La Chiesa e il capitale


1.

L’atteggiamento della Chiesa Cattolica nei confronti del denaro è contrassegnato teologicamente dal rigore del messaggio biblico e storicamente dalla necessità, che si è definita in una certa epoca della sua storia istituzionale, di provvedere al suo mantenimento (vale a dire al mantenimento dell’apparato burocratico sacerdotale), di insediarsi nel territorio per mezzo della costruzione di chiese, di accrescere il suo potere sull’immaginario collettivo attraverso l’edificazione di monumenti (duomi, basiliche, ecc.) adornati di oggetti, di dipinti, di statue, di realizzare nei confronti dei meno abbienti il dettato evangelico della carità, di sovvenzionare l’attività missionaria. Questa necessità ha comportato necessariamente l'alleanza con le classi dominanti, dalla nobiltà alla borghesia.

E' impossibile ripercorrere analiticamente i vari momenti storici nei quali tra la teologia, l’insegnamento ecclesiale e il comportamento dei fedeli si sono dati immani contraddizioni. Ci limiteremo ad alcune notazioni utili nella misura in cui potranno portarci in medias res: a valutare la situazione attuale, il rapporto tra la Chiesa e il Capitale.

Il rigore biblico è attestato sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento. Il Levitico recita: "Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria ed è privo di mezzi, aiutalo, come un forestiero e un inquilino, perché possa vivere presso di te. Non prendere da lui interessi, né utili; ma temi il tuo Dio e fa vivere il fratello presso di te. Non gli presterai il denaro a interesse, né gli darai il vitto ad usura." Lev, 25, 35 -37

Il divieto dell’usura sembra contrastare con la pratica cui, privatamente e istituzionalmente (attraverso le banche) si è abbandonato il popolo ebraico dopo la diaspora e l’insediamento in Occidente, e che è stata tra le cause delle ricorrenti persecuzioni da cui è stato investito. En passant, va osservato che la religione ebraica è stata sempre e solo etnocentrica. Le sue leggi, per quanto comportassero un qualche riguardo per il forestiero, hanno avuto valore per il prossimo inteso come appartenente alla etnia ebraica.

Nel Vangelo il rigore è ancora maggiore. Non solo l’usura è censurata, ma la ricchezza stessa, comunque conseguita, viene maledetta. Nel discorso delle Beatitudini è scritto "Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione". Ancora più esplicito Gesù è nell’episodio del giovane ricco che si conclude con una frase divenuta proverbiale: "Quant’è difficile per coloro che possiedono ricchezze entrare nel regno dei cieli! E’ più facile che un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio." (Lc, 18, 24-25). Addirittura la preoccupazione per i beni terreni, riferita ad un bisogno minimale di sicurezza, viene stigmatizzata come attestato di scarsa fede nella provvidenza: "Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che mangerete; nè per il vostro corpo, come lo vestirete. La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito." (Lc, 12, 22-23)

Su queste basi testuali, non v’è da sorprendersi che le primitive comunità cristiane adottassero un modello comunistico, che imponeva a coloro che accedevano ad esse di spogliarsi di tutti i beni e di renderne beneficiaria la comunità. Il cambiamento di questo modello intervenuto nel corso dei primi secoli d. C. non desta alcuna sorpresa. Tra i principi scandalosi che il Cristianesimo presentava per il mondo pagano, e soprattutto per quello romano, il più scandaloso in assoluto era il richiamo alla povertà e all’ugualitarismo economico. Esso, più del rigore morale in ambito sessuale, non sarebbe mai stato accettato collettivamente. Tatticamente flessibile, la Chiesa ha rinunciato ad imporre ai cristiani la povertà, richiedendo ad essi solo la carità, e riservando il rigore evangelico per la classe sacerdotale e quella monacale. Ha accettato in pratica il principio della proprietà privata, vale a dire il fondamento del diritto e della società romana con cui si è integrata. Ciononostante, l'usura è rimasta assoggettata ad un rigido divieto fino al XIII°secolo.

Jacques Le Goff, ne La vita o labBorsa (Laterza, Bari), riconduce l'allentamento progressivo di questo divieto alla necessità di venire a patti con la classe dei mercanti, le cui file s'ingrossavano progressivamente, ponendo le basi dello sviluppo capitalistico destinato a trionfare qualche secolo dopo, la quale non poteva prescindere dai prestiti ad interesse. L'indizio del compromesso, secondo lo storico francese, è l'invenzione del Purgatorio, di cui non v'è traccia nei testi biblici. Tale invenzione avrebbe ammorbidito l'alternativa secca tra salvezza e dannazione, concedendo agli usurai, dapprima univocamente destinati all'Inferno, di aspirare al Paradiso attraverso un passaggio penitenziale, a patto che essi, prima di morire, si pentissero e restituissero ai debitori i loro beni. Essendo i debitori dei poveri, tale restituzione poteva avvenire anche cedendo i propri beni alla Chiesa, che si sarebbe incaricata di ridistribuirli, e/o acquistando le indulgenze.

Tra gli eventi storici successivi due meritano particolare attenzione: la scissione del protestantesimo e il conflitto intervenuto all’epoca dell’avvento della borghesia.

La riforma di Martin Lutero riconosce di sicuro una varietà di cause dottrinarie, storiche e culturali complesse, ma esso ha preso le mosse dalla contestazione della pratica delle indulgenze in virtù della quale, promettendo il paradiso a chi lasciava alla Chiesa l’eredità dei suoi beni terreni, la Chiesa stessa era giunta ad accumulare infinite ricchezze in parte almeno devolute al mantenimento delle gerarchie ecclesiali. La Controriforma, che pure ha richiamato i cristiani ad un maggiore rispetto delle virtù evangeliche, ponendo fine allo ‘scandalo’ delle indulgenze, non ha posto fine invece all’accumulo delle ricchezze. Per un verso nulla ha potuto impedire che, venendo meno la promessa del paradiso, la pratica dei lasciti ereditari continuasse (fino ai nostri giorni). Per un altro il potere politico conseguito dalla Chiesa è stato utilizzato, dal Medio Evo in poi, per assicurarsi, in alleanza con la classe nobiliare una serie di privilegi patrimoniali e fiscali che, non per caso, sono stati contestati radicalmente dalla Rivoluzione francese.

Oltre a questo, c'è da considerare il fatto che il Protestantesimo stesso, come ha dimostrato Max Weber, ha autorizzato l'arricchimento privato, identificando nel lavoro un dovere essenziale e virtuoso del cristiano e nel successo economico l'indizio del favore divino.

Il rapporto tra la Chiesa e la borghesia non è mai stato semplice. All’inizio, attaccata frontalmente dal radicalismo giacobino che sembrava, in onore dei Lumi, volesse scristianizzare la civiltà europea, la Chiesa si è alleata con la nobiltà e con il conservatorismo politico e ideologico. Solo con la Restaurazione le cose sono cambiate. Per un verso la Chiesa, dotata di formidabili capacità previsionali, legati alla sua stessa tradizione, ha intuito che l’ascesa della borghesia non si sarebbe potuta arrestare; per un altro, una quota consistente di borghesi, rimasta vincolata alla fede dei padri, ha cominciato a sperimentare la possibilità di continuare a praticare la religione pur dedicandosi agli affari. La sperimentazione è riuscita in virtù di una scissione che neppure Marx è stato in grado di riconoscere: scissione in conseguenza della quale il socius, vissuto sul piano degli affari come rivale con cui competere in termini di vita o di morte, sul piano spirituale, particolarmente nel corso delle funzioni in chiesa, recuperava la sua valenza di prossimo. Tale scissione ha prodotto, nel corso dell’800, il monstrum del capitalista sfruttatore degli operai e filantropo-benefattore.

Dato che alla Chiesa interessa il numero dei fedeli e non la loro rigida osservanza del dettato evangelico, essa non ha avuto difficoltà nell’allearsi con una borghesia che, privilegiando il calcolo razionale sul piano economico, aveva, in qualche modo, rinunciato all’infatuazione dei Lumi. Essa ha chiuso gli occhi sull’assoluta incompatibilità tra i principi evangelici e il liberismo economico, e soprattutto tra la sua antropologia, che fa dell’uomo un fine ultimo, e quella liberistica, che ne fa uno strumento. Ha chiuso gli occhi anche sul fatto che l’individuo borghese, in quanto orientato verso un tenore di vita egoistico e edonistico, prescindeva, sia pure confusamente, dal coltivare preoccupazioni metafisiche, e che, a lungo andare, la cultura e la pratica borghese avrebbero secolarizzato l’Occidente.

2.

Il risveglio della Chiesa dall'abbraccio mortale con il capitalismo è avvenuto in due fasi storiche distanti tra di loro. La prima risale, nella seconda metà dell’800, alla travolgente diffusione del socialismo e del comunismo presso le classi umili, popolari, operaie e contadine, che hanno rappresentato sempre lo zoccolo duro del Cattolicesimo, e alla scoperta sorprendente che il socialismo si era impadronito e aveva rielaborato alcuni principi propri della dottrina cristiana. L’Enciclica Rerum Novarum è il frutto di questa sorpresa. In essa, per la prima volta dopo le primitive comunità cristiane, si propone una dottrina sociale incentrata sulla giustizia sociale e sulla dignità dell’uomo. Ma l’Enciclica nasce segnata da un problema che permette di comprendere la sua tessitura sostanzialmente compromissoria. Pur riconoscendo, infatti, implicitamente che il socialismo si è fatto carico di quei valori, intrinseci alla dottrina cristiana ma per lungo tempo nella pratica disattesi, essa rivendica la natura cristiana di tali principi, il cui fondamento è l’essere gli uomini figli di Dio, e ricusa qualunque alleanza con un movimento almeno in parte dichiaratamente ateo. La critica degli eccessi del liberismo, contro i quali la Chiesa si propone di lottare, non scinde dunque l’alleanza con la classe borghese. Con questa anzi, nonostante le critiche, si definisce un patto di ferro orientato a sconfiggere, sia pure per motivi diversi, un nemico identificato come comune: il comunismo. In nome di questo patto di ferro, nonostante gli intenti dell’Enciclica, la Chiesa rimane inerte di fronte all’imperialismo coloniale e ai suoi crimini, come rimarrà inerte di fronte al fascismo e al nazismo.

Il secondo risveglio è recente, ed è dovuto alla caduta del muro di Berlino e alla crisi del comunismo. Il contributo che papa Woityla ha dato a tali eventi, che si sono realizzati anche per ragioni intrinseche, è ormai noto. Nota è anche l’ingenuità del suo progetto che prevedeva di far leva sulla religiosità dei popoli dell’Est per riavviare un processo di rivangelizzazione dell’Europa d'impronta feudale. La realtà è che, liberati dal giogo comunista, i popoli dell’Est hanno immediatamente assunto come modello il tenore e lo stile di vita occidentale, abbandonando progressivamente la religione e rivolgendosi verso l’edonismo. Senza più l’avversario storico, inoltre, il capitalismo, nell’ultimo decennio, ha ripreso la sua marcia trionfale apparendo sempre più selvaggio. Solo in conseguenza di questa delusione e dell’intuizione di trovarsi di fronte ad un avversario molto più insidioso - il capitalismo - capace di azzerare le istanze metafisiche delle popolazioni senza nessuna esplicita propaganda atea, il Papa è entrato in campo dichiarando ufficialmente l’opposizione irriducibile tra il cristianesimo e il liberismo selvaggio. Tale opposizione concerne, però, gli eccessi del liberismo, la tendenza allo sfruttamento sistematico e all’avvilimento dell’uomo, non il capitalismo in sè e per sè, che la Chiesa ancora oggi sa di non poter affrontare in campo aperto. Quest'ambiguità si riflette sia a livello dottrinario che nella pratica dei fedeli. Di essa si potrebbero fornire prove numerose. Ne forniamo per ora una sola, minuscola ma indiziaria.

Qualche tempo fa, su un settimanale cristiano di larghissima diffusione, un teologo ha proposto un problema rimasto sinora imprecisato nelle bordate del Papa contro il capitalismo selvaggio: la liceità o meno, per i cristiani, di speculare, investendo in Borsa. In termini dottrinari la possibilità di prestare a chicchessia il proprio denaro e di pretendere gli interessi sul prestito dovrebbe essere vietata in assoluto, poiché, comunque intesa, rientra nell’ambito dell’usura, dello sfruttare (qualunque sia il tasso) il fratello che ha bisogno. E' evidente che l’assumere un atteggiamento dottrinariamente corretto ma moralmente intransigente non è possibile per la Chiesa se non al costo di entrare in conflitto frontalmente col sistema capitalistico e d'imporre ai suoi fedeli un comportamento che sarebbe difficilmente condiviso. Come è dunque accaduto per la guerra, che è una dimensione in sé e per sé radicalmente incompatibile con il dettato evangelico, per la quale si è giunti a distinguere una guerra giusta, incentrata sul principio della legittima difesa, da una ingiusta - criterio di valore questo che non si capisce come possa essere affidato agli esseri umani - così per il profitto da prestito, vale a dire l’interesse, si distingue un profitto onesto, che rispetta le leggi di mercato, e un profitto disonesto, che dà luogo alla speculazione, vale a dire allo sfruttamento di qualcuno meno abile o meno informato. Da questa distinzione deriva che, in ultima analisi, investire in borsa non si può ritenere in sé e per sé incompatibile con la dottrina cristiana poiché non tutti gli investimenti sono speculativi. Ma, data l’attuale situazione in Borsa caratterizzata da una "situazione di grande scorrettezza etica, di non libertà del mercato, di carente trasparenza nelle informazioni e della loro manipolazione", il consiglio del teologo è di astenersi dall’investimento per evitare comunque di essere coinvolti nel gioco speculativo.

Questa distinzione non sorprende. Non solo perché la Chiesa, che pure tuona contro i metodi contraccettivi e impone ai fedeli di non usarli pena il rischio di non potere essere assolti in confessione, non se la sente di vietare agli stessi di investire in Borsa, non da ultimo perché essa stessa (ponendo tra parentesi le recenti magagne legate al banco Ambrosiano e a Monsignor Marcinkus) e praticamente tutti gli enti cattolici investono in titoli e azioni i loro capitali.

Il discorso portato avanti dal teologo è importante però anche teoricamente. Esso significa che la Chiesa ritiene che possa esistere un mercato trasparente, corretto, affrancato da intenti speculativi che potrebbe coesistere con la morale cattolica e non porre alcun problema di coscienza agli investitori. Paradossalmente essa si allea, forse senza rendersene conto, ai liberisti che sostengono che le disfunzioni del capitalismo non sono intrinseche alla sua natura, che tende allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, bensì alle distorsioni prodotte finora dalla storia che non si è riusciti ancora a correggere. Anche considerando quest'alleanza espressiva di una flessibilità strategica della Chiesa che, laddove urta contro resistenze socialmente insormontabili, tende ad adattare la dottrina alla realtà storica, si pone un problema di fondo di ordine morale che essa non considera.

L’usuraio presta ad personam. Se anche il suo scopo è che gli sia restituito l’interesse pattuito, nulla vieta che egli, prima di prestare il denaro, si informi sull’uso che il debitore intende farne e, ipoteticamente, vincoli il prestito al giudizio su tale uso. Un usuraio ‘onesto’ potrebbe teoricamente rifiutare di dare denaro a chi intendesse acquistare delle armi se l’omicidio gli ripugna più del profitto. Ma nel momento in cui un ‘onesto’ investitore cattolico presta il suo denaro a delle società di brokeraggio egli perde del tutto il controllo sull’uso che viene fatto dei suoi capitali e su come e chi produce il suo interesse. Egli si affida al mercato, e spesso ritiene giusto ricevere l’interesse sul prestito come se il denaro avesse la capacità di riprodurre se stesso. Il profitto è sempre e comunque il frutto di lavoro umano. Nell’era della globalizzazione più che mai esso viene ricavato dallo sfruttamento sia nei paesi occidentali che nei paesi del terzo mondo.

La Chiesa può schierarsi contro il capitalismo selvaggio, ma deve trovare un qualche accordo con il capitalismo tout-court e con la classe borghese non da ultimo perché i loro territori di insediamento sono gli stessi. E ciò la costringe ad accettare, contro il dettato evangelico, che i fedeli servano due padroni: Dio e Mammona.

Aprile 2004