ESTERNALITA' NEGATIVE, AMBIENTE E SALUTE

1.

In Abracadabra e in SMT ho sostenuto che il nostro mondo, in conseguenza della sua organizzazione incentrata sulla (iper)produzione industriale di beni e di servizi, è "affetto" da due gravi problemi ormai prossimi alla soglia critica di non ritorno: il disastro ambientale, attestato dall'inquinamento, e quello antropologico, comprovato dall'aumento continuo del disagio psichico. In questo articolo, riprendo quest'affermazione tentando di dimostrare che essi hanno una matrice comune. A tale fine, utilizzo un concetto economico - quello di esternalità negativa -, dando ad esso un'estensione che presumibilmente farebbe torcere il naso agli economisti.

Il concetto di esternalità è abbastanza semplice da capire.

Nell'ottica dell'economia classica, che considera il mondo solo come un mercato, gli uomini si distinguono in produttori e consumatori. Tutti i costi e benefici che discendono dall'attività economica vengono valutati all'interno della relazione tra essi.

Da circa trent'anni si è fatta strada, sull'onda del pensiero ecologista, la consapevolezza che qualunque attività economica, implichi essa lo scambio di beni o di servizi, può comportare effetti esterni a carico di persone non coinvolte immediatamente nella relazione di mercato. Per esternalità, s'intende appunto "l'influenza che l'attività economica di un soggetto esercita, al di fuori delle transazioni di mercato, sulla produzione o il benessere di un'altra persona". Tale influenza può essere positiva, quando essa arreca benefici che non vengono pagati da chi ne fruisce, o negativa, quando essa impone costi o produce danni che ricadono su agenti esterni alla relazione di mercato. Si parla pertanto nel primo caso di esternalità positiva e nel secondo di esternalità negativa (o diseconomia esterna).

Esempi classici di esternalità positiva sono: le scoperte scientifiche, legate alla ricerca, che (si pensi al transistor), nonostante i brevetti, si diffondono beneficiando anche chi non paga nulla per esse; la costruzione di autostrade, che, tranne i casi di pedaggio, possono essere utilizzate da tutti con riduzione dei costi di trasporto; le vaccinazioni, delle quali si avvantaggiano indirettamente tutti coloro che sarebbero potuti rimanere infettati e che non pagano nulla per questo beneficio, vale dire non ripagano l'inventore del vaccino; ecc.

Esempi classici di esternalità negative sono: l'inquinamento atmosferico o idrico, che comporta un costo sociale, in termini di danno all'ambiente e alle persone, che non viene pagato da chi lo produce; l'accumulo di rifiuti e di scorie radioattive, che minaccia la salute delle persone; gli effetti collaterali dei farmaci, che producono malattie non risarcibili; ecc.

Si tratta dunque di un concetto estremamente chiaro e apparentemente semplice. Le cose diventano più complesse nel momento in cui si considera che la stessa attività economica può trasformarsi, nel corso del tempo, da positiva in negativa. E' indubbio, per esempio, che i trasporti hanno di gran lunga migliorato il tenore di vista di intere popolazioni, riducendo costi che in precedenza erano proibitivi. Solo lentamente, via via che sono aumentati a dismisura i veicoli circolanti, si sono delineati gli effetti negativi esterni: l'inquinamento ambientale e acustico, stress, incidenti, ecc.

Questa trasformazione è centrale nell'analisi che Illich fa del sistema industriale, e sembra corrispondere puntualmente al concetto di doppia soglia dello sviluppo che egli ha messo a fuoco, secondo il quale il superamento della prima produce esternalità positive, quello della seconda esternalità negative.

Perché questo aspetto si può ritenere particolarmente importante? Perché esso sembra cogliere una contraddizione intrinseca al sistema industriale avanzato, non facile da risolvere. La contraddizione concerne la compatibilità tra costi e benefici privati per un verso e costi e benefici sociali. Tale compatibilità sembra riconoscere un punto critico al di là del quale i benefici privati si traducono inesorabilmente in costi sociali. In quest'ottica i vantaggi dello sviluppo economico, che, all'avvio dell'industrializzazione, riguardano tutti, alla fine si traducono in benefici per alcuni e danni per altri. Questo viola la legge fondamentale dell'equilibrio economico, secondo la quale un sistema è in equilibrio quando nessuno può trarre vantaggio senza danneggiare qualcun altro, e definisce l'inefficienza del sistema stesso.

Per quanto riguarda l'inquinamento ambientale, gli ecologisti hanno lanciato da tempo l'allarme su una situazione che sta diventando drammatica a livello planetario. Posto che l'inquinamento è prodotto in massima parte dai paesi industriali o in via di rapida industrializzazione, gli ecologisti si chiedono se sia lecito, in nome di benefici privati, produrre un danno incalcolabile, che rischia di compromettere la stessa sopravvivenza della specie umana e, nella migliore delle ipotesi, far pagare alle generazioni future costi proibitivi. Il problema è diventato ancora più urgente e paradossale dacché è risultato chiaro che i danni dell'inquinamento impongono costi sociali onerosi alle stesse società industriali.

La risposta fornita a questo problema dagli Stati Uniti, che hanno rifiutato di firmare il protocollo di Kyoto, è estremamente significativa. La firma è stata rifiutata in nome del fatto che, ridurre l'emissione di scarichi tossici nella misura stabilita dal protocollo stesso, avrebbe comportato per le industrie spese tali per sistemi di depurazione da precipitare quasi di sicuro il paese in una spirale recessiva. L'inquinamento, insomma, permette di produrre di più e a più basso costo.

Le industrie statunitensi non rifiutano di fare qualche "sacrificio". Ma questo sacrificio ha un limite economico, vale a dire il punto in cui i benefici apportati dalla riduzione aggiuntiva dell'inquinamento (benefici marginali privati) sono uguali al costo addizionale sostenuto per tale operazione (costo marginale della riduzione). In genere questo limite non permette di ridurre che un decimo dell'inquinamento. Il fatto è che i benefici marginali sociali del controllo dell'inquinamento sono dieci volte maggiori dei benefici marginali privati diventa.

Detto in altri termini: in assenza di una regolamentazione rigida, a tutela dell'ambiente e della salute dei cittadini, i costi sociali dell'inquinamento, pagati dall'intera comunità, sono di gran lunga superiori ai benefici privati.

In nome di che, particolarmente negli Stati Uniti, non si tiene conto di questa realtà, che arricchisce i privati e depaupera la comunità di risorse? In nome del fatto che una rigida regolamentazione sull'inquinamento farebbe diminuire la produzione e aumentare i prezzi dei prodotti, determinerebbe disoccupazione, diminuzione dei consumi, ecc. Potrebbe insomma innescare una spirale recessiva. Dunque, per mantenere in buona salute l'economia, occorre accettare - bon gré, mal gré - i danni ambientali e la compromissione della salute dei cittadini

E' questa la contraddizione intrinseca al sistema di cui parlavo prima. Il funzionamento del sistema industriale postula il danno dell'ambiente e, di conseguenza, della salute dei cittadini, oltre che ovviamnte degli equilibri ecologici.

Da questo punto di vista, Illich aveva ragione nel sostenere che solo un diverso modello di sviluppo permetterà all'umanità di sopravvivere, vale a dire di fuoriuscire da un tunnel che, all'inizio, ha prodotto un aumento del tenore di vita e adesso sembra produrre un'esternalità negativa di gran lunga superiore a quella positiva.

2.

Nell'ambito delle esternalità, non rientrano gli effetti negativi prodotti all'interno delle relazioni di mercato. Data l'esistenza del mercato del lavoro, laddove valgono le leggi dell'offerta e della domanda, se un lavoratore accetta lo scambio proposto dal datore di lavoro, egli accetta di conseguenza l'inevitabile logoramento psicofisico legato al lavoro stesso. In quanto interno alla relazione di mercato, il logoramento psicofisico non è considerato un'esternalità negativa, bensì un dato di fatto. Nel ciclo produttivo, tutto - materie prime, macchinari, uomini - si usura.

Io ritengo che questo modo di vedere sia piuttosto riduttivo. Come una qualunque materia prima - per esempio il legno di un albero - ha una sua realtà oggettiva preesistente la sua assunzione come materia prima, così il lavoratore, sia prima che dopo l'inserimento nel mercato del lavoro come fattore di produzione, ha una sua realtà oggettiva e per giunta (a differenza dell'albero) soggettiva. Questo significa che egli ha potenzialità, bisogni, desideri che trascendono il suo essere un fattore di produzione.

Ora, nel nostro sistema economico, almeno da una decina d'anni a questa parte, i datori di lavoro hanno adottato una logica - quella della produttività - in nome della quale pretendono, in nome del salario, la disponibilità completa del lavoratore in termini di dispendio di energie psicofisiche. Un buon lavoratore, nella loro ottica, è colui che, in nome dell'azienda da cui dipende e dal cui bilancio dipende la prosecuzione del rapporto di lavoro, dà tutte le sue energie e accetta di lavorare ben al di là dei limiti orari contrattuali. Un lavoratore ottimale è colui che esce stremato dal turno di lavoro. Il buon esempio, in questa direzione, del resto, lo danno i manager, che lavorano non meno di dodici - quattordici ore al giorno.

Considerare il logoramento psico-fisico come un'esternalità negativa non sarebbe azzardato. Quando si parla genericamente di stress lavorativo, si fa di fatto riferimento ad un danno che il soggetto subisce, quantificabile economicamente. Gran parte delle malattie psicosomatiche, nonché di alcune forme di disagio psichico, rientrano in questo ambito, e comportano, oltre che a quelli personali, costi sociali.

Gli economisti non accetterebbero quest'impostazione perché riterrebbero improprio parlare di esternalità negative laddove i costi ricadono a carico di un soggetto interno alla relazione di mercato. Essi direbbero - penso - che, volendo, un lavoratore può sempre sottrarsi alla situazione che lo danneggia, mentre per esempio un cittadino non può non respirare l'aria inquinata da una fabbrica.

Posto che si riconosca validità a quest'obiezione, ci si può chiedere se è vero che lo stress lavorativo ricade solo all'interno della relazione di mercato.

Nonostante i datori di lavoro, oggi, in nome della competitività, siano indotti a pensare che ogni lavoratore deve riversare tutte le sue energie nella produzione, tra l'altro a tutela del suo stesso posto di lavoro, è un fatto che, in quanto uomo, ogni lavoratore ricopre nella vita altri ruoli rispetto a quello lavorativo. Poniamo tra parentesi il fatto che egli ha anche il dovere di investire energie e tempo nel coltivare se stesso, studiando, leggendo, informandosi, e che questo dovere aumenta il suo valore sociale, dal quale, oltre che un appagamento personale, può derivare anche un vantaggio per gli altri. Tale dovere infatti può non essere riconosciuto neppure dagli interessati, e questo vantaggio sfugge ad ogni quantificazione.

C'è qualcosa di molto più importante, su cui gli economisti tacciono. Essi sanno che il capitale umano, sia esso sfruttato o valorizzato, è comunque un fattore di produzione fondamentale. Dato però che sono abituati a considerare i fattori di produzione come naturali, viene ad essi spontaneo considerare anche l'uomo come tale. Ignorano insomma che, per diventare un produttore e un consumatore, l'uomo ha bisogno a sua volta di essere "prodotto", vale a dire allevato, e che questa produzione ha un costo in termini di energie e di tempo.

3.

Come ho scritto altrove, la produzione antropologica - vale a dire il processo per cui da una "materia" prima si tira fuori un essere socialmente integrato e dotato di un'identità personale, che può, tra l'altro, assumere il ruolo di agente economico - è una componente essenziale del processo di riproduzione sociale. Si tratta di una produzione delicata: primo, perché la materia prima non è inerte, ma dotata di soggettività, di diritti e di bisogni; secondo, perché essa richiede, per arrivare al "prodotto" finito un tempo smisuratamente lungo - da 18 a 25 anni - e l'erogazione, da parte dei "produttori" - genitori, insegnanti, ecc. - di ingenti risorse economiche, affettive e culturali.

Ora, se isoliamo in questo contesto di discorso il ruolo dei genitori, il problema delle esternalità negative riesce più evidente. Se i processi lavorativi prosciugano pressoché tutte le energie e il tempo dei soggetti, il danno, vissuto in prima persona sotto forma di stress, malattie psicosomatiche, nevrosi, ecc. - ricade inesorabilmente anche sui figli, che sono soggetti esterni alla relazione economica. I costi sociali di questo danno sono senz'altro difficili da calcolare, ma, nell'attesa che si facciano ricerche a riguardo, la loro esistenza si può ritenere indubbia, non meno della gravità del danno stesso, che interferisce sullo sviluppo integrato della personalità.

Al danno dovuto allo stress dei genitori che lavorano e allo scarso tempo che essi possono dedicare ai figli, occorre aggiungerne un altro: il coinvolgimento dei figli stessi in un ritmo di vita febbrile, cadenzato dalle esigenze degli adulti di rispettare i vincoli lavorativi. Ciò significa risveglio precoce per prepararsi ad andare all'asilo, istituzionalizzazione a tempo pieno, sollecitazioni precoci sul piano dell'autonomizzazione, ecc. Queste circostanze sono la matrice di opposizionismi di vario genere, capricciosità, disturbi del sonno e del comportamento alimentare, tics, disturbi dell'apprendimento, depressioni, nevrosi, ecc. Situazioni queste che comportano tutte un costo sociale.

Si dirà che disturbi del genere capitano anche a bambini la cui madre è casalinga. L'obiezione non ha molto peso. In questo caso, non si può parlare di esternalità negative in senso proprio, bensì di un carico di frustrazioni, insoddisfazioni, alienazioni che sono tipiche del nostro mondo. Ciò non toglie che, laddove i genitori siano inseriti entrambi a tempo pieno nel ciclo lavorativo, le conseguenze del dispendio energetico cui sono sottoposti e il ridursi della loro disponibilità temporale nei confronti dei figli determinano delle esternalità negative in senso proprio.

Il problema, che risulta sempre più evidente via via che il sistema economico si "razionalizza", è che i datori di lavoro considerano i lavoratori solo come fattori di produzione che vanno utilizzati (cioè sfruttati) al meglio, e, in nome dell'efficienza, li deprivano delle energie necessarie per svolgere il loro ruolo di "produttori" di uomini. Un indizio dell'incompatibilità tra produzione economica e produzione antropologica, in tutti i paesi industrializzati, è il calo demografico. Nonostante tante strambe ipotesi che si avanzano rispetto a questo fenomeno, è evidente che esso dipende, in misura rilevante, dalle scarse risorse "energetiche" di cui dispongono i genitori inseriti nel ciclo di lavoro. I costi sociali del calo demografico, che sono ben noti e appaiono drammatici, sono in gran parte riconducibili ad esternalità negative del sistema economico.

4.

Ci si può chiedere a che serve affrontare i problemi ambientali e quelli antropologici in un'ottica economica. Si possono fornire due risposte.

Per un verso, sembra chiaro che tale ottica, evidenziando, attraverso le esternalità negative, l'inefficienza del sistema, induce a privilegiare la negletta economia normativa - quella che fornisce giudizi di valore su come le cose dovrebbero essere - rispetto all'imperante economia positiva, a tal punto ossessionata dal mito dell'efficienza da non vedere, in nome di una focalizzazione costante sulle relazioni di mercato, come esse stanno realmente sul piano sociale.

Per un altro verso, ricondurre i disastri ambientali e quelli antropologici ad una matrice comune, quella di un sistema che privilegia i benefici privati rispetto a quelli sociali, e sacrifica questi sull'altare di quelli, vale a sottolineare l'inefficienza globale di esso, e la sua potenziale pericolosità in rapporto al destino dell'umanità.

Il problema, sotto il profilo politico, è che la gente è a tal punto assuefatta ad un tenore di vita, peraltro in via di progressiva erosione, che l'affranca dallo spettro della miseria, da non riuscire ancora a valutare pienamente i costi sociali che esso, in quanto espressione di un'industrializzazione avanzata, comporta, nonostante tali costi si configurino già come insostenibili.

Nessuno ha una ricetta magica per cambiare la situazione in atto. Un diverso modello di sviluppo richiederà all'umanità uno sforzo "creativo" non inferiore a quello ch'essa ha espresso nel pervenire all'industrializzazione. Tale modello vincolerà l'uso della natura e dell'uomo al rispetto di leggi che rispettereanno equilibri il cui venir meno dà luogo alla degradazione. Definire austero questo modello significa solo anticipare il fatto che esso non potrà non essere caratterizzato da una diminuzione dei consumi. Esso sembra attualmente utopistico perché gli uomini continuano ad associare ai consumi l'appagamento dei loro bisogni. Dovranno arrendersi al fatto che il consumismo implica un'usura della natura e delllo stesso tessuto umano che non è sostenibile all'infinito. Da questo punto di vista, il tema delle esternalità negative si può ritenere fondamentale ai fini di una presa di coscienza dei costi di un modello di sviluppo incentrato su di un aumento illimitato della produzione e su una crescita altrattanto illimitata della produttività, che coinvolge pesantemente il "capitale" umano.

Gennaio 2003