Ancora sulla personalità di Gesù


1.

L’articolo pubblicato a Natale sui motivi per cui, prescindendo dalla istituzione ecclesiale che se ne è appropriata, Gesù come personaggio storico può essere annoverato tra gli innovatori culturali cui la cultura laica deve molto, ha destato un notevole interesse. Ho ricevuto alcune e-mail con giudizi molto lusinghieri su questo tentativo di affrancare Gesù dagli stereotipi della tradizione. Una sola lettrice si è dichiarata delusa e turbata dall’articolo. Si tratta di una mia ex-paziente, la cui fede, profondamente vissuta, non ha ostacolato in alcun modo il nostro rapporto terapeutico, nonostante essa fosse del tutto consapevole del non essere io credente. Nell’e-mail ha rievocato la sensibilità con cui ho affrontato in analisi tematiche religiose intrecciate alla sua esperienza di disagio, aiutandola a liberarsi da alcune sovrastrutture deleterie (le solite: l’essersi sentita gravemente in colpa per pensieri, fantasie e emozioni negative, assolutamente innocue, e l’avere assunto come valore morale assoluto la disponibilità illimitata nei confronti del prossimo).

Proprio in conseguenza dell’esperienza fatta che, a suo dire, rivela una profonda conoscenza dei testi e della dottrina religiosa, la mia ex-paziente è rimasta perplessa e turbata dopo la lettura dell’articolo sul Gesù dei non credenti. La sua critica, peraltro velata, si articola essenzialmente sull’uso di una categoria psichiatrica (la personalità ossessiva) che, a suo dire, lascia pensare che Gesù fosse uno “psicopatico”, uno “squilibrato”. Possibile - essa scrive – che un personaggio del genere abbia inciso così profondamente nella storia umana che, ancora oggi, più di un miliardo di persone lo considera il Dio incarnato e lo assume come modello? Come spiegare, poi, - aggiunge -, che anche al di fuori della civiltà cristiana, egli abbia goduto e goda – da Maometto a Gandhi – di un consenso e di un apprezzamento così ampio?

Il “veleno” della lettera è nella coda. L’ex-paziente scrive: “Lei mi è stato infinitamente di aiuto nell’aprire nuovi orizzonti alla mia vita, prima rinchiusa in un’ottica angusta e soffocante. Ma non ritengo che sia all’altezza di “analizzare” Gesù.”

Mi dispiace ovviamente avere urtato la sensibilità religiosa di una persona che ricordo con affetto. Quando però è in gioco la verità o, meglio, la ricerca di essa, occorre mettere da parte la delicatezza che deve prevalere nei rapporti interpersonali. Prendo dunque spunto da questa lettera, e dai problemi che essa pone per aggiungere ulteriori riflessioni all’articolo.

E’ superfluo forse dire preliminarmente che, se è impossibile (almeno per ora), affrontando problemi inerenti l’analisi tipologica di una personalità, bandire del tutto termini che risalgono alla tradizione psichiatrica, il significato che dò ad essi non ha nulla a che vedere con la nosografia, vale a dire con il riferimento ad una “malattia” (nel caso in questione un “disturbo di personalità”). La mia accezione è di ordine psicodinamico. Comunque definita, una tipologia implica solo un’organizzazione della personalità fondata su motivazioni consce e inconsce, tra le quali si dà una gerarchia più o meno stabile, la cui pressione dinamica determina il modo di essere, di sentire e di agire di un soggetto.

In questa ottica tipologica, iscrivere la personalità di Gesù nell’ambito del perfezionismo morale di matrice ossessiva non implica alcun giudizio di valore sul suo appartenere alla categoria dei normali o a quella degli “psicopatici”: categorie che ritengo entrambe insignificanti. 

La personalità ossessiva si impianta su di un fondo costituzionale, solitamente introverso, sempre caratterizzato da eccellenti o eccezionali qualità. Lo sviluppo di tale personalità nella direzione del perfezionismo morale comporta il riferimento ad un sistema di valori morali assoluti, incentrati sul rispetto radicale dell’altro come simile, vale a dire dotato degli stessi diritti e degli stessi bisogni del soggetto. A tali valori questi si attiene scrupolosamente, sulla base di una sensibilità sociale, di solito elevata, che comporta una straordinaria capacità empatica, soprattutto quando la condizione dell’altro rientra nell’ambito della sofferenza.

La naturalezza con cui il perfezionista morale si astiene dall’agire comportamenti nocivi per gli altri lo induce a ritenere che quella capacità sia universale, e che, quindi, possa essere facilmente esperita e praticata da ogni essere umano.

In conseguenza di questo, non è sorprendente che la sua reazione, quando si trova di fronte a comportamenti che, a torto o a ragione, gli sembrano violare il diritto dell’uomo di esser rispettato nella sua dignità, aiutato quando è in difficoltà e tutelato nella sua debolezza, sia emotivamente intensa e rabbiosa, sino al limite dell’intolleranza (sottesa costantemente da una fantasia di eliminazione). Il passaggio da un atteggiamento consueto di disponibilità, comprensione e delicatezza nei confronti degli altri, che mette in luce la “pietas” profonda intrinseca al perfezionismo morale, ad uno stato d’animo e ad un comportamento di segno opposto, sprezzante e aggressivo, sia pure solo sul piano verbale, è uno smottamento della personalità, che si realizza con facilità e viene soggettivamente giustificato in nome della giustizia.

Certo, psicodinamicamente si tratta di una scissione dinamica della personalità, che lascia affiorare episodicamente, sul basso continuo della pietas e dell’identificazione con il debole, una sorta di totale incomprensione e insensibilità nei confronti del modo di essere dell’altro, che viene  demonizzato.

Rilevare questi tratti di carattere nella personalità di Gesù sulla base dei testi  evangelici non penso sia irrispettoso. Non è irrispettoso neppure sottolineare che quando Gesù parla del fondo della natura umana, dalla quale “provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie” (Mt, 15, 19), egli lo fa partendo da un vissuto interiore ricorrente nei perfezionisti morali.

 Nella misura in cui, infatti, l’Ideale dell’Io perfezionistico postula la repressione e la rimozione di fantasie, emozioni e desideri con esso incompatibili, questi contenuti ridondano, fino ad animare la convinzione che, al fondo dell’anima umana, ci sia qualcosa di limaccioso, di sporco, di vergognoso.

Il riferimento ad una natura umana inquinata dal male, ad una sorta di “tara” contro la quale l’individuo deve lottare di continuo per difendere l’integrità della sua identità morale è una convinzione ancora oggi reperibile in ogni perfezionista morale, che si fonda su di un’esperienza soggettiva equivocata – la percezione dei bisogni frustrati – e generalizzata. 

L’appartenenza della personalità di Gesù alla tipologia illustrata mi sembra poco o punto confutabile. Questa tipologia consente di spiegare la sua infinita tenerezza nei confronti dei deboli, dei bambini, dei malati, dei poveri, degli emarginati, e la sua spietata intransigenza nei confronti dei Farisei, dei Sacerdoti gerosolimitani e dei ricchi.

Se si dà un problema, questo consiste nell’illuminare il rapporto tra tale tipologia e il contesto storico-culturale. Il discorso, a questo punto, non è affatto semplice, ma va almeno delineato.

La religione ebraica, all’epoca, e già almeno da cinque secoli (vale a dire dalla riforma di Ezdra), ha assunto una configurazione fondata sul concepire la vita come totalmente dominata dal principio di non trasgredire le regole mosaiche. Il fariseismo, con le sue ossessive pratiche rituali, è l’espressione propria di questa preoccupazione. Coloro che denunciano il formalismo farisaico sono nel giusto, ma non tengono conto che esso è maturato sulla base del terrore della rappresaglia divina. Alla implacabile giustizia vendicativa di Dio, infatti, sono state, infatti, ricondotte dai profeti le deportazioni subite dal popolo ebraico; ad esso i Farisei riconducono anche lo scandaloso dominio che Dio ha concesso ai pagani (i Romani) sulla Terra Promessa e Sacra. L’unica possibilità di salvezza, vale a dire di affrancare la Terra promessa e il popolo ebraico da quel dominio, consiste nell’adempimento il più rigoroso possibile della legge mosaica.

Attraverso le sinagoghe, i Farisei cercano di tenere viva la fede in un unico Dio, minacciata, come è sempre accaduto nella storia del popolo ebraico, dall’idolatria, e scossa profondamente dall’assoggettamento di Israele – la nazione eletta – al dominio pagano. A tal fine, essi esasperano la pratica rituale, agganciandola ad un confine tra giusto e empio, lecito e illecito, conforme o in contrasto con la volontà divina, che è sempre precario.

Sono sicuramente in buona fede nell’intento di far rispettare integralmente la legge mosaica o, per dire meglio, il codice sacerdotale di prescrizioni esposto nel Levitico. Il problema, come accade sempre quando si tenta di ingabbiare la vita reale in un codice prescrittivo e proscrittivo, è che le infinite circostanze in cui gli uomini si imbattono, sono tali da generare di continuo dubbi e problemi su come ci si debba comportare.

Nella misura in cui ha una struttura ossessiva, comprovata dall’adozione di categorie scisse e qualificate antiteticamente (bene/male, altruismo/egoismo, giusto/ingiusto, grazia/peccato, salvezza/perdizione, ecc.), la personalità di Gesù rivela la sua dipendenza dalla cultura ebraica e farisaica. Egli però sostituisce la norma razionale, intrinseca a quella cultura, con la norma passionale, dettata dal cuore. In questa nuova ottica, l’aspirazione al bene, alla giustizia, alla salvezza, l’altruismo, l’amore, il perdono devono scaturire dalle viscere dell’anima, piuttosto che dal rispetto delle regole mosaiche.

Gesù condivide con i Farisei l’ideologia secondo la quale l’uomo è inquinato dal peccato originale, ma, a differenza di essi, il cui ritualismo formalistico implica solo la possibilità di tenere sotto controllo il male, non ritiene che quell’inquinamento escluda una trasformazione dell’essere, una metanoia. Questa possibilità, però, riposa non su una ristrutturazione del rapporto con Dio, che rimane infinitamente misericordioso ma anche punitivo, bensì sul recupero del rapporto con l’Altro, con il “prossimo”, il “fratello”, il ”sodale”, affrancato dall’egoismo e vissuto all’insegna della pietas e della giustizia.

A differenza dei Farisei, che, in una certa misura, fanno della religione un fatto privato, inerente il rapporto tra il singolo Ebreo e il suo Dio, Gesù ne fa un fatto eminentemente sociale. La misura della fede in Dio, dal suo punto di vista, si esprime nel rapporto con l’Altro, nel rapporto sociale e, da ultimo, in un’organizzazione sociale che escluda la discriminazione, l’emarginazione, l’oppressione e, soprattutto, l’ingiustizia e la miseria.

Com’è proprio di tutti gli ossessivi “caldi”, empatici, scrupolosi, Gesù, con la sua predicazione, ha dato spazio a quello che io definisco il “sogno” introverso: quello di un’umanità riflessiva, saggia, delicata nei rapporti interpersonali, solidale, giusta, ecc.

Si è trattato, dunque, di un riformatore morale e sociale, che, naturalmente, dato il contesto storico-culturale, non poteva dare al suo messaggio una valenza  politica, ad esso peraltro intrinseca.

Non era dunque uno psicopatico, uno squilibrato, un “malato di mente”. Qualcuno, per esempio Renan, lo ha sostenuto, ma il mio approccio nulla ha a che vedere con uno sterile razionalismo che applica un metro di misura modernista a fenomeni e circostanze storiche del tutto diverse rispetto alla civiltà nella quale esso è maturato.

Gesù era un essere appassionato, dolorosamente consapevole della disperazione e dello smarrimento delle masse, “ammalato” di un senso di giustizia radicale, intollerante nei confronti di qualunque tipo di oppressione dell’uomo sull’uomo.

In ogni soggetto nel quale il perfezionismo morale diventa un’ossessione, si definisce un’intolleranza radicale nei confronti del mondo così com’è. Tale intolleranza è l’espressione di un difetto di comprensione del carattere storico della realtà. Il mondo, comunque esso sia organizzato, è un prodotto dello sviluppo culturale della specie umana, di quello, insomma, che questa singolare specie è riuscita a fare. Misurato alla luce di un modello ideale, incentrato sulla uguaglianza, sulla giustizia e sulla fraternità, il mondo reale risulta inesorabilmente, anche se più o meno, carente e difettoso. Lo scarto tra mondo reale e mondo ideale può tradursi in un progetto politico o culturale. Nulla vieta di pensare, anche se non è una certezza, che la realtà possa lentamente evolvere, dando spazio a valori che fanno capo all’uomo come fine e non come mezzo.

Il nodo inerente la visione del mondo di Gesù è proprio questo. Non disponendo di una percezione storica e di una prospettiva politica, vale a dire non vedendo alcuno spiraglio di cambiamento che non fosse riconducibile alla “metanoia” spirituale di pochi eletti, non è sorprendente che egli sia pervenuto ad una soluzione dei problemi escatologica e apocalittica. Se la terra è un inferno, e l’uomo aspira alla beatitudine, ci deve essere un luogo ove il regno della libertà e della giustizia si realizza, un luogo dove il Bene e il Male siano definitivamente separati. Tale regno non può essere del mondo, quindi è al di là del mondo e della vita terrena. L’aspirazione di chi ha sete di giustizia non può essere dunque altra che uscire dal mondo.

All’epoca, caratterizzata da vincoli di appartenenza parentale molto stretti, uscire dal mondo  poteva significare ritirarsi da esso, rifugiandosi nell’eremitaggio o in una comunità, togliersi la vita o farsi mettere a morte, lottando contro il potere costituito. In nome del suo senso di giustizia, Gesù rifiuta sia l’eremitaggio sia l’aggregarsi ad una delle tante comunità di eletti (tra cui quella essena) che vivono nell’attesa della fine del mondo. Egli diventa un predicatore radicale, che attacca frontalmente le autorità costituite e, di fatto, si vota a morte.

Liberarsi dalla gabbia del mondo, però, non basta a placare la sua ansia di giustizia. Perché gli ingiusti, gli empi, che fanno soffrire tante persone, - egli si chiede - dovrebbero passarla liscia? Non è per caso, dunque, che votandosi a morte, Gesù preconizza l’imminenza della fine del mondo e il Giudizio Universale.

Nulla si capisce del messaggio di Gesù se si prescinde dalla cornice apocalittica all’interno della quale esso si iscrive. Quella cornice implica una disperazione totale sullo stato di cose esistente e sui destini del mondo.

2.

La valenza tragica dell’esperienza di Gesù, riconducibile al modo radicalmente serio con cui i perfezionisti morali si rapportano al mondo e alla vita, vedendo ovunque (e a ragione) arbitri, ingiustizie, sopraffazioni che risultano ai loro occhi incomprensibile intollerabili, è l’aspetto che la tradizione ecclesiale si è impegnata a rimuovere, sulla scorta dell’intuizione di Paolo di Tarso per cui il mantenersi nei cristiani di un’aspettativa escatologia, in pratica della fine imminente del mondo, avrebbe prodotto, a lungo andare, una delusione e una demotivazione collettiva.

Questo aspetto, però, è inconfutabile se si tiene conto dell’insistenza con cui esso è espresso nei Vangeli. Riporto le citazioni apocalittiche di Gesù registrate dagli Evangelisti, perché mi sembra che esse siano inequivocabili (il grassetto è mio):

“In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto

della Giudea, dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è

vicino!»” Mt, 3, 1

       “Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il

regno dei cieli è vicino».” Mt, 3, 17

“In verità vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non

morranno finché non vedranno il Figlio dell'uomo venire nel suo regno».” Mt, 16

“Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi

discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio. Gesù disse

loro: «Vedete tutte queste cose? In verità vi dico, non resterà qui pietra

su pietra che non venga diroccata».

Sedutosi poi sul monte degli Ulivi, i suoi discepoli gli si avvicinarono

e, in disparte, gli dissero: «Dicci quando accadranno queste cose, e quale

sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo».

Gesù rispose: «Guardate che nessuno vi inganni; molti verranno nel mio

nome, dicendo: Io sono il Cristo, e trarranno molti in inganno. Sentirete

poi parlare di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi; è

necessario che tutto questo avvenga, ma non è ancora la fine. Si

solleverà popolo contro popolo e regno contro regno; vi saranno carestie e

terremoti in vari luoghi; ma tutto questo è solo l'inizio dei dolori.

Allora vi consegneranno ai supplizi e vi uccideranno, e sarete odiati da

tutti i popoli a causa del mio nome. Molti ne resteranno scandalizzati,

ed essi si tradiranno e odieranno a vicenda. Sorgeranno molti falsi

profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell'iniquità, l'amore di

molti si raffredderà. Ma chi persevererà sino alla fine, sarà salvato.

Frattanto questo vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo,

perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine.

Quando dunque vedrete l'abominio della desolazione, di cui parlò il

profeta Daniele, stare nel luogo santo - chi legge comprenda -,  allora

quelli che sono in Giudea fuggano ai monti,  chi si trova sulla terrazza

non scenda a prendere la roba di casa,  e chi si trova nel campo non

torni indietro a prendersi il mantello.  Guai alle donne incinte e a

quelle che allatteranno in quei giorni.  Pregate perché la vostra fuga

non accada d'inverno o di sabato.

Poiché vi sarà allora una tribolazione grande, quale mai avvenne

dall'inizio del mondo fino a ora, né mai più ci sarà.  E se quei giorni

non fossero abbreviati, nessun vivente si salverebbe; ma a causa degli

eletti quei giorni saranno abbreviati.  Allora se qualcuno vi dirà: Ecco,

il Cristo è qui, o: E' là, non ci credete.  Sorgeranno infatti falsi

cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli, così da indurre

in errore, se possibile, anche gli eletti.  Ecco, io ve l'ho predetto.

Se dunque vi diranno: Ecco, è nel deserto, non ci andate; o: E' in casa,

non ci credete.  Come la folgore viene da oriente e brilla fino a

occidente, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo.  Dovunque sarà il

cadavere, ivi si raduneranno gli avvoltoi.

Subito dopo la tribolazione di quei giorni,

il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, gli astri cadranno

dal cielo e le potenze dei cieli saranno sconvolte.

Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell'uomo e allora si

batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio

dell'uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria.

 Egli manderà i suoi angeli con una grande tromba e raduneranno tutti i

suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all'altro dei cieli.

Dal fico poi imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa

tenero e spuntano le foglie, sapete che l'estate è vicina.  Così anche

voi, quando vedrete tutte queste cose, sappiate che Egli è proprio alle

porte.  In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto

questo accada.  Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non

passeranno.

Quanto a quel giorno e a quell'ora, però, nessuno lo sa, neanche gli

angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre.

Vegliate per non essere sorpresi.”” Mt, 24

E’ evidente che, nell’interpretare questi versetti, la Chiesa, sulla scorta di S. Paolo, ha valorizzato l’imprevedibilità del giorno e dell’ora del redde rationem, mettendo tra parentesi il fatto che la previsione si iscrive in un intervallo temporale inequivocabile: una sola generazione.

Non si è trattato solo di una strategia mirata a perpetuare una fede che, altrimenti, sarebbe rimasta scossa dal mancato avverarsi della previsione apocalittica (con il rischio di una riverberazione su tutte le affermazioni di Gesù precedute dalla formula canonica: in verità vi dico).

La Chiesa ha intuito che il pensiero apocalittico di Gesù fa capo ad uno stato d’animo esacerbato e senza speranza sui destini del mondo. Essa ha anche intuito che tale stato d’animo, nonché ricondursi ad una determinata condizione storica – quella della Palestina nel I secolo - implica un radicale pessimismo sulla natura umana, inquinata dal male originario e incline al male. Su queste basi, il Cristianesimo non si sarebbe mai potuto trasformare in una religione di massa. Esso sarebbe rimasto, com’era peraltro negli intenti di Gesù, un messaggio rivolto a pochi eletti.

Ancora oggi, lo stato d’animo di Gesù si riproduce nell’anima di tutti i perfezionisti morali che, urtando contro la dura e intollerabile realtà del mondo storico, che non riescono a comprendere come prodotto dell’attività umana, sono esposti al rischio di nutrire la fantasia di scrollarsi il mondo di dosso e di augurare il male a coloro che lo fanno.

3.

Con queste riflessioni non penso di avere rimediato alla ferita inconsapevolmente inferta alla sensibilità religiosa della mia amica. Presumo solo di avere chiarito un po’ meglio in che senso il tentativo di illuminare la tipologia della personalità di Gesù prescinde del tutto da una concezione psichiatrica. Certo, io ritengo che il perfezionismo morale sia o possa essere, e di fatto spesso è, una dimensione di esperienza disfunzionale perché esso, quando non dà luogo alla scissione tra pietas e spietatezza analizzata in Gesù, esita in un orientamento masochistico (per cui il soggetto subisce con rassegnazione tutto ciò che di ingiusto e negativo avviene nel mondo) o in una idealizzazione elitaria del proprio essere virtuoso.

Prescindendo da categorie psichiatriche, però, il carattere disfunzionale del perfezionismo morale dipende molto dalle circostanze ambientali. In un contesto di guerra, un perfezionista morale “preferisce” farsi uccidere che uccidere. In un contesto sociale altamente competitivo, laddove occorre essere egoisti e furbi per eccellere, egli è inesorabilmente destinato a perdere terreno e a fare la figura dell’ingenuo idealista (vale a dire del fesso). In un altro contesto, egli può anche assumere una valenza carismatica: giungere, insomma, ad essere identificato come un modello, un saggio, un maestro, un guru, un santo, un inviato di Dio, ecc.

Non ci si soffermerà mai abbastanza sul fatto che, come che sia strutturata, il funzionamento di una personalità dipende dal contesto con cui essa interagisce o dalle circostanze storico-culturali che, a posteriori, la rievocano e danno ad essa significato...