RONALD DAVID LAING

L'IO E GLI ALTRI

Einaudi, Torino 1969

1.

Scritto nel 1959, allorché l'autore ha poco più di trent'anni, il libro, che documenta un'esperienza clinica già vasta e profonda e uno sforzo di riflessione teorica notevole, segna il definitivo distacco di Laing dalla psicoanalisi tradizionale e l'adozione del metodo fenomenologico-esistenziale. Sia il titolo che la prefazione sanciscono inequivocabilmente questo distacco:

"Questo libro vuol descrivere il soggetto considerato nell'ambito di un sistema sociale, o di un " nesso" con altri soggetti; comprendere in quale modo gli altri influiscono sull'esperienza che il soggetto ha sia di se stesso, che degli altri, e in quale modo si realizza, di conseguenza, la sua azione. Gli altri possono o contribuire all'autorealizzazione del soggetto o, in maniera decisiva, al suo smarrimento (alienazione), fino ai limiti della pazzia." (p.7)

Il distacco riguarda l'orientamento intrapsichico della psicoanalisi, che riduce l'esperienza soggettiva ad un gioco di fantami e di oggetti interni, all'epoca assolutamente prevalente, nonostante la contestazione avviata dalla corrente culturalista statunitense. Laing, che vive in Gran Bretagna, ha di mira soprattutto il kleinismo che porta quell'orientamento, già presente in Freud, alle estreme conseguenze.

L'importanza di considerare il sistema microsociale per comprendere meglio il modo di essere, di pensare, di sentire e di agire di un soggetto è espresso compiutamente in due brani:

"Se si considera la persona isolatamente, come per esempio nella teoria delle "relazioni oggettive", che considera la persona in rapporto ai suoi "oggetti", "interni" o "esterni", dovremo sempre considerarla come persona nei confronti degli altri, sulla quale gli altri agiscono nell'ambito del suo mondo: Poiché anche gli altri sono presenti in una simile situazione, la persona non agisce e non ha esperienza di se stessa in uno spazio vuoto. Essa non è il solo agente nel suo "mondo". Come essa percepisca gli altri e agisca nei loro confronti, come essi la percepiscano e agiscano nei suoi, come essa percepisca gli altri come soggetti che la percepiscano, e gli altri la percepiscano come soggetto che li percepisce, ecc., sono tutti aspetti della "situazione" pertinenti ad una comprensione adeguata della partecipazione totale della persona ad esso." (p. 92)

"Un soggetto è, in primo luogo, la persona che gli altri dicono che è. Crescendo, poi, egli conferma, o cerca di invalidare, la definizione con cui gli altri lo hanno individuato. Può decidere di essere quello che si dice che sia. Può cercare di non essere quello che, nella sua intimità, è pervenuto a riconoscere che è. O può tentare di strappare da sé quell'identità "aliena" che gli hanno attribuito, o alla quale è stato condannato, e creare, per mezzo delle sue azioni, un'identità per se stesso, cercando di costringere gli altri ad accettarla. Quali che siano le vicende sucessive, tuttavia, l'identità di un soggetto è, in primo luogo, quella che gli viene attribuita. Si scopre quello che già siamo." (p. 109)

L'identità personale è dunque il frutto di un'attribuzione sociale inesorabilmente interiorizzata. E' a partire da questo che il soggetto, nella misura in cui dispone di una capacità intuitiva viscerale o di strumenti culturali adeguati, può avviare un processo di individuazione che solo di rado conferma e si appropria di quell'attribuzione. Più spesso, tale processo deve contestarla e cambiarla in nome di una vocazione ad essere personale mortificata. Si tratta però di un tragitto difficile che, di frequente, esita in un disagio psichico.

L'identificare il disagio psichico come lo scacco di un bisogno d'individuazione che finisce per rimanere in sospeso tra il vecchio - ciò che l'individuo deve essere secondo la società - e ciò che egli desidera diventare - in nome della sua individuale vocazione ad essere - è il merito principale del libro. Si tratta in assoluto di una conquista del pensiero psicopatologico che è stata pressoché totalmente rimossa dagli sviluppi successivi della psichiatria in nome di una reificazione della normalità. I motivi di questa rimozione sono chiari. Se si accetta, infatti, che il disagio psichico, sia pure in maniera confusa e contraddittoria, esprime il bisogno di una vita affrancata dalla mistificazione sociale, l'ideologia organicista, che presume che i sintomi psichiatrici siano indiziari solo di una disfunzione cerebrale, crolla.

Ma perché poi ritenere che l'esperienza sociale sia nel suo complesso mistificata?

La risposta di Laing è che ciò dipende dal fatto che essa, sia a livello soggettivo che interattivo, si svolge su di un duplice registro: quello conscio, percettibile e quindi vissuto come realtà, e quello inconscio, ricco di valenze emozionali, di bisogni, di potenzialità, ma impercettibile e pertanto misconosciuto. Questo duplice registro, nella misura in cui è dissociato, si traduce in uno stato individuale e collettivo di falsa coscienza, vale a dire di adesione e di partecipazione acritica alla realtà.

Laing assume questa dissociazione come uno stato di fatto. Per alcuni aspetti, lo è. Coscienza e inconscio sono due aspetti dell'attività mentale incommensurabili. La coscienza non rappresenta più del 20% dell'attività mentale, e, per quanto essa possa dilatarsi in conseguenza della cultura e dell'introspezione, nessuno può pensare che essa possa giungere ad essere coestensiva rispetto all'inconscio. Una condizione del genere, peraltro, non darebbe luogo ad uno stato cosciente lucido, ma psichedelico e confusionale. Un certo grado di mistificazione, di schermo si può ritenere dunque di ordine strutturale e funzionale. Questo aspetto, però, non implica necessariamente una scarsa integrazione tra i livelli coscienti e quelli inconsci. La mistificazione funzionale è un collo di bottiglia che riduce l'afflusso alla coscienza dei contenuti inconsci ma non necessariamente li falsifica. La mistificazione di cui parla Laing non è solo questo - un velo, un filtro - ma una lente che impedisce di sentire e di capire o fa sentire e capire in termini che non coincisdono con la realtà.

E' un peccato che egli non usi mai il termine ideologia, perché di questo in fondo si tratta: di un fatto sociale che si riversa e si riverbera nei rapporti interpersonali e nel cuore della soggettività. Questo limite teorico si riflette nel libro. Esso non inficia la sottigliezza delle analisi della falsa coscienza e delle interazioni mistificanti, ma porta a chiedersi perché accadano certe cose. Le risposte di Laing non sono del tutto convincenti per due motivi. Il primo è la destoricizzazione delle esperienze interattive che sembrano realizzarsi nel vuoto e non sullo sfondo di un contesto storico e culturale che in esse si riverbera. Il secondo è la volontà di Laing di attenersi rigorosamente al metodo fenomenologico-esistenziale, la cui conseguenza è che, per non cadere nella trappola dell'intrapsichico, egli rinuncia a considerare gli aspetti strutturali della vita mentale inconscia.

2.

Una prova di questo è legata al problema dell'elusione, che rappresenta il tema centrale della prima parte del libro. L'elusione è il modo di essere proprio dell'isterico che "simula di essere ciò che è, invece di esserlo" (p. 50). Ciò avviene in buona fede:"L'isterico insiste spesso nel sostenere che i suoi sentimenti sono reali e genuini. Siamo noi ad avvertire la loro irrealtà" (p.52). L'analisi fenomenologica di Laing in riferimento al modo di essere che ne deriva è piuttosto sottile:

"Nell'elusione ogni cosa viene elusa. I suoi simboli sono fuoco fatuo, piume, polvere, paglia al vento - tutto ciò che è difficile da afferrare, bloccare, tenere in mano, fissare, controllare, maneggaire, manipolare, definire , cogliere… L'elusicvo può sopravvivere meglio nei giardini incantati, nel regno di beulah, nel mondo della luna, sotto lanterne cinesi, che non alla luce nuda di una lampadina elettrica." (p. 46)

"Ciò che è, ciò che uno è, ciò che le altre persone sono, i fatti: questo non è quello che viene voluto. Quei fatti brutti che non possono venire elusi sono repellenti, per non dire nauseanti, disgustosie e osceni" (p. 46)

"L'alterità dell'altro viene elusa. L'altro è visto come la personificazione della fantasia. La reale esistenza separata dell'altro non viene accettata inequivocabilmente. La persona tratta l'altro alla stregua di un fantasma incarnato, come se esso fosse un'altra persona o un possesso privato… L'isterico riconosce in un certo senso, o ad un certo livello, l'altro come non-sé, come una "persona", non come una "prte-oggetto" o una cosa, tutta via ne falsifica la piena accettazione… Caratteristicamente, egli, uomo o donna che sia, si atterrisce e si adira quando scopre che l'altro non è l'incarnazione del suo prototipo fantastico dell'altro. Vivendo in questo modo, l'isterico non può sottrarsi a frequenti illusioni ma è probabile che vada soggetto anche a frequenti disillusioni" (pp. 48-49)

"Se l'intero modo di vita di una persona finisce per essere caratterizzato dall'elusione, essa diventa prigioniera di un limbo in cui l'illusione cessa di essere un sogno che si avvera, per diventare il regno in cui la persona vive e nel quale è stata intrappolata." (p. 47)

"La diluizione della fantasia con la realtà e della realtà con la fantasia (sembra infatti che il modo elusivo di fondere insieme realtà e fantasia abbia l'effetto non di potenziarle entrambe ma di diluire l'una e l'altra) necessariamente implica un certo grado di depersonalizzazione di derealizzazione." (p. 49)

In conseguenza dell'elusione un soggetto vive "dietro un velo invisibile che la separa dalla schietta appercezione della realtà e della verità della posizione in cui essa si trova riguardo a se stessa e agli altri" (p.44)

Chiunque penetra nel mondo vissuto di un isterico si rende conto che le cose stanno così. Laing interpreta l'elusione come "una manovra dell'io in relazione sia all'io e/o agli altri che alle cose. Nell'elusione uno modifica, mediante la simulazione, la propria posizione originaria verso se stesso; quindi simula di abbandonare questa simulazione in modo da dare l'impressione di essere tornato al punto di partenza, ma di fatto egli avrà solo simulato di averlo fatto mediante una doppia simulazione." (p. 44)

Si tratta di un'interpretazione macchinosa. Chi è l'io che esegue la manovra? A quale livello, conscio o inconscio, essa avviene? Com'è possibile che si realizzi una doppia simulazione?

Adottando un punto di vista strutturale, il modo di essere isterico riesce più facilmente spiegabile. Si dia per esempio una donna che, nell'interazione con l'ambiente familiare, interiorizza l'obbligo superegoico di relazionarsi con l'uomo per sussistere e, nello stesso tempo, sviluppi un atteggiamento oppositivo e avversativo nei confronti della dipendenza dall'uomo. Quest'ultimo atteggiamento comporterebbe il rifiuto viscerale di entrare in relazione. Questo rifiuto, che anestetizza i sentimenti, determina però un'angoscia grave di solitudine e di abbandono. La maledizione superegoica costringe pertanto la donna a simulare l'amore e il desiderio senza provarlo, e a chiudersi in rapporti immaginari che sono sempre esaltanti e dolorosi. La dinamica potrebbe ricondursi a una catena di pensieri inconsci di questo genere: guai a te se non fai il tuo dovere di subordinarti all'uomo! io rifiuto la subordinazione totale! allora sarai costretta a farlo dalla paura dell'abbandono! allora accetto di subordinarmi ma solo simulando!

La conseguenza è un modo di essere elusivo come espressione di un conflitto tra un obbligo normativo, ostacolato dall'opposizionismo, che si realizza, in maniera simulata, per effetto dell'angoscia dell'abbandono.

2.

Nella seconda parte del libro, Laing analizza diverse configurazioni interattive interpersonali

La prima è la complementarietà, vale a dire "quell'aspetto della struttura relazionale per cui l'altro viene richiesto per compiere e completare l'io" (p. 93). La com'plementarietà è uno dei nodi dello sviluppo della personalità: "Un soggetto è, in primo luogo, la persona che gli altri dicono che è. Crescebdo, poi, egli conferma, o cerca d'invalidare, la definizione con cui gli altri lo hanno individuato. Può decidere di essere quello che si dice sia. Può cercare di non essere quello che, nella sua intimità, è pervenuto a riconoscere che è. O può tentare di strappare da sé quella identità "aliena" che gli hanno attribuito, o alla quele è stato condannato, e creare, per mezzo delle sua azioni, una 'dentità per se stesso, cercando di costringere gli altri ad accettarla. Quali che siano le vocende successive, tuttavia, l'identità di ciascuno di noi è, in primo luogo, quella che gli viene attribuita. Si scopre quello che già siamo" (p. 109).

Posto dunque che "ogni rapporto implica quanto meno una definizione dell'io tramite l'altro, e dell'altro tramite l'io" (p. 97), "tale carattere complementare della struttura della propria identità può assumere una posizione centrale o periferica, e rivestire un maggiore o minore significato nei diversi periodi della vita del soggetto" (p. 97). La complementarietà per così dire patologica si realizza in età adulta "quando il soggetto si trova condannato a un'identità, a una definizione di sé, quale complemento di un altro, identità che egli vorrebbe, ma non può, ripudiare" (p. 99). La condanna è dovuta al fatto che è l'altro ad attribuire all'io un'identità che può non coincidere col suo autentico modo di essere, e raggiunge un livello di particolare drammaticità allorché quell'attribuzione non è univoca ma duplice o mutipla e contraddittoria. In questo caso, "per adattersi a due contraddittorie definizioni di se stesso, l'io può dare vita a "incongruenze" in espressioni simultanee: cercando di corrispondere nello stesso tempo a ciascuna delle sue incompatibili identità" (p. 100).

E' difficile minimizzare questa struttura d'interazione se si tiene conto dei numerosi drammi psicopatologici che si originano a livello adolescenziale allorché, data una falsa attribuzione genitoriale, il figlio, nonostante la spinta del bisogno d'individuazione, non trova modo di liberarsi da essa. Cionondimeno, l'impostazione relazionale di Laing sembra semplificare il problema. Egli infatti presume che si dia sempre e comunque un'identità autentica pronta a venire fuori se il soggetto riesce a togliersi di dosso la maschera che gli è stata attribuita. In realtà, l'attribuzione di un'identità, vale a dire l'interiorizzazione del come tu mi vuoi incide nella misura in cui trova un terreno fertle, e canalizza, sia pure irriggidendole, alcune potenzialità autentiche del soggetto. Il bisogno d'individuazione, peraltro, frustrato dalla complementarietà, s'intensifica, si distorce e si aliena fino a dare luogo ad un io antitetico che anch'esso è solo parzialemnte espressivo delle potenzialità individuali. Ciò significa che il superamento della complementarietà patologica non è una spoliazione che fa amgicamente affiorare l'io vero, bensì un processo di mediazione che consente al soggetto di recuperare e integrare le quote di bisogni autentici intrappolate nel Super-Io, che promuove la connivenza con il come tu mi vuoi, e nell'io antitetico, che promuove una ribellione fuori misura.

La seconda configurazione interattiva riguarda la conferma e la disconferma. Scrive Laing: "Si può ritenere che le azioni individuali, e la varie fasi delle interazioni, abbiano sempre, in misura maggiore o minore, carattere confirmatorio o disconfirmatorio. Il problema è dunque un problema d'intensità e di estensione, di quantità e di qualità" (p. 114). Questo aspetto delle relazioni umane, che rimane importante per tutta la vita, assume ovviamente il suo massimo significato nelle fasi evolutive della personalità, nel corso delle quali, in assenza di un io altamente strutturato, si dà una partticolare sensibilità alla conferma e alla disconferma. Un eccesso di conferma a livello familiare, non motivato dal comportamento reale del soggetto, può produrre facilmente un io narcisistico, che continuerà a rivendicarla da parte di tutto il mondo; un difetto di conferma può generare un livello profondo d'insicurezza e un dubbio costante sulle proprie capacità, anche se esse vengono intuite; una disconferma più o meno sistematica, che casomai investe i comportamenti più immediatamente spontanei del soggetto può indurre ad ad avvertire quelli all'insegna della colpa o della vergogna. Quest'ultimo aspetto, come rileva Laing, è particolarmente evidente nelle famiglie un cui figlio sviluppa una sindrome psicotica.

Si tratta di un rilievo indubbiamente vero, ma, anche a questo riguardo, l'ottica relazionale semplifica il problema. Una disconferma sistematica, avvertita a livello inconscio come ingiusta e frustrante, determina spesso una rabbia cieca la quale, se viene colpevolizzata, dà luogo, a livello infantile e ancora più adolescenziale, ad un'immagine negativa interna che diventa essa stessa una fonte perenne di disconferma interna.

La terza configurazione è la collusione, un neologismo langhiano di grande interesse che viene definito nei seguenti termini: "Io mi propongo di adoperare il termine collusione con entrambe le sfumature di "giocare a" e di "ingannare". Collusione significa quindi un "gioco" giocato da due o più persone, mediante il quale esse ingannano se stesse, un gioco, insomma, che implica un autoinganno reciproco… La collusione, nel senso da me inteso, sarà riferita a quelle manovre interpersonali in cui si esprime una cooperazione fra l'io e gli altri, vale a dire a quei processi interpersonali in cui ciascuno gioca volontariamente al gioco altrui, magari senza rendersene completamente conto" (pp. 125-126).

L'incidenza psicopatologica della collusione è evidente nelle interazioni di coppie o di famiglie che, attraverso un gioco reciproco, costruiscono miti di superiorità, di armonia, di differenziazione, ecc., nei quali i soggetti rimangono intrappolati. Si tratta di situazioni caratterizzate da identificazioni di fantasia, che ben poco hanno a che vedere con la realtà, ma che vengono assunte dai soggetti come corrispondenti ad essa. Scrive Laing:"la collusione viene cementata allorché P trova quell'altro capace di "confermare" P nella posizione di fantasia che P stesso cerca di rendere reale e viceversa. In questo caso si prepara il terreno per una reciproca, prolungata elusione della verità, dell'appagamento e della realtà. Ciascuno ha trovato un altro disposto ad avallare la propria nozione di se stesso elaborata in fantasia ed a prestare a questa finzione una certa sembianza di vita.

Tra queste situazioni, la più ricorrente e la più pericolosa dal punto di vista psicopatologico è quella incentrata sul mito dell'armonia tra i membri familiari, che, negando le ambivalenze che sottendono tutti i rapporti significativi di lunga durata, cristallizza le identità impedendo loro di evolvere e di differenziarsi.

3.

Lo studio delle interazioni porta Laing alla conclusione che "l'io può essere collocato in una posizione falsa, al limite insostenibile, dall'azione degli altri" (p. 157). L'insostenibilità di questa posizione è la premessa perché affiorano sintomi psicopatologici, che sono al tempo stesso messaggi significativi di un malessere profondo e tentativi inconsci di rimediare, in qualche modo, ad esso. In questa ottica, la teoria del double bind, messa a fuoco da un gruppo di operatori di Palo Alto, che concerne le interazioni le quali danno luogo ad una schizofrenia, assumono un rilievo particolare. Laing riassume questa teoria riconducendosi agli autori che l'hanno prodotta in questi termini: "Gli elementi necessari per una situazione di "duplice condizionamento" (double bind) così come noi la vediamo sono:

  1. Due o più persone. Di queste una viene da noi designata, ai fini della nostra definizione, come la "vittima". Non supponimao che il il "duplice condizionamento" sia provocato dalla madre sola, ma che possa invece essere posto in essere o dalla madre sola, o da qualche collegamento tra madre, padre e/o altri parenti.
  2. Un'esperienza ripetuta. Riteniamo che il "duplice condizionamento" sia un tema ricorrente nella esperienza della vittima. La nostra ipotesi non richiede una sola esperienza traumatica, ma un'esperienza ripetuta in modo tale che la struttura del "duplice condizionamento" formi l'oggetto di un'aspettativa abituale.
  3. Un'ingiunzione negativa primaria. Può assumere una di queste due forme: a) "Non fare così e così, o ti punirò", o b) "Se tu non farai così e così, ti punirò". Scegliamo dunque un contesto in cui l'apprendimento è basato sul desiderio di evitare la punizione, invece che in un contesto in cui esso sia basato sul desiderio di ottenere un premio…
  4. Un'ingiunzione secondaria in conflitto con la prima a un livello più astratto e, come la prima, rinforzata da punizioni o segni che minacciano la sopravvivenza… L'atteggiamento, il gesto, il tono della voce, un'azione significativa, il senso implicito in commenti verbali, possono essere tutti usati come mezzi per trasmettere questo messaggio più astratto… (Il) "duplice condizionamento" (può essere) provocato non da un solo individuo, am da due. Così, un genitore può negare a un livello più astratto le ingiunzioni dell'altro.
  5. Una terza ingiunzione negativa che impedisce alla vittima di sfuggire a tale situazione. In senso formale, non è forse necessario indicare questa ingiunzione come un aspetto distinto, dal momento che il rinforzamento agli altri due livelli costituisce una minaccia alla sopravvivenza e, se il "duplice condizionamento" si determina durante l'infanzia, la fuga dalla situazione così creata è naturalmente impossibile. Comunque, sembra che, in certi casi, tale fuga sia resa impossibile da certi mezzi che non sono puramente negativi, per esempio, da capricciose promesse di amore, e simili.
  6. Infine, la presenza concomitante di tutti questi elementi non è più necessaria quando la vittima ha imparato a percepire il suo universo secondo uno schema di "duplice condizionamento". Pressoché qualsiasi fase di una sequenza di "duplice condizionamento" può allora essere sufficiente a provocare panico o rabbia. Lo schema delle ingiunzioni generante conflitto può anche essere realizzato da voci allucinatorie" (pp. 169-171).

Lo studio di altri tipi di attribuzioni e d'ingiunzioni incompatibili e contraddittorie induce Laing ad una conclusione di ordine generale di grande interesse: "E' nell'area della discrepanza fra le intenzioni "proprie" del soggetto, e le intenzioni che gli vengono attribuite dall'altro, o dagli altri, che si determinano certi risultati come la reticenza, l'inganno dell'altro o di se stesso, il linguaggio equivoco, la menzogna o la sincerità, ed è nei termini di di simili discrepanze che si deve cercare di comprendere tante manifestazioni di colpa o di vergogna (l'idea di essere un imbroglione, di essere "falso"). La vera colpa è quella che si commette non adempiendo l'obbligo che si ha verso di sé di essere se stessi, di realizzarsi. La colpa falsa è quella che si avverte quando non si riesce ad essere quello che gli altri dicono dovremmo essere, o sostengono che siamo, se tali attribuzioni non coincidono con le nostre possibilità" (p. 181).

4.

Il grassetto evidenzia il limite critico del pensiero di Laing. Posta l'intuizione (giusta) per cui ogni soggetto geneticamente ha una vocazione ad essere sua propria, che può coincidere parzialmente o non coincidere in alcun modo con le aspettative e le attribuzioni ambientali; posta dunque l'intuizione di un bisogno d'individuazione geneticamente programmato, Laing dà per scontato che tale intuizione si realizzi sempre sotto forma di un io vero o autentico che, per quanto mascherato, mistificato, represso e rimosso, giace al fondo della personalità. L'esperienza terapeutica non conferma questo assunto. Laddove l'io, per effetto delle influenze ambientali, delle interiorizzazioni delle attribuzioni e delle ingiunzioni degli altri, si falsifica e si allea con il Super-io, che mantiene in vigore quelle ingiunzioni e quelle attribuzioni, a livello inconscio non si dà mai un io vero bensì un io antitetico che contiene le potenzialità d'individuazione ma, in opposizione al Super-io, assume una configurazione disfunzionale, opposizionistica, negativistica, anarchica e al limite antisociale. Sicché il problema terapeutico non è quello di far venire alla luce l'io vero, aiutando il soggetto a rimuovere la cortina delle mistificazioni e delle false attribuzioni, bensì quello di mettere l'io cosciente in grado di distinguere, nelle spinte motivazionali dell'io antitetico, ciò che si dà di autentico, vale a dire d'inerente alla sua vocazione ad essere, e ciò che si dà di sterilmente e talora pericolosamente trasgressivo e anarchico.

Il libro di Laing, in conseguenza anche di una documentazione clinica ricca e suggestiva, pone in luce in maniera che si può ritenere definitiva l'influenza spesso distorsiva dell'ambiente sullo sviluppo della personalità. La pretesa però di ricondurre tutto ciò che accade a livello soggettivo all'interazione con gli altri impedisce a Laing di pervenire ad una teoria della struttura soggettiva, conscia e inconscia, capace di cogliere le reali conseguenze delle interazioni che, se muovono da sistemi di valori culturali mistificati e contraddittori, scindono e dissociano il bisogno d'appartenenza sociale e il bisogno d'individuazione. La psicopatologia dei sistemi interattivi rimane pertanto suggestiva ma incompleta. Efficace nel fare capire come l'ambiente sociale tenta di costruire identità fittizie, corrispondenti a valori normativi spesso contraddittori, essa non riesce a cogliere pienamente gli effetti soggettivi delle influenze ambientali.