1.
Già tempo fa segnalai, in un articolo, che l'ecologia, l'ultima disciplina definitasi sull'onda delle preoccupazioni affiorate negli anni '70 per il destino di un pianeta occupato, colonizzato e necessariamente sfruttato da una specie singolare la quale, in virtù dei suoi bisogni, non potrebbe sopravvivere rispettando gli equilibri naturali, continua ad essere investita da un'accesa polemica la cui matrice è ideologica tra "catastrofisti" e "revisionisti": gli uni intesi a dimostrare che l'estensione planetaria del modello socio-economico di sviluppo capitalistico, incentrato sullo sfruttamento massiccio e illimitato delle risorse naturali, sta minacciando seriamente le sorti del pianeta e della sopravvivenza della specie umana; gli altri orientati a sostenere che tale modello, non essendo sostituibile in nome degli enormi benefici che esso ha arrecato all'umanità, valutati ancora oggi come nettamente superiori ai costi ecologici, va regolato e riformato puntando sulle potenzialità scientifiche e tecnologiche che esso solo è in grado di produrre, e che sono tali da rendere demagogico il catastrofismo.
Non c'è da sorprendersi per il fatto che una polemica del genere, immediatamente comprensibile a livello politico, abbia investito e coinvolga gli scienziati. E' noto da tempo che la neutralità della scienza è, per alcuni aspetti, un mito poiché essa postula che lo scienziato, nel momento in cui assume questo ruolo, si spogli completamente di ogni credenza, opinione, orientamento culturale e politico che sottendono la sua personalità. Certo, l'etica della scienza postula che egli faccia il massimo sforzo possibile per tenere sotto controllo questa zavorra costitutiva della soggettività: in breve, per distinguere i fatti che egli accerta utilizzando determinate metodologie codificate di ricerca e le opinioni personali. Tale sforzo però riconosce due limiti.
Il primo, di ordine epistemologico, è che i fatti in tanto esistono e sono oggetto di ricerca in quanto lo scienziato formula delle ipotesi. Queste si fondano sul sapere già acquisito ma richiedono necessariamente di essere integrate da qualche opinione, che, in ambito epistemologico, si definisce un po' pomposamente teoria.
Il secondo è riferito all'oggetto stesso della ricerca: quanto più questo coinvolge, direttamente o indirettamente l'uomo, tanto meno ci si può aspettare un'assoluta neutralità per la nota coincidenza tra l'oggetto e il soggetto della ricerca. Non c'è nessuna difficoltà a capire che, se è difficile che gli scienziati litighino nell'interpretare i dati che le sonde spaziali inviano da Marte (tutt'al più sviluppano qualche disaccordo), è inevitabile in una certa misura che essi si schierino polemicamente allorché è in gioco l'incidenza di una civiltà - quella occidentale - sul futuro del pianeta su cui vivono.
Il problema è che questo futuro non riguarda solo gli scienziati, i loro figli e nipoti, ma tutti gli esseri umani. Ciò significa che le decisioni da prendere in ambito ecologico dovrebbero passare attraverso una presa di coscienza collettiva dei termini del problema. Ma come potrà avvenire una cosa del genere se le informazioni di cui dispone la gente sono contraddittorie e tendenziose?
L'ecologia si pone come la punta di un iceberg il cui corpo è la distribuzione del potere sui destini del mondo. Investire nella ricerca è un'assoluta necessità, ma non è meno importante tenere conto che i dati della ricerca, essendo elaborati dagli scienziati stessi e, a maggior ragione, dai politici in termini ideologici, richiedono uno straordinario sforzo collettivo di apprendimento e di crescita della coscienza critica sullo stato di cose esistente.
Questo articolo (e quelli che seguiranno) mira ad offrire un modesto contributo in questa direzione.
2.
Prendere atto del contrasto ideologico in corso è piuttosto semplice. Si pubblicano di continuo libri e articoli a favore e contro il catastrofismo, che è il marchio originario di fabbrica di un movimento avviatosi alla fine degli anni Sessanta sull'onda della contestazione contro il sistema capitalistico. L'analisi e la critica di questa vasta letteratura (che peraltro conosco solo in parte) sarebbe fuorviante. Certo, valutando le biografie degli autori - in gran parte fisici, chimici, biologi, ecologisti (vale a dire scienziati interdisciplinari) - si rimane sorpresi dal numero, ridotto ma significativo, di coloro che vanno incontro a repentine e improbabili conversioni dal catastrofimo all'anticatastrofismo e (più raramente) viceversa. Già questo indizio rivela che l'ecologia è una disciplina che comporta una rilevante componente interpretativa (dunque ideologica): gli stessi dati, infatti, possono essere manipolati in maniera tale da assumere un diverso significato.
La maggioranza degli scienziati è comunque abbastanza stabilmente attestata su una delle due posizioni. La schiera dei catastrofisti (ecologisti politici) appare, a occhio e croce, maggioritaria, ma quella degli anticatastrofisti (ecologisti economici e scientisti) è parecchio cresciuta nel corso degli ultimi anni. Il revisionismo insomma si sta imponendo anche a livello di ecologia, fornendo ai politici di centro-destra, tutti per ovvi motivi fieramente avversi al catastrofismo, il punto di leva per rifiutare l'adozione di provvedimenti incisivi a tutela degli equilibri planetari e per contrapporre alle strategie già concordate a livello internazionale, a partire dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 sino al protocollo di Kyoto, proposte alternative che si basano sulla minimizzazione del pericolo.
Un libro importante per capire come stanno le cose è il volume quinto dell'Enciclopedia della Scienza pubblicato come supplemento a Il Giornale, realizzato da Federico Motta Editore.
In esso l'intreccio tra scienza e ideologia raggiunge vertici paradossali perché evidentemente la Direzione e il Coordinamento di una fittissima schiera di collaboratori, pure manifestamente orientati ad intrappolare i dati in una gabbia interpretativa di presunta neutralità scientifica, non sono riusciti ad estinguere contraddizioni clamorose tra catastrofisti e anticatastrofisti.
Trattandosi di un volume che consta di più di 800 pagine, un'analisi critica puntuale richiederebbe la scrittura di un saggio. Mi limiterò pertanto all'essenziale, non prima di aver sottolineato che estrapolare dal libro alcuni nuclei ideologici nulla toglie al fatto che si tratta comunque di un testo ragguardevole, denso di dati, di informazioni e di analisi in gran parte condivisibili.
3.
Il primo capitolo del libro è dedicato ad una cronistoria delle trasformazioni della biosfera dovute all'attività antropica dalle origini ai giorni nostri.
Anche se, in termini geologici, la comparsa della specie umana occupa finora una frazione infinitesima della storia del Pianeta Terra, che risale a 4,6 miliardi di anni fa, è evidente che essa rappresenta uno spartiacque di grandissima importanza. A differenza degli altri esseri viventi (piante e animali) che si adattano alle condizioni dell'ambiente, interagendo con esse ma avendo una minima capacità di trasformarle, l'uomo, per la sua attrezzatura psicobiologica, se si fosse arreso a vivere senza trasformare l'ambiente (come in una certa misura hanno fatto i progenitori vissuti di caccia e di raccolta) sarebbe forse sopravvissuto ma senza evolvere culturalmente e rimanendo in una condizione di vulnerabilità.
Di fatto, il primo capitolo del libro è una sorta di peana al progresso. Partendo dal presupposto condivisibile per cui l'uomo non avrebbe potuto rimanere in un rapporto di mitico rispetto in rapporto ad una natura in parte madre ma in parte matrigna, tutte le tappe del progresso culturale che hanno profondamente trasformato l'ambiente imprimendo su di esso il segno dell'uomo vengono rapidamente elencate come corrispondenti ad una necessità vitale, ad una serie di scelte senza alternative.
Forse senza alcun intento ideologico, la cronistoria delle trasformazioni ambientali sembra ricondursi al principio hegeliano per cui quello che è reale è razionale. In questa ottica, lo sviluppo tecnologico e il progresso appaiono essere la stessa cosa.
Questa identificazione pone tra parentesi il fatto che, nel suo tentativo di adattare il mondo ai suoi singolari bisogni, l'umanità non ha proceduto sulla base di un libretto di istruzioni. Essa si è trovata molteplici volte ad operare scelte tra alternative che vanno analizzate, tenendo conto del fatto che quelle operate non sempre sono state le più felici: circostanza questa che potrebbe ripetersi nel presente e nel futuro immediato.
Si può, per fare esempi illustrati nel testo, rimanere ammirati di fronte all'audacia architettonica delle Piramidi o di un gigantesco nodo autostradale americano. Come prescindere però dal considerare che le Piramidi, oltre a indiziare un passaggio culturale di fatto avvenuto ma forse non fatale (la divinizzazione del Potere assegnato ad un uomo), trasudano ancora oggi il sangue degli infiniti schiavi che hanno perduto la vita nell'impresa della loro erezione, e che le reti autostradali corrispondono ad un bisogno di velocizzare i tempi di trasporto privati riconducibili, in qualche misura, più alle esigenze delle industrie automobilistiche che non a bisogni sociali?
In breve, se il progresso viene presentato come una sorta di successione lineare di fenomeni univocamente ascendenti verso il benessere e sempre e comunque rispondenti ai bisogni autentici degli esseri umani, l'ecologia rimane vincolata al principio (giusto) per cui non si può tornare indietro e a quello (più discutibile) per cui occorre andare avanti nel solco dello sviluppo che si è realizzato sinora, senza considerare alternative possibili.
E proprio questo il messaggio che si ricava globalmente dalla lettura del libro: la necessità di porre rimedio agli eventuali danni prodotti dall'attività antropica, legata alla tecnologia, con un ulteriore sviluppo scientifico-tecnologico. Una cura metaforicamente omeopatica, che ha una sua giustificazione e i suoi limiti.
La giustificazione si fonda su di un approccio realistico al rapporto tra Natura e Uomo di cui i catastrofisti dovrebbero tenere conto, perché esso ha una notevole densità filosofica.
L'ecologia progressista, infatti, almeno nelle sue frange estremistiche, fa implicitamente e ingenuamente riferimento alla Natura come ad una Grande Madre quasi perfetta nei suoi equilibri spontanei, che l'uomo non dovrebbe violentare. Si tratta di un riferimento oleografico, che confonde l'emozione oceanica che l'uomo prova di fronte all'infinità dell'ambiente con un'armonia che, di fatto, non esiste. E' vero che l'ecosistema planetario, in sé e per sé, tende a preservare se stesso, a mantenere i suoi equilibri e a perpetuarsi. Ciò nondimeno non sembra, ad onta del creazionismo o della filosofia orientale, che la natura sia predisposta ad accogliere l'uomo e a rendergli la vita facile.
Nella ricerca degli equilibri ecosistemici rientrano infatti anche un buon numero di fenomeni (terremoti, vulcanismi, uragani, incendi spontanei, ecc.) che pongono a dura prova la vulnerabilità dell'uomo. A questo occorre aggiungere che la biosfera è popolata da infinite specie vegetali e animali che perseguono il loro obiettivo di sopravvivenza. In questo contesto naturalmente competitivo, non c'è alcuna prova (ad onta sempre del creazionismo) che l'uomo sia privilegiato rispetto alle altre specie. Esistono infinite piante commestibili ma velenose, infiniti batteri e virus che possono attentare alla vita umana. Se si pensa alle epidemie del passato, per esempio alla peste del Trecento che ha rischiato di desertificare l'Europa, ci si rende immediatamente conto dell'incubo in cui l'uomo è vissuto secolarmente in rapporto ad una Madre che, per alcuni aspetti, è anche matrigna.
Da ultimo, c'è da considerare il fatto che, anche ponendo tra parentesi l'attività entropica, la Natura non è immune dal produrre inquinamenti per conto suo, né dall'andare incontro, nella lunga durata, a cambiamenti climatici che hanno prodotto in passato l'estinzione di infinite specie (la più nota delle quali riguarda i mitici dinosauri).
Se tutto questo è vero ed importante, perché pone il rapporto tra Natura e Uomo sulla base di una tensione adattiva reciproca le cui finalità non sono necessariamente concordanti, e se esso serve a sgombrare il campo dall'astratta visione, propria di alcuni ecologisti progressisti, di una sorta di armonia naturale panglossina, c'è sempre il pericolo che il realismo, promosso dagli anticatastrofisti, divenga un alibi.
Posto infatti che la Natura ha mantenuto in qualche modo i suoi equilibri prima dell'avvento dell'uomo, e che questi equilibri comportano anche momenti squilibranti come l'autoinquinamento, il pericolo ideologico, nel quale sembrano cadere più volte i redattori del libro, è quello di assumere le condizioni indisturbate della Natura, quelle vigenti prima che l'uomo iniziasse a trasformarla, come metro di misura dei danni antropici.
In altri termini, se noi conoscessimo quelle che sono le fluttuazioni cicliche e spontanee del Pianeta in sé e per sé, quale sistema complesso, solo allora disporremo di un parametro atto a valutare l'incidenza dell'attività antropica. In termini strettamente epistemologici, il discorso è inconfutabile: la variabile legata all'attività antropica è sopravvenuta solo di recente nella storia del Pianeta, sovrapponendosi ad una dinamica sua propria che ha comportato anche fluttuazioni notevoli (come per esempio le glaciazioni). Tale discorso però comporta, come conseguenza ideologica, che in assenza di quel parametro, cioè di un quadro assolutamente chiaro e scientificamente convalidato di quali siano state (e teoricamente siano) le condizioni indisturbate della natura, qualunque valutazione dell'attività antropica possa essere assoggettata al dubbio di non essere corretta. Da questa conseguenza discendono poi anche criteri di intervento sull'attività antropica che sono per un verso minimali e per un altro univoci.
4.
Il minimalismo ecologico non solo sdrammatizza le conclusioni cui giungono i catastrofisti ritenendole demagogiche, vale a dire non scientificamente fondate su prove rigorose (che, in termini assoluti, non saranno mai disponibili). Esso utilizza un'argomentazione ideologica estremamente insidiosa, secondo la quale l'aspirazione al benessere dell'umanità non è coercibile. Posto, dunque, che tutti i popoli del pianeta ormai identificano nel benessere conseguito dall'Occidente un modello di riferimento, intervenire drasticamente sullo sfruttamento delle risorse naturali mirando alla crescita zero propugnata dai catastrofisti o, peggio ancora, alla decrescita proposta da alcuni di essi, significherebbe né più né meno destinare una quota rilevante dell'umanità al sottosviluppo e alla miseria.
In questa ottica, sviluppo tecnologico, crescita economica, progresso e benessere giungono ad essere identificati come fattori interdipendenti.
Convalidato il fatto che la globalizzazione avviatasi da vent'anni a questa parte è un processo irreversibile e incoercibile, rispondente ai bisogni degli abitanti della Terra, si tratta di capire cosa fare per impedire che tale processo degeneri, vale a dire che giunga ad essere minaccioso per gli equilibri ecologici planetari. Tale possibilità, anche se non ritenuta fatale, è infatti ammessa sulla base di una valutazione previsionale operata dai catastrofisti poco confutabile. Dato lo stato attuale della tecnologia, se magicamente i cinque miliardi del pianeta che vivono in una condizione di sottosviluppo, giungessero al tenore di consumo proprio del miliardo che vive nel benessere, gli equilibri ecologici sarebbero irrimediabilmente e rapidamente compromessi.
E' su questa base che i catastrofisti propongono come soluzione una presa di coscienza ecologista da parte dell'Occidente che comporti un cambiamento radicale del suo modello di sviluppo: in pratica, un regime di austerità che dovrebbe rappresentare un esempio per i popoli in via di sviluppo.
Tale possibilità, però, è ritenuta utopistica da parte degli autori del libro.
La previsione catastrofica cui ho fatto cenno viene dunque da loro accolta, ma smantellata in ordine al fatto che essa fa riferimento allo stato attuale della tecnologia, che, pur facendo continuamente passi da gigante, non sembra ancora in grado di scongiurare gli effetti squilibranti dell'attività entropia di un mondo densamente abitato. Nulla vieta di pensare che sviluppi ulteriori della tecnologia concernenti un migliore sfruttamento del petrolio, il ricorso a energie rinnovabili, sostanziali cambiamenti a livello agricolo, un progresso nello smaltimento dei rifiuti, ecc., possa però far fronte adeguatamente alla sfida di fronte alla quale l'umanità si trova, vale a dire la necessità di una crescita economica associata ad una riduzione degli effetti dell'attività antropica.
Questa è dunque la soluzione proposta dagli anticatastrofisti. Il problema è che essa, considerata nella sua praticabilità, non sembra meno utopistica di quella propugnata dai catastrofisti della crescita zero o della decrescita.
Lo sviluppo tecnologico, infatti, richiede sia sul piano della ricerca che dell'applicazione pratica un investimento enorme di risorse. E' evidente, dunque, che esso può avvenire solo nel contesto delle economie avanzate occidentali. Ci si può porre il problema di come le nuove tecnologie possano essere esportate nei paesi in via di sviluppo o in quelli sottosviluppati: sotto forma di donazione gratuita per il bene dell'umanità o sotto forma di "merce" da acquistare in virtù di un indebitamento? Esclusa la prima possibilità sulla base del fatto che le nuove tecnologie vengono prodotte in gran parte da investimenti di capitali privati, la seconda è evidentemente impraticabile. Quale motivazione potrebbe indurre i paesi in via di sviluppo o sottosviluppati a sacrificarsi per gli equilibri di un pianeta che sono posti a dura prova dall'attività antropica dei paesi sviluppati, ove risiede il 20% della popolazione mondiale e che contribuiscono per l'80% all'inquinamento?
Certo, si può sostenere che i paesi sviluppati stanno dando il buon esempio nell'affrontare i problemi ecologici. Ma intanto questo non è vero per quanto concerne gli Stati Uniti, che, con una popolazione di un ventesimo di quella mondiale, contribuiscono all'inquinamento planetario nella misura del 25%. In secondo luogo, se anche gli sforzi dei paesi sviluppati dovessero portare alla riduzione dell'inquinamento da essi prodotto dall'80% al 70%, nulla cambierebbe nella percezione che gli altri paesi del mondo hanno di un'ingiustizia nello sfruttamento delle risorse naturali che, semplicemente per il fatto di essere giunti in ritardo sulla pista dello sviluppo industriale, dovrebbero accettare.
Valida sulla carta, la soluzione tecnologica del problema ambientale è semplicemente ridicola. Ciò non significa che lo sviluppo tecnologico debba arrestarsi. Sarebbe però importante che l'Occidente si facesse carico delle sue responsabilità, che sono enormi, sotto il profilo ecologico, e considerasse la possibilità di operare qualche rinuncia al suo benessere e al suo tenore di vita consumistico per favorire la riduzione dello squilibrio tra il Nord e il Sud del mondo. Continuare a proporre il suo modello di sviluppo socioeconomico come irrinunciabile e, allo stesso tempo, come modello che i paesi in via di sviluppo e sottosviluppati non devono imitare pedissequamente, invitare insomma gli altri ad essere virtuosi senza imporre alcun freno ai comportamenti dissennati dei suoi abitanti non può lasciare che il tempo che trova.
Epistemologicamente rigorosi, gli anticatastrofisti sono ideologicamente criticabili e, sul piano delle soluzioni pratiche, del tutto inconsistenti.
5.
Corre ora l'obbligo di documentare con citazioni le conclusioni cui è pervenuta l'analisi critica del libro in questione.
Per questo aspetto, appare fondamentale il secondo capitolo dedicato alla problematica ecologica globale. In esso infatti i diversi aspetti di tale problematica sono esposti in maniera assolutamente oggettiva, essendo tra l'altro i dati poco equivocabili. La conclusione cui si perviene è univoca: "Effetto serra e riscaldamento globale del pianeta, rarefazione dello strato di ozono, desertificazione e deforestazione, rifiuti, inquinamento e piogge acide, stanno deteriorando l'ecosistema planetario e mettendo in pericolo la sopravvivenza stessa della Terra cos" come la conosciamo." (p. 178)
Il contributo dei vari paesi del mondo a tale problematica è esso stesso riconosciuto: "L'aspetto più impressionante sui consumi di energia nel mondo è che essi sono estremamente sbilanciati: il 24% della popolazione complessiva del piante che vive nel Nord utilizza circa il 73% dell'energia totale, mentre il rimanente 76% della popolazione usa solo il restante 27% dell'energia. Ogni abitante del Terzo mondo consuma quindi in media solo il 10% dell'energia di un abitante dei Paesi industrializzati. E' prevedibile che i paesi in via di sviluppo, che comprendono oltre i tre quarti dell'umanità, avranno bisogno di accrescere fortemente il consumo di energia.
Ora se è vero che le risorse di cui disponiamo sono ancora consistenti e che, nonostante un utilizzo cospicuo, dureranno per decenni e secoli a venire, bisogna comunque pensare a come far fronte alla massiccia domanda energetica che l'esplosione demografica e la richiesta di benessere comporteranno...
La soluzione sta nello sviluppo di tecnologie per contenere l'uso di tutte le risorse e quindi anche di quelle energetiche. " (p. 162)
Per adottare tale soluzione, però, "non si può lasciare che la crescita avvenga oggi seguendo la stessa via dissipativa che le nostre società hanno percorso nel passato con la loro industrializzazione, riproducendone gli errori, né si può pensare di adattare a questi paesi delle regole nate per altri tipi di cultura e di società, distruggendo la diversità di ambienti e tradizioni che vanno invece tutelate e rispettate, Non serve neppure trasferire loro impianti vecchi, tecnologie superate, sistemi di produzione sorpassati, che forniscono beni di scarsa utilità, con spreco di risorse e altissimo impatto ambientale.
Oggi la scienza e la tecnologia offrono nuove soluzioni che possono permettere al Terzo Mondo di scavalcare alcuni stadi dissipativi dello sviluppo." (p. 150)
E' inutile insistere sui motivi per cui tali soluzioni sono meramente teoriche. E' piuttosto importante rilevare che la nazione in assoluto più inquinante e dissipativa che esiste al mondo, gli Stati Uniti, rifiutando di sottoscrivere il protocollo di Kyoto, ha motivato questa scelta con l'esigenza di tutelare il tenore di vita raggiunto dai cittadini americani. Si tratta di una scelta esiziale per quanto concerne la possibilità che i paesi in via di sviluppo e quelli sottosviluppati accedano ad un uso virtuoso delle risorse naturali ed energetiche.
Quella scelta, peraltro, è stata presa non tanto sulla base di un'esplicita volontà egoistica, bensì del dubbio avanzato sulla fondatezza scientifica dello stato di cose catastrofico denunciato da gran parte degli ecologisti. Il dubbio verte sul fatto che la denuncia potrebbe ricondurre all'attività antropica squilibri che derivano dalla ciclicità della natura stessa, e che quindi sobbarcarsi enormi sacrifici economici per scongiurare i pericoli che essa evoca potrebbe essere un comportamento irrazionale, se non addirittura inutile.
Purtroppo, nonostante nel secondo capitolo, come si è visto, quella denuncia sia convalidata, il dubbio sulla sua fondatezza scientifica viene troppe volte evocato nel libro perché si possa ritenere un caso.
Porto un solo esempio, che concerne un problema centrale: l'aumento della temperatura globale in conseguenza dell'immissione nell'atmosfera di anidride carbonica dovuta all'attività antropica (all'uso dei combustibili fossili). La disamina del problema porta a questa conclusione: "le ricerche hanno messo in evidenza che in epoche più remote elevate fluttuazioni si sono verificate a seguito della discontinuità nei più importanti processi geochimici e geologici, quali un maggior flusso di anidride carbonica dall'interno della Terra o una maggiore velocità nel seppellimento di materiale organico vegetale. L'evidenza più importante, basata su osservazioni, relativa a tempi geologici più recenti indica una correlazione molto stretta tra contenuto di anidride carbonica e temperatura della parte superficiale della Terra.
Proprio questi risultati rappresentano uno dei pochissimi punti di riferimento sicuri su cui si basa l'ipotesi di un aumento di temperatura a seguito dell'incremento di anidride carbonica nell'atmosfera. Deve essere però sottolineato che la correlazione osservata non fornisce informazioni univoche relative alla vera causa della fenomenologia osservata." (p. 297)
In difetto di informazioni univoche si può, dunque continuare a dubitare, che l'incremento di anidride carbonica e di temperatura globale siano da attribuire all'uomo o alla Natura.
Avallando questo dubbio in nome della neutralità scientifica, si potrà sostenere, il giorno che gli equilibri planetari risulteranno definitivamente compromessi, che si è trattata di una fatalità.
Senza saperlo, gli ecologisti anticatastrofisti e scientisti fanno propria la logica di Don Ferrante.
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