Il silenzio di Dio


1.

Nel commentare la prima Lettera-Enciclica di Papa Benedetto XVI ho espresso già una qualche sorpresa per l'aura che circonda questo Pontefice che, non avendo la personalità carismatica di Giovanni Paolo II, suscita tiepide emozioni tre le file dei credenti, e viceversa giudizi francamente elogiativi da parte degli intellettuali, anche laici, che non mancano occasione di sottolinearne la profondita filosofica e la raffinata cultura.

Che si tratti di un uomo colto è fuori di dubbio, anche se non si dà alcun indizio che lasci pensare che, in questo, egli superi il predeccessore. Se però si pone da parte l'ammirazione intellettuale per un Papa che parla poco, ma si esprime sempre su di un registro pontificale, vale a dire denso di riferimenti teologici, e ci si chiede a che serve la cultura, la conclusione cui si arriva è di segno diverso.

La Cultura (quella alta, per intendersi), sulla carta è uno strumento che permette di interpretare il mondo in profondità, vale a dire di andare al di là delle apparenze, che catturano la coscienza. E' insomma uno strumento di demistificazione delle tradizioni, dei miti, dei riti e dei luoghi comuni prodotti dalla storia e naturalizzati.

Se questo è vero, tra Cultura e Pensiero religioso (soprattutto confessionale) si dà una sorta di intrinseca incompatibilità. Dato infatti un quadro di verità ritenute assolute e rivelate, quindi non prodotte dall'uomo, la Cultura può servire solo ad illuminarle (nei limiti della capacità di comprensione umana), ad approfondirne il significato, a portarle alle estreme conseguenze. In breve, essa non può metterle in discussione. Da questo punto di vista, dunque, applicata alla Teologia, la Cultura diventa inesorabilmente uno strumento di mistificazione: essa, in altri termini, anche quando presume di avere una valenza critica, deve piegarsi alla cornice di riferimento definita dai dogmi.

Un Papa colto, di conseguenza, proprio in virtù della convinzione di essere portatore di verità assolute, può essere più lontano dalla verità di un semplice uomo che, dotato di capacità intuitive, si interroga sulla realtà.

Questa premessa introduce il discorso su di una circostanza di grande significato simbolico.

Che un Papa tedesco, confermando una tradizione patriottica inaugurata dal predecessore, non potesse astenersi dal visitare la sua terra d'origine, anche con l'intento di rafforzare il peso del cattolicesimo in una nazione a maggioranza protestante, era scontato.

Il problema è che la Germania è una nazione del tutto particolare nel contesto mondiale. Ricca di un patrimonio culturale che ha pochi uguali al mondo, il cui massimo splendore è stato raggiunto nel XIX secolo, la Germania ha prodotto in quello successivo il nazismo, vale a dire il fenomeno storico più aberrante prodottosi all'interno della civiltà occidentale.

Gli storici revisionisti, una genia che ha avuto una singolare fioritura negli ultimi venti anni, hanno tentato invano di omologare nazismo e comunismo sotto l'etichetta del totalitarismo. Alcuni di essi si sono spinti sino al punto di attribuire al comunismo sovietico la colpa dell'avvento, in Europa occidentale, del fascismo e del nazismo. Il revisionismo storico, però, fa acqua da tutte le parti.

Per quanti crimini si possano attribuire allo stalinismo, il comunismo sovietico ha sempre mantenuto un afflato internazionalista. Che tale afflato si sia ad un certo punto configurato come una mera politica di potenza è senz'altro vero. Esso però è rimasto vincolato al principio di considerare gli uomini come legati tra loro da un vincolo trascendente le differenze di razza e di cultura e partecipi di una storia comune orientata verso la liberazione dall'oppressione. In questa ottica, la paranoia staliniana contro tutti i nemici del comunismo, ritenuti sabotatori del progetto di una società socialista, si configura come un'aberrazione totale, ma nondimeno significativa.

Il nazismo non può essere ricondotta ad una reazione al comunismo, poiché, se è vero che, alle sue origini, esso si è fatto carico delle esigenze delle classi borghesi di ostacolare l'avanzata dei partiti proletari, non è meno vero che, affermando la superiorità della razza ariana e del popolo tedesco su tutti gli altri e identificando nel popolo ebraico una razza da sterminare, è andato di gran lunga al di là della difesa degli interessi borghesi e della civiltà occidentale.

In quanto incentrato sul mito della superiorità di una razza rispetto a tutte le altre, il nazismo ha introdotto nella storia il principio di una selezione culturale, da realizzare con la violenza, che, se si fosse realizzato il progetto hitleriano del dominio sull'Europa, avrebbe prodotto non solo lo sterminio degli Ebrei, ma anche di gran parte degli Slavi, oltre che degli zingari, dei disabili dei devianti.

La ferita inferta dal nazismo alla civiltà occidentale, espressivo peraltro di un etnocentrismo che ha sotteso tutta la storia di quest'ultima e, in qualche misura, continua a trasparire attraverso la globalizzazione, non è stata smaltita. Il dibattito sul fenomeno storico, sulle sue cause, sulla sua presa collettiva su di un intero popolo, sulle complicità e sulle connivenze di cui esso si è avvalso continua, a sessant'anni dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, ad essere acceso.

Tale dibattito coinvolge anche la Chiesa per due aspetti distinti. Quanto ha inciso sulla cultura europea l'antisemitismo che essa ha alimentato nel corso della sua storia fino a qualche secolo fa? Qual è stata poi la responsabilità di Pio XII nel non prendere un'aperta posizione contro il regime nazista?

Anche su di un piano filosofico, il dibattito sul nazismo è ancora aperto, essendo incentrato sulla capacità dell'uomo di agire il male. Si tratta di una capacità intrinseca alla sua natura o di una capacità prodotta dalla cultura e dallo sviluppo storico?

Un papa tedesco, nato sotto il regime nazista, che fa un viaggio in Germania non poteva prescindere dal prendere posizione su queste tematiche, essendo coinvolto a tre livelli: come tedesco, appunto, come filosofo e, infine, come Capo della Chiesa Cattolica.

2.

Benedetto XVI lo ha fatto, non per caso, ad Auschwitz, in terra polacca, nel campo in cui il genocidio nazista ha raggiunto l'acme dell'îefficienzaî omicida (essendo stati colà sacrificati un milione e seicentomila Ebrei).

Parlando in italiano, egli ha analizzato brevemente sia l'aspetto storico che quello filosofico e teologico del nazismo.

Riguardo al primo, ha affermato che lo sterminio fu il frutto di ´un gruppo di criminali che raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di ricupero dell'onore e della sua rilevanza, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell'intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato e abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominioª. "Quei criminali violenti ñ ha aggiunto -, con l'annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell'umanità che restano validi in eterno". Ha infine concluso: "Se questo popolo, semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all'uomo e lo prende in carico, allora quel Dio doveva finalmente essere morto e il dominio appartenere soltanto all'uomo - a loro stessi che si ritenevano i forti che avevano saputo impadronirsi del mondo".

Riguardo al secondo aspetto, il Papa, scongiurandolo "di non permettere più una simile cosa", si è chiesto angosciosamente: "Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo? E' in questo atteggiamento di silenzio che ci inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte". La risposta egli l'ha ricavata dalle lapidi, laddove è depositato "il destino di innumerevoli esseri umani. Essi scuotono la nostra memoria, scuotono il nostro cuore. Non vogliono provocare in noi l'odio: ci dimostrano anzi quanto sia terribile l'opera dell'odio". Il ricordo delle vittime, ha continuato, vuole "portare la ragione a riconoscere il male come male e a rifiutarlo; suscitare in noi il coraggio del bene, della resistenza contro il male", portare ai sentimenti che Sofocle "mette sulle labbra di Antigone di fronte all'orrore che la circonda: 'Sono qui non per odiare insieme ma per insieme amare'".

Molti commentatori hanno sottolineato la compostezza e l'equilibrio di Benedetto XVI nell'affrontare un tema delicato; altri hanno rilevato la densità del suo messaggio.

A me sembra piuttosto che il Papa, come tedesco, abbia voluto salvaguardare l'onore della Patria cui appartiene, e, come Pontefice, abbia inteso sorvolare sulle responsabilità storiche della Chiesa e rilanciare il logoro canovaccio retorico del Male che genera il Bene.

Non intendo mettere in discussione la buona fede del Papa, e il suo diritto di interpretare la realtà storica in accordo con le sue credenze. Mi riesce difficile però non rilevare ancora una volta che le interpretazioni fornite a partire da presupposti religiosi allontanano da un'autentica comprensione della realtà storica e, da ultimo, dell'uomo.

Ridurre il nazismo alla presa e alla gestione del potere da parte di un gruppo di criminali è francamente ridicolo se si tiene conto che, con rarissime eccezioni, l'intero popolo tedesco si è identificato con il F¸rher e ha mantenuto un'incredibile compattezza, immolandosi, fino alla rovinosa sconfitta. Certo, non tutti i tedeschi erano pienamente consapevoli di ciò che si perpetrava nei campi di sterminio. Tutti però erano a conoscenza delle leggi razziali e ben pochi hanno opposto delle critiche o si sono apertamente ribellati ad esse.

Rifiutare l'ideologia delle mele marce, che è sempre piuttosto precaria quando viene applicata ai fenomeni storici, non significa ovviamente criminalizzare un intero popolo.

Hitler, come ho scritto nell'articolo dedicato al nazismo, non ha conquistato la nazione tedesca con le sue teorie razziali, bensì facendo leva sulle umiliazioni inferte alla Germania dopo la Prima Guerra Mondiale, rianimando l'orgoglio nazionale e, soprattutto, risolvendo quasi magicamente una crisi economica che, nel 1929, si configurava come catastrofica. In virtù di una strategia abile e spregiudicata, incentrata sull'azzeramento del debito contratto con le potenze vincitrici e su di una disinvolta gestione della Banca Centrale, Hitler, nel giro di pochi anni, ha trasformato una nazione frustrata, depressa e quasi allo sbando in una comunità orgogliosa, efficiente, florida e conscia delle sue enormi potenzialità. E' come se egli avesse infuso nelle vene della nazione una dose enorme d cocaina, ribaltando una situazione di depressione collettiva in una sorta di maniacalità.

In virtù di questo, agli occhi dei tedeschi egli è apparso come il Salvatore della Patria, un Taumaturgo, un Essere dalla potenza illimitata. Tale ruolo ha indotto un'identificazione collettiva, di tipo magico-religioso, che Fromm ha accuratamente analizzato.

Quando un gruppo o un popolo stabilisce questo tipo di rapporto con un Capo, vale a dire lo divinizza, che questi sia il genio del Bene o quello del Male passa in secondo ordine rispetto alla sua Potenza. Per i tedeschi, insomma, Hitler, che aveva risollevato le sorti della nazione e restituito ad essa una fiducia illimitata, era il Bene.

Se si considera questo aspetto, si capisce facilmente che Hitler, proprio in virtù della sua megalomania, ha utilizzato nel rapporto con il suo popolo gli stessi strumenti della religione. Egli si è fatto carico della sua disperazione e della sua vulnerabilità promettendo (e in una certa misura realizzando) l'affrancamento dal Male e la Salvezza. Ha insomma sfruttato le debolezze umane per indurre un legame mistico-religioso con il Capo e un senso di appartenenza comunitaria in nome del quale il Bene del Tutto richiedeva l'abnegazione totale della parte ñ l'individuo ñ e, al limite, il suo sacrificio.

Come fenomeno individuale, vale a dire come ideologia prodottasi nella testa di un uomo, il nazismo è indubbiamente espressione di una patologia, spiegabile in termini adleriani piuttosto che freudiani e junghiani. Come fenomeno collettivo, viceversa, esso rivela la suggestione che sull'apparato mentale umano esercitano i miti salvifici, le promesse di onnipotenza, il legame di appartenenza comunitaria.

Paradossalmente, dunque, il nazismo rivela la predisposizione mistico-religiosa della natura umana, che non si arrende a prendere atto dei suo limiti e non si traduce in un'assunzione individuale di responsabilità esistenziale, vale a dire nell'accettazione della vulnerabilità, della precarietà e della finitezza come dimensioni ultime e insormontabili dell'esistenza.

L'augurio del Papa che il nazismo non si ripeta mai più è paradossalmente contraddittorio. Perché quell'augurio si realizzi, infatti, è necessario che l'umanità si affranchi dal bisogno di trascendere i suoi limiti costitutivi e di realizzare, attraverso l'affidamento a Qualcuno dotato di onnipotenza, la negazione di essi.

La Chiesa contesta la presunzione dell'uomo che elegge se stesso a Dio. E' come se non si rendesse conto che questa è una conseguenza di un bisogno ñ infantile, irrazionale e patetico ñ che essa alimenta.

Quell'augurio, insomma, equivale ad una campana a morte per qualsivoglia religione...

3.

Il presupposto per la disalienazione religiosa c'è già. E' per l'appunto il silenzio di Dio evocato da Benedetto XVI come un mistero che sgomenta. Tale silenzio è un problema filosofico e teologico di ordine generale. Dio, secondo la Chiesa, continuerebbe a fare miracoli individuali attraverso la mediazione dei Santi. Nelle circostanze in cui ci si aspetterebbe il suo intervento ñ le catastrofi naturali, le guerre, i massacri, i genocidi, la fame, le malattie che colpiscono bambini innocenti, ecc ñ egli tace, vale a dire non interviene. Se si mette a confronto questo silenzio con l'iperattivismo del Dio biblico, che di continuo appariva ai Patriarchi, a Mosè, ecc., e interveniva nella vita del popolo eletto - punendo gli Egiziani fino al punto di persuaderli a lasciarlo fuggire, sfamandolo con la manna, capeggiando gli eserciti nella conquista della Palestina, punendo con l'esilio la sua suggestione idolatrica, ecc. -, c'è da chiedersi se la continuità della Rivelazione, per cui il Dio degli Ebrei è il Dio di Gesù e quello dei cattolici, non sia l'effetto di una forzatura interpretativa.

Dio è divenuto progressivamente silenzioso via via che il progresso culturale ha portato gli uomini, compresi i credenti, a prestare sempre meno credito alle sue apparizioni, soprattutto rivolte alla classe sacerdotale.

Nella Bibbia, Mosé parla di continuo con Dio e si rivolge agli Ebrei riferendo loro ciò che Egli gli ha comunicato attraverso le apparizioni. Il Papa oggi parla in nome di Dio, ma non oserebbe mai dire di aver visto Dio, di avergli parlato e di riferire alla lettera ciò che Egli gli avrebbe detto.

La presenza di Dio nell'orizzonte vissuto dei credenti è una presenza empatica, intuitiva; la comunicazione con Lui avviene secondo modalità che sono verbali solo unilateralmente (la preghiera).

Se si tiene conto di questo, il silenzio di Dio non è un mistero abissale. E' semplicemente la prova che la fede postula o produce l'esistenza di un Essere il cui comportamento, in alcune circostanze, che richiederebbero il suo intervento, non corrisponde alle aspettative umane.

Se il silenzio di Dio in rapporto al nazismo non è dunque un mistero, c'è un altro silenzio, forse, che richiede di essere indagato nelle sue ragioni: quello della Chiesa.

Le responsabilità storiche del Cristianesimo nell'aver prodotto e alimentato l'antisemiitismo sulla base dell'accusa di deicidio sono ben note. Occorre dare merito sia a Paolo VI che a Giovanni Paolo II di avere avuto il coraggio di riconoscerle e di aver chiesto perdono agli Ebrei.

Rimane però il nodo storico del comportamento silenzioso che la Chiesa, sotto Pio XII, ha avuto nei confronti del nazismo. A questo riguardo, le ipotesi estremiste avanzate da alcuni studiosi su di una complicità o una connivenza della Chiesa, riconducibili al fatto che il nazismo si poneva come baluardo della civiltà occidentale contro il comunismo sembrano del tutto infondate. Erigendosi a difensore di quella civiltà, il nazismo non ha mai celato il suo richiamo non già alle sue origini cristiane, bensì piuttosto a quelle pagane o addirittura esoteriche (culti indoariani).

L'ipotesi più probabile è che tra Chiesa e regime nazista sia intervenuto un patto di non belligeranza incentrato sull'accordo per cui l'astensione della Chiesa dal denunciare il nazismo era ripagato dalla tutela della comunità cattolica tedesca. Se così fosse, sul piano diplomatico un accordo del genere sarebbe storicamente comprensibile. Sul piano morale, viceversa, esso sarebbe ampiamente contestabile perché in contraddizione con il valore supremo del rispetto della dignità umana di cui la Chiesa ancora attualmente si fa garante, che, nel caso in questione, sarebbe stato contrattato a danno degli Ebrei.

Al di là del riconoscimento degli errori commessi dalla Chiesa in passato, ci sarebbe un modo molto semplice di accertare ed eventualmente riconoscere anche questo errore commesso di recente. Basterebbe che i ricchissimi archivi del Vaticano, che contengono tutti i carteggi intervenuti tra la Chiesa e il regime nazista, fossero messi a disposizione degli studiosi.

Finora ciò non è accaduto. Fu Giovanni Paolo II ad estendere la possibilità di consultazione degli archivi fino al 1939, al limitare della tragedia. Quando Ratzinger venne eletto, le comunità ebraiche chiesero che il termine fosse portato al 1945. Non è arrivata nessuna risposta.

Più che il silenzio di Dio, su cui è giusto che la Chiesa continui ad interrogarsi, è questo silenzio, su cui il Papa ha taciuto, il problema da risolvere.