Il sentimento di estraneità nella malinconia

In «Giornale di Psichiatria e di Neuropatologia», 85, 3, 1957

Nell'espressione di Cotard «generalmente gli alienati sono dei negatori», ci sembra di poter trovare l'impostazione del problema psicopatologico che ci accingiamo a trattare: dai sentimenti di estraneità fino ai deliri alla Cotard la negazione rappresenta, infatti, la trama stessa sulla quale prendono forma varie sindromi psichiatriche. Tuttavia esiste una « situazione » nella quale il negare assume una forma del tutto particolare: è questa la depersonalizzazione, nella quale il soggetto vive coscientemente in una esasperante auto-analisi la mancata appartenenza a sé del proprio corpo, del mondo, di se stesso.

Così, se il negativismo schizofrenico è espressione della particolare maniera di organizzarsi dell'autismo, e la negazione malinconica dell'organizzarsi delirante della depressione, esiste un altro, diverso modo di vivere la negazione: quello che sovente precede la strutturazione sia schizofrenica sia malinconica, con la modalità appunto del depersonalizzato.

Ora, ricollegandoci alla presenza in essa di questo elemento negatorio, intendiamo rapportare la depersonalizzazione alla negazione nelle sindromi affettive, per studiare le relazioni fra loro possibili o per vedere, piuttosto, se, parlando di depersonalizzazione, non si possa, come vari autori sostengono, parlare di sindrome malinconica. A questo scopo, tuttavia, ci rifaremo, se pur brevemente, al negativismo schizofrenico comparandolo alla negazione malinconica, per rapportare, quindi, questa alla depersonalizzazione.

Il negativismo schizofrenico rappresenta, infatti, la proiezione dell'intima dislocazione dell'Io, espressione della Spaltung bleuleriana, della profonda modificazione della personalità cui non resta altro modo di esprimersi oltre le sue reazioni negative. Dice Bleuler al proposito: «Noi intendiamo sotto il termine di negativismo un numero di sintomi che hanno la caratteristica comune di svolgere in senso negativo una reazione che ci si aspetterebbe in senso positivo. I pazienti non possono o non vogliono fare ciò che ci si aspetta da loro (negativismo passivo), oppure essi fanno proprio l'opposto o qualche cosa di diverso da ciò che ci si aspetta (negativismo attivo od opposto)».

Nella negazione malinconica, invece, non risulta primaria un'alterazione dell'Io: essa non è proiezione di un'intima « sconnessione» della personalità, di una nuova «determinazione» dell'Io, quanto piuttosto di un primitivo disturbo affettivo che orienta l'umore nella sofferenza, nella depressione. Mentre lo schizofrenico, infatti, vive la negazione come nuovo ed unico modo di esistenza, organizzata ormai in un nuovo mondo, nel malinconico la negazione è il risultato degli sviati rapporti, consapevolmente vissuti ed orientati soltanto dal disordine affettivo. È dunque questa stessa negazione che ci fa comprendere e vivere la dolorosa esistenza del malinconico, quanto invece ci allontana dallo schizofrenico che, in modo diverso, da questa negazione si è fatto estraneo ed inavvicinabile.

Nelle due situazioni ora esposte vengono a delinearsi due diversi deliri e viene, di conseguenza, a riproporsi ancora una volta il problema del loro prodursi. Il delirio, infatti, di qualunque natura esso sia, sconvolge la realtà esprimendo lo squilibrio che la malattia determina fra l'Io e il mondo, fra l'immagine che il delirante si forma del reale ed il reale stesso. Basti pensare a quanto Griesinger affermava al proposito: «Tutti i falsi giudizi degli alienati si distinguono per quel tanto che essi si rapportano al soggetto stesso o in quanto essi si sviluppano in seguito a delle false idee relative al soggetto» riuscendo a stabilire, in tal modo, un'esauriente differenziazione fra delirio schizofrenico e delirio affettivo. Allorquando i «falsi giudizi... si rapportano al soggetto stesso», allorquando cioè essi sono qualche cosa di psicolo gicamente inderivabile, rispecchiano la rottura di tutte le connessioni dell'Io e si proiettano in ciò che è il vero delirio, il Wahn di cui la schizofrenia è l'espressione più genuina. Quando, invece, le false percezioni «si sviluppano in seguito a delle false idee relative al soggetto» si esprime con ciò come l'Io soggiaccia a quell'idea che è il risultato di un primario disturbo affettivo, come cioè l'umore, orientato in senso negativo, determini la «persona» a reagire in senso malinconico.

L'affettività, infatti, è fonte di un cumulo di «errori», è una attività costantemente in fermento contro cui bisogna lottare e dagli «errori» che da essa ci vengono ci liberiamo con atti razionali che sono i più difficili ed i più elevati. Essa, che può essere considerata come l'« armatura» della personalità, può portare, per quanto si è detto, ad una dissoluzione della funzione del reale, il che significherebbe che quando la sua forza di propulsione, costantemente inibita, prevale, viene a provocarsi uno sconvolgimento di tutti gli atti razionali che appunto la tenevano a freno: da tale squilibrio prendono origine quei disturbi del giudizio su base affettiva che sono da considerarsi come deliri secondari: il Wahnhaft di Jaspers.

Sulla genesi del delirio affettivo ci vogliamo rapportare, ancora una volta, a Griesinger: le osservazioni di questo psichiatra della scuola tedesca dello scorso secolo ci sembrano quanto mai attuali. Egli cosi vede la sindrome malinconica: «Sotto la spinta della malattia morale profonda che costituisce la turba psichica essenziale della malinconia, l'umore prende un carattere tutt'affatto negativo... Questa confusione che il malato fa fra il cambiamento soggettivo delle cose esterne che si produce in lui ed il loro cambiamento oggettivo reale è l'inizio di uno stato di sogno nel quale, quando si arriva ad un grado molto elevato, sembra al malato che il mondo reale sia completamente dissolto, sia scomparso, morto e che non resti più che il mondo immaginario nel quale egli è tormentato di trovarsi». Ecco perché vediamo nel melanconico atteggiamenti che possono considerarsi come rifiuti, esasperazioni, espressioni tutte che ci mostrano come nella depressione la negazione sia un elemento condizionante della sindrome, elemento che si palesa in maniera conclamata nel «delire des négations» di Cotard. In questa situazione nella quale il soggetto nega l'esistenza del proprio corpo, del mondo esterno, della propria persona, il delirio viene ad assumere, come dice Ey, «una dialettica di un puro nulla, di una solitudine immensa ed infinita, di un essere ridotto a non essere che un nulla al centro del vuoto». Tale è, dunque, l'estremo stadio cui può giungere un negare vissuto in senso malinconico; d'altra parte nella stessa malinconia ritroviamo degli aspetti di negazione frusti, abortivi che sono pur essi conseguenza di una dissoluzione della funzione del reale determinata dal disordine affettivo.

Passando ora alla depersonalizzazione, ci sembra che in essa vi siano elementi avvicinabili alla negazione malinconica: nella depersonalizzazione, infatti, come nel delirio di Cotard, esiste una negazione orientata in un misconoscimento del corpo, della realtà, della persona, situazione che viene vissuta, sebbene in modo diverso, con quel sentimento di vuoto frequente nella malinconia. Possiamo, con ciò, dire che in alcuni tipi di depersonalizzazione la turba determinante poggi su una base affettiva? Ci riferiamo, in particolare, a quelle negazioni vissute sotto registro malinconico, fruste, abortive cui abbiamo sopra accennato.

Non vi è accordo fra i vari autori sull'esistenza di una vera e propria depersonalizzazione nella malinconia, in quanto, in tale sindrome, si riscontrerebbe più frequentemente solo l'aspetto allopsichico di questo fenomeno. Cosi si sarebbe portati a riconoscere quale vera depersonalizzazione solo la autopsichica, considerando come un sottoprodotto della stessa la somato e allopsichica: quest'ultima, anzi, prenderebbe il nome di «derealizzazione», intendendo con questo termine quel vago sentimento di estraneità che accompagna cosi sovente l'ingresso delle sindromi depressive.

Nella malinconia la «derealizzazione»1, l'estraneità, cioè, rispetto al mondo-ambiente, è, infatti tra i tipi di depersonalizzazione la più frequente: il malinconico, pur percependo normalmente la realtà non la riconosce, la sente estranea, la vede con un senso di lontananza, come coperta da un velo, come non propria e ciò, come si è detto, si verificherebbe particolarmente nelle prime fasi della sindrome, unitamente ad una notevole difficoltà ad illustrare, esporre questo singolare sentimento, questa mancanza, anzi, di sentimento, questo suo sentire di non sentire: e soltanto attraverso metafore e vivificando al massimo la sua attività immaginativa, il malinconico riesce a far comprendere il proprio stato. Pure, secondo noi, è raro che la «derealizzazione» non si accompagni alla depersonalizzazione somato e autopsichica: se, infatti, indaghiamo con cura un soggetto in preda ad un sentimento di estraneità, potremmo vedere come, a poco a poco, vengano ad attualizzarsi anche gli altri due fenomeni, palesandoci come l'estraneità del mondo tocchi pure l'Io, la persona, permettendo cosi l'evidenziarsi della depersonalizzazione autopsichica.

Possiamo, con ciò, dire che derealizzazione e depersonalizzazione possano identificarsi, possiamo, cioè, chiederci se sentimento di estraneità del mondo e sentimento di estraneità dell'Io possano coincidere?

Di tale avviso sembrano essere Handerson e Gillepsie per i quali la depersonalizzazione o sentimento di estraneità è uno stato soggettivo frequente da ritrovarsi negli stati depressivi. Pur riconoscendo anche essi che l'aspetto allopsichico della depersonalizzazione è il più frequente da riscontrarsi nella malinconia, affermano che la derealizzazione va di pari passo con la depersonalizzazione autopsichica ed insistono che tale situazione sarebbe un derivato della fluttuazione del tono dell'umore. Allorquando i depressi, continuano questi autori, descrivono le strane sensazioni ed i sentimenti straordinari che essi vivono, si meravigliano della loro stessa descrizione, della veemenza verbale con la quale partecipano agli altri il loro stato, tanto che questa situazione paradossale, questa discordanza fra umore e ideazione hanno portato, come è noto, molti autori (con i quali però Handerson e Gillepsie non accordano) a vedere nella depersonalizzazione una forma di processualità schizofrenica.

I fenomeni di estraneamento che si ritrovano nella malinconia hanno condotto taluni autori a definirli come vere e proprie entità cliniche, come Johnson con la «malinconia anesthetica» che comporta un sentimento universale di vuoto determinato dal «loss of feeling» o, come Schroeder con l'«autopsicosi depressiva». Hirt parlerebbe di malinconia solo in presenza di fenomeni di depersonalizzazione. Morgenstern e Cambriels vedono nella depersonalizzazione una particolare sindrome avvicinabile alla malinconia e Gebsattel valorizza, come già d'altra parte Johnson, il sentimento di vuoto come sintomo cardinale di questa sindrome. Pure Haug ritiene che siano presenti questi fenomeni nella depersonalizzazione ma che non sempre essi siano puri. Molleson fa notare come il banale riscontro della depersonalizzazione nei malinconici risulti dal fatto che questi soggetti non percepiscono nel modo usuale il mondo esterno, ed insiste specificamente su tale disturbo della percezione del quale il malato si rende conto finché il delirio non sospende l'autoanalisi, propria di ogni forma di depersonalizzazione.

Störring, che ha dedicato all'argomento una monografia, afferma che negli stati distimici la depersonalizzazione viene ad inserirsi ad un livello medio di dissoluzione della coscienza ed è sotto questa forma, che egli dice abortiva e riflessiva, che la depersonalizzazione è più frequente, in particolare nel suo aspetto allopsichico. Questo autore costituirebbe tre gruppi di depersonalizzazione malinconica che vanno da una lieve modificazione della coscienza fino ad esperienze che, più che alla depersonalizzazione, possono avvicinarsi al pensiero onirico.

Per Mayer-Gross, responsabile del sentimento di estraneità nella malinconia sarebbe il «rallentamento», quel particolare sintomo caratteristico delle sindromi depressive, nel quale il soggetto si sente preda di un sentimento di incapacità. L'estraneità, sempre per Mayer-Gross, si verificherebbe per il sopraggiungere di «nuovi meccanismi di origine sconosciuta» che produrrebbero quel fenomeno che è dall'autore considerato una vera e propria depersonalizzazione. Nella depressione, la depersonalizzazione sarebbe la conseguenza di un mutamento delle risposte emozionali: le lamentele dei pazienti sembrano essere la conseguenza della consapevolezza del fatto che essi non provano più né piacere né dolore, che non possono più amare, che ogni cosa ha perduto la sua «forza» e li lascia indifferenti e freddi. Con l'accentuarsi del rallentamento, questo sentimento di estraneità e di perdita si estende alla volontà e alle azioni e il soggetto è come una persona che si muove per forza d'inerzia, ed il suo corpo gli diventa un peso e gli è estraneo come estraneo è egli a se stesso e al mondo. Sepre Maver-Gross afferma che la depersonalizzazione può rappresentare solo la parte iniziale di una sindrome malinconica o ne può dominare l'intero quadro clinico.

Orbene, che nella malinconia la «derealizzazione» sia l'aspetto più facilmente riscontrabile, come si è per altro visto nella breve analisi della letteratura in merito, potrebbe dipendere dalla visione che il malato si forma, sotto la spinta della malattia morale che determina l'umore in un senso negativo, del mondo esterno in modo da vederlo soltanto attraverso questo suo cambiamento soggettivo, tanto che viene a costituirsi come un diaframma fra sé e l'esterno.

Tuttavia, tale stato di estraneamento si riscontrerebbe principalmente all'inizio della sindrome malinconica, come d'altra parte succede con la depersonalizzazione nei prodromi della schizofrenia. Testimonianza di ciò sembra essere quanto dice Mayer-Gross: «Quando la turba malinconica o schizofrenica si aggrava, il sentimento di depersonalizzazione scompare, lasciando il posto al delirio». Come nella schizofrenia, cosi nella malinconia, sovente, i fenomeni di estraneamento, siano essi riferiti all'Io, all'esterno o al corpo, vengono a dissolversi di fronte al progredire della frammentazione della personalità o alla rapida intrusione dell'umore malinconico che invade la coscienza impedendo agli elementi che costituiscono la personalità di coesistere determinando, cosi, lo sconvolgimento proprio del delirio affettivo. La depersonalizzazione può considerarsi, dunque, come il primo apparire, l'ingresso di un delirio, sia esso schizofrenico o malinconico. Se nel primo la depersonalizzazione è centrifuga, parte cioè dall'Io per invadere quindi e disgregare la personalità, nella malinconia essa è centripeta, parte cioè dall'armatura della personalità, dall'affettività, progredisce da un turbamento primario della stessa, avviluppando a mano a mano l'Io centricamente: quest'ultimo è, appunto, il caso del delirio di negazione malinconico nel quale il delirio sarebbe da considerarsi come la conseguenza estrema della depersonalizzazione che, avviluppando l'Io, determina una situazione che non può più sussistere come sentimento, ma deve consolidarsi in quello strano delirio pseudo-megalomane che è l'enormità malinconica.

Di tale avviso sarebbe, appunto, "Weber che vedrebbe la denersonalizzazione come una disposizione al delirio di negazione, intendendo appunto questo delirio come un modo di reagire alla stessa e da considerarsi, quindi, come una Wahnaft, conseguenza psicologicamente comprensibile di un primitivo stato di depersonalizzazione.

Non tutti gli autori sono concordi, come si è detto, nel ritenere il sentimento di estraneità nella malinconia come espressione di vera e propria depersonalizzazione. Prenderemo in esame il punto di vista di Schneider che, di tale concezione, è l'esponente più autorevole e con il quale, da noi, concordano Callieri e Semerari.

Egli parte dalle note considerazioni di Jaspers sul meccanismo della depersonalizzazione nella quale ciò che risulta maggiormente compromesso è il sentimento di attività dell'Io, sentimento che Schneider chiama Meinhafttigkeit e che traduciamo con «esperienza vissuta di appartenenza all'Io». Egli riconosce come fenomeni di depersonalizzazione soltanto quelli che sono direttamente legati, anche nel loro contenuto, ad un espresso interessamento dell'Io, quei fenomeni, cioè, nei quali è ben evidente un turbamento della Meinhafttigkeit; di conseguenza considera quale depersonalizzazione, anche per quanto diremo in seguito, soltanto la autopsichica. Il «lontano», invece, la non realtà delle cose, la perdita di famigliarità degli oggetti, la non appartenenza, cioè, di qualche cosa che è nostro perché legato alla nostra vita sentimentale, egli non lo include nel fenomeno di depersonalizzazione: il sentire di non sentire, la mancanza di sentimento, per Schneider, risultano fuori della vita sentimentale perché per tale autore un sentimento o è sentimento o non lo è. Per confermare questa sua tesi egli si rifà all'«ossessione» nella quale il sentimento che accompagna e fa parte della coazione stessa è vissuto come parte integrante all'Io: il soggetto, pur considerando assurdo il proprio nucleo ossessivo, lo sente proprio; al contrario, nell'estraneità del mondo il sentimento viene a scolorirsi e a scomparire e viene nettamente a dividersi per Schneider ciò che è pertinente alla percezione da ciò che è pertinente al «mio», agli elementi cioè costitutivi dell'Io.

In una ulteriore chiarificazione della sua tesi, Schneider afferma che i turbamenti delle « esperienze vissute di appartenenza all'Io» (Meinhafttigkeit) devono distinguersi a seconda delle due coppie di criteri cui essi si riferiscono, coppie che sono costituite dalle «esperienze concernenti il mio» - estraneità e realtà-irrealtà. È chiara, dunque, da questa schematica divisione, la scissione che tale autore vede fra il mondo delle percezioni e le esperienze di appartenenza all'Io: egli parla, dunque, di depersonalizzazione quando viene ad essere turbato il primo criterio, cioè, il me concernente-estraneità, mentre invece quando il soggetto avverte l'indifferenza di tutto, quando gli oggetti non gli sono più famigliari ma lontani, come coperti da un velo, quando è il criterio realtà-irrealtà ad essere turbato, allora si tratta soltanto di un disturbo della percezione, dove essa viene da Schneider intesa nel suo aspetto sensoriale, senza alcun legame con l'«esperienza vissuta di appartenenza all'Io». Cosi la vera depersonalizzazione viene ad essere nettamente separata: infatti, quando si riscontra una deficienza del sentimento riguardante il me, si parlerà di depersonalizzazione, quando invece l'estraneità dei sentimenti riguarda l'esterno, la realtà, ciò risulterà da un'alterazione della percezione, privata dei suoi caratteri di sentimento.

Invero, non comprendiamo per quale ragione l'autore faccia una scissione cosi netta fra ciò che è la vita sentimentale legata all'Io e quella riguardante la realtà. Basti pensare alle fasi attraverso cui si svolge il processo percettivo: dal momento in cui il soggetto avverte la presenza dell'oggetto fino a quando egli trova il nome dell'oggetto presentato, cioè lo fa proprio, si passa da un primo atto percettivo che rappresenta l'organizzazione sensoriale bruta, fino alla significazione e alla comprensione di tale significazione, finché cioè esso viene incorporato in modo da far parte indissolubile della persona. Giustamente Lopez-Ibor, entrando in polemica con Schneider a questo proposito, dice che l’estraneamento riferito all'esterno, il silenzio affettivo delle cose, il sentire di non sentire, il coprire col velo è una turba del «rapporto» e tale rapporto, come ogni altro, non può essere mai passivo ma attivo. Di conseguenza, il turbamento dei sentimenti riguardanti l'Io è si una turba del sentimento di attività, ma ciò non si limita soltanto ai sentimenti legati all'Io, in quanto essi accompagnano tutta la nostra attività psichica e, quindi, anche la percezione.

Dove il nostro punto di vista non coincide con quello di Schneider è nel suo considerare il linguaggio del derealizzato soltanto nel suo aspetto apparente. Infatti, quando il malato afferma: «Non sento più le cose come le sentivo prima, gli oggetti non mi sono più famigliari», Schneider in ciò vede soltanto uno scolorirsi, un allontanarsi ed estinguersi dei sentimenti ed un sussistere invece dell'attività percettiva nel suo arido aspetto sensoriale e, come tale, estranea all'attività dell'Io.

Se così fosse, come potrebbe sussistere la «persona» del malato? Forse di sole percezioni? È invece indagando le singolari metafore di questi soggetti che ci sembra di vedere un turbamento dell'attività dell'Io: avvertendoci della mancata risonanza in essi dell'esterno, ci rendiamo conto che il «significato» della organizzazione sensoriale della percezione viene sentito, solo che ad essa è dato quel senso di «dolorosità» con il quale colui che è oppresso da un disordine affettivo vive, in «quel senso negativo», quasi di sogno, che gli è proprio.

Passando ora a considerare il problema da un punto di vista clinico, dobbiamo in verità riconoscere che il fenomeno di depersonalizzazione nella malinconia, non si riscontra tanto frequentemente quanto potrebbe dedursi da ciò che siamo andati a mano a mano affermando. Fra le diverse ipotesi, l'assenza di questo fenomeno nelle sindromi depressive potrebbe essere imputata al fatto che l'invasione della malattia può verificarsi, a volte, in maniera cosi brusca ed improvvisa da impedire l'instaurarsi di un fenomeno che necessiterebbe, invece, di un progressivo, lento ingresso dello stato morboso. Inoltre, per l'evidenziarsi di un quadro di depersonalizzazione, in qualunque sindrome, è necessario, il più sovente, un fondo particolare: facilmente, infatti, in quelle personalità dedite all'introspezione e all'autoanalisi l'ingresso di una sindrome psichica, agendo patoplasticamente, potrà darci, per ovvie ragioni, come fenomenologia iniziale, una sintomatologia di depersonalizzazione che, nel caso di una sindrome depressiva, si svolgerà, per quanto si è detto, prevalentemente in senso allopsichico. Tale quadro, come sostiene Mayer-Gross, potrà costituire il contenuto di tutto l'episodio morboso o svanire con l'approfondirsi della dissoluzione della funzione del reale.

Se la prima ipotesi da noi prospettata dell'invasione improvvisa e violenta della turba psichica potrebbe spiegarci l'assenza dei fenomeni di estraneamento in tali sindromi, ci sembra che la seconda, per la quale l'instaurarsi di una situazione di tal genere necessiterebbe di un particolare fondo abnorme, troverebbe maggiore validità proprio dall'esperienza clinica.

A questo proposito vogliamo presentare due casi che ci sembrano confermare tale tesi.

Caso I. M. l., sarta, coniugata.

Si tratta di una donna di trent'anni nella cui anamnesi familiare nulla risulta a carico dei genitori. Una sorella soffre di disturbi nevrotici di tipo neuroastenico; una zia paterna è epilettica; un cugino paterno fu ricoverato in Ospedale Psichiatrico per forma imprecisata ed ivi deceduto. La nonna materna era una alcoolista.

La paziente è la seconda di cinque fratelli che godono ottima salute; lo sviluppo somatico è avvenuto come di norma, non sofferse di particolari malattie, il flusso mestruale iniziò a quattordici anni ed è stato, in seguito, sempre regolare. A ventitre anni sposò un uomo sano ed ebbe cinque gravidanze di cui due abortive. I figli godono ottima salute.

Lo sviluppo psichico, da un punto di vista intellettivo, è stato normale: la paziente ha frequentato con buon profitto le classi elementari e due commerciali avviandosi, quindi, al mestiere di sarta, attività che esplicò in seguito in proprio, anche dopo il matrimonio.

Fin dall'infanzia la paziente si manifestò molto riflessiva e facilmente emozionabile; risentiva molto delle rampogne dei genitori verso i quali mostrava un affetto talora morboso. All'età di undici anni questa sua tendenza alla riflessione si accentuò: la paziente si proponeva problemi e domande cui, per la ancor giovane età, non sapeva rispondere. La turbava soprattutto il problema della morte, dell'infinito, del vivere, ecc., tanto che in quest'epoca era sovente presa da una paura immotivata e da un senso preveggente di morte. Altre volte era presa dalla strana sensazione di non essere più se stessa e a ciò si aggiungeva una sintomatologia di tipo fobico che si organizzava transitoriamente in forma coatta. Tale situazione, che perdurò negli anni seguenti, non intaccò, però, l'attività sociale della paziente ed i suoi «disturbi» non furono mai avvertiti come malattia ma piuttosto come una stravaganza che, però, non la allontanò dalla vita dei coetanei.

Tale sua caratteristica di fondo si accentuò sui sedici anni, in seguito scomparve e si ripresentò sui venti anni per attenuarsi ulteriormente e scomparire quasi del tutto all'epoca del matrimonio. Poco dopo, però, la sintomatologia si ripresentò, questa volta accompagnata da una depressione del tono dell'umore: la paziente insiste, anzi, nell'affermare che tale episodio depressivo non si annunziò con i tipici caratteri dell'estraneità, ma con le caratteristiche con le quali si presenta normalmente una sindrome di tal genere. In seguito però, la depressione del tono dell'umore si rivestì di un contenuto quasi esclusivamente determinato da una fenomenologia depersonalizzante, orientata verso se stessa e l'esterno: la paziente avvertiva, infatti, l'estraneità delle cose, una indifferenza per la famiglia, il marito ed i figli, per il proprio lavoro.

In un tempo relativamente breve, si instaurò una vera e propria sindrome depressiva primaria che si risolse in qualche mese con terapie mediche. Tuttavia, lo stato di estraneità, in particolare rivolto verso l'esterno, permase in seguito, se pur spoglio dei caratteri depressivi precedenti e, con l'andar degli anni, la sintomatologia si attenuò ulteriormente.

Cinque mesi prima del ricovero nella nostra clinica, la paziente ebbe un aborto dopo il quale si rimanifestò l'episodio depressivo con le stesse caratteristiche del precedente e con lo stesso contenuto del tipo depersonalizzante.

La paziente si presenta lucida, orientata, con una discreta componente ansiosa, depressa e ci indica chiaramente, nelle sue metafore, quella singolare situazione propria dei fenomeni di depersonalizzazione vissuta in maniera malinconica: «Ho l'impressione che le cose che mi circondano non siano più quelle di un tempo, o meglio, vedo perfettamente tutto quanto mi circonda ma non lo avverto più con quel senso di familiarità, con quel senso di usato con il quale lo vedevo un tempo. Anche guardando me stessa ho l'impressione di non essere più io, o meglio di non essere più quella di prima», e, a mano a mano che la paziente esprime queste ed altre metafore, più chiara appare la componente depressiva: «Non sento più l'amore per i miei figli, li sento estranei come fossero figli di altri; le loro pene, le loro angosce, le loro malattie non mi dicono nulla, sono indifferente a tutto, sono un'egoista, non penso che a me stessa, sono io la causa di tutto». A questo suo dire segue sempre uno scoppio di pianto ed atteggiamenti decisamente malinconici.

La paziente viene sottoposta al test di Rorschach che mostra una tipica sindrome depressiva su un fondo che evidenzia note ansiose di tipo nevrotico.

Durante il ricovero viene praticata terapia di shock: la sindrome depressiva sfuma mentre il sentimento di estraneità permane, andando però in seguito sempre più attenuandosi.

Caso II. G. R., casalinga, nubile.

Si tratta di una ragazza di ventidue anni nella cui anamnesi famigliare si riscontra una zia materna che sofferse di uno stato maniacale. Una zia paterna è oligofrenica.

La paziente è la prima di due figli, il fratello morì in un incidente stradale.

Sviluppo somatico regolare; mestruata a quindici anni, in seguito il flusso mestruale fu sempre normale.

Sviluppo psichico, per quanto riguarda l'aspetto intellettivo, come di norma: frequentò le scuole elementari e due classi medie da cui si ritirò per il sopraggiungere degli attuali disturbi.

Sofferse a dieci anni di nefrite; a dodici di infiltrato polmonare specifico, curato con streptomicina e dal quale, dopo alcuni mesi, guari clinicamente.

I parenti riferiscono che la paziente nella prima infanzia fu una bambina sempre molto timida, buona, diligente nello studio e, come caratteristica particolare, dimostrava una tendenza alla solitudine ed una certa precocità nella riflessione. Introspettiva, analizzava fin da piccola i propri sentimenti con una maturità superiore alla sua età.

A nove anni ebbe a subire un grave trauma psichico al quale la paziente ha, in seguito, sempre riferito l'origine della propria «malattia»: in tale epoca, infatti, mentre custodiva il fratellino di cinque anni più giovane di lei, questi, sfuggendo al suo controllo, fu investito da un veicolo trovandovi la morte. Tale crudele avvenimento non provocò in lei reazioni che normalmente si riscontrano in chi si sente responsabile di un simile incidente: i parenti notarono, piuttosto, un accentuarsi della tendenza all'isolamento, atteggiamento, come si è visto, caratteristico della paziente, ed un certo disinteresse per il mondo che la circondava. Incominciò a prestare sempre minor interesse per la scuola e per gli altri suoi piccoli doveri, diventando sempre più trasandata e disordinata.

La paziente che ben ricorda questo periodo della sua vita, oltre a confermare quanto detto dai parenti, afferma che, circa in quel periodo, si fece più introspettiva, era colta da sensazioni vaghe e imprecisate, tutte cose però che essa cercava di dissimulare davanti ai genitori. Dopo circa un anno, tale condizione incominciò a turbare profondamente la ragazza che era presa da stati ansiosi, da manifestazioni cenestopatiche, da un senso di profonda astenia, indifferenza, tanto da costringerla a dodici anni a sospendere gli studi. L'introspezione mutò allora in un'incessante autoanalisi che la spingeva ad affrontare problemi di natura metafisica e, in breve tempo, si evidenziarono, dapprima in forma appena abbozzata, in seguito sempre più evidente, fenomeni di depersonalizzazione.

Tutto il quadro aveva il carattere di una sindrome fobico-ossessiva che, a mano a mano, veniva strutturandosi in tal senso; in maniera parossistica la paziente era presa da violenti stati ansiosi accompagnati da un intenso corteo vegetativo e, in varie epoche, si mostravano dei quadri depressivi reattivi rappresentati da un rallentamento, specie ideativo, svogliatezza, abulia e soprattutto incapacità ad indirizzare la propria potenza affettiva. La paziente, infatti, ci dice che il suo dramma è quello di non poter, né saper soffrire, di non poter essere come gli altri, di non saper odiare né amare e di vivere come in un sogno, come se ogni cosa fosse mutata, cambiata; il vedere le altre persone che camminavano, ridevano, parlavano accentuava il suo stato di irrealtà in quanto non sapeva rendersi conto di come essi potessero agire in quel modo; le sembravano, appunto, delle persone che si muovessero in un sogno. Nessuna cosa, nessun avvenimento piacevole o spiacevole era in grado di smuovere questo suo torpore e la sua reazione era soltanto quella di un grave stato di sofferenza per la mancanza di sofferenza.

Il sentimento di estraneità si rivolgeva, dunque, principalmente verso l'esterno, ma anche verso la propria persona e la paziente si trovava a dire di aver l'impressione di non essere più se stessa e ciò come conseguenza della sua incapacità affettiva. Pur chiusa nel suo dolore, la paziente è loquace, ci illustra con continue metafore ed esempi il suo stato e ci chiede di trarla, in qualunque modo, in salvo da questa «infinita» sofferenza.

La paziente è stata sottoposta al test di Rorschach; il protocollo mostra una personalità psicopatica a sfondo disforico con elementi fobici che caratterizzano il psicogramma. Sono pure presenti elementi depressivi che non si strutturano, peraltro, in un quadro Rorschach di tale genere.

È evidente, dunque, da quanto esposto, trattarsi di una personalità psicopatica nella quale dominano note disforiche ed il cui contenuto è rappresentato da una fenomenologia depersonalizzante e da una reazione depressiva di tipo nevrotico.

Ricoverata nella nostra clinica, viene sottoposta a terapia di shock e a terapie neuroplegiche ma, praticamente, senza sostanziali modificazioni.

I due casi ora descritti mostrano, come è ben visibile, il carattere anormale della loro disposizione affettiva di fondo, una comune base distimica che si struttura, però, in due diverse maniere.

Pur riconoscendo in ambedue questi soggetti una struttura nevrotica o, meglio ancora, un'organizzazione nevrotica della personalità, la vera sindrome depressiva si mostra primaria solo nel primo caso, secondaria invece nel secondo. Mentre, infatti, l'uno soggiace a due crisi depressive tipiche il cui contenuto trova forma nella base stessa del soggetto, nell'altro è la strutturazione nevrotica che ritma ed alimenta una situazione che si cristallizza in senso depressivo, da cui si sviluppano a poussée situazioni catalogabili come depressioni reattive.

Nell'uno e nell'altro caso il contenuto morboso è rappresentato da una fenomenologia a tipo depersonalizzazione, il che costituisce una conferma di quanto si è detto prima dell'illustrazione di questi casi clinici: che la depersonalizzazione, di qualunque tipo essa sia ed in qualunque sindrome es sa si presenti, necessità per svilupparsi di un particolare orientamento dal quale svolgersi e assumere la «forma» delle diverse sindromi di cui essa è espressione.

In particolare, da un punto di vista diagnostico, ci sembra interessante il secondo caso che potrebbe trovare la sua classificazione nella «timopatia ansiosa» di Lopez-Ibor, sindrome del gruppo distimico in cui la strutturazione di fondo nevrotica possiede degli elementi tipici di angoscia malinconica che sono costituzionalmente legati alla personalità del soggetto. In questa sindrome il fenomeno di depersonalizzazione, in particolare allopsichica, è sempre presente e costituirebbe un equivalente delle poussée ansiose che presentano questi soggetti.

Il primo caso, pur possedendo, come si è detto, un particolare fondo abnorme che, in parte, ricorda pur esso la struttura della timopatia ansiosa, da essa si stacca nei due netti episodi di depressione primaria che si separano da qualsiasi strutturazione nevrotica. Tuttavia, pure in questo caso i sentimenti di estraneità sono ben presenti, quasi a dimostrare l'importanza che rappresenta il fondo su cui si sviluppa la sindrome e come essa agisca patoplasticamente permettendo la visualizzazione di tipici fenomeni di depersonalizzazione su base malinconica.

Entrambi i casi, dunque, comproverebbero la nostra ipotesi circa la necessità della presenza di una particolare base, su cui dominano introspezione ed autoanalisi, per l'evidenziarsi del fenomeno di depersonalizzazione in sindromi del gruppo distimico.

Come si è visto, le varie supposizioni psicopatologiche su cui ci siamo a mano a mano soffermati e che sono state, a nostro avviso, convalidate dalla presentazione dei casi clinici illustrati, ci portano al problema da noi prospettato all'inizio: sentimenti di estraneità del mondo, del corpo, dell'Io, se riscontrati in sindromi del gruppo distimico, sono riferibili al fenomeno di depersonalizzazione o sono piuttosto da considerarsi come situazioni aventi con essa rapporti solo apparenti?

Accettando il termine di «derealizzazione» proposto al proposito, noi avremmo già trovato una risposta al quesito, in quanto, come si sa, sotto tale termine sono indicati tutti quei vaghi, indefiniti sentimenti di irrealtà riguardanti l'Io, il cor po e l'ambiente, sentimenti conseguenti alle oscillazioni del tono dell'umore e, come tali, coinvolgenti la «coscienza degli oggetti» e, solo marginalmente, la «coscienza dell'Io» la cui compromissione, come è noto, è indispensabile per poter parlare di depersonalizzazione. Non si potrebbe di conseguenza, riferirsi alla vera depersonalizzazione parlando di sindromi distimiche in quanto non viene riconosciuta in questi sentimenti di estraneità alcuna spersonalizzazione, essendo essi rivolti prevalentemente al mondo degli oggetti e non riguardanti specificamente l'Io.

La sola depersonalizzazione autopsichica, perciò, viene ad essere riconosciuta come «vera» depersonalizzazione e considerata come espressione dell'esperienza delirante schizofrenica. In tal modo, il fenomeno di depersonalizzazione viene, a nostro avviso, snaturato in quanto da fenomeno, quindi fatto aspecifico, in uno dei suoi aspetti, quello autopsichico, è considerato quale fatto specifico, quindi sintomo, primario inderivabile in senso jasperiano e, come tale, appartenente alla processualità schizofrenica.

Accordiamo del tutto con Ey quando afferma, a tal proposito: «Si assimila sovente l'esperienza di depersonalizzazione alla patologia della personalità schizofrenica: è un grave errore che può avere delle funeste conseguenze pratiche. Se la depersonalizzazione - continua Ey - fa parte della esperienza delirante schizofrenica, essa non costituisce un sintomo specifico perché si riscontra ben più sovente nelle psicosi deliranti acute. Quando si parla, al contrario, di turbe della personalità nella schizofrenia si intende una disgregazione dell’essere psichico che è del tutto caratteristica».

Accettando, dunque, queste importanti affermazioni di Ey sembra di ridare alla depersonalizzazione la sua veste primitiva, quella cioè di essere «fenomeno» e non soltanto «sintomo», pur riconoscendo però che un fenomeno può diventare sintomo se noi assumiamo come causale il fatto che sta alla sua base, se non scorgiamo in esso, cioè, un aspetto che può rapportarci ad un giudizio diagnostico. Ciò, tuttavia, riguarderebbe in particolare la depersonalizzazione autopsichica: non vediamo, però, per quale ragione non dovremmo considerare alla stessa stregua anche l'aspetto somato e allo-psichico della stessa se riscontrati in una sindrome dissociativa, in quanto essi pure rappresentano l'espressione della dislocazione dell'Io nei confronti della realtà e del proprio corpo.

Per quanto si è detto, dunque, ci sembra opportuno conservare nei riguardi della schizofrenia la denominazione di depersonalizzazione somato e allopsichica (a parte, naturalmente, la autopsichica), poiché, in ultima analisi, esse sono tutte espressioni di un'alterazione della «coscienza dell'Io». Cosi la distinzione fra depersonalizzazione e derealizzazione viene a cadere, in quanto il termine di derealizzazione non risulta a nostro avviso né maggiormente esplicativo né di più evidente utilità pratica. Ciò in particolare per la schizofrenia, dove la «derealizzazione» viene ad assumere un significato del tutto diverso.

Sul concetto di «derealizzazione», infatti, abbiamo altrove discusso, sebbene partendo da presupposti diversi, giungendo alla conclusione che la «derealizzazione» fa parte integrante della disgregazione schizofrenica, e più che come sintomo primario sarebbe catalogabile come sintomo secondario. Nella «derealizzazione» lo schizofrenico vive la realtà in maniera del tutto particolare: egli, pur percependola normalmente, toglie ad essa il carattere del «reale» e tende, a mano a mano che il suo mondo va strutturandosi, al vago, all'inesistente; distrugge quindi la percezione oggettiva e, decatizzandola, determina la neoformazione di un pensiero che supplisce la normale attività psichica.

In tale modo è ben visibile quanto il nostro concetto di «derealizzazione» sia lontano e non coincida certo con quello che viene riferito, usualmente, a tale termine. La «derealizzazione», dunque, nel modo in cui la intendiamo, fa parte del delirio schizofrenico, il che non corrisponde ad alcun aspetto della depersonalizzazione che rappresenta, semmai, un sintomo precedente l'invasione psicotica e può avere, soltanto in embrione, dei caratteri in tal senso: la depersonalizzazione, infatti, è per definizione uno stadio, un fenomeno nel quale il soggetto è consapevole della distanza fra sé ed il proprio corpo, il proprio mondo, il proprio Io.

Se riconosciamo, dunque, come d'altra parte è universalmente riconosciuta, la possibilità che la depersonalizzazione possa rappresentare l'ingresso di una processualità schizofrenica, egualmente può accadere che essa sia sintomo premonitore di una sindrome depressiva. Ripetiamo, ancora una volta, a tal proposito, le parole di Mayer-Gross: «Quando la sindrome malinconica o schizofrenica si aggrava, la depersonalizzazione svanisce per lasciar posto al delirio».

Se ci riferiamo, però, all'estraneità su base affettiva, il problema si presenta in modo diverso da quello considerato per la schizofrenia. Tale tipo di estraneità è determinato dai diversi rapporti che vive l'Io oppresso dal disordine affettivo, tale che l'ideazione si orienta conseguentemente ed il contenuto sentimentale della percezione viene ad essere, in forma più o meno manifesta, misconosciuto, «negato». Se il malinconico afferma, con le note metafore, un sentimento di scomparsa cosciente della realtà, del proprio corpo, dell'Io, dobbiamo forse avvicinarlo a quello dell'estraneità schizofrenica? Certamente no. Se, come si è visto, il prodursi del delirio in queste due psicosi possiede una diversa dialettica, logicamente il sentimento di estraneità che può precederle si produrrà con due diverse modalità: quella schizofrenica parte direttamente da una primaria dislocazione dell'Io, l'altra coinvolge perifericamente l'Io, determinando come una paralisi temporanea della personalizzazione, una specie di diaschisi, uno stupore nel quale il malato vede allontanarsi, vivendolo come non suo, il proprio mondo, il proprio corpo, il proprio Io. L'approfondirsi del disturbo affettivo, a mano a mano che precipita, porta alle estreme conseguenze tale situazione finché l'Io viene coinvolto in un delirio, permettendo cosi lo svolgersi della negazione nel suo aspetto mostruoso: la negazione dell'organo, della realtà, di se stesso fino al delirio delle negazioni.

Come si vede, anche la depersonalizzazione nella malinconia riconosce un'alterazione dell'Io che, attraverso un primitivo turbamento dell'affettività, determina uno squilibrio della personalizzazione, una compromissione, anche se transitoria, della coscienza dell'Io, in particolare dell'Erlebnis di attività.

L'affettività, come si è detto, può essere considerata come l'armatura della personalità: essa è, infatti, un'attività costantemente in fermento e, lasciata a se stessa, senza il controllo della razionalità, può giungere a determinare quei singolari fenomeni, espressioni di un atteggiamento negatorio, quali la depersonalizzazione, che si possono complicare in quei «falsi giudizi» che sono i deliri di negazione. Ecco per che, anche per la malinconia, riteniamo logico mantenere il termine di depersonalizzazione per tutti e tre i suoi aspetti, e non quello di derealizzazione, termine che, se in apparenza può sembrare maggiormente esplicativo, può creare degli equivoci.

La depersonalizzazione, dunque, quale disturbo della personalità, è un «fenomeno», fenomeno che può declinarsi in «sintomo» sia schizofrenico che malinconico, espressione di un'alterazione della coscienza dell'Io, sia essa rivolta verso il mondo esterno, verso il corpo o verso l'Io stesso.

Note

1 Manteniamo, per ora, la denominazione di «derealizzazione» se pure altrove non l'abbiamo accettata, usandola soltanto come termine, in questo caso esplicativo, e non come concetto.


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