'importante caratteristica della psicoterapia contrattuale e sia voi che il vostro paziente dovete riconoscerla.

Non fraintendete le idee e i sentimenti del paziente nei vostri confronti

Ciò che il paziente pensa e sente su di voi è tanto "reale", quanto quello che potrebbe sentire e pensare chiunque altro. Sebbene possa essere ragionevole catalogare alcuni dei suoi sentimenti e pensieri come "transfert", ricordate che, così facendo, il comportamento viene giudicato e non descritto. Supponiamo, come ipotesi di lavoro, che nella misura in cui il paziente si preoccupa di voi come persona e come fonte di approvazione e affetto, egli sta evitando la responsabilità di decidere ciò che vuol fare con se stesso. Egli cerca così di risolvere il problema di dover dare un significato alla sua vita attaccandosi al significato che voi avete dato alla vostra. Incoraggiandolo a comportarsi in questo modo, voi lo tradite.

La vostra vita e la vostra situazione di lavoro debbono essere compatibili con la pratica della psicoterapia autonoma

Se praticate la psicoterapia autonoma dovrete mostrare un atteggiamento di "vivi e lascia vivere" con i vostri pazienti. Sarebbe difficile farlo se foste coartati o tormentati da altri, o se al di fuori della pratica analitica svolgeste delle attività che vi obbligassero a coartare e tormentare gli altri. Ad esempio, se siete interni in un ospedale di stato o candidati in un istituto psicoanalitico, come potrete lasciare tranquilli i vostri pazienti se i vostri superiori a loro volta non vi lasciano tranquilli? Sarete in grado di lasciare che i vostri pazienti diventino più liberi di quanto voi stessi non siate?

Forse concluderete che l'unico modo per essere padroni di voi stessi è quello di dedicarvi alla pratica privata a tempo pieno. Ci sarebbe molto da dire a suo favore. Sfortunatamente, comunque, è difficile trascorrere tutto il proprio tempo praticando l'analisi. Se vedete otto o dieci pazienti, giorno dopo giorno, c'è la probabilità che il livello della vostra attività non sia compatibilmente alto. Una buona soluzione a questo dilemma è di combinare il lavoro analitico con altre attività compatibili con esso: ad esempio l'insegnamento, la ricerca e lo scrivere.

Non prendete appunti

Il rapporto psicoanalitico è un incontro personale. Voi non fate nulla al paziente, o almeno non più di quanto egli non faccia a voi. Voi non siete l'osservatore ed egli colui che è osservato. Entrambi giocate un duplice ruolo come partecipanti a un rapporto e osservatori del medesimo. Che effetto avrebbe sui vostri rapporti con vostra madre, con vostra moglie e con gli amici il prendere appunti? Non siate quindi dimentichi delle conseguenze metacomunicative per il paziente del vostro atto di prendere appunti.

In ogni caso chiedetevi perché volete prendere appunti. Per aiutarvi a ricordare ciò che il paziente vi dice? Non vi servirà più che se non li prendete. Per registrare la storia di un caso? Per farne che cosa? Per raccogliere del materiale a scopo di ricerche? Potete prendere degli appunti su ciò che ritenete vi possa essere utile dopò l'intervista o adda fine della giornata. Se siete dubbiosi sul genere di cose che vi occorrono, gli appunti non vi serviranno a nulla; un'esposizione dettagliata delle "produzioni" del paziente è un documento inutile.

Voi siete responsabili della vostra condotta, non di quella del paziente

Questo è il principio fondamentale della psicoterapia autonoma. Voi non siete responsabile del paziente, della sua salute (mentale o fisica) o della sua condotta: di tutto ciò ne è responsabile il paziente stesso. Voi siete invece responsabili della vostra condotta. Dovete essere veritiero: non ingannare o disorientare mai il paziente informandolo male o rifiutandogli le informazioni di cui ha bisogno. Non parlate di lui con terzi, sia che abbiate o no il suo consenso a farlo. Fate ogni sforzo per capire il paziente cercando di sentire e pensare come lui. Infine, siate onesto con voi stesso e critico nei confronti delle vostre proprie norme di comportamento e di quelle della vostra società.

In una parola, dovete essere un analista.