1.
Due dimensioni governano la storia umana: il rapporto con l'ambiente naturale e il rapporto con i simili. Il primo è caratterizzato dal fatto che la specie umana, superata una soglia demografica, è costretta a trasformare l'ambiente per trarre dalla produzione di beni le risorse necessarie alla sopravvivenza. Il secondo, viceversa, è caratterizzato da due aspetti contraddittori: per un verso, la cooperazione sociale è necessaria ai fini della perpetuazione e della riproduzione del gruppo; per un altro, la scarsità delle risorse naturali implica anche una competizione tra diversi gruppi etnici e, all'interno di essi, tra classi sociali e singoli individui per appropriarsene. Nulla vieta di pensare ad un mondo nel quale la dimensione cooperativa prevalga in assoluto su quella competitiva e, al limite, conflittuale. Un mondo siffatto richiederebbe però una programmazione demografica, tale da mantenere un certo equilibrio tra crescita della popolazione e potenzialità produttive, e una programmazione politica volta ad assicurare un'equa distribuzione dei beni.
Purtroppo, l'evoluzione storica della specie umana è avvenuta casualmente, in virtù di una diaspora che ha differenziato le etnie, territorializzandole e obbligando ciascuna a produrre, nell'interazione con ambienti diversi, una diversa cultura materiale e "spirituale: in difetto, insomma, di una programmazione e di una consapevolezza collettiva atte a realizzare l'equilibrio ecologico e quello sociale. Ogni gruppo umano, ogni etnia e ogni nazione hanno tentato di sfruttare le risorse naturali proprie del loro territorio geografico al massimo grado compatibile con le loro competenze tecniche. All'interno di ogni gruppo, poi, almeno a partire da una certa fase dello sviluppo storico, si sono realizzate differenze sociali più o meno rilevanti, caratterizzate da una distribuzione più o meno squilibrata delle ricchezze.
L'avvento della civiltà industriale e della borghesia ha accelerato entrambi i processi. L'Occidente, bisognoso di materie prime e di mercati, ha esteso il suo potere, a partire dalla scoperta dell'America al di fuori dei suoi limiti territoriali, utilizzando e per alcuni versi saccheggiando le risorse naturali di altri paesi. L'espansione progressiva del capitalismo, inoltre, ha determinato, una distribuzione iniqua delle ricchezze sia nel rapporto tra paesi occidentali e resto del mondo sia, in misura minore, all'interno dei paesi sviluppati.
Affascinato dalla capacità produttiva del sistema industriale, Marx ha colto negli squilibri sociali propri del sistema capitalistico il fattore che avrebbe dovuto produrne un inesorabile superamento in nome di un incoercibile senso di giustizia. Tranne che per gli aspetti degradanti, in termini di inquinamento e di affollamento, legati all'urbanizzazione, egli non disponeva di alcun dato atto ad evocare una preoccupazione ecologica.
Oggi, i due aspetti critici legati allo sviluppo illimitato del sistema industriale - lo squilibrio nella distribuzione delle ricchezze e lo squilibrio ecologico - sembrano interagire e sommarsi tra di loro in una miscela in prospettiva potenzialmente catastrofica. E' un fatto che l'accelerazione dell'industrializzazione, avvenuta con l'avvio della globalizzazione, ha accentuato le disuguglianze sociali sia a livello internazionale che negli stessi paesi occidentali. La forbice tra ricchi e poveri a livello planetario e quella tra una minoranza che arricchisce e una maggioranza che perde terreno all'interno dei paesi sviluppati rischia d'innescare una serie di tensioni sociali ingovernabili. La globalizzazione stessa, se per un verso si fonda su giochi speculativi, inganni e truffe finanziarie, per un altro coincide anche con un consumo di energia non rinnovabile crescente nei paesi occidentali e con l'entrata in campo, sul piano dell'industrializzazione, di nazioni, come la Cina e l'India, che, per sanare il gap che le divide dai paesi occidentali, non sembrano intenzionate a tenere conto di alcun vincolo ecologico. In conseguenza di questo, a cui occorre aggiungere la strenua difesa da parte degli Stati Uniti di un tenore di vita privilegiato, che esclude interventi sull'industria a beneficio dell'ambiente, in quanto ritenuti economicamente penalizzanti, l'inquinamento si va configurando come un problema planetario e minaccia di produrre cambiamenti meteorologici irreversibili. Nella misura in cui l'inquinamento comporta una continua desertificazione di terre coltivabili, esso sta già determinando, a livello di paesi sottosviluppati o in via di sviluppo, una riduzione netta dei prodotti agricoli, la cui conseguenza è l'inurbamento massiccio della popolazione contadina che non ha più mezzi di sopravvivenza, e la caduta di tale popolazione in una condizione di degradazione assoluta. La miseria può rappresentare l'humus su cui può attecchire sia il terrorismo, sia una guerra tra poveri orientata ad assicurarsi le risorse disponibili, sia una serie di guerre civili, di classe, etniche o religiose.
2.
Quest'analisi della situazione mondiale, sulla quale mi sono soffermato già più volte, era ritenuta sino a qualche tempo fa un'espressione del radicalismo critico di sinistra. Essa veniva criticata sia sotto il profilo economico che sotto quello ecologico. Alcuni economisti la respingevano sostenendo che, nonostante tutto, la globalizzazione negli ultimi venti anni ha di fatto aumentato la ricchezza planetaria, e che, quindi l'unico problema da risolvere era quello distributivo. Alcuni climatologi, invece, la squalificavano considerandola troppo legata alla percezione collettiva immediata sui tempi brevi di fenomeni ciclici che, a loro dire, si sarebbero verificati già altre volte. Ai giudizi di questi esperti ha fatto riferimento il Presidente Bush per negare il carattere strutturale della crisi del sistema capitalistico, spingendo l'acceleratore nella direzione del liberismo selvaggio, e per rifiutare la firma del protocollo di Kyoto, ritenuto poco attendibile nei suoi presupposti oggettivi, inerenti le cause e le conseguenze dell'inquinamento atmosferico.
Per quanto riguarda il primo aspetto, quello economico, sul quale mi sono già soffermato, rimando alla recensione del libro di Guido Rossi (Il conflitto epidemico), che dimostra, con argomentazioni documentate e poco confutabili, che la crisi in atto è di ordine strutturale, se non addirittura epocale. Per quanto riguarda il secondo, quello ecologico, le conferme della fondatezza dell'analisi "catastrofista" sono ormai numerose.
Una conferma, indiretta, proviene dalla commissione governativa incaricata dal Presidente Bush di valutare in maniera scientifica i dati sui cambiamenti climatici. Tale commissione, formata da vari esperti del National Research Council (in pratica, il CNR statunitense), ha comunicato di recente di non aver potuto assolvere il suo mandato perché il governo ha "dimenticato" di stanziare i fondi per metterla in grado di operare. Il lapsus non potrebbe essere più chiaro, tanto più se si tiene conto che il governo aveva promesso che avrebbe preso atto dei risultati della ricerca e agito di conseguenza.
Una conferma diretta (come ho riferito in un articolo precedente) è venuta tempo fa dai due massimi esperti di meteorologia statunitense, che, pure astenendosi dall'operare previsioni a lungo termine, hanno univocamente attribuito all'attività antropica i cambiamenti climatici. L'attività antropica in questione coinvolge pesantemente gli Stati Uniti, responsabili dell'inquinamento atmosferico nella misura del 25%.
Un'altra conferma è più recente. Poche settimane fa, sessanta scienziati aderenti alla Union of Concerned Scientists, una prestigiosa istituzione statunitense, hanno emesso un comunicato il quale dimostra che il governo americano ha distorto i dati scientifici per giustificare la mancata firma del protocollo di Kyoto.
La conferma più sorprendente, e ambigua, è di questi giorni. Si tratta di un rapporto commissionato dal Pentagono a due esperti di pianificazione strategica. Occultato dal governo e rivelato dalla rivista "Fortune", il rapporto in questione è sintetizzabile nello slogan scelto dagli stessi esperti: "L'effetto serra è peggio di Al Qaeda".
In effetti, il rapporto descrive uno scenario prossimo venturo a tinte più che mai fosche. I dati di base sono inconfutabili: in conseguenza dell'emissione nell'atmosfera di 6 miliardi di tonnellate di carbonio in conseguenza dell'uso dei combustibili fossili, i ghiacciai artici si vanno sciogliendo, 120 mila Km quadrati di foreste spariscono ogni anno e il 36% della terra è in via di desertificazione. In prospettiva, le conseguenze, in parte già in atto, di questi fenomeni sulla biosfera sono: la crescita del livello dei mari, l'aumento della siccità, la riduzione delle terre coltivabili, l'aumento di uragani e tifoni e il sopravvenire di alluvioni sempre più devastanti, il blocco della corrente del golfo con l'istaurarsi di un clima siberiano fino alla latitudine della Gran Bretagna, ecc.
In quale misura questo scenario può incidere a livello sociale e politico? Secondo il Pentagono è inevitabile che milioni di profughi africani e asiatici si riversino sui paesi ricchi, che l'Occidente divenga una sorta di fortezza assediata dai poveri, che i conflitti per accaparrarsi le residue risorse naturali divengano sempre più aspri tra etnie e nazioni e che un numero crescente di paesi possano essere spinti, per motivi difensivi, a dotarsi di armi nucleari. In conseguenza di tutto ciò, "rivolte e conflitti diventeranno parte endemica della società: la guerra tornerà a definire i parametri della vita umana". Lo scenario, insomma, è quello di un pianeta globalmente terremotato.
3.
Sarebbe ingenuo dare acriticamente credito al rapporto del Pentagono. Anche se esso, riconducendo i mutamenti climatici all'uso dei combustibili fossili, sancisce la causalità antropica, pochi dubbi sussistono sul fatto che tale causalità viene assunta come una fatalità dovuta allo sviluppo economico contro la quale c'è poco da fare. Gli esperti del Pentagono non sono interessati tanto alle conseguenze ecologiche legate a quei cambiamenti, quanto piuttosto a quelle sociali e politiche. La possibilità che il pianeta si trasformi in un focolaio endemico di guerre, di guerriglie e di terrorismo, con i paesi ricchi in stato d'assedio significa, nell'ottica del Pentagono, prepararsi ad affrontare quest'emergenza non già sul piano economico e sociale, bensì su quello politico e militare. Significa in breve, soprattutto per quanto riguarda gli Stati Uniti, attrezzarsi per difendersi e fare la guerra.
Qualche commentatore avanza l'ipotesi che il rapporto non sia stato reso pubblico dall'Amministrazione perché esso risulterebbe in contrasto con la linea scettica e inerte della politica ambientalista del governo Bush. Occorre non poca fantasia per pensare che il Pentagono entri in conflitto con un establishment il quale, nel corso degli ultimi tre anni, ha aumentato a dismisura le spese per la sicurezza e la difesa, o che esso abbia repentinamente sviluppato un orientamento ecologista. Il rapporto, di fatto, sembra entrare nel merito del conflitto tra falchi e colombe ancora aperto all'interno della coalizione governativa, schierandosi apertamente a favore dei primi. La mancata pubblicazione ufficiale non va, dunque, ricondotta alla paura della Presidenza Bush di un impatto sull'opinione pubblica statunitense, che è ben poco sensibile ai problemi ecologici, quanto piuttosto alla presumibile resistenza opposta dalle colombe a ufficializzare un documento che, nonostante le premesse, nella sostanza accredita la dottrina della guerra preventiva e, almeno sulla carta, pone fine all'illusione pacifista.
Non si può escludere neppure una valutazione da parte del governo in termini di opportunità propagandistica e politica. Con una crisi economica ancora in corso, appena ammorbidita da una ripresa meno vigorosa di quanto dicano i numeri, e con la previsione di un aggravamento della crisi nel secondo semestre dell'anno prossimo, Bush e il suo staff si stanno probabilmente chiedendo se sia il caso di insistere nel chiedere immediatamente ai contribuenti americani sacrifici sempre maggiori per spese belliche. Il fantasma di Al Qaeda e di un antiamericanismo diffuso nei quattro angoli del pianeta continua ad incombere nell'immaginario dei cittadini statunitensi, ma è fuor di dubbio che la loro cultura è ancora fortemente vincolata al portafoglio.
Piuttosto che ecologista, il rapporto sembra dunque reazionario, configurando uno scenario internazionale contro il quale non si dà altro rimedio che prepararsi ad uno stato endemico di guerra. Se le sue previsioni sono giuste, è singolare che esse coincidano con le fantasie apocalittiche dei falchi (politici e militari)
4.
Non è forse inopportuno considerare la circostanza per cui gli stessi fatti storici possono essere interpretati sulla base di logiche radicalmente diverse. Posto che la negazione della responsabilità umana in rapporto ai cambiamenti climatici sta progressivamente cedendo sotto il peso di prove poco confutabili, tali cambiamenti possono essere interpretati come una fatalità conseguente allo sviluppo dell'economia, che andrebbe accettata in nome della carenza o non praticabilità di alternative concrete, o, viceversa, come conferma che il modello capitalistico, nonostante la sua capacità di produrre ricchezza, è a vicolo cieco, in quanto esso comporta danni ecologici, sociali e politici catastrofici. Nella prima ottica, la sfida posta da quei cambiamenti va affrontata pragmaticamente. Non dandosi alternative praticabili allo sviluppo industriale, soprattutto nella forma della crescita illimitata che esso ha storicamente assunto, occorre andare avanti a qualunque costo, anche accettando che il pianeta si trasformi in un focolaio endemico di guerre. Nella seconda ottica, quella sfida impone di prendere atto dell'assoluta necessità di un ripensamento critico del modello industriale che, nato sulla base dell'aspirazione degli esseri umani ad un maggior benessere, rischia di mortificarla producendo un malessere universale (eccezion fatta per un manipolo di privilegiati che assomma a non più del 2% degli abitanti del pianeta).
Se occorresse ancora una prova che i fatti non esistono che attraverso l'interpretazione che di essi ne viene data, il problema dei cambiamenti metereologici la fornisce su di un piatto d'argento. E' come se il mondo non potesse essere vissuto dagli esseri umani che in un'ottica in qualche misura ideologica. I dati di partenza del rapporto del Pentagono, che portano a reificare la guerra come modalità primaria di affrontare i conflitti tra gruppi etnici, nazioni, ecc., sono gli stessi da cui i movimenti progressisti ricavano la necessità di mettere al bando la guerra, giusta o giusta che sia, come modalità barbarica.
Cionondimeno, è comunque importante che ormai i cambiamenti climatici e la loro genesi antropica siano accettati da tutti come un dato di fatto. Su questa base, sarà più facile discutere e mettere a confronto le diverse interpretazioni, che vertono sulle loro conseguenze. Più facile, forse, sarà anche riprendere discorsi che i tempi lunghi della storia hanno contribuito a rimuovere.
Il passaggio dalla concezione della terra come proprietà comune a quella che ne ha consentito l'appropriazione privata è stato un passaggio epocale nella storia. Nei prossimi anni, il problema è destinato inesorabilmente a porsi. Il diritto di proprietà, infatti, è stato sempre riferito al fondo, vale a dire ad un territorio recintabile. E' ammissibile che esso, sia pure sotto forma di emissione di scarichi tossici, possa essere riferito all'atmosfera, vale a dire ad un bene comune a tutta l'umanità? E' lecito che l'attività produttiva di una o più nazioni determini effetti a distanza (desertificazione, siccità, alluvioni, ecc.) che incidono su popolazioni che non partecipano alla ricchezza prodotta da essa: in pratica che qualcuno si avvantaggi a danno di qualcun altro? E' giusto sfruttare senza alcun limite le risorse finite del pianeta impoverendo o alterando irreversibilmente la biosfera, che è proprietà comune anche delle generazioni a venire?
Certo, se anche la risposta a tutti questi quesiti dovesse essere negativa, c'è da chiedersi quale autorità sovranazionale sia in grado di intervenire e d'imporre il rispetto dei diritti di tutti gli esseri umani (compresi quelli virtuali). Nell'epoca della globalizzazione, che sembra procedere sulla base di logiche impersonali sistemiche (comunque vantaggiose per alcuni), la presa di posizione degli abitanti del pianeta sembra fondamentale per arrestare un processo orientato verso la catastrofe. Dopo avere delegato i loro destini (e quelli dei loro figli) al potere, gli uomini dovranno necessariamente riappropriarsene. Il paradosso della civiltà borghese si fonda per l'appunto sull'aver enfatizzato la proprietà privata e, nello stesso tempo, di essere riuscita ad espropriare gli uomini del controllo dei processi storici e persino dell'aria che respirano. Da questo punto di vista, il superamento della proprietà privata non è un'utopia, tanto più se la sua estrema conseguenza è la guerra endemica a livello planetario.
Marzo 2004