Sulla storia del Cristianesimo (1)


1.

Il saggio sulla Bibbia (Facci un dio…) è un’interpretazione laica della religione biblica e di quella cristiana sulla base dei testi. Varie volte ho pensato di riscriverlo, ma la sua struttura, compatta, opera una sorta di resistenza passiva alla rielaborazione. Con questo articolo, avvio una serie di riflessioni sulla storia del Cristianesimo, al fine di corroborare la tesi fondamentale del saggio stesso, secondo la quale le grandi religioni – nei loro aspetti dottrinari, rituali e cultuali, nonché nelle loro trasformazioni – sono sistemi ideologici complessi che possono essere interpretati alla luce della storia. E’ solo la loro lunga durata a realizzare l’illusione ottica di una coerenza interna che, di fatto, non si dà, ma colpisce profondamente l’immaginario collettivo e soddisfa un bisogno di credere che, nei secoli, si è posto come universale.

Che bisogno c’è di sottoporre ad una critica ideologica una religione che ormai gode di un prestigio universale? I motivi sono due. Il primo è da ricondursi al fatto che, oggi, dal seno del Cristianesimo protestante sta affiorando, negli Stati Uniti, un fondamentalismo cristiano radicale e pericoloso. Esso propone un’interpretazione letterale della Bibbia e, in conseguenza di questo, assume un atteggiamento sempre più intollerante nei confronti della cultura laica. La riproposizione del creazionismo è solo uno degli indizi di un progetto che mira ad epurare la civiltà occidentale dai germi maligni in essa immessi dall’Illuminismo. Un progetto del genere giustifica una critica ideologica che tolga credito ad una Rivelazione che, analizzata alla luce della storia, risulta piuttosto una complessa costruzione dovuta al gioco congiunturale delle circostanze, all’ingegno di un numero rilevante di teologi e pensatori e ad una lunga durata che favorisce la rimozione delle contraddizioni ad essa intrinseche.

Il secondo motivo è l’insistenza con cui la Chiesa cattolica propone la sua antropologia e la sua visione del mondo come l’unica che può salvare il mondo (occidentale) dalla catastrofe verso la quale esso si avvierebbe in conseguenza del processo di secolarizzazione. Che i cristiani credano nella trascendenza, nella Provvidenza, in un disegno divino che sottende la storia umana è del tutto lecito. Che essi, viceversa, alla luce di un’ideologia che, per molti aspetti, è manchevole e contraddittoria, la spaccino come l’unica Verità, è francamente irritante. Come esempio di questa presunzione intellettuale mi viene da fare riferimento all’ultimo libro del Papa, che non è ancora in commercio, ma è stato anticipato con un certo clamore anche dalla stampa laica. In esso viene affrontato per l’ennesima volta il problema del Male. Chi conosce la storia della religione ebraica e di quella cristiana sa in quale misura questo problema si è posto come un rebus insolubile.

Esso comporta, infatti, due diversi aspetti inquietanti: il male che incombe sull’uomo, in conseguenza della sua vulnerabilità, sotto forma di dolore, malattia e morte; e il male morale, operato dall’uomo stesso a danno degli altri.

In un’ottica religiosa, il primo pone in gioco la giustizia divina. Il problema del perché i giusti soffrono e gli empi spesso sono felici è un ritornello nell’Antico Testamento, che trova una precaria soluzione solo in Giobbe, il giusto che accetta di soffrire in nome della sottomissione all’imperscrutabile volontà divina e a sconto dei peccati altrui. Questa soluzione è adottata dal Cristianesimo il quale sostituisce addirittura a Giobbe Dio stesso nella figura del Figlio. Teologicamente essa funziona, ma ha una lacuna. L’accettazione consapevole del male come strumento di redenzione dell’umanità richiede una struttura di personalità adulta. Come applicare la teologia della croce alla sofferenza di neonati e bambini malati e destinati precocemente a morire? Il riferimento all’imperscrutabile volontà divina, in questo caso, è difficile da accettare anche per i credenti.

Il male morale non è un rebus di minore portata. Agito dall’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio, esso comporta il problema di capire (escluso il riferimento ad un Dio malvagio o indifferente) se Dio ha sbagliato nel creare l’uomo, se l’uomo usa male la sua libertà — che comunque gli è concessa da Dio -, o se egli è preda dell’influenza del Maligno. Nella Bibbia, di fatto, il pentimento di Dio per avere creato l’uomo è esplicito nelle prime pagine, e dà luogo al Diluvio universale che seleziona i buoni dai cattivi, che periscono. Il riproporsi del male dopo la "nuova" creazione ha sconsigliato di insistere teologicamente in questa direzione, anche se essa viene ancora sostenuta dai fondamentalisti protestanti.

Attribuire all’uomo la responsabilità del male, in nome del suo libero arbitrio, è anch’essa una soluzione sui generis perché urta contro l’onnipotenza previsionale divina. Se Dio sapeva il modo in cui l’uomo avrebbe usato la libertà,e, ciononostante, l’ha concessa, Egli è indirettamente responsabile del male.

Il libero arbitrio è però teologicamente indispensabile per giustificare la retribuzione finale divina, vale a dire la salvezza o la dannazione. Per preservarne il significato, occorre necessariamente fare riferimento a influenze esterne negative, che non azzerano la capacità di operare una scelta tra bene e male, ma possono portare l’uomo a sbagliare. Lo scioglimento del rebus riposa dunque sull’esistenza del Demonio e sulla sua costante attività nel mondo. Questa soluzione però sposta il problema, visto che anche il Demonio è originariamente una creatura di Dio, libera anch’essa e quindi libera di opporsi al Creatore.

Ammettendo però che l’uomo, nel fare il male, subisce l’influenza del Demonio, e quindi in qualche misura cede per un’intrinseca debolezza, si pone un altro problema: quella della retribuzione. E’ giusto che chi fa il male, violando la legge divina, paghi. Ma come può un essere finito, e dunque limitato comunque nella sua capacità di fare del male, meritarsi una pena infinita, la condanna alla dannazione eterna? Com’è possibile che il Dio di Misericordia non sia comprensivo nei confronti dei difetti dell’essere che Egli ha creato a sua immagine e somiglianza?

Il problema del Male, assunto come esemplare, vale a capire che, confrontandosi con le religioni come sistemi ideologici, il libero pensiero s’imbatte di continuo in un travaglio sotterraneo, impregnato di contraddizioni, che alla fine, per circostanze diverse, esita in soluzioni che apparentemente le estinguono. Perciò è interessante ripercorrere la storia delle grandi religioni, che più delle altre hanno bisogno di vantare una elevata coerenza teologica, per prendere atto che tale coerenza è un mito. Ancora oggi, la religione cristiana è uno spettro di visioni del mondo estremamente differenziato. La fede comune nel Cristo risorto è un collante ideologico, ma, tra un fondamentalista protestante, un valdese e un cattolico che si riconduce alla teologia della liberazione si danno differenze radicali, che possono essere interpretate storicamente.

Le riflessioni che seguono, inaugurate da questo primo articolo, si fondano, come peraltro è già accaduto per quanto concerne il saggio sulla Bibbia, sulla lettura di vari testi storici non confessionali (dalla monumentale Storia del Mondo antico e dalla Storia del mondo medievale della Cambridge University pubblicate in Italia dalla Garzanti ai lavori di Le Goff e di Duby sul Medio Evo, dai volumetti preziosi e ormai introvabili della Storia universale Feltrinelli-Fischer alle recenti Storie Universali edite dall’Espresso e dal Corriere della Sera e diffuse attraverso le edicole). Penso che delle religioni si possa capire molto di più leggendo la storia tout-court che non consultando testi di storia delle religioni che, anche quando sono redatti da laici, rischiano sempre di cadere nella trappola della specializzazione. Questo limite è riscontrabile anche nella Storia del Cristianesimo a cura di G. Filoramo e D. Menozzi pubblicata di recente in quattro volumi da Laterza, che è comunque una miniera utilissima di informazioni.

Queste riflessioni rispetteranno un ordine cronologico. L’importanza di quest’ordine è da ricondurre al fatto che la genesi di un’ideologia non può prescindere dalle originarie matrici storiche che l’hanno prodotta. In questa prima parte si affronteranno i primi due secoli del Cristianesimo, nel corso dei quali esso si è differenziato dal Giudaismo, con cui originariamente si confondeva, diventando una religione autonoma. Quest’atto di nascita travagliato è già denso di significati.

I cristiani sono ormai assuefatti a considerare la loro religione come un insieme di verità rivelate dal Figlio di Dio, che la Chiesa, da lui fondata, ha mantenuto integre nel corso del tempo arricchendole con un'esegesi fedele alla lettera del messaggio originario. La storia dei primi secoli del Cristianesimo dissolve questo mito. Si tratta infatti, fin dall'inizio, vale a dire a partire dalla morte di Gesù, di una storia travagliata, che ha riconosciuto molteplici conflitti inerenti punti dottrinali importantissimi; conflitti che, in più momenti, hanno prodotto forti tensioni all'interno della comunità cristiana. Il modo in cui questi sono stati superati attesta, secondo i Cristiani, l’origine rivelata del messaggio di Gesù. Analizzando i dati storici, si giunge ad una conclusione diversa. Quel messaggio era ambiguo per molti aspetti. L’istituzionalizzazione della religione cristiana con la nascita della Grande Chiesa ha comportato alcune opzioni teologiche risultate vincenti, ma che si possono ritenere arbitrarie in rapporto ai testi sacri.

Per rendere più chiaro il discorso, preferisco titolare i paragrafi.

2. Lo sfondo storico e l’eredità giudaica

Il radicamento in Occidente della Chiesa cattolica, che si è realizzato solo tra il IV° e il VI° secolo, avendo incontrato una strenua resistenza sia da parte dell'aristocrazia romana che tra le masse rurali, è preceduto da una lenta fase di differenziazione del cristianesimo dal giudaismo e dalla sua diffusione nell'area mediorientale, caratterizzata da conflitti di notevole asprezza con gli Ebrei e, all'interno della comunità cristiana, tra giudeocristiani rispettosi della tradizione ebraica, vale a dire osservanti le regole rituali (in primis la circoncisione), e giudeocristiani filoellenici orientati a sormontarla in nome di un sentimento religioso aperto alle influenze della cultura greca.

La differenziazione del Cristianesimo dal Giudaismo avviene a partire da problematiche teologiche intrinseche all’Ebraismo, di antica data, e in rapporto ad un contesto storico particolare, contrassegnato dall’occupazione romana.

Fin dall’epoca dei due regni (Israele e Giuda), l’Ebraismo ha sviluppato due modi diversi di vedere il rapporto con la divinità, che vanno sotto il nome di teologia della promessa e teologia dell’alleanza.

Secondo la teologia della promessa, Dio, avendo scelto Davide come re, ha promesso aiuto e protezione a lui stesso, alla sua discendenza e a tutto il popolo. Il mantenersi della regalità di discendenza davidica assicura il fatto che Dio si ricorda della promessa e, per mantenere fede alla propria parola, con atto misericordioso interviene nella storia, salvando Israele indipendentemente dai suoi peccati.

Secondo la teologia del patto, viceversa, Dio ha dato una Legge e, in cambio della sua osservanza, si impegna a proteggere Israele. Da questo punto di vista, la salvezza discende dall’osservanza e la garanzia viene da una classe specializzata che interpreti la Legge per il popolo e lo guidi nella retta osservanza. La teologia del patto presuppone l’esistenza di centri di culto e di sacerdoti, non necessariamente si un sovrano laico.

Dopo l’esilio babilonese e la distruzione del tempio di Gerusalemme, assunti come prova della punizione di Dio contro il popolo infedele alla sua legge, la teologia del patto, con la riforma di Esdra, che risale al V secolo a. C., giunge a prevalere. Tale riforma è incentrata sulla necessità di mantenere la purezza del popolo eletto sulla base del rispetto integrale, rituale, della Legge mosaica, e sulla separazione degli Ebrei da tutti gli altri popoli pagani, e quindi contaminanti. Venuta meno la monarchia, è la classe sacerdotale che garantisce la tradizione ebraica all’insegna di una teocrazia che caratterizzerà buona parte del giudaismo del Secondo Tempio — quello ricostruito a Gerusalemme dopo l’esilio.

Benché sconfitta, la teologia della promessa continua ad opporre sotterraneamente resistenza al potere sacerdotale e all’ortodossia matura. Tale resistenza si esprime in forme varie la più importante delle quali va sotto il nome di tradizione apocalittica, che schiude un nuovo orizzonte teologico. L’Ebraismo tradizionale è una religione del mondo, che non dà alcun peso all’aldilà. L’ottica mondana lascia però irrisolto il problema del male nel mondo e quello della retribuzione: perché esiste il male, se l’uomo è una creatura fatta ad immagine somiglianza di Dio? perché, se Dio è infinitamente giusto, sulla terra coloro che sono fedeli alla su Legge spesso soffrono, e gli empi godono? A questi problemi l’apocalittica dà due risposte: la prima apre l’orizzonte dell’immortalità dell’anima, della resurrezione dei corpi, e di un giudizio finale che premierà i giusti e destinerà i malvagi alla dannazione; la seconda implica l’intervento costante, nella storia del mondo, di un’influenza maligna che sabota il disegno divino, vale a dire il Demonio. Nell’ottica apocalittica l’origine sovrumana del male, a cui l’anima umana cede per una sua intrinseca debolezza, non comporta la possibilità di salvezza sulla base delle opere, e quindi del rispetto dell’alleanza. Tale possibilità si fonda sulla misericordia divina e sull’intervento di un liberatore spirituale: il Figlio dell’Uomo, Essere creato da Dio prima del mondo.

Non si sottolineerà mai abbastanza l’influenza dell’apocalittica sul pensiero di Gesù e sull’edificazione della dottrina cristiana. Il messaggio di Gesù, come risulta chiaramente dai testi evangelici, è insistentemente incentrato sull’imminente fine del mondo e sul regno della giustizia destinato a realizzarsi nei cieli in conseguenza di esso. L’imminenza della fine del mondo giustifica la drammatizzazione della scelta che ogni uomo deve operare tra il Bene e il Male, rappresentato da Satana. La prospettiva temporale apocalittica che, nei testi evangelici, si riduce addirittura ad una generazione, rende evidente il fatto che la buona novella si iscrive nella tradizione ebraica e riguarda il popolo d’Israele, l’unico all’epoca che coltiva la fede nell’unico Dio.

Il contesto storico in cui si avvia la predicazione di Gesù e la nascita del Cristianesimo è contrassegnato dall’occupazione romana e dal diffondersi della cultura ellenistica.

La Palestina, a partire dalla conquista romana di Gerusalemme, nel 63 a. C., è una terra perennemente inquieta. La pax romana, accolta da altri popoli con passività, è rifiutata da una quota consistente di Ebrei, in quanto ritenuta incompatibile con la promessa divina di assegnare ad Israele il primato politico e spirituale su tutte le altre nazioni della terra. La Palestina è una terra di guerriglie pressoché perpetua. Intorno al 4 a. C., si realizza una repressione feroce: duemila guerriglieri ebrei vengono crocifissi. Neppure questa tragedia produce la pace. Essa però riverbera nell’immaginario ebraico, portando alcuni (la classe sacerdotale dei Sadducei) a pensare di dovere trovare un accordo con gli occupanti e con la cultura ellenistica, altri (gli Esseni) a ritirarsi in comunità monastiche per evitare l’impurità del mondo, altri ancora (i Farisei) a richiamare il popolo ad un rigido rispetto della Legge divina per evitare più dure punizioni, altri infine (gli Zeloti) ad esasperare le azioni di guerriglia per liberare la loro terra.

All'epoca di Gesù, gran parte delle controversie teologiche si incarnano nel contrasto tra sacerdoti Sadducei - che riconoscono solo l'autorità del Pentateuco, hanno un orientamento filoellenico, tendono al compromesso con i Romani, e rifiutano la resurrezione e l'aldilà - e i Farisei - fieramente avversi alla cultura ellenica — i quali si riconducono alla rigida osservanza della legge mosaica.

Perché questo contesto storico è importante per capire l’avvento del Cristianesimo? Perché qualunque predicatore fosse nato in Palestina doveva prendere posizione in rapporto alle varie correnti del Giudaismo. Insomma, se la Rivelazione attribuita a Gesù viene dall’alto dei cieli, essa deve fare comunque i conti con la tradizione e la realtà storica.

 3. L’eredità contraddittoria di Gesù

Gesù è un predicatore spirituale. Il suo messaggio è, sostanzialmente, un recupero della tradizione mosaica attraverso l'interpretazione teologicamente raffinata dei profeti. I contenuti innovativi della sua predicazione - la misericordia di Dio, l'amore per il prossimo, la fede come fatto interiore, la resurrezione, il Giudizio finale - sono in realtà tutti presenti nel pensiero profetico sia remoto (Isaia) che recebte (Daniele), al quale egli si richiama di continuo. Altri temi — quali l’onnipresenza del Demonio e l’aspettativa prossima della fine del mondo, seguita dall’instaurarsi nei cieli del regno della giustizia - riecheggiano invece la letteratura apocalittica, cui si è fatto cenno. La predicazione di Gesù si iscrive pertanto nella tradizione ebraica, che egli in qualche misura intende rinnovare. Il rapporto di continuità/discontinuità del suo messaggio con quella tradizione è il problema centrale che gli Apostoli e i discepoli si troveranno ad affrontare dopo la sua morte. Il problema verte sul fatto che il messaggio originario di Gesù, per molti aspetti, è contraddittorio.

Egli predica l’amore per il prossimo, la tolleranza, il perdono, ed estende la sua comprensione al mondo dei reietti (pubblicani, prostitute). Ma l’atteggiamento che assume nei confronti dei Farisei è del tutto impietoso. Egli, né più né meno, li odia, li definisce ripetutamente "razza di vipere", e preannuncia loro l’inesorabile condanna all’inferno, misconoscendo del tutto il loro ruolo storico di eredi della teologia del patto e la loro sostanziale buona fede. Quest’odio è la matrice dell’antisemitismo, che caratterizzerà la Chiesa per molti secoli, e si esprimerà anche nella persecuzione degli "eretici".

Più volte Gesù ribadisce che il suo compito è di ricondurre all’ovile le pecorelle smarrite d’Israele, e dunque che la sua missione è rivolta unicamente al popolo eletto. Cionondimeno, in alcune rare circostanze, appare incline a pensare che la salvezza si possa estendere anche ai Gentili. Al di là di un’antropologia che vede negli uomini i figli di Dio, in quanto sue creature, non c’è alcun afflato universale nel suo messaggio. L’apertura ai Gentili è solo un modo per sottolineare l’indegnità degli Ebrei in rapporto al ruolo ad essi assegnato da Dio.

La sua predicazione si rivolge a tutti gli uomini di buona volontà, e in particolare al popolo, la cui miseria sociale e morale gli appare intollerabile. Poi, però, specifica che la salvezza è riservata a pochi ("Molti sono i chiamati, pochi gli eletti"). Questa contraddizione pone in luce l’influenza essenica sul pensiero di Gesù, e giustifica la necessità, per chi vuole salvarsi, di scindere i legami con il mondo dell’impurità e del peccato.

Il Dio cui fa riferimento è un Dio di misericordia, il Padre celeste, che nulla ha a che vedere con il terribile Dio dell’Antico Testamento. Cionondimeno, egli sollecita la gente a convertirsi in nome di un’imminente fine del mondo, alla quale seguirà un’implacabile verdetto di condanna eterna per gli empi. La Giustizia rimane dunque, nel solco della tradizione ebraica, l’attributo fondamentale di Dio. L’Amore divino si riduce all’estrema possibilità che egli offre agli uomini di non incorrere, convertendosi, nella vendetta divina.

Gesù predica l’armonia universale, ma più volte specifica di essere venuto a portare la spada non la pace. Si tratta ovviamente di una spada metaforica destinata a separare la comunità dei credenti da quella dei non credenti, scindendo i legami parentali, all’epoca sacri. In nome di questo principio, egli misconosce e allontana da sé la madre e i fratelli, colpevoli di ritenerlo un folle.

Si definisce Figlio del Padre celeste, ma anche e ripetutamente Figlio dell’Uomo, termine che nell’apocalittica tardiva, come si è detto, sta ad indicare un Essere creato da Dio per portare agli uomini la salvezza. Nessuna analisi dei testi evangelici riesce a sciogliere il dubbio inerente la convinzione di Gesù di essere effettivamente Figlio di Dio o un suo rappresentante sulla terra.

Gesù, infine, sacrifica la sua vita per affrancare l’umanità dal peccato e dalla morte. Tale sacrificio però, se comporta la risoluzione del peccato originale inteso come trasgressione della Legge divina, fa incombere sull’umanità l’incubo di un più atroce rimorso: il deicidio.

Tutte queste contraddizioni, presenti nei Vangeli, i cui autori devono averne epurate altre, consentono di capire le difficoltà che si devono essere poste agli Apostoli e ai discepoli dopo la morte di Gesù.

4.

Il nucleo originario della comunità cristiana è composto di soli Ebrei. Quasi tutti sono convinti che il messaggio di Gesù, essendo il completamento della religione veterotestamentaria, si pone come il vero Giudaismo. In Gerusalemme, però, gran parte dei Giudei non possono riconoscere come Messia un predicatore che non ha alcuna caratteristica regale né si è proposto di restaurare la monarchia. Tanto meno essi possono accettare, in rapporto al rigido monoteismo, che Gesù sia veramente il Figlio di Dio. Riguardo alla resurrezione, poi, i cui unici testimoni sono adepti di Gesù, i quali l'adducono come prova della sua divinità, il rifiuto è ancora più radicale, non da ultimo perché gli Ebrei, se non ne sono stati gli artefici, sicuramente hanno contribuito alla condanna e all'esecuzione di Gesù.

Tra le file stesse dei cristiani, peraltro, le idee sono piuttosto confuse. Alcuni continuano a definirsi Ebrei a pieno titolo e ritengono, di conseguenza, che il messaggio di Gesù debba realizzarsi attraverso il rispetto rigoroso della legge mosaica: sono, in breve, giudeocristiani ebrei. Altri, invece, influenzati dalla cultura ellenistica, ritengono che le regole rigide dell’osservanza possano e debbano essere superate: sono dunque giudeocristiani ellenisti. Non c’è alcuna prova che del gruppo originario di discepoli che si raccolgono intorno agli Apostoli faccia parte alcun non-giudeo.

L’asprezza del conflitto tra questi due gruppi è abbastanza velata nei libri del Nuovo Testamento. Pochi dubbi però sussistono riguardo al fatto che esso non concerne solo le regole rituali di osservanza, ma anche la definizione stessa di Gesù. I giudeocristiani ebrei, in riferimento al rigoroso monoteismo biblico, hanno non poche difficoltà ad accettare la divinità di Gesù. Essi presumibilmente interpretano il suo definirsi Unto, Figlio dell’Uomo, Figlio di Dio come espressione di una predilezione del Padre nei suoi confronti, e non come l’essere Dio allo stesso modo del Padre.

I giudeocristiani ellenistici, viceversa, non hanno alcuna difficoltà a riconoscere in Gesù Dio stesso che, sotto forma di Figlio, si è incarnato, è morto sulla croce ed è risorto. Ciò dipende dal fatto che, nella cultura greca, questo mito è ampiamente rappresentato in numerosi culti misterici che fanno riferimento a esseri divini che muoiono e risorgono.

Questa differenza spiega che lo scontro tra Giudei e cristiani riguarda prima i giudeocristiani ellenistici. Esso culmina nella morte di Stefano, che inaugura una vera e propria persecuzione, la cui conseguenza è la cacciata degli ellenisti da Gerusalemme, in quanto la loro critica del Tempio e della tradizione risulta intollerabile agli osservanti.

Anche il rapporto tra questi ultimi e giudeocristiani ebrei va incontro però a delle vicissitudini, che culminano nella morte di Giacomo, uno dei fratelli di Gesù, divenuto, con Pietro e Giovanni, capo della comunità cristiana gerosolimitana. Quest’episodio è denso di significato. Giacomo viene messo a morte nonostante il suo atteggiamento sia sostanzialmente conservatore e filogiudaico. Si tratti di un fratello o di un cugino di Gesù, il suo riconoscere in questi il Figlio di Dio è un cambiamento rilevante rispetto all’averlo ritenuto in precedenza folle. Nulla vieta di ammettere, date le contraddizioni della predicazione di Gesù, che egli abbia male interpretato il messaggio originario, leggendo in esso la necessità di una rigorosa osservanza della tradizione ebraica. Nulla vieta di ammettere il contrario, vale a dire che quel messaggio contenesse il rispetto di quella tradizione e fosse rivolto unicamente agli Ebrei.

Il trasferirsi dei conflitti interni alla comunità cristiana tra giudeocristiani ebrei e giudeocristiani ellenistici, fuori da Gerusalemme, nelle città mediorientali in cui erano presenti colonie ebraiche, s’imbatte in un’ulteriore problematica, inerente il rapporto con i Gentili. Anche a questo riguardo, nonostante la reticenza dei testi, riesce evidente che il problema viene affrontato dai cristiani sulla base di una contraddizione intrinseca alla predicazione di Gesù. Non si dà alcuna prova che i cristiani abbiano escluso la possibilità per i pagani di convertirsi, anche se il primo battesimo di un incirconciso, attribuito negli Atti degli Apostoli da Luca a Pietro, avviene in seguito ad un deciso intervento dello Spirito Santo e un insieme di visioni e apparizioni angeliche: indizio questo di una resistenza da parte di Pietro.

E’ certo invece che la conversione dei pagani attiva un conflitto tra i giudeocristiani ebrei, che intendono imporre loro la circoncisione e le regole di osservanza rituali, e i giudeocristiani ellenisti, i quali ritengono che l’osservanza, alla luce della predicazione di Gesù, vada intesa in termini spirituali più che rituali.

Ciò rende evidente che i giudeocristiani ebrei ritengono il messaggio di Gesù come un arricchimento della religione ebraica e non una nuova religione.

Il conflitto in questione si riverbera nei rapporti burrascosi tra Pietro e Paolo, che la tradizione cattolica ha tentato in ogni modo di mascherare, ma di cui rimangono tracce inequivocabili sia nelle lettere di Paolo che negli Atti degli Apostoli. Esso verte di sicuro sull’osservanza e non sulla natura divina di Gesù.

Il prevalere dell’impostazione paolina segna il presupposto del distacco definitivo del Cristianesimo dal Giudaismo.

4. L’Apostolo dei Gentili

E' stato scritto più volte che il Cristianesimo, così com'è giunto sino a noi, è più opera di Paolo di Tarso, ebreo circonciso ma cittadino romano, che di Gesù. Questa tesi urta la sensibilità dei cristiani, ma è poco oppugnabile. Gesù presenta la sua predicazione come completamento della legge mosaica. Paolo, che, fino al momento della conversione è un ultraortodosso, opera una cesura netta, ricusando, tra l'altro, la circoncisione nella carne in nome della circoncisione del cuore. Gesù anticipa la sua resurrezione, ma, probabilmente, intende fare riferimento all'ascesa dell'anima a Dio. Paolo assume la resurrezione di Gesù come prova della sua divinità e incentra su di essa la promessa del riscatto dalla morte per tutti i credenti. Gesù, andando incontro alla crocifissione, agisce in un'ottica apocalittica che comporta l'imminente fine del mondo. Questa previsione, più volte ripetuta, non realizzandosi, avrebbe potuto indurre nei fedeli il dubbio sulla sua divinità, Conscio di questo pericolo, Paolo la reinterpreta rimandandola in un futuro imperscrutabile. Gesù, infine, ritiene che il suo compito primario di conversione riguardi anzitutto le pecorelle smarrite del popolo ebraico, e solo secondariamente i pagani. Paolo, invece, rende il Cristianesimo universale, privilegiando i Gentili come referenti della buona novella e facendo incombere sugli Ebrei l'accusa di deicidio.

Il ruolo di Paolo è stato insomma decisivo nella rottura tra Giudaismo e Cristianesimo, nella definizione di verità di fede che sormontano di gran lunga la legge mosaica e nell'intuire che i pagani avrebbero potuto recepire il messaggio di Gesù senza le resistenze opposte dagli Ebrei. Tale rottura ha avuto due conseguenze fondamentali. La prima riguarda il destino del popolo ebraico. Essa infatti è avvenuta sulla base dell’accusa ad esso rivolto di avere messo a morte il Figlio di Dio venuto sulla terra per completare la rivelazione mosaica. In conseguenza di questa accusa, gli Ebrei diventano indegni dell’elezione divina, che passa ai cristiani, e colpevoli di un crimine infamante e sacrilego, il deicidio.

Paolo si può considerare un precursore dell’antisemitismo, i cui germi vanno ricondotti all’asprezza del conflitto originario tra Giudei osservanti e cristiani ellenisti. Quest’orientamento è, peraltro, implicito in tutto il Vangelo di Giovanni, scritto verso la fine del primo secolo, la cui matrice ellenistica è del tutto evidente. Esso culmina, poi, a pochi decenni di distanza, in un libro di Tertulliano il cui titolo è inequivocabile: Contro i Giudei.

L’antisemitismo è, dunque, il prezzo della differenziazione del Cristianesimo dall’Ebraismo. Esso, peraltro, non fa che riproporre la contraddizione, evidente nella predicazione di Gesù, tra l’amore per il prossimo e il suo virulento odio contro i Farisei.

La seconda conseguenza ha riguardato il potenziale espansivo del Cristianesimo. Se il messaggio di Gesù fosse rimasto, com’era presumibilmente nelle sue intenzioni, intimamente connesso alla tradizione ebraica, che egli intendeva rinnovare alla luce del pensiero profetico, la possibilità di indurre alla conversione i pagani si sarebbe configurata estremamente ardua. Essa, in breve, nonostante la pretesa di universalità teologica discendente dal riferimento ad un unico Dio, sarebbe rimasta, come è accaduto per l’Ebraismo, una religione etnica.

L'interpretazione paolina della predicazione, della morte e della resurrezione di Gesù è valsa non solo a produrre la rottura con il giudaismo, ma a dare al Cristianesimo una dimensione universale e non apocalittica che è arduo giudicare fedele al messaggio originario.

 

Novembre 2004