1.
Chiunque si interessa di psichiatria sa che le critiche avanzate nei confronti di questa singolare specialità medica a partire dalla metà degli anni ’60, confluite poi in un eterogeneo movimento denominato antipsichiatria, erano più che giustificate. Purtroppo, per motivi storici, l’attenzione dell’opinione pubblica è venuta a focalizzarsi su di una parte di quel movimento, che in Italia ha portato avanti con grande coraggio ed efficacia la lotta contro l’istituzione manicomiale. Paradossalmente, l’affermazione di tale movimento, comprovata dall’approvazione e dall’entrata in vigore della legge 180, ha segnato il tramonto e la fine dell’antipsichiatria.
Si è ritenuto, infatti, in Italia che, dopo l’entrata in vigore della legge, non avesse più senso portare avanti un discorso teorico. Si trattava di darsi da fare per metterla in atto, confidando nel fatto che la pratica territoriale, affrancata dalla logica istituzionale, avrebbe finito con il produrre una nuova cultura sui problemi della salute mentale e del disagio psichico.
C’era in questa impostazione qualcosa di molto ingenuo. Non faccio riferimento qui solo al volontarismo pragmatico, ad un’ideologia movimentista più che riflessiva, o al presupposto esiziale in nome del quale, nell’attesa che la scienza giungesse a decifrare le cause ultime del disagio psichico, l’obiettivo da privilegiare era quello di consentire ai pazienti di convivere con la malattia e di mantenere un certo grado di integrazione sociale. L’ingenuità dell’approccio basagliano consisteva nel ritenere possibile che la pratica assistenziale sul territorio, attraverso il coinvolgimento della società, producesse una nuova cultura sulla salute e sulla malattia mentale.
Basaglia riteneva giustamente che ogni esperienza di disagio psichico sommasse due diversi fattori: un fattore sociale e uno psicologico-esistenziale (o al limite neurobiologico). Nel contempo, egli valutava il primo, dovuto all’interazione di ogni soggetto con le istituzioni, come preminente e tale, con la sua “crosta”, da impedire di valutare adeguatamente ciò che esso nascondeva. Solo togliendo via l’incrostazione sociale, dal suo punto di vista, sarebbe stato possibile capire che cosa era la malattia in sé e per sé.
In questa ottica, ogni tentativo di teorizzazione psicopatologico si poneva, ai suoi occhi, come una mistificazione o un esercizio sterilmente intellettualistico.
Quanto abbia pesato questa pregiudiziale basagliana sull’antipsichiatria è noto. Esso ha avviato il movimento anstistituzionale sul terreno del pragmatismo e del volontarismo, e ha riverberato una luce sinistra su chiunque, pur partecipando al movimento, non intendeva rinunciare a riflettere teoricamente sulle esperienze di disagio psichico.
Efficace nello smantellamento del manicomio, la strategia basagliana ha cominciato a rivelare i suoi limiti quando essa, in conseguenza della legge 180, si è estesa al territorio. Qui, infatti, la contraddizione intrinseca alla pratica antistituzionale che, pur liberalizzando la vita dei pazienti manicomializzati, non aveva mai rinunciato all’uso (pur contrattato e non punitivo) degli psicofarmaci, è venuta ad urtare contro il bisogno di controllo sociale espresso dalle famiglie dei malati e da cittadini. Il messaggio, proprio del basaglismo, di convivere con la malattia, di fatto bon gré, mal gré è stato accolto dal corpo sociale, ma subordinato al fatto che, sia privatamente che pubblicamente, i pazienti non arrecassero troppo fastidio.
Il controllo sociale, teoricamente rifiutato come espressivo di una logica istituzionale o normalizzante, ma di fatto accettato in nome della necessità di non suscitare reazioni ostili alla legge, si è tradotto gradualmente in una pratica che mantiene, in genere, nei confronti dei pazienti, un atteggiamento di rispetto e di partecipazione umana, ma comporta un uso degli psicofarmaci indistinguibile da quello fatto dai neopsichiatri.
A ciò occorre aggiungere un’altra circostanza, ampiamente prevista. L’utenza territoriale è in gran parte caratterizzata da problemi psichiatrici piuttosto seri, che rientrano nell’ambito delle psicosi (maniaco-depressiva o schizofrenica), i quali insorgono caratteristicamente in una fascia di età che va dai 15 ai 30 anni. Esclusi rari casi di guarigione, convivere con la malattia per questi pazienti significa tenersi sotto cura per più decenni.
Dato che al servizio territoriale arrivano sempre nuovi casi, era prevedibile che, lentamente, il numero degli assistiti avrebbe saturato e ecceduto le risorse degli operatori.
Questo è regolarmente accaduto e si è tradotto in affannosi tentativi di rispondere ad una domanda crescente di cura e di controllo sociale, che sono infine refluiti in un aumento delle prescrizioni farmacologiche.
Questa gestione del disagio psichico si differenzia da quale neopsichiatrica solo per una maggiore attenzione nei confronti del paziente come persona, dei suoi bisogni di socializzazione, che vengono soddisfatti attraverso i centri diurni, i soggiorni estivi, le feste, ecc., e dei bisogni economici, che vengono alimentati da sussidi, borse-lavoro, ecc.
Nel complesso, non è poco, ma, in rapporto allo spirito della Legge 180, non è neppure molto. Una nuova cultura sulla salute e sulla malattia mentale è di là da venire, il pregiudizio sociale persiste, avallato anche da ricorrenti episodi di cronaca nera, e l’esistenza dei pazienti si svolge, in ultima analisi, su di un registro di pseudonormalità.
A conferma di tutto questo riproduco un articolo (di Sandro C. sacappan@tin.it) comparso su uno dei pochi siti (www.nopazzia.it) che in Italia tengono viva la fiaccola dell’antipsichiatria. Si tratta di un articolo scritto con il cuore, scarsamente curato sotto il profilo stilistico, ma i cui rilievi critici sono in gran parte condivisibili.
Franco Basaglia ha condotto ai suoi tempi, anni 1965-80, una grande battaglia sociale culturale politica e medica.
La sua battaglia, d'avanguardia a livello mondiale, è stata l'apertura dei manicomi, il togliere la costrizione a star chiusi dentro, l'apertura dei cancelli. Quindi lo smantellamento degli stessi manicomi - solo l'inizio purtroppo perché Basaglia è deceduto prematuramente nel 1980.
Questa apertura dei cancelli, i pazzi che andavano quasi del tutto liberi in giro per Gorizia e Trieste, erano in quegli anni in grande evidenza sui giornali e sulle televisioni di tutto il mondo.
Questa novità mondiale era basata sulla teoria e prassi basagliana della "libertà come terapia" e anche (un pò più in sordina) del "rispetto dei diritti", di noi 'pazienti mentali'.
Franco Basaglia riteneva che lasciarci liberi, cioè aumentare il più possibile il nostro margine di libertà fino appunto ad uscire parzialmente o definitivamente dal luogo di reclusione, prendere decisioni autonome, ecc., aumentasse di molto le nostre possibilità di ritornare con i piedi per terra, di 'guarire'. Magari discutendo tutti assieme 'pazzi' medici e infermieri quasi ogni cosa in assemblea. C'erano di fatto negli ospedali basagliani assemblee pressoché permanenti di medici infermieri pazienti .. quasi in ogni momento per discutere insieme qualsiasi problema. Come del resto c'erano assemblee continue in Inghilterra nei luoghi curati da Ronald D. Laing.
Il grosso della battaglia di Franco Basaglia è stata non tanto di tipo medico quanto piuttosto di tipo politico. Su più fronti. Contro gli infermieri che non volevano cambiare il loro tran tran in particolare continuare con le costrizioni; contro gli psichiatri dei suoi ospedali e di fuori che volevano sempre continuare con il tran tran e la loro prassi principale delle diagnosi-e-cura di tipo medico; contro i politici locali impauriti dei pazzi in giro; con i politici di professione per modificare le leggi statali .
Per quanto riguarda l'azione curativa, l'aspetto medico, se ci fosse una malattia sottostante o meno da curare medicalmente, era messo in secondo piano, addirittura "messo tra parentesi", cioè non considerato, rispetto l'aspetto principale della "liberazione come terapia" e delle "assemblee come mezzo/metodo" "rispettando i diritti dei pazienti". La liberazione le assemblee i diritti costituivano il nucleo della iniziativa di Basaglia. Però gli psicofarmaci, da alcuni anni introdotti massicciamente, erano somministrati anche negli ospedali di Basaglia, per quanto cercando di non esagerarci.
La tecnica "curativa" di Basaglia - la liberazione dalle costrizioni, il ridarci la parola nelle assemblee, il ridarci diritti, il restituirci alla società - funzionavano. Molti di noi resuscitavano alla vita pienamente, altri barcamenandosi, ancora un pò attutiti dai farmaci.
Nelle critiche a Franco Basaglia da parte degli psichiatri tradizionalisti si è sostenuto che l'operazione di liberazione fosse diventata possibile solo per l'uso sistematico di psicofarmaci, solo questo rendeva non più necessaria la reclusione. In realtà gli psicofarmaci negli ospedali basagliani non erano usati di più rispetto ai luoghi non-basagliani. A molti pazienti gli psicofarmaci erano tolti nei luoghi di reclusione in via di apertura e molti dei liberati rinviati nella società erano senza prescrizioni di farmaci.
Ma comunque l'aspetto politico, ripetiamo su più fronti - contro gli infermieri che non volevano cambiare il loro tran tran in particolare continuare con le costrizioni, contro gli psichiatri dei suoi ospedali e di fuori che volevano sempre continuare con il tran tran e la loro prassi principale delle diagnosi-e-cura di tipo medico, contro i politici locali impauriti dei pazzi in giro; con i politici di professione per modificare le leggi -, è stato prioritario nell'operazione basagliana di smantellamento dei manicomi.
E l'intelligenza politica di Basaglia giostrandosi e contrapponendo i molti fronti - gli infermieri contro gli psichiatri, i 'pazzi' contro i 'medici', i politici locali contro i politici parlamentari, i mass media contro lo stigma, è stata molto acuta, il suo autentico capolavoro.
Purtroppo per noi, 'pazienti' di ora - anno 2000 -, per condurre queste battaglie politiche interne ed esterne, Basaglia ha fatto dei compromessi, delle concessioni, che allora erano capolavori politici ma ora per noi sono macigni.
Anzi macigni giganteschi.
Il più grave dei compromessi /concessioni attuate da Basaglia risulta ora, ad avviso di chi scrive ma anche alle associazioni internazionali utenti/sopravvissuti, il non aver Basaglia affatto messo in dubbio nè tanto meno nemmeno un pò delegittimato formalmente la psichiatria quale branca della medicina. La psichiatria quale unica professione competente per curarci. Altri psichiatri che conducevano altrove nel mondo una battaglia parallela di liberazione dai manicomi, tra cui essenziale Ronald D. Laing in Inghilterra sul piano pratico-teorico e Thomas S.Szasz negli Usa principalmente su piano teorico, mettevano profondamente in discussione i fondamenti stessi della psichiatria, che ci fosse una vera malattia medica del cervello. Questo Franco Basaglia non ha mai fatto esplicitamente.
Per chiarire:
Dal punto di vista "curativo", di azione curativa rispetto i suoi pazienti, tutta l'opera di Basaglia è stata non-medica, quindi non-psichiatrica se per psichiatria si intende una branca della Medicina, dato che era esclusivamente fondata sulla "liberazione", sul "riconoscerci diritti", sulle "assemblee plenarie". Non c'era pressoché niente di medico nella parte originale dell'opera curativa di Basaglia - per quanto per così dire "sottomano" dato che non risulta affatto rilevato nelle relazioni e dibattiti come parte importante dell'opera basagliana, parallelamente psicofarmaci fossero assegnati in molti casi, dai suoi sottoposti o da lui personalmente.
Di fatto Basaglia diceva agli psichiatri: "basta che usate la terapia della liberazione e siete con me". Il compromesso era ed è "siete sempre e soltanto voi psichiatri i competenti, però aggiornatevi ed usate la terapia della liberazione, la liberazione dalle costrizioni, le assemblee.".
Ma la novità della sua terapia, ripetiamo, era non-medica. Avrebbe anche potuto, come avevano fatto altri psichiatri quali appunto Thomas Szasz negli Usa e Ronald D.Laing e David Cooper in Inghilterra, fare un altro piccolo passettino e se non proprio dichiarare l'incompetenza di fondo della psichiatria quale branca della medicina (Szasz), comunque avanzare dubbi consistenti su tale competenza (Laing - Cooper), dato che prove misurabili di danni al cervello non risultavano, e dato che nel grosso dei suoi casi nei suoi ospedali non era la medicina che usava, ma il dialogo la liberazione i diritti le assemblee.
I farmaci non erano dati per-sempre ma cercando di toglierli in moltissimi casi. Quanto nel metodo basagliano siano stati opportuni i farmaci o se non erano veramente necessari, o se potevano essere tolti subito, è oramai acqua passata.
Per quanto per un giudizio distaccato storico sull'operazione Basaglia, sul valore terapeutico della liberazione come terapia, delle assembleee come terapia, del concedere i diritti come terapia, la questione dei farmaci somministrati è senz'altro importante e non ci pare che sia stata abbastanza studiata.
Però l'opera di Basaglia è stata tutta condotta con la mira, lo scopo, l'obbiettivo essenziale, dello smantellamento dei manicomi, anche come operazione di per sé terapeutica, anche come operazione di per sé eticamente giusta e culturalmente e legalmente necessaria, non come studio sperimentazione medico-psichiatrica.
A Franco Basaglia interessava lo smantellamento dei manicomi come prioritario, questo lo ha ottenuto. Gli se ne deve rendere merito.
Ma ora che i manicomi sono smantellati la situazione è diversa. In che consiste la terapia della liberazione ora, in che rapporto con i farmaci?
Non c' è più un muro da abbattere, dei cancelli da aprire. La terapia principale basagliana, la liberazione, non è più attuabile. Le assemblee, anche dato che non c'è più un luogo di soggiorno obbligato, non ci sono più. Il sistema dei Distretti di Salute Mentale (DSM) obbliga di fatto lo psichiatra a fare il procedimento inverso alla liberazione, non liberazione ma richiamarci e controllarci e psicofarmacizzarci nel DSM. Di fatto un controllo poliziesco.
I diritti sono quasi sempre totalmente calpestati o aggirati con minacce e menzogne, proprio per la necessità di controllarci sul territorio. Non c'è la libertà di scegliere l'equipe di cura, se statale, dato che non si può cambiare DSM, a meno che non se ne prenda uno psichiatra privato.
Prendere i farmaci, di fatto per sempre, o altrimenti Tso ! è il ritornello corrente, nel pubblico e nel privato. Con minacce di molti tipi e anche ricatti e anche menzogne
Gli psichiatri che si dichiarano e cercano di essere basagliani, privati dalla possibilità di attuare la terapia base basagliana, di fatto non si distinguono quasi in niente dagli altri psichiatri.
Una maggiore attenzione ai nostri problemi, forse. Ma sempre il farmaco come mezzo principe necessario in ogni caso cioè nel 99% dei casi.
Non avendoci sempre sotto gli occhi e non potendo liberarci, hanno paura. Come tutti gli altri psichiatri, hanno paura di nostri possibili misfatti, di rimetterci in tal caso di carriera. D'altra parte anche i familiari richiedono cure quanto più possibile. Dato che la psichiatria basagliana non ha mai avuto il coraggio di dichiarare ai familiari e al grosso pubblico che ci sono dubbi sostanziali sui fondamenti stessi della psichiatria, dato che gli psichiatri basagliani si sono sempre dichiarati essenziali come medici, essi debbono "curare" medicalmente come gli altri psichiatri. Come gli altri psichiatri minimizzano ai familiari ai pazienti i danni a lungo termine prodotti dai farmaci, le assuefazioni, i rischi gravi per il corpo e la mente. Mentono anche a se stessi, su questi danni che ci procurano?
Difatti gli psicofarmaci si sono rivelati tutti sul lungo periodo nettamente deleteri, sia gli antidepressivi che i tranquillanti minori che gli antipsicotici, sia i vecchi che i nuovi.
E parallelamente non si sono trovate a tutt'oggi anno 2004, prove minimamente consistenti di effettivi danni al cervello per nessuna delle cosiddette "malattie psichiatriche maggiori" - schizofrenia, mania , maniaco-depressione, depressione -. Le teorie psichiatriche proposte si sono tutte successivamente rivelate infondate alle misure. Gli psichiatri - e l'industruia farmaceutica dietro essi - rilanciano continuamente nuove teorie ma a tutt'oggi sempre basate su sole ipotesi. Le misure sono tutte con grandissimo errore di misura o inattendibili come procedura o fraudolentemente dati taciuti dall'industria farmaceutica. Sempre senza misure solide comprovanti.
La antipsichiatria ritiene perciò che siano sempre solo grossi castelli di carte, castelli costruiti come quelli fatte con le carte da gioco. Castelli di congressi relazioni pubblicazioni tutti basati su ipotesi ma inconsistenti, castelli di carte da gioco, contrabbandati per veri.
Il non aver la psichiatria basagliana avanzato dubbi sui fondamenti medici della psichiatria si rivela ora una trappola. I familiari chiedono cure, chiedono cure. I basagliani non possono confessare che ci sono dubbi sostanziali, che sia tutto un castello per aria, che la competenza della medicina sia in dubbio, che molto meglio dare pochissimo o per poco tempo o non dare affatto farmaci. Di fronte ai familiari, sono prigionieri del loro stesso vantarsi medici competenti. Che la medicina sia competente. Non hanno il coraggio di riconoscere e dichiarare che loro possono meglio 'guarire' non tanto in quanto medici, quanto soltanto come persone che si interessano dei problemi di vita - non medici! - del paziente. Che quanto più fanno i medici - danno farmaci - tanto più aumenta il rischio di danneggiare permanentemente il paziente.
Ora in Italia da una parte ci troviamo con psichiatri con prestigio aumentato nei media dai buoni risultati di Basaglia, buoni risultati in grande risalto non solo negli anni 70 - 80 ma tutt'oggi, da una altra parte con un grosso di psichiatri che sono tutt'altro che basagliani. E quei pochi basagliani che ci sono non possono più applicare i metodi del maestro
Simultaneamente ci troviamo, in questo pari al resto del mondo, con una industria degli psicofarmaci che gestisce bilanci ultramiliardari. Industria farmaceutica che bada solo a vendere, a trovare partners e appoggi per la propaganda per le vendite. Gli psichiatri si sono rivelati partners ideali dell'industria farmaceutica. Privi di veri mezzi terapeutici, gli psichiatri hanno trovato nelle pillole vantate miracolose dall'industria una provvida sponda, un approdo alle totali incertezze. Un trave nel mare in tempesta a cui, naufraghi, si sono aggrappati disperatamente, acriticamente. A un male enigmatico ed imprevedibile la farmacoindustria ha trovato un rimedio che almeno apparentemente, almeno dapprincipio, funziona !..
Che per convincerere e vendere l'industria farmaceutica inquini pesantemente non solo l'informazione ma anche la stessa ricerca medica, questi naufraghi non sono in grado di controllarlo
Ad es. c'è una informazione completamente distorta sulla bontà degli psicofarmaci antidepressivi. In realtà si tratta di sostanze subito assuefacenti e nient'altro che droghe sintetiche euforizzanti. Addirittura "associazioni benefiche" costruite ad hoc, le vanno a reclamizzare in Italia nelle scuole statali come da prendere al più presto al primo giù di umore.
Ma anche congressi e pubblicazioni scientifiche sono ampiamente controllati dall'industria farmaceutica. I "contributi scientifici" dei ricercatori sotto paga o sovvenzioni o agevolazioni dell'industria farmaceutica, sminuiscono al massimo gli ampi e notevoli danni procurati in realtà dagli psicofarmaci.
In particolare per gli psicofarmaci antipsicotici si minimizza fino a mentire sulla assuefazione che presto inducono, sulla debilitazione fisica e mentale, sulla riduzione della vita media, sul rendere in molti casi disabili.
Il connubio tra buon nome della psichiatria in Italia quale risultato dell'operazione storica basagliana, sommato alle ampie distorsioni ed inquinamento dell'industria farmaceutica, sommato alla maggioranza di psichiatri non-basagliani, rende attualmente di fatto i 'pazienti' dei Servizi di Salute Mentale italiani, tra quelli al mondo con meno probabilità di ritornare se stessi e persone valide.
Purtroppo infatti i familiari e gli amici sono completamente ingannati dal buon nome della psichiatria italiana e dai media (televisione, libri, giornali). Media (televisione, libri, giornali) pure loro ancora succubi del buon nome degli psichiatri a causa dell'operazione basaglia, ma anche, riteniamo, succubi di manovre dietro le quinte condotte dai peggiori connubi tra industria farmaceutica e certi psichiatri. Come mai infatti nella televisione compaiono sempre psichiatri che sostengono gli psicofarmaci a spada tratta, nonostante che nella letteratura scientifica grossi dubbi in proposito escono fuori ogni giorno?
Inoltre gli psichiatri tradizionali hanno trovato molti modi e maniere di aggirare la legge promulgata sotto l'influenza dell'operazione basaglia - la legge 180 del 1978, poi 833 - svuotandola di fatto di significato, di senso, di azione.
Dai sedicenti "Servizi di Salute Mentale" statali, siamo perennamente 'attutiti', 'sedati', debilitati, anzi in gran parte dei casi resi disabili dalle 'cure' farmaceutiche psichiatriche. Che si prolungano di regola a vita. Nelle cliniche private spesso anche peggio, spesso anche ancora l'elettrochoc !
Dove ci aiutano ora i pochi psichiatri basagliani? Costretti anche a convivere sotto lo stesso tetto di DSM con psichiatri tradizionali . E dato che quest'ultimi sono è vero senz'altro peggiori dei basagliani dato che molto restii a "prendersi cura" di noi per problemi di vita come invece tentano talvolta i basagliani, però sono molto pronti questi colleghi a scavalcare nella graduatoria burocratica il basagliano. E questo può avvenire se il paziente, poco 'attutito', fa la minima mossa pericolosa "a sé e agli altri". Tutti gli psichiatri vivono nella paura continua che il paziente da lui in cura possa recare danno "a sé o agli altri". Con questa paura e questa situazione uno psichiatra basagliano è costretto a fare come gli altri, ad 'attutirci' perennamente con i farmaci come unica sostanziale azione.
La terapia della liberazione, l'attenzione ai problemi di vita del paziente, roccaforti basagliane, vanno a farsi benedire. Anche a causa della ristrettezza dei mezzi economici.
Ma secondo chi scrive la paura dei danni alla carriera se noi non attutiti è predominante. Nei fatti lo psichiatra sé dicente basagliano nella somministrazione degli psicofarmaci per-sempre non si distingue dagli altri psichiatri.
Tranne rarissime mosche bianche coraggiose .. che non si sa nemmeno se ci sono oramai più.”
2.
L’articolo è impietoso, ma sostanzialmente corrispondente alla verità. La cosiddetta psichiatria alternativa, che intendeva porsi come una sorta di terza via tra la psichiatria tradizionale e l’antipsichiatria, non è ormai solo minoritaria sul territorio nazionale. Essa mantiene una qualche dignità, riconducibile ai principi umanitaristici cui si ispira, ma, nella pratica, è costretta ad accettare le dure leggi della realtà, vale a dire a farsi garante anzitutto delle esigenze di controllo sociale.
Se c’è una lacuna nell’articolo, essa concerne il ruolo svolto, nell’arretramento del movimento antistituzionale italiano, dalla neopsichiatria, che si è potuta avvalere dell’”aiuto” generosissimo offerto dalle industrie psicofarmacologiche. Tale lacuna, peraltro, è ampiamente colmata da altri articoli pubblicati sul sito in questione.
Occorre, dunque, a venticinque anni dall’entrata in vigore della legge 180, prendere atto che sul territorio nazionale (oltre che a livello mondiale), la pratica psichiatrica è egemonizzata dall’orientamento organicista e che la cosiddetta psichiatria alternativa si è ridotta ormai ad un orientamento vagamente umanitaristico, contraddetto dal fatto che la malattia viene affrontata comunque sul piano psicofarmacologico.
In questa situazione, che destina alla cronicizzazione un numero rilevante di pazienti “psicotici”, ai quali viene offerta solo l’alternativa di “vivere con la malattia”, la quale risulta giustamente, a mio avviso - intollerabile per un 10% che si suicida, il rilancio dell’antipsichiatria sembra necessario. Si tratta di capire su quali basi può avvenire tale rilancio.
E’ ovvio anzitutto che il recupero del pensiero antipsichiatrico degli anni ’70 non può avvenire che su di una base critico-dialettica. Questo significa essenzialmente tenere conto degli autentici progressi che esso ha prodotto sul piano dell’analisi del rapporto tra normalità e follia e su quello dell’interpretazione soggettiva, familiare e sociale dei fenomeni psicopatologici. Per questo aspetto, pochi dubbi si possono avere riguardo al fatto che quei progressi riconoscono come figure di riferimento Th Szasz e Ronald D. Laing, i cui testi vanno riletti e approfonditi.
Occorre invece mettere tra parentesi gli eccessi ideologici dell’antipsichiatria storica, riconducibili ad una sorta di ossessione antiborghese. E fuori dubbio che la civiltà borghese, privilegiando la razionalità e il controllo sulle emozioni, ha rappresentato un progresso sulla via dell’autodisciplina e delle buone maniere pagato al prezzo di una progressiva rinuncia, dapprima conscia poi inconscia, all’autenticità. Via via che essa è evoluta storicamente, la rimozione dell’interiorità è divenuto un meccanismo sempre più funzionale a raggiungere uno statuto di normalità senza sforzo. L’estensione dell’ideologia borghese alle fasce sociali emergenti (ex-contadini inurbati, ex-artigiani e commercianti divenuti impiegati, ecc) ha prodotto infine la mentalità piccolo-borghese, vale a dire una mentalità incentrata sulle apparenze (decoro, onore, rispettabilità), privatistica, egoistica e diffidente.
Stigmatizzare il presupposto antropologico quello, recepito da Freud, secondo il quale la natura umana è egoista e antisociale che è alla base della civiltà borghese è, ancora oggi, sacrosanto, come pure criticare il culto delle apparenze dietro le quali non si dà né interiorità né sviluppo della personalità.
Ciò detto, rimane il fatto che l’antipsichiatria del passato confondeva le forme sociali in cui gli uomini si ritrovano a vivere, senza disporre di strumenti atti a metterle in discussione, e le persone stesse, che, nella misura in cui erano borghesi, venivano investite da un disprezzo radicale.
L’antipsichiatria oggi non può prescindere dal farsi carico della critica delle ideologie sociali che intrappolano e mortificano lo sviluppo della personalità umana, alimentando tale critica sulla base delle conseguenze che quelle ideologie hanno a livello psicopatologico. Essa però non deve però ricavare da quella critica un giudizio di valore delle persone che vivono entro i recinti mentali delle ideologie. Contestare lo stigma psichiatrico dell’anormalità, non significa rovesciare tale stigma sulla normalità.
Un principio di fondo dell’antipsichiatria oggi riguarda lo statuto comunemente e inesorabilmente mistificato della coscienza umana. Posto che tale statuto è riconducibile a esigenze imprescindibili dal funzionamento della coscienza (la semplificazione della complessità del reale, la generalizzazione, il mantenimento della coesione e dell’unità dell’io, ecc.), si tratta di procedere a valutare, nel nostro contesto sociale, il tipo e il grado della mistificazione che caratterizza la coscienza normale, e di riconoscere quanto di mistificato si dà anche nell’organizzazione della coscienza psicopatologica.
Resta fermo ed è un punto fondamentale il fatto che il disagio psicopatologico implica, anche nella totale inconsapevolezza del soggetto, una tensione verso una forma di esperienza più autentica.
3.
Su quest’ultimo aspetto non si finirà mai di riflettere.
Già Freud aveva sostenuto che un’esperienza psicopatologica rappresenta, in realtà, un tentativo di guarigione. Egli però dava a tale assunto un significato particolare. Il tentativo di guarigione in questione, infatti, si riconduceva alle difese inconsce in virtù delle quali l’apparato mentale, sottoposto alle pressioni delle pulsioni, manteneva un equilibrio minimale per congiurare la disgregazione dell’identità.
Nell’ambito della psichiatria, il pensiero freudiano è stato ripreso ma in un’ottica affrancata dalla teoria delle pulsioni, quindi evolutiva piuttosto che difensiva.
Laing in particolare ha sostenuto che le crisi psicotiche rappresentano un travaglio di parto attraverso il quale il bisogno di individuazione cerca di trovare la via di dispiegarsi, liberandosi dalle trappole normative e ideologiche che lo hanno mortificato.
La teoria struttural-dialettica permette di estendere questa metafora a tutto l’universo psicopatologico.
Questa estensione non nega il fatto psicopatologico in sé e per sé, ma dà ad esso un significato radicalmente diverso rispetto alla psichiatria e alla psicoanalisi tradizionale.
Nell’ottica della teoria dei bisogni intrinseci, infatti, è implicito che l’apparato mentale è predisposto per favorire un dispiegamento emozionale e cognitivo dei bisogni stessi è che, laddove, attraverso l’interazione con l’ambiente, tale dispiegamento raggiunge un determinato livello e realizza un’integrazione dialettica tra la logica dell’appartenenza sociale e quella dell’individuazione, si realizza una condizione autentica di equilibrio e di benessere soggettivo. Se questo è vero, i fenomeni psicopatologici esprimono univocamente, sia pure nelle forme più diverse, un difetto di quel dispiegamento, vale a dire una frustrazione dei bisogni che continuano comunque, in nome del loro essere programmati, ad operare una pressione nella direzione del dispiegamento.
In difetto di una consapevolezza da parte del soggetto di ciò che avviene a livello inconscio, la pressione dei bisogni si traduce univocamente in messaggi che la coscienza trasforma in sintomi. I sintomi psicopatologici, da questo punto di vista, sono dunque l’espressione non già di una patologia cerebrale o di pulsioni psicodinamiche destrutturanti, bensì della tensione dell’inconscio verso una forma di equilibrio superiore a quello raggiunto, in nome del potenziale dei bisogni.
Oltre che in gran parte dei saggi, sto cercando di illustrare tale ipotesi negli articoli sul significato funzionale dei sintomi, ai quali rimando.
E’ difficile minimizzare l’importanza di un approccio teorico che dà ai fenomeni psicopatologici un significato potenzialmente evolutivo. E’ difficile anche cogliere immediatamente tale significato sul piano della fenomenologia clinica, laddove i sintomi evocano, con la loro apparente irrazionalità, il riferimento a qualcosa che non va a livello cerebrale o inconscio.
Un ponte tra le apparenze e le “essenze” può essere stabilito appunto dalla metafora del parto psicologico, con la quale s’intreccia quella, che ho utilizzato ampiamente in Star male di Testa, del sisma.
La metafora del parto psicologico si riconduce ad un momento topico nell’evoluzione della personalità: la crisi adolescenziale che l’avvia, il cui significato ultimo, programmato dalla logica dei bisogni, è quello di indurre un salto sulla via dell’individuazione e dell’autonomia passando attraverso una fase di squilibrio psicodinamico più o meno intenso. L’adolescente imbocca il canale del parto sotto la spinta del bisogno di individuazione che, immediatamente, assume una configurazione oppositiva nei confronti delle figure genitoriali e delle autorità. L’opposizione serve a ristrutturare i legami di dipendenza che governano l’esperienza infantile e inducono la strutturazione di una personalità etero- o autodiretta (vale a dire governata dal sociale interiorizzato o Super-Io). Nella misura in cui tali legami, per effetto della dinamica oppositiva, tendono a dissolversi, l’Io può venire alla luce dotandosi di un’identità differenziata, caratterizzata da un modo di vedere, di sentire e di agire personale e di un sistema di valori culturali assimilati.
La crisi adolescenziale è dunque, sulla carta, la fuoriuscita dell’Io autonomo dal bozzolo di una personalità infantile governata, consciamente e inconsciamente, dal giudizio sociale.
Si danno numerose circostanze, di ordine ambientale, culturale, intersoggettivo e soggettivo, per cui il parto psicologico non giunge al suo esito. Raro, ma non eccezionale, è che l’Io rimanga nel bozzolo, vale a dire in una condizione autodiretta. Più di frequente, una parte dell’Io fuoriesce dal canale del parto e un’altra rimane intrappolata in esso. In questo caso si realizza una scissione dell’Io e dei bisogni.
Qual è la conseguenza di questa scissione che, nel momento in cui si realizza, può risultare inapparente?
La conseguenza dipende in gran parte dal potenziale dei bisogni. Molte persone “normali”, il cui potenziale dei bisogni è modesto, possono vivere quella scissione compensandola con il riferimento illusionale ad un’unità e coesione dell’io che non ha fondamento. In altre persone, nelle quali il potenziale dei bisogni è intenso, la scissione si organizza sotto forma di faglie dinamiche che possono rimanere latenti per qualche tempo, ma che, in nome della pressione dei bisogni, entrano prima o poi in una situazione di instabilità dinamica, presismica o sismica, che si traduce a livello cosciente nell’affiorare dei sintomi psicopatologici.
In questa ottica, la psicopatologia, particolarmente a livello giovanile, è univocamente l’espressione di una crisi adolescenziale abortita che si ripropone, di un travaglio di parto che va completato.
Penso che solo su una base teorica di questo genere l’antipsichiatria possa riavviarsi, contestando la pratica psichiatrica corrente che, con l’uso indiscriminato degli psicofarmaci tende inesorabilmente ad inattivare il parto psicologico e ad incastrare la personalità nel bozzolo da cui essa tenta di fuoriuscire.
4.
L'antipsichiatria in Italia, come in tutti i Paesi occidentali, è ormai un movimento residuo perché, a differenza di quanto accadeva negli anni '70, è rappresentato in massima parte da pazienti o ex-pazienti che protestano contro la pratica psichiatrica corrente (di fatto brutale).
I siti di riferimento, ai quali il lettore può rivolgersi per una conoscenza diretta del fenomeno, sono i seguenti:
www.ecn.org/antipsichiatria/home.html
http://violetta.noblogs.org/category/home-page
www.nopsichiatria.com/
www.informa-azione.info/ebooks_antipsichiatrici
www1.autistici.org/antipsichiatria
www.psicodissea.altervista.org
http://isole.ecn.org/antipsichiatria/antipsiCentroDocumentazione.html
http://piemonte.indymedia.org/article/2641
Visitandoli, è netta l'impressione che le proteste siano sostanzialmente fondate, ma articolate sulla base della critica destruens che, eccezion fatta, forse, per Laing, è stato il limite dell'antipsichiatria storica. Qua e là ci si imbatte nell'accenno alla necessità di seguire altre vie sotto il profilo teorico e pratico. Si tratta, però, di un richiamo di maniera che si sente ripetere da anni senza che esso abbia prodotto alcunché.
Nell'articolo in questione, ho riportato anche un'aspra critica rivolta agli psichiatri alternativi - i basagliani - che, sulla carta, difendono l'originario progetto di una pratica psichiatrica fondata sull'umanizzazione del rapporto tra medico e paziente e la necessità di un coinvolgimento sociale che impedisca l'emarginazione, e, di fatto, utilizzano gli psicofarmaci e il ricorso al TSO in maniera per nulla diversa dai neopsichiatri.
L'accusa non è infondata. Il basaglismo non è stato un movimento omogeneo. Un certo numero di psichiatri alternativi ne hanno utilizzato i principi di fondo per fare carriera e acquisire, a livello territoriale, posizioni di potere e di privilegio. Come ogni movimento "rivoluzionario", insomma, il basaglismo non è sfuggito ad un processo di burocratizzazione.
Altri basagliani sono rimasti fermi e coerenti nella difesa di quei principi, senza avere però la capacità di organizzarli in una cornice di riferimento che vada al di là del richiamo umanitaristico. Essi hanno ereditato e coltivato da Basaglia una capacità critica nei confronti della neopsichiatria - assunta come sintomo di uno stato di cose sociale - che, ancora oggi, appare sorprendente, ma non sono riusciti ad opporre ad essa un paradigma interpretativo dei fenomeni psicopatologici affrancato da presupposti biologisti, ma scientificamente convalidabile.
A riprova di questo riporto due articoli di grande interesse, che illustrano il valore e i limiti del basaglismo coerente.
Il grassetto è mio ed evidenzia le affermazioni che discuterò ulteriormente.
"La tua sofferenza e la tua singolarità, sappiamo di loro abbastanza cose (che tu neanche immagini) per capire che si tratta di una malattia; ma questa malattia, la conosciamo abbastanza per sapere che tu non puoi esercitare su di essa e nei suoi riguardi alcun diritto. La tua pazzia, la nostra scienza ci permette di chiamarla malattia e perciò, noi medici siamo qualificati per intervenire e diagnosticare in te una pazzia che ti impedisce di essere un malato come gli altri: dunque tu sarai un malato mentale".1
E' un dialogo tra un medico ed un malato mentale, immaginato da Foucault, il quale vuol evidenziare il potere assoluto della non pazzia sulla pazzia, della normalità sulla devianza.
La persona, spogliata di ogni soggettività, di ogni forma di sapere e di potere, è oggettivata nella sua malattia.
"Le relazioni di potere costituivano l'a priori della pratica psichiatrica: esse condizionavano il funzionamento dell'istituzione manicomiale, esse vi distribuivano i rapporti tra gli individui, esse gestivano le forme dell'intervento medico"2 - continua Foucault.
Il movimento antistituzionale italiano ha avuto il merito non solo di restituire i diritti negati alle persone, ma anche di riconoscere il diritto di ammalarsi e di gestire la propria follia, separando la sofferenza dallo statuto medico di malattia.
In questa relazione curante/curato, si ha l'impressione che anche nelle realtà più avanzate nella salute mentale, vi sia una scarsa riflessione sul ruolo del farmaco: come se la sua conoscenza e il suo uso debbano continuare ad essere esclusivo appannaggio del mondo medico. Di fatto l'atto della somministrazione del farmaco si configura come il momento più alto in cui sapere e potere medico coincidono, come conseguenza di un processo concatenato di osservazione, classificazione, diagnosi, assolutamente sovrapponibile al procedimento clinico degli alienisti del XIX secolo, caratterizzato dalla riduzione della follia a malattia classificabile, con una sintomatologia da controllare e ridurre al silenzio.
La verità scientifica, oggettiva, di cui il farmaco ha la pretesa di essere portatore, si fonda sulla sperimentazione, che produce fenomeni. "Questa produzione di fenomeni nella sperimentazione è il più lontano possibile dalla produzione di verità nella prova: poiché essi sono ripetibili, possono e debbono essere constati, controllati e misurati. La sperimentazione non è altro che un'indagine condotta su fatti provocati artificialmente; è solo un modo di accertare una verità attraverso una tecnica i cui dati sono universali"3. Una verità astratta.
Storicamente (pensiamo al secolo XVIII e XIX) questa grande trasformazione delle procedure del sapere accompagna i mutamenti essenziali delle società occidentali: l'emergenza della forma dello stato, l'estensione delle relazioni mercantili su scala mondiale, la realizzazione di grandi tecniche di produzione.
Il XX secolo, nel suo ultimo scorcio, è, invece, caratterizzato dal corto circuito tra le modalità del mercato mondiale, già sviluppatosi nei secoli scorsi, e quelle della produzione che, da locali, divengono planetarie e delocalizzate: è la mondializzazione.
Scrive Bordieu: "Tutto ciò che va sotto il termine, assieme descrittivo e normativo di "mondializzazione", non è il prodotto della fatalità economica, ma di una politica consapevole e deliberata. . . che si è imposta per le vie più diverse, specie giuridiche, ai governi liberali o anche socialdemocratici di un complesso di paese economicamente avanzati, inducendoli a spogliarsi poco a poco di ogni potere di controllo sulle forze economiche." 4.
In effetti il WTO (World Trade Organisation) la Banca Mondiale e il Fondo Mondiale Internazionale sono organismi sovranazionali che agiscono secondo logiche e regole, totalmente indipendenti dalle normative economiche dei singoli stati. Durante il Forum economico mondiale di Davos del 1996 alla presenza di capi di stato, di primi ministri e di ministri di governi di tutto il mondo, Titmeier, presidente della Bundesbank tedesca, rivolgendosi a loro, afferma: "Ormai siete sotto il controllo dei mercati finanziari" 5 Tutti applaudirono entusiasti. In altre parole la sovranità degli stati è sottoposta al potere del capitale finanziario globalizzato
In realtà 225 privati al mondo detengono mille miliardi di dollari, pari al reddito di 2,5 miliardi di persone più povere del pianeta che rappresentano il 47% della popolazione mondiale. Tra il 1975 e il 1996 sono state sintetizzate 1223 nuove molecole. Solo undici riguardavano le malattie tropicali. In Africa due milioni e mezzo di persone hanno un immediato bisogno di farmaci contro l'AIDS, ma solo 1' 1% può accedere alle cure.
Nello stesso tempo è noto come il consumo degli psicofarmaci è al primo posto in molti paesi occidentali e il business delle multinazionali del farmaco è stratosferico.
A sostegno di questi interessi privati l'industria del farmaco ha costruito un sistema che vede nel rilancio fortissimo della concezione biologistica della malattia mentale e dell'approccio comportamentista al disagio il suo cardine.
E' noto che in psichiatria vengono finanziati quasi esclusivamente programmi di ricerca ad indirizzo biologico e che anche le tecniche cognitivo-comportamentali sono di supporto a questi studi: si vedano ad esempio le ricerche sulle correlazioni tra i dati di brain-imaging e i deficit cognitivi nelle psicosi schizofreniche, valutati con apposite scale.
Sempre più frequentemente queste ricerche sono finanziate dalle industrie farmaceutiche, data la crescente scarsità di finanziamenti pubblici destinati allo scopo. Si realizzano, così, nei fatti, una coincidenza ed una collusione tra interessi legati al profitto e al mercato del farmaco e attività di ricercatori, i quali per giustificare la loro esistenza e il senso del loro lavoro finiscono per essere succubi delle scelte dei privati, a danno degli interessi della salute della collettività.
E' ragionevolmente consentito, in questa situazione, dubitare del valore scientifico dei trial. Anche la classificazione delle malattie mentali periodicamente riveduta e corretta con una aggiunta infinita di sottotipi risponde ad una logica di etichettamento, che ha la pretesa di validità universale. Nata con l'intento di trovare un metodo statistico-diagnostico su cui potesse convergere l'accordo della comunità scientifica mondiale, è stata rapidamente utilizzata per le sperimentazioni degli psicofarmaci sull'uomo. Ancora una volta, la sofferenza, depurata della soggettività, ripulita delle passioni, levigata delle sue asperità, diventa malattia e la persona frammentata nei suoi sintomi, sezionata nelle sottodiagnosi come un corpo morto su un tavolo autoptico, scompare, per far posto al potere medico.
Ma la classificazione ha soprattutto lo scopo di stabilire nuovi concetti di norma e dunque di devianza. "Il deviante è colui che si trova al di fuori della norma ed è mantenuto all'interno o dell'ideologia medica o di quella giudiziaria che riescono a contenerlo, spiegarlo e controllarlo. Non si tratta di una risposta tecnica ad un problema di carattere specialistici, quanto piuttosto di una strategia difensiva, tesa a mantenere lo status quo, a tutti i livelli. La scienza, in questo caso, assolve il proprio compito, fornendo codificazioni ed etichette che consentano la netta separazione dell'abnorme dalla norma." 6
I sistemi diagnostici a valenza cosiddetta "universale", ingessando la condizione umana del disagio in stampi rigidi e precostituiti, ne impediscono la comprensione profonda, ostacolano l'ascolto, rendono difficile il rapporto empatico. Si è creato, così, un sistema neokraepeliniano alla base di una rinnovata ideologia della distanza. Le pratiche di liberazione contro il manicomio avevano messo in crisi il postulato ippocratico della necessità della distanza tra curante e curato: non è possibile la diagnosi senza l'osservazione: non è possibile la rilevazione dei sintomi se il medico non interpone una distanza tra sé e il malato. Su questa base si è fondato il discorso medico ed il potere ad esso legato.
Aver abbattuto i muri del manicomio, aver slegato i matti, aver collegato, attraverso il lavoro di deistituzionalizzazione, i meccanismi alla base della segregazione manicomiale con quelli più generali dell'esclusione sociale non è stata un'opera di semplice ammodernamento istituzionale, ma l'espressione di una rottura epistemologica caratterizzata dalla messa in crisi dell'asse portante di tutta la medicina moderna, nata con Ippocrate: la distanza medico-paziente.
Il rischio attuale è che gli interessi del mercato globalizzato rilancino con forza l'idea che il sapere deve essere in mano solo ai tecnici, che avrebbero a disposizione "le pillole e le fiale della felicità".
Viene incoraggiata, cioè, la convinzione che i sentimenti, le passioni, il mal di vivere possano essere curati dagli specialisti gli unici in grado di guarire la malattia (intesa come devianza dalla norma), con sostanze psicotrope.
Perfino nella stampa di larga diffusione scientifica si ritrovano articoli riferiti a studi più o meno credibili sulle "molecole dell'amore" o sullo sviluppo immaturo di aree cerebrali che spiegherebbero gli atteggiamenti contestatari degli adolescenti.
E' impressionante come alla base di ogni ricerca o interpretazione sulla malattia sia cancellata ogni dimensione sociale del disagio o della sofferenza.
Anzi, la realizzazione della normalità viene proposta in una sfera tutta individuale e privata. Per difendere più o meno consapevolmente la mia normalità, le cui caratteristiche sono dichiarate dagli altri, io utilizzo delle gabbie che non sono più solo quelle delle istituzioni totali, ma quelle del vivere quotidiano: un'ideologia rigida, una relazione di coppia, di famiglia, di gruppo in cui l'Altro non trova spazio, un sapere e un saper fare mai condiviso con gli altri. Il confronto, lo scambio, i legami sociali diventano sempre più deboli e la mia disperazione sempre più intensa.
Ecco, allora, entrano in scena i tecnici psy, i quali con parole, ma soprattutto con farmaci, cercano di lenire la pena. Se si tenta di curare solo la malattia, senza cogliere il significato della sofferenza e la sua dimensione sociale, tutta vissuta nella povertà delle relazioni, si stabilisce un circolo vizioso e perverso: disperazione/ illusione di guarigione con i farmaci/silenziamento dei sintomi/ricaduta per mancanza di legami sociali/ripresa del trattamento tecnico. Una spirale senza fine.
La rottura e la dissoluzione dei legami sociali sono attualmente al centro delle analisi sul mal di vivere e sono sempre più considerati come fattori favorenti il manifestarsi del disagio e del disturbo psichico.
Questo processo è visibilmente sostenuto dalla separazione della produzione dall'insieme dei bisogni, dalla scissione del mondo della produzione da quello della riproduzione sociale, dalla delocalizzazione dei processi produttivi: non tanto espressione di un'epoca postindustriale, ma come massima e matura espressione del modo di produzione capitalistico.
I grandi poteri finanziari sono andati al posto di comando.
Il denaro diventa il motore dell'astrazione, con un ruolo sganciato quasi del tutto dal mondo della produzione (basti pensare che solo il 5% delle transazioni finanziarie gli appartengono, il resto è pura speculazione di borsa).
"L'astrazione è depositata nel codice genetico della modernità: ed è la dissoluzione del legame sociale" (Pietro Barcellona).
Risposte tecniche che non affrontano il problema delle relazioni sociali, drammaticamente povere in questo mondo globalizzato, nonostante le autostrade telematiche siano piene di scambi, sono destinate a fallire. Alle multinazionali del farmaco, che hanno a cuore il profitto, interessa poco. Anzi una cronificazione del paziente, sempre più dipendente dai servizi e dai suoi terapeuti, prolunga a vita l'assunzione farmacologica che diventa così, una vera droga.
E' giunto il momento di chiedersi seriamente come operatori dei servizi psichiatrici quali siano le cause della dipendenza dei pazienti. Ci accorgeremmo, probabilmente, che essa è prevalentemente legata alla scarsità di relazioni nel loro mondo, ad una rete sociale povera, allo stigma che è cucito loro addosso come un vestito stretto e soffocante. Almeno, nei servizi incontrano qualcuno e talvolta sono anche compresi.
Allora è obbligatorio chiedersi: cosa facciamo per rafforzare o costruire legami sociali per gli utenti? O preferiamo vederli continuamente frequentare i nostri servizi, nell'incapacità di rinunciare al nostro potere su di loro? Siamo disposti a credere loro quando ci dicono che il farmaco ha sì eliminato le voci, ma ora si sentono tristi, con la mente offuscata, senza desideri e senza voglia di fare l'amore? E' così strano, allora, che non vogliono più assumere farmaci?
Ancora: è mai possibile che non ci accorgiamo che la somministrazione dei neurolettici a lunga durata è di una violenza inaudita, espressione dello strapotere del medico? Il paziente non può controllare più nulla: il persecutore, prima esterno, è stato introiettato. Per questo rifiuterà anche il long-acting.
Facciamo davvero i conti, quando somministriamo i farmaci, con il rispetto dell'Altro? In uno scarto immenso di potere tra noi e il malato, corriamo il rischio di produrre danni incalcolabili quando non viviamo un rapporto di reciprocità.
Non vorremmo che alle docce fredde, alle sedie rotatorie, agli shock insulinici ed elettrici e ad altri strumenti di tortura dei vecchi manicomi, utilizzati "per il bene dei pazienti", si sostituisca una pratica altrettanto repressiva, ancorché sofisticata, di somministrazione acritica dei farmaci in dosaggi più o meno elevati, sempre "per il bene dei pazienti".
Il rischio è alto e oggi concreto nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura con le porte chiuse e dove la contenzione è una prassi cinicamente di routine; in quelle strutture residenziali isolate, prive di scambi con il mondo esterno.
L'uso inappropriato ed eccessivo di farmaci psicotropi è la norma in quelle case di riposo per anziani, le quali, anche se non sono dei lager ( e molte lo sono) assomigliano più a parcheggi dove attendere la morte; in quei reparti di geriatria, medicina e chirurgia, dove medici ed infermieri cinici non tollerano i vecchietti che raccontano in maniera apparentemente insensata le favole della propria vita, che cercano di esprimere con le loro frasi sconnesse la loro rabbia di essere soli e il desiderio di amare ancora ed essere amati.
L'uso sconsiderato di farmaci psicoattivi sta venendo di nuovo alla ribalta nei casi di bambini iperattivi. Ma cosa significa iperattivi? Sono troppo vivaci, non stanno mai fermi a scuola, a casa? Ancora una volta vengono somministrati per farli stare zitti e buoni. Nessuno si chiede i perché. Nessuno si chiede in quale famiglia vivono e cosa si può fare per loro e le loro famiglie in difficoltà; se hanno amici, cosa fanno con loro, che tipo di vita conducono fuori della scuola. Nessuno si chiede se i contenuti delle lezioni siano di loro interesse o cosa si possa fare per suscitare la loro curiosità e polarizzare la loro attenzione. E' troppo difficile: richiede un impegno elevato da parte della scuola, della famiglia, dei servizi. E' più facile e sbrigativo dare il Ritalin.
Pensiamo, allora, che l'uso dei farmaci psicotropi sia giustificato solo in una dimensione relazionale improntata al massimo rispetto, che accetti il rischio della libertà dell'Altro, anche la libertà di opporre un rifiuto. Sarà nostro compito dare un senso al "no", ponendoci mille perché, rinunciando alla scorciatoia delle pratiche coercitive o truffaldine. Già questo atto servirà a ridurre lo scarto di potere tra medico e paziente, a tutto vantaggio della qualità della relazione.
E' necessario, però, porre molta attenzione al "collettivo curante".
"E' il collettivo curante nel suo insieme a regolare essenzialmente le variazioni del consumo dei neurolettici. E questo consumo è un autentico barometro dell'ambiente generale che in buona parte dipende dalla disponibilità materiale del personale, dalla sua consistenza numerica e dalla sua disponibilità affettiva." 7
La qualità dell'organizzazione dei servizi incide, dunque profondamente sull'utilizzo degli psicofarmaci.
Il nostro impegno di sempre è di costruire luoghi che siano catalizzatori di legami sociali: dove è possibile connettere, scambiare, progettare, dove sia possibile il riconoscimento dell'Altro e, dunque, l'ascolto e l'incontro scevro da pregiudizi, in cui l'Altro sia visto come persona e non come malato, dentro la sua condizione umana e non dentro la sua malattia. In tale contesto l'imperativo categorico di natura etica è informare gli utenti, le loro famiglie sulla natura del farmaco, sugli effetti terapeutici, sugli effetti collaterali, su quelli tossici a breve e a lungo termine.
In questo senso dovrebbe essere utilizzata la normativa attuale sul consenso informato, che non va utilizzata come il mero assenso all'uso di certe tecniche e presidi, ma come reale informazione sulla tipologia dei trattamenti.
Un'altra iniziativa importante da favorire è la realizzazione di gruppi di informazione e controinformazione sugli psicofarmaci, formati da utenti, familiari ed operatori. A questo scopo la rete telematica può essere di grande aiuto.
Notizie su effetti tossici ,che le industrie farmaceutiche tendono a minimizzare, si ritrovano in molti siti web di associazioni di psichiatrizzati.
Infine, gli psichiatri, come del resto tutti i medici, per essere credibili, dovrebbero rinunciare a tutti i grant, elargiti sotto ogni forma, dalle multinazionali del farmaco.
Per ognuno di noi, cercare di cambiare in meglio la realtà non è facoltativo, né una missione caritatevole: fa parte del nostro lavoro, fatto di speranze e delusioni, intriso di incontri, scontri, slanci affettivi e piattezze emotive, vissuto sempre nel cuore delle contraddizioni. Con una certezza: nessuno si può liberare da solo e ognuno ha bisogno degli altri. Vogliamo allora concludere con Bertolt Brecht, non più di moda, ma sempre attuale:
"Pensate, per quando dovrete lasciare il mondo, non solo ad essere stati buoni, ma a lasciare un mondo buono".
Matera, Napoli, maggio 2004
* Rocco Canosa - Direttore DSM ASL n.4 ó Matera; r.canosa@tin.it
** Emilio Lupo - Primario UOSM ASL Napoli 1 ; magendavid@1ibero.it
NOTE:
1 Foucault M., La casa della follia, in Basaglia F., Ongaro Basaglia F., (a cura di), Crimini di pace, Einaudi, Torino, 1975, p.l68
2 Foucault M., op. cit., pag. 168
3 Foucault M., op. cit., pag. 156
4 Bourdieu P., Controfuochi 2: per un movimento europeo, Manifestolibri, Roma 2001, pag. 65
5 Ziegler Jean, La privatizzazione del mondo, Marco Tropea, Milano, 2003
6 Basaglia F., Ongaro Basaglia F., La maggioranza deviante, Einaudi, Torino, 1971, pag. 20
7 Mercier N., La Consommation des médicaments psychotropes des quelques services hospitaliers, tesi, Paris,1973
Ho iniziato a lavorare in psichiatria quando i primi psicofarmaci entravano in scena. Erano gli anni Cinquanta e stava cominciando la crisi della soluzione manicomiale, durata un secolo e mezzo. Appariva evidente la non cività del lungo internamento e i giovani psichiatri erano affascinati dalle prospettive che aprivano sia la psichiatria sociale che le psicoterapie delle psicosi. Sullo sfondo restava l'impostazione fenomenologico-esistenziale che derivava da un eccesso di riflessione filosofica e da una reale impotenza di fronte alla disumanità degli asili.
La clorpromazina, sintetizzata in Francia per fini anestetici, veniva testata su pazienti psichiatrici sfruttandone i poteri sedativi. Il farmaco infatti provocava una sonnolenza molto diversa da quella dei barbiturici e molto meno pericolosa.
Anche alcuni sintomi psichiatrici sembravano essere interessanti. I deliri si attenuavano, il comportamento si riordinava, divenendo però come "ingessato". Si scoprì poi che alcune reazioni erano dovute all'interessamento delle aree extrapiramidali, e cominciammo a preoccuparci per reazioni avverse come la caduta della pressione arteriosa, l'azione tossica sulla funzionalità epatica e sul metabolismo dei glucidi. Ma l'effetto collaterale più invalidante a distanza si ebbe con le manifestazioni che furono chiamate "discinesia tardiva", e cioè movimenti involontari degli occhi, del capo e della lingua che provocavano ovviamente una grave disabilità sociale.
L'era farmacologica era così cominciata e vi furono sempre nuovi farmaci da "'provare" senza particolari precauzioni metodologiche (caso-controllo, doppio cieco) che sarebbero state predisposte successivamente. Nel corso delle esperienze di deistituzionalizzazione si poté sperimentare che, con bassi dosaggi di psicofarmaci e di partecipazione collettiva dei pazienti alle iniziative sociali, si ottenevano esiti molto positivi. I pazienti riprendevano la parola ed esprimevano capacità di leadership e di autocontrollo nel corso delle assemblee e nelle inizia?tive di lavoro e di svago. Man mano che proseguivano le esperienze di riabilitazione che si arricchivano di strumenti operativi, permettendo ai pazienti di divenire protagonisti nella difesa della propria salute, il dosaggio degli psicofarmaci diminuiva correlativamente fino ad estinguersi.
Si moltiplicavano tuttavia le offerte di sempre nuovi psicofarmaci, con pretese di "specificità" (farmaci "deriliolitici", "disinibitori" etc). Le pressioni delle Case farmaceutiche, in confronto ai metodi attuali, apparivano moderate e singolarmente rispettose dei limiti in cui tali pressioni possono essere esercitate. In particolare, per quanto riguarda la pubblicità, essa era limitata, almeno in Europa, alle riviste specialistiche ed alla preparazione di piccoli testi elogiativi.
Con la crisi del paradigma psichiatrico istituzionale, che apriva la strada ad una psichiatria riabilitativa territoriale, intervenne, a partire dagli anni Sessanta e Settanta, se non una vera e propria crisi un ridimensionamento del ruolo dello psicofarmaco in favore di altre "tecniche" di cura e di riabilitazione, tra cui la stessa terapia, individuale e di gruppo.
Il ruolo della partecipazione ai programmi riabilitativi, il diritto dei pazienti all'informazione e all'accesso alle risorse disponibili, quali la casa, il lavoro e la socialità, in un processo di liberazione, hanno rappresentato una vera alternativa al trattamento inquadrato nel modello medico, relegandolo, in molti casi, a funzione accessoria e residuale.
A distanza di alcuni anni, pur dopo esperienze molto dimostrative in diversi contesti, tra cui il nostro Paese, l'adesione acritica e strumentale della psichiatria ai metodi delle neuroscienze (rigorosi, ma necessariamente limitati ad aree non contigue alla pratica psichiatrica) ha proposto con forza sia il rilancio delle teorie biologiche della malattia mentale che del modello terapeutico farmacologico Così i "nuovi" antidepressivi, i "nuovi" anti?psicotici furono lanciati non solo come efficaci ( o più efficaci dei precedenti) ma come risolutori esclusivi ed assoluti. Ciò attraverso un progetto totale di tipo pubblicitario, secondo le regole di mercato, che ha comportato la revisione sostanziale degli strumenti di lancio del farmaco, insieme a costi elevati ed altrettanto elevati profitti. E' stato calcolato che le spese per questo settore di informazione e di diffusione arrivano al 30% del fatturato (Garattini).
Vorrei ricordare la copertina di un numero di "Newsweek" dei primi anni novanta. Veniva richiamata la "guarigione" miracolosa di quattro - diconsi quattro - casi di psicosi dopo la prescrizione di un nuovo neurolettico. Che cosa avrebbe dovuto scrivere allora questo settimanale delle esperienze italiane di riabilitazio?ne o di quelle di Loren Mosher in Usa? Appariva evidente un legame di qualche tipo con le case farmaceutiche, così come le strategie di sviluppo del mercato comportavano il finanziamento di ricercatori esterni ad esse fino ai legami con le Università e gli ambienti accademici, di recente richiamati criticamente dall'autorevole "New En?gland Journal of Medicine". In esso leggiamo:
"C'è ora una considerevole evidenza che i ricercatori con legami con le Case farmaceutiche sono in realtà i più adatti a riferire risultati favorevoli ai prodotti di quelle aziende rispetto a ricercatori senza quei legami. Ciò non prova conclusivamente che i ricercatori sono influenzati dai loro legami con l'industria. Comprensibilmente le Case farmaceutiche cercano (seek out) ricercatori che ottengano risultati positivi. Ma io ritengo che la distorsione (bias) sia la spiegazione più adatta, e in entrambi i casi è chiaro che più sono entusiasti i ricercatori e più è sicuro che essi siano finanziati dall'industria. Molti ricercatori pretendono di essere oltraggiati dalla sola idea che i loro legami finanziari con l'industria potrebbero influenzare il loro lavoro. Essi insistono che, come scienziati, possono rimanere obiettivi, non importa quanto siano blanditi. In breve, essi non possono essere "comprati" nel senso di un "quid pro quo". E' che questa stretta e remunerativa collaborazione con un'azienda industriale naturalmente crea benevolenza da parte dei ricercatori e la speranza che l'elargizione continui. Questo atteggiamento può sottilmente influenzare il giudizio scientifico in modi che possono essere difficili da identificare". E qui l'autrice si pone una domanda cruciale. "Possiamo noi realmente ritenere che i ricercatori clinici siano più immuni verso i propri interessi delle altre persone?" (1)
L'articolo prosegue con l'analisi di ciò che può accadere all'interno delle istituzioni in cui divengono confusi e indistinti ("blurred") gli scopi commerciali dell'industria e la mission delle scuole mediche. E' evidente come gli studenti in medicina vengano addestrati a ritenere la soluzione farmacologica come la principale rispetto alle altre forme di risposta, più complesse e difficili da realizzare all'interno della relazione rigida di tipo medico, ereditata dal paradigma storico della psichiatria basilare.
Che questo stia avvenendo in modo massiccio, è dimostrato dall'assoluta prevalenza di indicazioni farmacologiche per tutta una serie di disturbi psichiatrici in cui l'esperienza dimostra l'utilità e l'efficacia di metodiche diverse. Prendiamo ad esempio la depressione come disturbo. Intanto non è così semplice distinguerla da una demoralizzazione, come da un semplice sintomo di altra condizione, anche organica. Ma in tutti i casi, una forma di psicoterapia o di supporto è assolutamente indispensabile. La cosa è trascurata dall'enfasi sul trattamento farmacologico e sulla discussione su quale tipo di farmaco antidepressivo sia il più efficace. Quando si interpella un ricercatore sciolto da legami con le case farmaceutiche invariabilmente viene evidenziato questo aspetto. E' il caso, tra gli altri, di Jan Scott, che fina dal 1995 sul "British Journal of Psychiatry" rilevava l'efficacia dei diversi trattamenti psicoterapeutici. (2)
Anche per quanto riguarda gli antipsicotici, l'enfasi sui "nuovi" farmaci è molto forte. Ciò accade ovviamente da parte delle case farmaceutiche interessate e degli psichiatri in qualche modo da esse condizionati, ma - un po' a sorpresa - anche da parte delle associazioni delle famiglie che desiderano che il Servizio sanitario nazionale rimborsi gli alti costi del trattamento.
Eppure abbiamo assistito - scrive autorevolmente Silvio Garattini - ad una "campagna trionfalistica per i nuovi antipsicotici, seminando l'idea che i vecchi non avevano più significato e che i nuovi dovevano essere uti?lizzati come prima linea". "Troppe volte i farmaci - continua Garattini - in omaggio ad una legge europea che non è stata modificata dalla recente revisione da parte del Parlamento europeo, sono approvati senza avere un adeguato numero di studi. La loro approvazione non tiene conto di quanto già esiste nell'armamentario terapeutico corrente; raramente si fanno confronti adeguati e mai si richiede che i nuovi farmaci siano migliori di quelli già esistenti". A questo proposito Garattini rileva - cosa ampiamente nota ma mai abbastanza conosciuta - i gravi effetti collaterali attribuiti ai nuovi antipsicotici: aumento ponderale fino a 10 Kg., rischio di morbilità e mortalità cardiovascolare, tendenza a sviluppare diabete. Per uno di essi (clozapina) c'è anche un rischio significativo di agranulocitosi che può portare al decesso. Secondo Garattini ci deve essere più attenzione per il rapporto benefici-rischi. Infine c'è da osservare l'enorme spesa per questi nuovi farmaci: 168 milioni di euro nel 2003 contro 12 milioni per i vecchi: in sostanza il 46% delle prescrizioni determina il 92% della spesa. (Fonte: OsMed: Osservatorio nazionale sull'impiego dei medicinali, Ministero della salute) (3).
C'è una singolare contraddizione tra lo stato di realtà delle ricerche sulla correlazione tra disturbi mentali (o più largamente studi sul funzionamento celebrale con nuove tecniche di indagine) e base biologica di essi e l'enfasi con cui i mass media danno per accertata una genesi organica dei disturbi stessi, con la necessità di trattamenti farmacologici. La traduzione di questo messaggio fallace, in termini di diffusione culturale nella popolazione da una parte e della pratica inerte e ripetitiva sul versante delle relazioni terapeutiche degli specialisti, rappresenta il tentativo di un completo dominio della non santa alleanza ("unholy alliance" di Loren Mosher) tra le associazioni psichiatriche e l'industria farmaceutica. Vediamo quindi che la psichiatria ha medicato la sua crisi aggrappandosi alle neuroscienze, con una evidente forzatura dei limiti entro cui poteva muoversi dopo il fallimento storico della proposta istituzionale rappresentata dall'esclusione dei malati mentali negli asili manicomiali.
Mentre il DSM ha venduto 2,5 milioni di copie ed è stato tradotto in ben 21 lingue, dettando norme di inquadramento diagnostico coerenti con le prescrizioni farmacologiche, in un ambiguo confronto impari con il sistema nosografico dell'OMS/WHO (ICD), l'uso propagandistico dei progressi delle ricerche sul funzionamento cerebrale tanta di travolgere ogni pratica che si fondi sulla relazione del servizio con il paziente ed il suo contesto.Perfino la dimostrazione che un trattamento psicoterapeutico sia efficace quanto e anche più di un trattamento farmacologico nella depressione (Scott, 1995) si blocca di fronte alla misurazione del tempo da dedicare al pa?ziente e dei costi complessivi della cura.
Non c'è dubbio che considerazioni sui livelli dei costi possano (e forse debbano) essere attentamente valutati dai programmatori dei servizi e dagli stessi tecnici. E tuttavia si dovrebbe poter spostare la questione al di fuori del modello esclusivamente medico che contrappone la prestazione di un singolo specialista a quella di un altro. Le esperienze degli ultimi decenni e la nuova attenzione per le ricerche di psichiatria culturale ci portano a considerare i fattori che ostacolano o favoriscono la diffusione di trattamenti di gruppo, le iniziative di supporto, le attività collettive di socializzazione delle conoscenze. Il trattamento considerato efficace è quello esclusivamente erogato dal curante/esperto mediante prescrizione di psicofarmaci e/o di psicoterapia "manualizzata" (così si definisce una psicoterapia autorizzata e tecnicizzata). Eppure le esperienze di deistituzionalizzazione e quelle più esplicitamente riabilitative hanno dimostrato la loro efficacia anche fuori da questo paradigma valutativo duale. Tutte le ricerche sull'"efficacia simbolica" (espressione coniata da Levi-Strauss a proposito di una complessa cerimonia del popolo Cuna per la risoluzione di parti difficili) come pure la descrizione di cerimonie risolutive di conflitti, stanno a dimostrare l'utilità per la salute mentale di ciò che si muove nel campo socio-cul?turale sottratto al dominio del mercato mondiale degli psicofarmaci.
Così è, per esempio, anche nel mondo occidentale per il Postraumatic Stress Disorder, che viene trattato nel National Center for PTSD di Washington (per reduci di guerra) con diverse cerimonie, che rievocano fasi diverse di una storia comune a tutti i partecipanti. "Se può essere ammessa in via di principio - scrive Roberto Beneduce - l'efficacia terapeutica di simili cerimonie, che sostengono l'individuo nello sforzo di dominare e "accreditare" una definizione comune di quanto gli è accaduto, bisogna riconoscere al tempo stesso che quelle cerimonie lo coinvolgono profondamente anche nella ideologia della retorica che fondano l'uso di una categoria e la sua ri?produzione " (4). Non sfugge in questa particolare esperienza, infatti, la relativa riconduzione della cerimonia dentro le logiche della continuità dell'esperienza di guerra e dunque all'interno di un universo "militare" con le sue peculiari caratteristiche.
Resta da verificare per quali motivi si sono potute affermare come "scientifiche" e "golden standard" metodiche ampiamente deficitarie, come per fortuna si stanno evidenziando. Mosher afferma in modo più reciso di quanto non abbia fatto il NEJM: "I protocolli di ricerca usati negli studi su psicofarmaci richiesti per l'approvazione del FDA si suppone vengano rivisti dagli Institutional Review Boards (IRB's) per essere sicuri che questi studi non pongano rischi indebiti au soggetti di studio. Membri di questi Boards sono stati trovati essere consu?lenti altamente pagati dalle Case farmaceutiche i cui protocolli essi stessi rivedono. Così essi hanno ovvi conflitti d'interesse e non sono obiettivi revisori privi di condizionamenti nei confronti di studi su psicofarmaci sui quali esercitano un parere" (5).
Anche E. Valenstein, nel suo bel lavoro Blaming the Brain, dà una lucida descrizione degli intrecci tra Case farmaceutiche, psichiatri ed ambienti della ricerca accademici (6).
Abbiamo accennato al ruolo del manuale diagnostico Usa nel rinforzo delle tendenze a separare l'osservazione e il trattamento dai contesti di vita e dalle modalità che i soggetti usano per far fronte alle difficoltà inerenti. Non si tratta solo di dinamiche familiari o sociali in senso stretto (cioè quelle direttamente sperite da sog?getti in?teressati nei loro rispettivi ambienti). Risultano altrettanto importanti per la salute mentale i mutamenti di scenario, la crisi della cultura del gruppo di appartenenza, le vicende dello sradicamento dalle abitudini consuete, il dominio della cultura di massa, le difficoltà economiche, le silenziose sofferenze dei ripetuti traumi diffusi e poco valutati dai sistemi diagnostici (incidenti stradali, infortuni sul lavoro, malattie croniche invali?danti).
Tra questi fattori che ho chiamato di scenario acquista un ruolo di primo piano la scuola e il suo funzionamento in relazione alla salute mentale dell'infanzia. E' incredibile come il termine "funzionamento" sia stato ormai adottato dal DSM e dalla terminologia psichiatrica e psicologica corrente per indicare modi di comportamento e di adattamento alle situazioni, mentre poco o nulla viene dichiarato per quanto riguarda il "funzionamento" della famiglia e della scuola. All'inverso un modello medico esasperato affina le diagnosi e le sottodiagnosi (nonché le terapie farmacologiche o comunque di impronta tecnica) fino a raggiungere vertici difficilmente raggiungibili di sofisticazione a dir poco ossessiva.
Nell'ultimo parto della diagnostica Usa per quanto riguarda l'infanzia e l'adolescenza (prontamente ed ossequiosamente introdotto in Italia) (7) si giunge ad elencare ben sette tipi e sottotipi del disturbo da deficit di attenzione ed iperattività, a seconda della prevalenza di uno o di un altro dei "sintomi" rilevati. A ciò si è giunti superando lo stesso DSM IV, aggiungendo all'elenco il disturbo da comportamento dirompente e il disturbo oppositivo provocatorio. Insomma il dominio medico psichiatrico invade anche il campo della pedagogia! Ma, a parte ciò, i "sintomi" elencati sono quasi sempre richiesti con un avverbio incredibilmente vago e soggettivo: essi debbono essere presenti "spesso" (often).
A ciò si aggiunga anche il verbo "sembrare". Ad esempio: "spesso non sembra ascoltare quando gli si parla direttamente". Altri esempi sono quasi ridicoli - se non fossero tragici - : "è spesso "sotto pressione" o agisce come se fosse "motorizzato". L'atomizzazione di queste osservazioni non partecipi è altissima: i sintomi sono ben diciotto. Per la diagnosi ne sono necessari dodici.
L'efficacia del trattamento con metilfenidato (un farmaco a struttura ed azione anfetaminica) è ampiamente discutibile. Peter Bregging, che alla questione ha dedicato un importante ricerca, mai pubblicata in Italia (8), riferisce i dati conclusivi di una review (1992-93) a cura di un sostenitore, J.M. Swanson, sulla diagnosi e sul trat?tamento con metilfenidato. Ecco i risultati:
* Non sono stati verificati benefici effetti a lungo termine dalle ricerche
* Gli effetti a breve termine con stimolanti non dovrebbero essere considerati una soluzione dei sintomi cro?nici del disturbo da deficit di attenzione
* Il trattamento stimolante può migliorare l'apprendimento in alcuni casi ma peggiorarlo in altri
* In pratica le dosi prescritte di stimolanti possono essere troppo alte per ottimi effetti sull'apprendimento e la lunghezza dell'azione della maggior parte degli stimolanti è vista come troppo breve per influenzare i risultati scolastici.
Le conclusioni finali sono assai deludenti e corrispondono con quelle di altri autori favorevoli al trattamen?to: non vi sono ampi effetti sulle abilità (skills) o sui processi di ordine elevato. Non c'è miglioramento nell'adattamento a lungo termine.
Si può affermare che la diagnosi di DDA, con i suoi connessi, è una diagnosi psichiatrica inconsistente e pericolosa. Inconsistente per le modalità con cui si determina, pericolosa per le conseguenze sociali di una diagnosi psichiatrica socialmente stigmatizzante e per il trattamento che mette a rischio la salute mentale del bam?bino. Di ciò dovevano essere persuasi gli elaboratori del sistema diagnostico ICD dell'OMS/WTO, quando limitavano la diagnosi di "Disturbo dell'attività e dell'attenzione" con le seguenti osservazioni piene di cautela, assolutamente mancanti nell'approccio Usa: "Esiste tuttora incertezza circa la suddivisione più soddisfacente delle sindromi ipercinetiche. Comunque studi longitudinali mostrano che l'esito dell'adolescenza e nell'età adulta è molto influenzato dall'eventuale associazione con aggressività, delinquenza o comportamento antisociale. Pertanto la suddivisione principale viene fatta in base alla presenza/assenza di queste caratteristiche associate". Appare evidente qui la preoccupazione per gli esiti a distanza dell'inquadramento diagnostico associato ad un trattamento farmacologico.
A questo proposito, si sta assistendo ad una diffusione, presso i pediatri e i neuropsichiatri infantili, di trattamenti farmacologici a largo raggio anche con farmaci esplicitamente "sconsigliati" dai prontuari farmaceutici. Ed è di questi giorni (23 Aprile 2004) una messa a punto del National Institute of Mental Health americano sulla restrizione all'uso dei nuovi antidepressivi nell'infanzia, eccetto la fluoxetina. Da alcune ricerche si sarebbe riscontrato un tasso di suicidi più elevato nei trattati con antidepressivi che nei non trattati. La nota osserva che "c'è stato un drammatico aumento negli ultimi anni nell'uso di antidepressivi nei bambini e adolescenti di età compresa tra 10 e 19 anni". Appare evidente la cautela con cui si muovono gli esperti del NIMH, nel sottolineare come sia difficile valutare questo aumento e come però dai clinical trials siano già esclusi i soggetti con rischio di suicidio o che l'abbiano già tentato. Poi aggiungono che "la psicoterapia è il trattamento di prima scelta per il trattamento della depressione nei bambini ed adolescenti" (9)
Meno attenti all'aggiustamento diplomatico due interventi, anche questi recentissimi, del Lancet (24 Aprile) (10) e del Canadian Medical Association Journal (2 marzo) (11).. Il Lancet accusa: "L'uso degli antidepressivi di nuova generazione (SSRIs, Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) per trattare la depressione nell'infanzia è stata incoraggiata dalle Case farmaceutiche e dai clinici di tutto il mondo. Il mese scorso il Canadian Medical Association Journal ha rivelato estratti da un memorandum interno della Glaxo Smith Kline che dimostrava come la Casa cercasse di manipolare i risultati di ricerche pubblicate. A proposito di uno studio sull'uso della paroxetina nei bambini, il memorandum afferma: "Sarebbe inaccettabile includere una dichiarazione che l'efficacia non è stata dimostrata in quanto ciò metterebbe in pericolo il profilo della paroxetina". "L'anno scorso - prosegue il Lancet - il Comitato sulla sicurezza dei farmaci dell'UK proibì il trattamento della depressione infantile con ogni tipo di SSRI eccetto la fluoxetina. A dispetto di ciò la FDA negli Usa la settimana scorsa non ha agito appropriatamente sull'informazione che le è stata fornita sull'inefficacia e pericolosità per i bambini di questo farmaco".
Il CAMJ dal canto suo aveva fornito una documentazione riservata della Glaxo Smith Kline molto compromettente e dimostrava della subordinazione della sicurezza e della efficacia del trattamento alle esigenze della diffusione sul mercato di un prodotto. Ecco un passo del memorandum, già in precedenza citato: "Il CMA (Central Medical Affairs Team) della Casa farmaceutica citata raccomanda alla ditta di "gestire efficacemente la disseminazione di questi dati allo scopo di minimizzare ogni potenziale impatto commerciale negativo". La rivista aggiunge che la spesa per il farmaco in questione (Seroxat) ammonta a circa 4,97 miliardi di dollari nel 2003 in tutto il mondo. Lo studio 329, condotto negli Usa dal '93 al '96, fu il più ampio trial sull'uso di un SSRI nella popolazione pediatrica. I risultati indicavano che la paroxetina non era più efficace del placebo. Addirittura in uno studio condotto in Europa e Sud America, il placebo risultava più efficace del farmaco. Il CMA citato ha poi organizzato un meeting dell'European College of Neuropsychopharmacology nel 1998 in cui sottolinea che si debbono riportare risultati positivi ("sarebbe commercialmente inaccettabile includere affermazioni di inefficacia").
La cosa grottesca e drammatica al tempo stesso è rappresentata dal fatto che lo studio in questione è stato poi pubblicato (12). Gli autori concludono che la paroxetina "è generalmente ben tollerata ed efficace per la depressione maggiore in adolescenza". Sui 93 casi di adolescenti ci furono 5 casi seri di "labilità emozionale" (cioè idee i gesti di suicidio). Sui 95 casi che prendevano un antidepressivo tradizionale (tofranil) ci fu un solo casi di questo tipo e tra gli 89 con placebo pure solo uno. Un'agenzia indipendente britannica (Britain's Medicines and Healthcare Regualtory Authority, MHRA) avvisò i medici nel giugno 2003 che la paroxetina non si sarebbe dovuta prescrivere in soggetti sotto i 18 anni, per l'evidenza di suicidio da 1,5 a 3,2 più alta in coloro in trattamento con il farmaco rispetto al placebo. Seguirono rapidamente la Francia e l'Irlanda. Non si fa menzione dell'Italia, ma speriamo che si sia uniformata prontamente a questa decisione presa in Europa. L'MHRA ha bandito l'uso negli adolescenti e nell'infanzia di tutti i SSRI tranne la fluoxetina e sta valutando l'uso di questi farmaci negli adulti. Una stima stabilisce in 11 milioni gli americani e in 3 milioni i canadesi che assumono antidepressivi.
Il problema fondamentale, accanto a quello dell'orientamento massiccio e talvolta esclusivo della scelta del farmaco da parte degli specialisti in psichiatria, è quello denunciato ancora una volta dal Lancet. Chi assicura l'obiettività degli studi quando il presidente dell'organizzazione, in Gran Bretagna, che recluta volontari per le ricerche (John Bell, capo della UK Boibank) è anche direttore della Casa farmaceutica Roche? In aggiunta, continua il Lancet, la maggior parte dei finanziamenti richiesti per completare il progetto viene da fonti industriali. "Con questo livello di coinvolgimento, si sentirà veramente obbligata una Casa farmaceutica a pubblicare informazioni sulla inefficacia di uno dei prodotti?"
Ma il problema non sta solo in questa sovrapposizione. A dispetto di tutte le ricerche che dimostrano la non grande superiorità nell'efficacia di uno psicofarmaco sul placebo e soprattutto sui farmaci più tradizionali, vi sono giornali e riviste di grande tiratura che sembrano degli inserti pubblicitari. Vorrei segnalare come esempio deteriore di questo tipo, l'inserto del "Corriere della Sera" del 4 aprile scorso, che sotto il titolo incredibile di "Medicina per il buon umore", nel riaffermare la certezza della genesi organica della depressione ("La carenza di serotonina causa disturbi del sonno, irritabilità. La carenza di noradrenalina (che regola attenzione e vigilan?za) può contribuire al senso di affaticamento e al calo dell'umore. Queste conoscenze hanno permesso la messa a punto di farmaci, il cui scopo è riequilibrare la disponibilità e il funzionamento nel cervello di queste sostanze chimiche") addirittura allarga all'80-90% il tasso di pazienti che "rispondono al trattamento" mentre afferma ottimisticamente che "quasi tutti i pazienti sottoposti a terapia ottengono il miglioramento quantomeno di alcuni sintomi". Un capitoletto intende poi tranquillizzare sulla sicurezza degli SSRI a proposito dei rischi di suicidio, senza in alcun modo accennare alla grave questione cui si è fatto cenno sopra. Il titolo è infatti eloquente: "Le pillole diminuiscono il rischio di suicidio". Come abbiamo visto, almeno per quanto riguarda gli adolescenti, gli studi hanno dimostrato che ciò non corrisponde a verità. Il fatto è che il farmaco soffre ad essere considerato una merce come tutte le altre.
E proprio questa riduzione a merce è stata denunciata qualche anno fa dal Guardian a proposito di un SSRI che non trovava uno sbocco adeguato. Come si fa per un prodotto qualsiasi, la ditta in questione (guarda caso la Glaxo Smith Kline) ha affidato a un'agenzia competente, la Cohn & Wolfe, la promozione del prodotti. "Il modus operandi della Glaxo Smith Kline - scrive il Guardian - è tipico dell'era post-Prozac: promuovere il mercato di una malattia piuttosto che vendere il farmaco". Attraverso campagne volte ad attirare persone insicure ed in crisi a riconoscersi in una nuova malattia del DSM, il disturbo d'ansia generalizzata (GAD) con l'ausilio di pubblicità ma anche con partecipazione a trasmissioni televisive di grande ascolto, è stata creata l'attesa per una risposta farmacologica al disturbo che è stato anche chiamato "fobia sociale" ma anche, con una elegante metafora "allergia per la gente".
Una volta preparato il terreno ed ottenuta l'approvazione da parte delle autorità, il farmaco è stato gettato sul mercato (ovviamente preparando anche gli specialisti a prescriverlo) Il Guardian, che riprende un articolo del periodico Usa Mother Jones, cita con nome e cognome i ricercatori che, pur essendo nel libro paga della Casa farmaceutica, si spacciavano per esperti indipendenti. Risultato: nel giro di due anni il paxil aveva soppiantato un altro farmaco concorrente come numero due nelle vendite dopo la fluoxetina.
Interessante da riportare: il successo della campagna Cohn & Wolfe non sfuggì all'industria. I giornali commerciali plaudivano alla Glaxo Smith Kline per aver creato una "forte posizione anti-ansia" assicurando un brillante futuro al paxil. Si è parlato di "espandere il mercato dell'ansia" e si sono fatte previsioni sui profitti, stimati per il 2009 a 3 miliardi di dollari. Se questa è salute mentale.... (13)
Nota bibliografica
1) M. Angell, Is Academic Medicine for Sale?, The New England Journal of Medicine, May 18, 2000
2) J. Scott, Psychological Treatment for Depression, British Journal of Psychiatry, 1995, 167, 289-292
3) S. Garattini, Maggiore prudenza sui nuovi medicinali, Il Sole 24 ore, Sanità, 16-12 marzo 2004
4) R. Benedice, Frontiere dell'identità e della memoria, Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo, Franco Angeli, 1998 (pag. 121)
5) L. Mosher, How Drug Company Money Has Corrupted Psychiatry, www.antipsychiatry.org/mosher.loren.1.htm
6) E. Valenstein, Blaming the Brain, The truth about Drugs and Mental Health, The Free Press, New York, 1998. Vedi in partic?olare il cap. 6 "How the pharmaceuticals industry promotes drugs and chemical theories of mental illness"
7) J.L. Rapoport, D.R. Ismond. DSM-IV, Guida alla diagnosi dei disturbi dell'infanzia e dell'adolescenza, ed. it. A cura di V. Caretti, N. Dazzi, R. Rossi, Masson 2000
8) P.R. Bregging, Talking back to ritalin, Common Courage Press, Monroe, 1998 (pagg 101- 102)
9) NIMH, Antidepressant Medications for Children: Information for Parents and Caregives, www.nimh.nih.gov/press/Stmntantidepmeds.cfm
5.
Come riesce evidente da questi articoli, la psichiatria alternativa mantiene un'elevata capacità critica nei confronti della neopsichiatria e del perverso intreccio tra industrie farmaceutiche e pratica psichiatrica, che rappresenta un fatto nuovo e pericoloso nella storia di una disciplina che insiste a perseguire la guarigione della malattia mentale per via biologica.
Alla denuncia di tale intreccio, aggiungerei almeno un dato che gli autori non citano: l'insistenza della propaganda farmaceutica, rispetto alla quale la neopsichiatria rappresenta la cassa di risonanza, sulla necessità di una diagnosi e di un trattamento farmacologico sempre più precoci. Adottando gli schemi diagnostici del DSM-IV è sempre più agevole identificare in un disagio giovanile i sintomi di un disturbo dell'umore o di una psicosi schizofrenica incipiente.
Per quanto il manuale dell'APA vincoli la diagnosi - quando la sintomatologia non è franca - ad un periodo di osservazione di almeno sei mesi, l'esigenza di un trattamento precoce induce sempre più spesso i neopsichiatri a prescrivere antidepressivi e neurolettici in via preventiva. Sulla carta, ciò implica che, se il decorso della malattia risulta incompatibile con la diagnosi posta, c'è sempre la possibilità di sospendere i farmaci. Di fatto, però, tranne i casi in cui il paziente rifiuta di sottomettersi alle prescrizioni, questo non accade mai.
La realtà, dunque, è che un numero crescente di casi di disagio psichico giovanile vengono avviati, non sempre in buona fede, verso una cronicizzazione che fa dei pazienti consumatori a vita di psicofarmaci costosissimi.
Opporsi a questo trend, moralmente riprovevole e, al limite, criminoso, non può però significare solo contimuare a denunciarlo. Nella misura in cui esso si riconduce ad un paradigma esplicativo del disagio psichico, assunto tout-court come espressione di una malattia biologica di natura genetica, occorre contrapporre ad esso un altro paradigma che abbia una struttura scientifica e possa essere, sia pure lentamente, condiviso dai pazienti, dai familiari e dall'opinione pubblica.
Purtro