Sulla storia dell’Antipsichiatria |
1. Nei lunghi e faticosi anni trascorsi in O. P. come dirigente di due comunità terapeutiche aperte, utilizzai gran parte del tempo libero consultando la ricca biblioteca per portare avanti ricerche sulla storia della psichiatria. Riuscii, per fortuna, e ora posso confessarlo, a “corrompere” la bibliotecaria, che mi consegnò una copia delle chiavi in maniera tale da permettermi di consultare libri e riviste anche quando il turno di guardia mi obbligava a rimanere di notte in Ospedale. L’articolo Furor curandi è l’espressione parziale di quelle ricerche, sospese allorché lessi un libro di Robert Castel (L’Ospedale Psichiatrico) che ricostruiva la storia della Psichiatria istituzionale con una tale ricchezza documentaria da rendere superflua l'impresa. Nel libro di Castel, che si avviava con la rivoluzione di Pinel, non c’era traccia però della singolare esperienza di Geel, realizzatasi a partire dal Medio Evo. Purtroppo non dispongo più della documentazione raccolta all’epoca nè della tesi compilata, sotto la mia supervisione, da una tirocinante che frequentava l’Ospedale. Trovo traccia dell’esperienza di Geel sulla Rete. Il documento migliore, scaricato da http://www.agor.mediacity.it/Geel.htm, è il seguente: “Geel, favola di una città con un matto in ogni casa Tecnicamente si chiama placement familiar, ovvero il collocare in una famiglia (traslocando da un possibile manicomio, che qui non c'è). Tutto cominciò nel 600, almeno secondo la ricostruzione che ne fece Peter von Kamenijk in una cronaca intorno al 1250. Una giovane principessa irlandese, Dimpna, appunto, era fuggita dal padre incestuoso, che desiderava sposarla perché gli ricordava la moglie morta prematuramente. La pura Dimpna si rifugiò da queste parti ma fu raggiunta dal tenace genitore che la trovò e le mozzò la testa. E che c'entrano i matti ? Ancora niente. Ma alcuni anni dopo cominciò a circolare la leggenda che l'infausto padre aveva ucciso posseduto dal demonio, che avesse ucciso la figlia in preda a un attacco di follia. Ecco che la connessione si era stabilita. Da allora cominciarono i pellegrinaggi di gente che portava qui i propri folli sulla tomba di Dimpna, presto diventata santa, perché li curasse. Nei secoli questa abitudine si rinforzò, mentre accadeva un fenomeno curioso: molti di questi matti restavano a Geel, ospiti di famiglie del posto, che evidentemente cominciavano a sentirsi a proprio agio, tra le spoglie decapitate di Dimpna e gli sguardi sperduti nel vuoto dei malati di allora. E si formava così una cultura popolare, profonda, intimamente condivisa, che dura fino ad adesso. Ma la vita di Geel è trascorsa intrecciata alla follia. Ci sono documenti che regolamentano l'assistenza ai folli che risalgono alla metà del XV secolo. Alcune norme approvate tra il 1747 e il 1754, propongono alcune limitazioni alla libertà degli alienati, tra le quali, curiosa, la proibizione a fumare la pipa in pubblico. Verrà poi Napoleone a sopprimere l'accoglienza familiare , ma con la sua caduta Geel avrebbe ripreso le sue abitudini. Famiglie normali con un ospite non tanto tale. Questo fenomeno è finito presto all'attenzione di ogni psichiatria più o meno alternativa. Il modello di Geel era un sogno per chi immagina che il malato non debba essere rinchiuso in un'istituzione ma possa continuare a mantenere i suoi rapporti sociali, una rete affettiva valida, la solidarietà della comunità dove può continuare a vivere (e qualche volta anche riprendere a soffrire, nei momenti di crisi). Ma ci sono statistiche sull'efficacia terapeutica dell'accoglienza di Geel. Risponde Wilfried Bogaerts, portavoce dell'Opz, l'Openbaar Psychiatrisch Ziekenhuis, l'ospedale psichiatrico aperto. "Non sappiamo se così li curiamo meglio. So che però i pazienti sono contenti e mantengono un livello socialmente alto". L'Opz sceglie i malati e le famiglie da far "convivere". I malati sono schizofrenici, psicotici, handicappati mentali, con forme più o meno gravi, ma comunque tutti in una fase stabile della malattia. Le famiglie che si offrono sono cittadini di Geel che da sempre hanno conosciuto questo sistema, che lo sentono come una parte del proprio modo di vivere, che appare loro come un fatto naturale. In altre parti del mondo forse si adotta un cane, qui si adotta un folle. La naturalezza dei comportamenti fa sì che i geelesi non si sentano neanche particolarmente fieri di quello che fanno. Non c'è eroismo, non ritengono di fare qualcosa di straordinario, né di essere particolamente generosi. L'hanno visto fare dai propri genitori o dal vicino di casa, quindi lo fanno anche loro. A Geel si vive così. Nel resto del mondo del volontariato ci si è riempiti la bocca: a Geel si tace. Le motivazioni possono essere varie. L'adesione alla tradizione, prima di tutto. Ma anche ci sono legami che si stabiliscono tra le persone e i folli. I genitori ospitarono qualcuno e i figli, diventati grandi, prendono con sé quel malato ormai diventato anche lui vecchio. E' la vita che si perpetua, senza stabilire chi è figlio di chi, chi è sano e chi no, tutti insieme in una valle che qui appare meno piena di lacrime. Qualcuno cerca anche braccia per la campagna e allora accoglie un paziente che gli possa prendere qualche pomodoro, portare qualche sacco di calce. E poi ci può essere anche una motivazione economica. Lo stato belga, attraverso l'Opz, paga una diaria che va da 574 a 743 franchi belgi, da 30 a 40 mila lire, a seconda dell'età del paziente e delle sue necessità. Non sono grandi cifre e devono bastare per il mangiare, la pulizia della stanza personale dell'ospite e il lavaggio dei suoi abiti. Ma ci sono famiglie di anziani che forse ricevono una nuova compagnia da queste persone. Le famiglie non devono avere cognizioni psichiatriche, lui e lei non devono essere Sigmund e Anna Freud in sedicesimo. Alla cura "tecnica" provvede sempre l'Opz, che può riaccogliere in eventuali momenti di recrudescenza della malattia. Ma è anche un sistema in parte in crisi, perché le nuove coppie, non si propongono per l'accoglienza famigliare, si stanno allontanando dalla cultura del paese. Dice Bogaerts: "Dopo la seconda guerra mondiale avevamo circa 3.000 famiglie che ospitavano dei matti. Ora sono molte di meno: ma sono di meno anche i matti". Nell'epoca d'oro, per così dire c'erano qui belgi, olandesi, polacchi, russi, francesi. Ora i pazienti sono unicamente della parte nord del Belgio, nel sud, a Lierneux, dove sta iniziando un nuovo polo a imitazione di Geel. "Niente a che vedere con noi": Geel è unica, solo lei ha Dimpna, il suo numero di pazienti è altissimo, e anche la concentrazione nel territorio è straordinaria. Ecco, se gli si può trovare un peccato a questi straordinari cittadini è un pizzico di gelosia per i rivali, ma davvero un pizzico. Per il resto la convivenza in cucina e sala da pranzo con i matti ha instaurato un clima di tolleranza che è difficile scalfire. Anche la polizia usa le maniere dolci, riporta indietro chi ha provocato qualche guaio senza stendere verbali. E' ovvio che Tina, alla cassa della libreria del centro, neanche si sia accorta delle migliaia di tifosi italiani che urlavano nel piccolo stadio ai margini della città.” Se rievoco le riflessioni fatte all’epoca della mia ricerca, ricordo di avere ricostruito la polemica impietosa esercitata dalla nascente Psichiatria contro l’esperienza di Geel, conclusa con la sua transitoria interruzione sotto il regime napoleonico. La polemica, fondata sulla relazione di varie commissioni psichiatriche francesi inviate a Geel, si articolava su due punti essenziali: la prima era la gestione non tecnica di una "malattia mentale" che gli psichiatri ritenevano dovesse essere "curata" in ambiente ospedaliero e sotto un assiduo controllo medico; la seconda era lo sfruttamento e il maltrattamento cui di fatto sarebbero stati sottoposti alcuni pazienti a Geel. Il primo punto era di ordine meramente ideologico. Esso, di fatto, era smentito dalla degradazione progressiva cui era andata incontro la popolazione manicomiale dalla prima metà dell‘800 in poi, e più precisamente dalla promulgazione in Francia, nel 1838, della legge sull'assistenza psichiatrica che prevedeva l’internamento coatto dei malati, e che sarebbe poi servita come modello di riferimento per analoghi provvedimenti in tutto il contesto europeo (e negli Stati Uniti). Il secondo punto era semplicemente una menzogna. E’ senz’altro vero che i malati a Geel lavoravano e che a taluni di essi, particolarmente agitati, venivano applicati strumenti di contenzione (come per esempio catene ai piedi, per evitare fughe). Essi però lavoravano con i membri delle famiglie che li ospitavano, in gran parte contadine: condividevano insomma la loro vita, nel bene e nel male. Per quanto riguarda i mezzi di contenzione, la loro applicazione era rara, transitoria e non comportava l’emarginazione. Con le catene ai piedi, il "paziente" non era emarginato come accadeva regoalrmente nella bolgia dell manicomio. Al di sotto delle critiche delle commissioni ufficiali incaricate di valutare la signolare esperienza di Geel, c’erano di fatto due motivi non espressi e più significativi. Il primo era l’impossibilità di accettare che il caso e la superstizione religiosa avessero prodotto un’esperienza di assistenza sociale ai malati spontanea e funzionale; il secondo che, a confronto con quella ospedaliera, l’esperienza di Geel costava poco o nulla allo stato belga. Il manicomio, di fatto, era un’istituzione pubblica, quindi gratuita, ma essa è stata sempre utilizzata per ricavarne consistenti vantaggi per gli psichiatri, gli amministratori, gli approvvigionatori, ecc. Quando si parla di psichiatria e di antipsichiatria, si commette un errore grave riducendo il discorso al piano “scientifico” o ideologico. In epoca moderna, la cura della malattia mentale, più di ogni altra malattia, è un business sia pubblico che privato. Basta fare un esempio corrente. Un giovane di 18-20 anni ha un episodio psicotico acuto. Viene diagnosticato schizofrenico e sottoposto ad una terapia protocollare con neurolettici, ansiolitici, stabilizzatori dell’umore, ecc. Da questo momento in poi, se non interviene una “miracolosa” guarigione (circostanza che, per fortuna, riguarda il venti per cento dei casi trattati o no farmacologicamente), il paziente è destinato a convivere con la “malattia”, vale a dire a prendere farmaci, a consultare psichiatri e, spesso, a rivolgersi ai servizi pubblici (quando le spese per le cure private esauriscono le risorse familiari). Anche se i neurolettici a dosi elevate e protratte incidono sulla durata della vita, togliendo al soggetto una manciata di anni del suo destino biologico, egli, in 50-60 anni, “produce” un guadagno, calcolabile intorno ai 500000 euro che si distribuisce tra psichiatri, case farmaceutiche e operatori pubblici. Certo, ci sono patologie mediche che rendono di più, ma nessuna che duri tanto e riguardi (calcolando solo gli “schizofrenici” e i “bipolari”) tra il 2 e il 3% della popolazione. La psichiatria, insomma, è una disciplina speculativa (nel senso pecuniario non teorico), la cui pretesa è di estendere l’assistenza a tutta la popolazione mondiale che soffre di un disturbo psichico. Pochi anni fa, l’OMS ha lanciato l’allarme sulla crescita globale delle malattie mentale, che investono ormai il 15-20% della popolazione, invitando i governi a fare uno sforzo per limitare le sofferenze delle persone e conteggiando che esso avrebbe richiesto non più di due dollari per ogni paziente. E’ evidente che l’OMS valutava solo il costo dei farmaci. Due dollari al giorno per paziente: una sciocchezza. Moltiplicato, però, per circa 300 o 500 milioni di persone, la cifra è da capogiro.
2. L’esperienza di Geel e la nascita della psichiatria attestano che, nell’affrontare i problemi umani, ogni società si trova di fronte ad una serie di alternative, che vengono scelte e realizzate in rapporto alle circostanze storico-culturali. Benché si sia originata sulla base di una superstizione religiosa, la comunità di Geel attesta quanto ci può essere di “creativo” nella cultura popolare. La nascita della psichiatria e del Manicomio, viceversa, attestano il pericolo implicito, più volte rilevato da I. Illich, della tecnicizzazione e in particolare della medicalizzazione dei problemi umani, la cui soluzione viene delegata agli “esperti”. Nel primo articolo di questa sezione - dalla Psichiatria all’Antipsichiatria - illustro brevemente il tragitto di istituzionalizzazione della malattia mentale che, dalla Rivoluzione di Pinel, è giunto all’orrore del Manicomio novecentesco, che si può ritenere una ferita ancora aperta e sanguinante nell’immagine che l’Occidente ha di sé come difensore dei diritti umani. Questa ricostruzione - le cui tappe fondamentali sono l’inquadramento nosografico dei fenomeni psicopatologici, l’interpretazione sempre più marcatamente organicistica degli stessi e l’adozione di terapie fisiche e chimiche conseguenti ad essa - pone di fronte ad un paradosso. La storia ufficiale della psichiatria riconosce nell’avvento degli psicofarmaci, che risale al 1953, la grande Rivoluzione che avrebbe inaugurato l’epoca di uno sviluppo scientifico che si è potuto proporre, in rapporto alla malattia mentale, un obiettivo in precedenza utopistico: la guarigione. Il paradosso, al quale è dedicata questa Introduzione, è che l’Antipsichiatria è nata dopo tale Rivoluzione. Nell’articolo citato, ho fatto presente che la contestazione del potere psichiatrico e del suo esercizio arbitrario, che negava di fatto ai pazienti ogni e qualsivoglia diritto umano, è stata una costante nella storia della società civile occidentale. Essa, però, in passato mirava solo a ricondurre gli psichiatri a rispettare i diritti dei malati che la Costituzione e la Legge riconosceva ad essi. La contestazione radicale della teoria e della pratica psichiatrica è sopravvenuta solo a a cavallo degli anni Sessanta del secolo scorso. Nel 1959 R. D. Laing pubblica L’Io diviso; T. Szasz, nel 1961, Il mito della malattia mentale. Sono due libri che fanno epoca,. Accomunati da una contestazione radicale del paradigma nosografico della malattia mentale, essi peraltro sono profondamente diversi. Laing allude con chiarezza al fatto che in ogni uomo c’è un orientamento sano verso la vita, un Io vero, che viene soffocato e alienato dall’interazione con il contesto familiare e socioculturale. Tale tematica verrà riproposta in termini sempre più radicali nelle opere successive: L'io e gli altri (1961), Normalità e follia nella famiglia (1964), La politica dell'esperienza (1967), La politica della famiglia (1969). T. Szasz, viceversa, ritiene che l’abuso psichiatrico avviene nel contesto di una società fondamentalmente sana, e che esso debba essere sormontato in nome del riconoscimento del fatto che i malati mentali hanno solo problematiche esistenziali e morali da risolvere, e che il modo migliore per affrontarle è restituire loro la libertà di decidere da chi e come farsi curare, non sottoponendoli a provvedimenti arbitrariamente restrittivi. Per Laing, insomma, la patologia individuale è il sintomo di una patologia sociale, originariamente ricondotta al contesto interattivo familiare e poi, nel corso degli anni, estesa a tutta l’organizzazione sociale. Per Szasz, viceversa, essa è l’espressione della difficoltà dell’individuo di affrontare i problemi che pone l’esistenza. Si tratta, in altri termini, di un dramma privato al quale la psichiatria sovrappone un’impropria etichetta di malattia, applicando ad esso tecniche di cura sostanzialmente dannose e lesive della dignità personale. Non è certo un caso che Szasz, nel 1984, pubblichi un libro - Schizofrenia Simbolo Sacro della Psichiatria - un cui capitolo è un aspro attacco nei confronti di Laing e dell’antipsichiatria europea, che egli considera astratta, ideologica e politicizzata. E’ bene tenere conto preliminarmente di questo contrasto, che non si è mai ricomposto. Né Laing né Szasz, peraltro, si sono mai dichiarati antipsichiatri. Solo David Cooper ha utilizzato questo termine in un libro pubblicato nel 1967 (Psychiatry and antipsychiatry), ma la sua proposta non è stata raccolta da nessuno. Non è mai esistito un movimento antipsichiatrico, bensì solo operatori e gruppi che hanno contestato la teoria e la pratica psichiatrica. Se nel ricostruire sinteticamente questa storia parlerò di antipsichiatria e di “antipsichiatri”, è per comodità di linguaggio. La mia opinione, che esporrò alla fine, è che l’Antipsichiatria in senso proprio, vale a dire una teoria che smantelli l’edificio ideologico della psichiatria e lo sostituisca con un sapere che rende possibile fornire un valido aiuto a persone che sperimentano un disagio psichico, è ancora in fieri. 3. Il termine Antipsichiatria è stato coniato dagli Psichiatri, che hanno associato ad esso un contenuto che nessuno degli “antipsichiatri” ha mai espresso: quello secondo il quale la malattia mentale non esiste. Un affermazione del genere si ritrova, di fatto, negli scritti di quasi tutti gli "antipsichiatri", a partire da Szasz, ma essa contesta solo il concetto nosografico della malattia mentale come malattia in senso proprio, la cui causalità primaria sarebbe genetica e/o biochimica. Nessuno ha mai messo in dubbio che esistono persone che sperimentano una sofferenza psicologica anche intensa spesso dovuta a vissuti che essi stessi definiscono come “sintomi”. Laddove, come accade spesso negli schizofrenici, la sofferenza viene negata ciò non è ritenuto un “sintomo” della malattia (assenza di coscienza della stessa), bensì come una difesa da un’angoscia troppo intensa e dalla paura di essere etichettati come malati di mente. Il problema non è, insomma, se esiste o non esiste quella sofferenza, ma se essa sia o no comprensibile in rapporto alla storia interiore, familiare e sociale del soggetto, e se essa possa essere curata aiutando il soggetto a ricostruire quella storia, ad elaborarla e a trovare nuove soluzioni ai problemi che essa pone. La vera provocazione dell’antipsichiatria non verte sull’inesistenza della sofferenza mentale, bensì, con l’eccezione di Szasz, sulla messa in discussione dell’antitesi netta tra normalità e anormalità. La critica a questa categoria, a dire il vero, si era avviata già negli anni ’50 del secolo scorso con E. Fromm, che aveva dedicato ad essa dense pagine In Psicoanalisi della società contemporanea (1955) e in altri articoli confluiti poi nel libro del 1974 I cosiddetti sani. Benché argomentata senza alcun tono estremistico, la critica di Fromm era però radicale: essa, infatti smascherava la normalità corrente come una patologia della personalità (strutturalmente deficitaria), mascherata dall’inserimento e dall’integrazione sociale. Tale radicalismo è esplicito in molti “antipsichiatri”, e giunge al paradosso per cui la sofferenza mentale implica uno scacco nell’adattamento al modello normativo e, quindi, esprime un bisogno inconscio di “autenticità” Su questo fondo comune, le esperienze riconducibili sotto l’etichetta dell’Antipsichiatria sono state molto differenziate. La prima esperienza antipsichiatrica si può ritenere la fondazione da parte di R. D. Laing, nel 1964, con la collaborazione di tre schizofrenici, della prima house-old, ove si riunivano con lui alcuni psichiatri di formazione psicoanalitica. Con due di questi - D. Cooper e A. Esterson - Laing fonda poi nel 1965 la “Philadelphia Association”, votata per statuto allo studio e al trattamento delle malattie mentali, e in particolare della schizofrenia, sulla base di una teoria interattiva e microsociologica per cui il soggetto malato è solo il sintomo di una struttura familiare disfunzionale, che lo investe di esigenze contraddittorie in risposta alle quali egli non può che sviluppare un disagio. In questa prima fase, la Philadelphia Association fa propria la teoria del doppio legame sviluppata dalla scuola di Palo Alto, e quindi si muove entro un’ottica microsistemica che non coinvolge la società nel suo complesso. In poco tempo, però, con l’avvio dell’esperienza di numerose houseolds integrate in un Network, nelle quali affluiscono oltre che pazienti psichiatrici, tossicomani, devianti e outsiders, la teoria si radicalizza. Nel 1967, Laing e Cooper organizzano un Congresso internazionale sulla dialettica della liberazione, che, con il concorso di studiosi di sinistra di tutto il mondo (tra cui H. Marcuse), giunge a proporre una rivoluzione culturale dell’Occidente, la cui natura repressiva viene identificata nel trattamento riservato ai “devianti” e in particolare ai pazienti psichiatrici istituzionalizzati. nel corso del Congresso, fa scalpore l’esito di una “ricerca” effettuata da uno psichiatra, Rosenhans, che, ricoveratosi spontaneamente denunciando di sentire le voci, è stato etichettato come schizofrenico e trattato come tale. Il gruppo di antipsichiatri inglesi si dissolve nel corso degli anni, via via che affiorano contrasti teorici, mai del tutto chiariti, tra il crescente radicalismo politico di D. Cooper e il lento e graduale viraggio “spiritualista” di Laing. L’antipsichiatria inglese ha gettato però i semi della protesta antistituzionale che fioriscono repentinamente con l’avvento del ’68, recuperando, tra l’altro, anche il patrimonio di numerose comunità terapeutiche attive da tempo come quelle di Maxwell Jones in Inghilterra, di F. Tosquelles in Francia, di D. Spazier e J. Bopp in Germania, che, senza nessuna impostazione antipsichiatrica, di fatto, con il loro orientamento rispettoso della dignità dei pazienti, si contrapponevano alla gestione psichiatrica manicomiale. La protesta antistituzionale imbocca sostanzialmente due canali. Il primo è quello della cosiddetta “psichiatria alternativa”, che in Francia (con Bonnafé, Daumezon, Sivadon, ecc.) e in Germania (con A. Finzen) si propone un obiettivo riformista, vale a dire una trasformazione lenta e graduale degli Ospedali Psichiatrici ove la disumanità e la degradazione sono giunti al massimo grado. Il secondo è quello della cosiddetta “psichiatria politica” che, dopo Cooper, trova i suoi massimi rappresentanti nel collettivo SPK di Heidelberg e nel movimento basagliano in Italia. Il collettivo di SPK, avviato dal dottor Wolfgang Hauber nel 1964, inserisce la sua pratica teorica nella cornice di un’analisi marxista della salute mentale, della malattia e del suo trattamento. Esso si radicalizza rapidamente giungendo ad identificare nei pazienti i soggetti che, con gli operatori, devono promuovere l’abbattimento del sistema capitalistico.Ostacolata in ogni modo, l’iniziativa di Hauber raccoglie comunque un notevole numero di pazienti che, nella lotta politica, trovano la loro ragione d’essere e conseguono notevoli miglioramenti. L’esperienza si esaurisce nel 1971 con l’allontanamento di Hauber dall’Università e con la sua incarcerazione. F. Basaglia non è meno marxista del dottor Hauber, ma ha il vantaggio di associare all’orientamento utopistico un realismo tattico molto utile. Egli avvia la trasformazione dell’Ospedale psichiatrico in cui comincia a lavorare (a Gorizia) sulla base di un progetto di progressiva umanizzazione della vita degli internati. Via via che tale progetto si realizza, egli ne trae spunto per dimostrare che l’ospedale psichiatrico non cura la malattia, ma ne produce solo il peggioramento e la cronicizzazione. Ciò significa, né più né meno, che esso va chiuso definitivamente, e l’assistenza psichiatrica va trasferita sul territorio, Egli giunge, con un’accorta pubblicizzazione del modello goriziano e avvalendosi di particolari circostanze politiche, a far passare la famosa legge 180, che dispone la fine dell’esperienza manicomiale su tutto il territorio italiano. Trasferendosi sul territorio, il movimento basagliano si ispira alla teoria per cui la faccia sociale della malattia nasconde quella reale - quello che la malattia è in sé e per sé. Su questa base la pratica tende insistentemente a migliorare le condizioni di vita dei pazienti nell’intento di permettere loro di vivere nel modo migliore possibile con la malattia, aspettando che maturino le condizioni storiche e culturali atte ad avviare una riflessione collettiva (e non affidata agli esperti) su come essa si produce. 4. Se si cerca di stilare un bilancio storico dell’Antipsichiatria, oltre al successo politico dell’impresa basagliana, per cui l’Italia è l’unico paese al mondo ove non esiste più il Manicomio, non rimane molto. Certo aggirandosi su Internet, si trovano molti siti “antipsichiatrici” attivi da tempo e alcuni addirittura in via di attivazione. Il materiale che si può trarre da essi, e che in gran parte pubblicherò commentandolo nella sezione documentaria, è di indubbio interesse, soprattutto per quanto riguarda la persistente “brutalità” del trattamento psichiatrico corrente - oggettivante al punto che non pochi psichiatri pensano di “curare” una malattia che il paziente alberga e che, non avendo alcun rapporto con la storia personale, familiare e sociale del soggetto, non richiede alcuna attenzione a riguardo -, e l’uso degli psicofarmaci, che vengono prescritti ormai di consueto secondo il principio di “sparare a pallettoni”, quindi associando costantemente neurolettici, ansiolitici, antidepressivi, stabilizzatori dell’umore. La consultazione della letteratura e dei siti antipsichiatrici pone di fronte ad un problema annoso: alla validità della critica destruens non corrisponde una fase construens, vale a dire una teorizzazione che interpreti, comprenda e spieghi la fenomenologia psicopatologica prescindendo dallo stereotipo della malattia mentale come occorrenza medica di natura biologica e genetica. Le alternative proposte vertono tutte sulla rivendicazione dei diritti inviolabili dei pazienti, sulla contestazione delle terapie farmacologiche, sulla solidarietà e sulla socializzazione, ecc. Sono ovviamente tutti aspetti importanti e fondamentali nell’ambito dell’assistenza psichiatrica, ma che raramente permettono ai pazienti di sottrarsi alla trappola della medicalizzazione, dato che tutti o quasi tutti devono fare i conti con le famiglie, le loro ansie, le loro paure e la loro cultura che fa riferimento agli psichiatri come medici curanti della malattia. Il problema, come accennavo, è di vecchia data. In Italia in particolare esso è venuto ad urtare contro la pregiudiziale di F. Basaglia, che riteneva ogni teorizzazione insignificante, in quanto accademica, e puntava su di una prassi mirante ad ottenere il massimo coinvolgimento dell’ambiente familiare e sociale al fine di promuovere una nuova cultura “dal basso” sul disagio psichico. Per quanto l’attivismo di Basaglia abbia conseguito il risultato clamoroso della chiusura dei Manicomi, esso era sotteso da una certa ingenuità, che non teneva conto del radicamento del fantasma della follia nell’immaginario collettivo. La conseguenza di questa ingenuità è che, laddove lavorano i basagliani, il trattamento dei pazienti è sicuramente più rispettoso ed umano, ma esso non va al di là dell’obiettivo di vivere con la malattia senza il rischio dell’emarginazione, dell’esclusione e della repressione. Questo obiettivo, peraltro, è comune anche alla Psichiatria, dato che gli psichiatri in primis, dando per scontato l’origine genetica e biochimica della malattia, ritengono che essa possa riconoscere fasi di latenza anche lunghe, ma non possa mai guarire. Se questo è vero, si può sostenere che l’Antipsichiatria come scienza non sia mai nata, e che sia l’ora di farla nascere. Nel campo degli antipsichiatri, colui che ha operato il massimo sforzo in questa direzione si può ritenere Laing. Non è un caso che egli fosse profondamente apprezzato da E. Fromm, che non ha preso mai esplicitamente posizione contro la psichiatria, ma la cui critica al concetto di normalità ha rappresentato un riferimento importante per tutti gli “antipsichiatri”. L’intuizione fondamentale di Laing, dovuta in gran parte alla sua formazione analitica, è stata quella di intravvedere in ogni esperienza di disagio psicopatologico una tensione dinamica verso la soluzione di determinati problemi. Fa parte della tradizione analitica il riferimento alla malattia come un tentativo di guarigione. Laing, in rapporto agli schizofrenici, ha portato questo presupposto all’estremo, presumendo che, lasciando liberi i pazienti di fare il loro “viaggio” attraverso il delirio, ciò portasse naturalmente alla guarigione. Questa concezione, oggi, va superata riconoscendo che, se è vero che la fenomenologia psicopatologica esprime un nodo di problemi da risolvere, essa attesta che la soluzione consciamente o inconsciamente intervenuta è a vicolo cieco. Non c’è alcun viaggio spontaneo che porti al di fuori di esso. Rimane vero che il conflitto psicodinamico sottostante ogni esperienza psicopatologica contiene in sé le ragioni del suo superamento. Ma ciò, nella mia ottica, significa solo che i bisogni alienati che lo sottendono riconoscono la loro matrice in bisogni autentici che vanno recuperati dal soggetto, elaborati e integrati. Alla fine di questo lungo viaggio nei territori dell’Antipsichiatria, esprimerò più dettagliatamente in che senso ritengo che la teoria struttural-dialettica, che ho elaborato nel corso degli ultimi trent’anni, sia una teoria antipsichiatrica in senso proprio. Essa non si limita solo a stigmatizzare gli eccessi, la banalità, il conformismo, la brutalità della prassi psichiatrica corrente, ma oppone ad essa un diverso modo di interpretare e spiegare la psicopatologia. |