Nell'ambito di un programma editoriale che, da qualche tempo, ha trasceso l'ottica delle due i (informatica, inglese) che lo ha inaugurato anni fa, La Biblioteca di Repubblica, dopo la pubblicazione di ben ventisei volumi di storia universale (otto dei quali dedicati alla storia italiana dal Risorgimento in poi, uno alla cronologia e uno, ahimè, alle battaglie, alle guerre e agli armamenti), si è rivolta alla storia delle religioni. Il progetto si è realizzato attraverso la pubblicazione di un'intera collana in otto volumi (a cura di Giovanni Filoramo e già editi da Laterza) preceduta da un'edizione in tre volumi della Bibbia. Un volume della collana, sull'Islam, l'ho già recensito nella sua edizione originaria. Mi riprometto di recensire anche il volume sull'Ebraismo, sul Cristianesimo e sul Buddismo.
Quest'articolo verte sulla scelta editoriale di pubblicare la Bibbia prima degli altri volumi, senza nessun apparato che si possa definire autenticamente critico, non confessionale, e con un'introduzione del Prof. Filoramo di poche pagine.
La scelta è significativa per vari aspetti. Anticipando il Libro rispetto a volumi di storia che, sia pure senza alcun eccesso, hanno un taglio critico, si è voluto evidentemente metterlo al riparo dai dubbi che insorgono ogniqualvolta esso viene affrontato come un prodotto culturale. Basta leggere i volumi dedicati al Cristianesimo e all'Ebraismo per capire la fondatezza di tale preoccupazione.
La pubblicazione riproduce la "levigata" traduzione della Commissione Episcopale Italiana con un apparato di introduzioni e di note redatto dai Gesuiti di "La Civiltà Cattolica", cui hanno collaborato più di cento esperti. Si tratta del testo che io stesso ho utilizzato per scrivere il saggio sulla Bibbia (Facci un dio...). Da tempo una commissione pontificia sta approntando un'ulteriore traduzione dei libri biblici, che, sulla scorta di alcune anticipazioni, avrebbe un carattere innovativo se non rivoluzionario. Il ritardo della pubblicazione, annunciata più di un anno fa, fa pensare a qualche difficoltà intervenuta tra gli esperti.
Sarebbe facile (qualcuno lo ha fatto) ironizzare sulla necessità di continuare, da parte della Chiesa, ad affannarsi intorno al problema di restituire in una forma linguistica sempre più fedele la Parola rivelata di Dio. Se si mette tra parentesi l'ironia, ci si imbatte in un problema assolutamente reale, esposto nel volume sull'Ebraismo.
I testi originari dell'Antico Testamento, risalenti ad un periodo che va tra il VII e il IV secolo a. C., sono scritti in ebraico antico, vale a dire in una lingua che non disponeva di vocali. Il testo consonantico fu fissato nei primi secoli dell'era volgare ad opera di gruppi di rabbini che scelsero, tra le varie stesure circolanti, quella attestata dalla maggioranza dei manoscritti. Sulla base di questo lavoro, giunse a definirsi il canone ebraico. Solo molto più tardi, nei secoli IX-X, i grammatici idearono un sistema di punti e lineette per indicare i suoni vocalici e la pronunzia esatta di certe consonanti, che permise di operare una traduzione vocalica (definita masoretica). La traduzione in greco della Bibbia, che divenne il riferimento del canone cristiano, avvenne in epoca alessandrina. Essa concorda solo in parte con il testo masoretico.
Riesce evidente che essendo avvenuta la Rivelazione in una lingua consonantica, la tardiva notazione vocalica, essendo la vocalizzazione dotata di una specifica e vitale funzione morfologica, si ripercuote negativamente sulla possibilità di ricostruire il testo antico. La Parola rivelata, insomma, è destinata inesorabilmente a rimanere, per alcuni aspetti, equivocabile. Certo si può fare appello sempre alla tradizione ecclesiale, considerando il fatto che Dio ha investito la Chiesa di essere l'unica e veridica interprete della Rivelazione. Ma, dal punto di vista filologico, ciò non cambia i termini della questione. I libri veterotestamentari sono destinati, di necessità, a essere tradotti in forme linguistiche più o meno opinabili per alcuni aspetti.
Se la traduzione della Bibbia è, di fatto, un'impresa difficile, teologicamente delicata e, in una certa misura, disperata, la sua interpretazione complessiva è ancora più densa di problemi. l'interpretazione ecclesiale, esposta nell'Introduzione al primo volume della Bibbia, è apodittica. l'Antico Testamento, secondo essa, è null'altro che una profezia che, nel corso dei secoli, ha anticipato la venuta di Gesù.
Nelle poche righe di presentazione che gli sono state concesse, il Prof. Filoramo, dopo aver sottolineato l'incidenza che il Libro ha avuto nella formazione della Civiltà europea, di cui costituisce una delle eredità culturali fondamentali, scrive: "La Bibbia è, a rigore, una "invenzione" cristiana. Furono i cristiani, infatti, nel corso del II secolo, rileggendo le Scritture ebraiche alla luce della loro fede in Gesù il Cristo e cioè il Messia promesso ad Israele, a considerare queste scritture come un'anticipazione e una prefigurazione degli eventi decisivi nella storia della salvezza che si erano compiuti con la sua incarnazione, morte e resurrezione. All'"antico patto", stretto da Dio con Abramo e i suoi successori, succedeva il "nuovo patto", il "nuovo testamento", con il nuovo Israele: la Chiesa, suggellato col sangue stesso del Figlio prediletto. La rivelazione preannunciata nell'antico testamento si compiva ó ed era cosÏ superata ó in quella del nuovo. In questo modo, la Bibbia dei cristiani univa, nel contempo separandole, la tradizione ebraica, fissata nelle scritture ebraiche, e la tradizione cristiana, fissata nel canone neotestamentario. La storia della Bibbia è, dunque, nel contempo, la storia del legame conflittuale, ma anche indissolubile ó almeno da un punto di vista cristiano ó che unisce queste due religioni".
In realtà, si può essere un pò più spregiudicati. La Bibbia cristiana è un'invenzione nata a partire da un'altra invenzione. Il canone ebraico, che precede quello cristiano, è incentrato infatti sul Pentateuco rielaborato dai sacerdoti del Tempio nel V secolo sulla base di testi antecedenti e quanto mai eterogenei. Anchíesso ha comportato una lettura singolare di quei testi. Dopo l'esilio babilonese, seguito alla distruzione del tempio di Gerusalemme, il ritorno degli Ebrei alla Terra Promessa era avvenuto nel nome di un avvilimento senza pari. l'esilio aveva infatti definitivamente posto in crisi la teologia della promessa, secondo la quale Dio, dopo averlo eletto come suo popolo prediletto, avrebbe mantenuto in ogni modo l'impegno di proteggerlo e di privilegiarlo rispetto a tutti gli altri popoli della terra, assegnando ad esso un indiscusso primato spirituale e, in prospettiva, temporale. Subordinando gli Ebrei ai pagani e ponendoli in condizioni di schiavitù, il comportamento di Dio si poteva spiegare solo in due modi. Il primo sarebbe stato quello di considerare il patto sancito con Abramo e i suoi discendenti e con Mosè come un mito. La conseguenza di questa spiegazione sarebbe però stata quella di far crollare la fede nei Patriarchi se non addirittura di gettare un'ombra sull'esistenza di Dio stesso.
L'altra spiegazione si fondava sull'avere scambiato gli Ebrei per una promessa ciò che, dal punto di vista di Dio, era solo un'alleanza fondata sul rispetto della sua Legge. Da questo punto di vista, la rappresaglia divina diventava un duro monito rivolto al popolo prediletto nella misura in cui esso aveva ceduto all'idolatria, allontanandosi dalla fede dei Padri. Per quanto drammatica, la rappresaglia, dunque, non implicava l'abbandono da parte di Dio del suo popolo, ma solo una sollecitazione minacciosa a serbare fedeltà alla Legge Mosaica.
La scelta del Pentateuco come corpo centrale della Bibbia e la sua rielaborazione da parte dei sacerdoti del secondo Tempio diveniva, in Quest'ottica, funzionale a ribadire il ruolo di Mosè e della Legge da lui ricevuta dalle mani di Dio. Il futuro Messia non avrebbe avuto altra funzione che confermarla e farla trionfare su tutta le terra.
Il Canone ebraico si fondava dunque sul principio che la Rivelazione era già avvenuta. Al Pentateuco esso associava solo alcuni libri composti successivamente, come quello di Daniele, che aprivano possibilità teologiche non esistenti all'epoca di Mosè, vale a dire l'immortalità dell'anima, la resurrezione dei corpi e il Giudizio Universale. Quest'ultimo, ovviamente, avrebbe tenuto conto solo del rispetto o meno della Legge mosaica.
E' evidente la necessità che deve avere indotto i cristiani ad inventare la Bibbia sulla base dell'invenzione ebraica. Gesù, che si era presentato agli Ebrei come inviato da Dio a completare la Rivelazione mosaica, e forse addirittura come il suo Figlio prediletto, era finito morto sulla croce. Per spiegare questo dramma, si davano solo due possibilità: o considerare Gesù un impostore, che aveva preteso di scavalcare Mosè, o dare un senso teleologico alla sua morte, peraltro infamante. E' su queste due interpretazioni che, nel giro di due secoli, avviene la differenziazione tra Ebrei ortodossi e Cristiani, e, da parte dei Cristiani, la definizione di un nuovo Canone, comprensivo di alcuni libri veterotestamentari rifiutati dagli Ebrei e del Nuovo Testamento.
A posteriori, sembra del tutto chiaro l'imbarazzo che i cristiani hanno dovuto affrontare nel definire il loro Canone. Il sacrificio di Gesù poteva assumere un senso teologico solo sulla base di una rilettura dei testi ebraici. Occorreva, in particolare, trarre da essi il riferimento ad un peccato originario commesso dall'uomo e che questi non avrebbe mai potuto riscattare con il suo pentimento e con le sue opere.
Nella Genesi si trova di fatto questo riferimento, al quale i teologi ebrei, però, non avevano mai accordato grande importanza. Essi infatti ritenevano che il peccato originale fosse stato cancellato dalla distruzione degli esseri viventi dovuta al Diluvio universale e dall'investitura di Noè - novello Adamo - come capostipite degli Ebrei. Questo è il motivo per cui, benché raccontato nelle prime pagine del Genesi, il peccato originale non viene pressoché mai richiamato nei testi del Canone ebraico. Il Messia atteso dagli Ebrei doveva restaurare il regno di Davide, non certo affrancare l'umanità dalla colpa, eccezion fatta per l'idolatria, un vizio endemico del popolo ebreo.
I Cristiani, e anzitutto Paolo di Tarso, drammatizzano invece quell'evento mitico e ne fanno la chiave della storia biblica, che approda al riscatto operato dal Figlio di Dio, il quale restituisce agli uomini l'accesso all'immortalità.
Questa soluzione è ovviamente inaccettabile per gli Ebrei. Essa infatti non solo getta sui patriarchi, su Mosè e sui profeti l'ombra di un peccato incancellabile, ma rende incomprensibile il favore accordato da Dio agli Ebrei, la conquista della Terra Promessa, il regno di David e Salomone.
Un'invenzione sulla base di un'invenzione, un'interpretazione di testi eterogenei, ai quali se ne aggiungono altri ó quelli neotestamentari -, che rinnova e stravolge una precedente interpretazione: questo, e null'altro, è la Bibbia dei cristiani.
Si può certo obiettare che le traversie interpretative sono riconducibili ai limiti degli esseri umani nel decodificare la Rivelazione divina, e che tali limiti vengono superati solo quando Gesù chiarisce definitivamente il significato ultimo della Rivelazione, vale a dire l'amore di Dio per gli esseri umani che giunge al sacrificio del Figlio. Ma questa obiezione non ha gran peso. Tutti i contenuti della predicazione di Gesù ó compreso il comandamento supremo dell'amore del prossimo e del perdono ó sono presenti nel pensiero profetico. PerchÈ gli ebrei avrebbero dovuto aspettare l'incarnazione del Figlio di Dio per apprendere ciò che già sapevano?
2.
E' un fatto storico inconfutabile che l'invenzione cristiana si è imposta a livello universale come l'interpretazione più attendibile dei testi biblici, quella che ha catturato l'immaginario popolare e ha prodotto riflessioni teologiche di grande portata. Questo successo è da ricondurre alla Chiesa che si è assunta il compito di essere depositaria di essa e di assicurarne la trasmissione attraverso i secoli.
In questo senso si può parlare di una Bibbia blindata, vale a dire di testi storici di cui la Chiesa si è appropriata eleggendo se stessa al ruolo istituzionale di unica interprete legittima di essi.
Quest'appropriazione ha riconosciuto due fasi: una lunghissima, durata fino al Medio Evo, nel corso della quale la lettura della Bibbia era vietata ai credenti, che dovevano ricondursi solo all'insegnamento della Chiesa; un'altra, dal Medio Evo a oggi, nel corso della quale è stato consentito ai credenti di leggere direttamente i testi biblici, a patto però di accettare il magistero interpretativo della Chiesa.
Non sorprende pertanto che in epoca recente le traduzioni dei testi biblici debbano godere del nulla osta dell'autorità ecclesiastica, e che esse comportino un apparato di note univocamente rivolte a illuminare i punti oscuri, a sfumare le contraddizioni, ad estinguere i dubbi che affiorano di continuo attraverso una lettura diretta.
Le traduzioni e le note alla Bibbia cattolica risultano, pertanto, essere una nuova invenzione che si sovrappone a quelle precedenti e le completa, fuorviando il lettore dal piano critico a quello fideistico e apologetico.
Non esiste, insomma, un'edizione della Bibbia redatta con spirito critico e commentata alla luce del lavoro degli infiniti studiosi laici che l'hanno affrontata come uno Zibaldone storico. Probabilmente, non sarà mai possibile giungere a disporne perchÈ il fondamentalismo cattolico a riguardo è severissimo.
Se questo è vero, cíè da chiedersi quale significato abbia l'iniziativa di un quotidiano, come la Repubblica, dichiaratamente laico, che pubblica una Bibbia ultraconfessionale. Sarebbe stato impossibile, per i motivi cui ho accennato, mobilitare gli studiosi laici ad approntare un apparato di introduzioni e di note più critico e conforme ai dati storico-culturali sul cui sfondo sono fioriti i testi biblici, dal Genesi all'Apocalisse. Oltre che onerosa, l'impresa avrebbe richiesto almeno alcuni anni per essere portata a termine.
Ciò nondimeno, penso che sarebbe stato più opportuno pubblicare la Bibbia nella traduzione C. E. I. senza note. E' improbabile che una proposta del genere potesse essere accolta. Ma di traduzioni ne esistono tante, anche filologicamente più corrette e con un apparato di note meno ossessivamente rivolto ad anticipare e correggere i dubbi dei lettori.
Chi ha letto il mio saggio sulla Bibbia, redatto con l'azzardo di un non specialista dotato di un certo spirito critico, sa già a quali scorrettezze filologiche ed esegetiche faccio riferimento. Mi limiterò dunque solo a rievocare due di esse, che,a mio avviso, hanno un particolare significato.
La prima riguarda il nome con cui nei testi biblici è appellato Dio. Nellèintroduzione al Genesi, i Gesuiti scrivono: "Il libro del Genesi risulta dall'apporto di tre fonti jahvista, elohista e sacerdotale, che si trovano mescolate tra loro anche nell'interno di uno stesso episodio. Ciò nonostante il libro è unitario, perchÈ la tradizione sacerdotale gli ha dato una struttura organica." (p. 27). Quest'ultima affermazione non è del tutto vera. I sacerdoti del secondo Tempio, in effetti, si sono impegnati parecchio per montare in un tutto unitario documenti diversi. La loro opera, però, non è stata sufficiente. Nelle traduzioni più fedeli al testo originario, infatti, Dio è denominato Elohim dall'inizio del Genesi sino al versetto 2,4, Jahve Elohim da 2,5 a 4,26, ove è scritto che "si cominciò a invocare il nome di Jahve", poi ancora alternativamente Elohim e Jahve fino a 12,1 dove comincia la storia di Abramo all'insegna di Jahve. Anche successivamente, però, i due termini si alternano almeno fino alla storia di Mosè. Nella versione C. E. I. i diversi appellativi vengono tutti tradotti univocamente con il termine Dio.
Chi conosce la teoria documentaria che, rivelando le diverse fonti bibliche, ha posto in luce l'intento sacerdotale di unificare diverse tradizioni teologiche, sa che la traduzione C. E. I. completa quell'intento risolvendo alcune contraddizioni non poco significative. Il termine Elohim, infatti, oltre ad essere plurale (cosa di poco conto se si ammette un plurale majestatis che però nella lingua ebraica non esiste), è evidentemente imparentato con El, la suprema divinità Cananea alla quale gli abitanti della Palestina rendevano culto prima dell'invasione ebraica. Jahve, invece, è il Dio di Mosè: una divinità onorata da diversi popoli del deserto presso Madian, uno dei cui sacerdoti era il suocero di Mosè, e di cui questi si appropria eleggendolo a Dio esclusivo di Israele. Jahve Elohim rappresenta, infine, la condensazione tra il Dio di Mosè e quello cananeo.
Se i diversi appellativi di Dio non rappresentano un problema in quanto la teoria documentaria sarebbe stata secondo essi sormontata, perchÈ i traduttori hanno utilizzato un unico termine? E' evidente: per non confondere l'ingenuo lettore che, imbattendosi in essi, potrebbe sviluppare qualche dubbio.
Questa decisione - è il secondo punto -, rivolta a risolvere una contraddizione, ne apre un'altra. Il montaggio dei diversi documenti, infatti, fa sì che alcuni episodi, tutti all'insegna dell'unico Dio che in realtà una volta è Elohim e un'altra Jahve, si ripetano: così è per la creazione, così per il Diluvio universale. l'unificazione del nome di Dio nella versione C. E. I. non fa altro che sottolineare la ripetizione, senza che nelle note ci sia alcun cenno al suo significato.
I due racconti della creazione sono - questa è la verità - del tutto diversi. Nel primo, elohista, da 1,1 a 2,4, essa si conclude con l'assegnazione all'uomo di un dominio completo sulla natura, senza alcuna proibizione: "E Dio disse:"Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo." (1,29).
Il secondo, jahvista, invece comporta il famoso interdetto ("Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perchÈ, quanto tu ne mangiassi, certamente moriresti" 2, 16-17) che, violato da Adamo ed Eva, dà luogo alla cacciata dal Paradiso terrestre.
Secondo l'interpretazione ecclesiale, il primo brano, più recente, è semplicemente un ripensamento di certi aspetti e una integrazione, secondo una visuale sistematica e molto più ampia, di quanto esposto nel secondo, più antico.
C'è una difficoltà di fondo che impedisce di accettare questa interpretazione. Il racconto elohista fa riferimento evidentemente ad un modo di produzione incentrato sulla raccolta dei semi e dei frutti prodotti spontaneamente dalla natura: un modo di produzione antecedente l'insediamento nella Terra promessa. Il racconto jahvista, invece, fa riferimento ad un modo di produzione incentrato sulla coltivazione e sulla proprietà della terra ("Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perchÈ lo coltivasse e lo custodisse" 2,15).
Sembra un particolare insignificante, ma invece è di grande importanza. Il brano più recente, elohista, fa riferimento ad una condizione originaria dell'umanità antecedente a quella rappresentata nel brano più antico, jahvista. Da questo è facile pervenire all'ipotesi che il mito del peccato originale fa riferimento ad un contesto storico, vale a dire all'insediamento degli Ebrei in Palestina, e che esso è da ricondurre alla violazione del diritto di proprietà sulla terra e sui beni da essa prodotti che, alle origini dell'umanità, semplicemente non esisteva. Di cosa si sia trattato è arduo da capire. l'ipotesi più semplice potrebbe essere ricondotta al rifiuto opposto da alcune tribù ebraiche di pagare la decima alla classe sacerdotale istituita da Mosè.
E' evidente che, intesa in questo modo, tale violazione non giustifica, per essere riscattata, il sacrificio di Gesù, peraltro niente affatto incline a riconoscere i privilegi sacerdotali e il diritto di proprietà.
3.
Ho fatto cenno solo a due tra gli infiniti problemi di traduzione e di interpretazione che pongono i testi biblici letti in un'ottica critica. Nell'assumere l'Antico Testamento come premessa e anticipo del Nuovo, Paolo di Tarso è stato il precursore dell'invenzione della Bibbia cristiana. Purtroppo, dato che il nodo che dà senso al sacrificio di Gesù ó il peccato originale ó compare nelle prime pagine del Genesi, è stato necessario incorporare nel Cristianesimo tutti i libri veterotestamentari e interpretarli, con non poche forzature, come un'univoca profezia inerente la venuta del Cristo. Penso che se non si fosse data tale necessità, la Chiesa si sarebbe ben guardata dal farsi carico di un materiale documentario in gran parte mitico, denso di contraddizioni, di anacronismi e di vere assurdità: tale, cioè, che, se lo si legge con spirito critico, l'impressione che si ricava è piuttosto scoraggiante per quanto concerne il "disegno" divino che attraverso esso si rivelerebbe.
Gli esempi addotti bastano, peraltro, a capire l'esigenza della Chiesa di "blindare" la Bibbia per scongiurare la possibilità di una traduzione e di un'interpretazione laica, antropologica e storicista. Rimane il fatto che la Bibbia cristiana, nella traduzione della C. E. I., è l'invenzione (quella canonica cattolica) di un'invenzione (quella dei sacerdoti del secondo Tempio). La Verità rivelata, secondo la tradizione ecclesiale, traspare comunque nonostante i limiti di comprensione della mente umana. Il problema, a mio avviso, è che essa non li eccede, ma ne abusa.