Richard DawkinsL’illusione di DioMondadori, Milano 2009 |
1. Da anni, Richard Dawkins, biologo evoluzionista, rappresenta il capofila degli atei internazionali che identificano nella liberazione dell’umanità da ogni forma di religione trascendente il passaggio obbligato sulla via di un mondo migliore. La sua tesi è del tutto radicale non solo rispetto all’indefinito numero di credenti che tuttora esistono sulla faccia del Pianeta, ma anche rispetto ad una tradizione culturale e ad un senso comune secondo i quali la religione avrebbe svolto e continuerebbe a svolgere nella storia una funzione civilizzante, atta ad arginare la barbarie intrinseca al corredo istintivo umano. Dawkins ritiene che la religione, in qualunque forma confessionale, promuove l’intolleranza tra i gruppi umani e, all’interno del gruppo, comporta la squalifica, se non la demonizzazione, di modi di sentire, di vedere e di agire che prescindono dalla trascendenza e da leggi assolute poste da un’Autorità suprema. Essa, inoltre, allontanerebbe l’uomo dalla moralità, intesa come dimensione che comporta l’attribuzione all’altro della stessa dignità e degli stessi diritti naturali che il soggetto rivendica per sé, poiché, concedendogli la possibilità del pentimento e della “salvezza”, quale che sia il suo comportamento sociale, promuove una scissione tra la vita spirituale e quella terrena. Ritengo che l’analisi di Dawkins sia sostanzialmente giusta per quanto riguarda la religione intesa come fenomeno culturale, ma che essa pecchi di un certo razionalismo negli obiettivi che si prefigge. La potenza della religione non sta nel suo corredo dottrinario, che è facilmente criticabile, e neppure nelle risposte confortanti che essa fornisce alle angosce esistenziali, bensì nelle modalità di trasmissione di generazione in generazione che danno ad essa il significato di una tradizione sacra e utilizzano, per radicarsi nell’inconscio, l’influenzabilità senza limiti del bambino. Posso confermare questo sulla base di un’esperienza personale che coinvolge ormai quattro generazioni. Ho ricevuto un’educazione cattolica da mia madre della quale mi sono liberato intorno a venti anni, in seguito all’incontro con il pensiero di Marx. I miei figli non sono stati battezzati e non hanno avuto alcun contatto con ambienti religiosi. Essi, pur avendo acquisito una morale laica piuttosto rigorosa, non hanno mai mostrato alcun bisogno di credere in una qualsivoglia trascendenza. Mio nipote, nonostante l’opposizione del padre, è stato inserito per volere della madre in una scuola materna confessionale e, pur essendo un bambino di vivace intelligenza, ha cominciato a parlare con disinvoltura, intorno a cinque anni, di Gesù, di Dio, del Paradiso, dei morti che lo abitano, ecc., rivolgendo puntualmente gli occhi al cielo. Non ho dubbi riguardo al fatto che, quando raggiungerà l’adolescenza, potrà liberarsi di queste influenze, che profittano sostanzialmente della credulità o della fiducia che i bambini ripongono negli adulti, e in particolare in coloro che forniscono spiegazioni del mondo, della vita e della morte le quali, per il loro contenuto favolistico, sono più suggestive di spiegazioni laiche, che richiedono un’attrezzatura cognitiva che essi non hanno ancora. L’esempio attesta che basta che la tradizione religiosa sia trasmessa anche solo da un membro adulto a contatto con il bambino perché essa attecchisca. Dawkins prende in considerazione questo aspetto quando rileva che non è un caso che i credenti serbano solitamente la fede che è stata loro inculcata dagli adulti nel loro contesto di appartenenza. Egli, però, non sembra ricavare da questo una previsione pessimistica sulla possibilità che l’umanità si affranchi dalla religione. In un certo qual senso, Dawkins sembra prendere molto sul serio la sua teoria dei memi, vale a dire di idee nuove che si possono diffondere e affermare rapidamente, riproducendo a livello culturale la selezione assicurata dai geni a livello biologico (che è molto più lenta). L’idea della non esistenza di alcuna dimensione trascendente il mondo non è ovviamente nuova. Addirittura nel contesto della religione storica di maggiore durata, quella vedica, è stata ricostruita l’esistenza e l’attività di un manipolo di pensatori materialisti e atei. La novità, secondo Dawkins, non è nell’idea, ma sulle argomentazioni scientifiche che oggi possono essere addotte a suo sostegno, che in gran parte fanno capo all’evoluzionismo. Tali argomentazioni giustificano il titolo del quarto capitolo che suona: Perché è quasi certo che dio non esiste. E’ l’avverbio a compromettere la nobile utopia di Dawkins. Di fatto, come non può essere dimostrata l’esistenza di Dio, le cui prove egli sottopone ad una densa critica nel capitolo precedente, non può esserne dimostrata neppure inconfutabilmente la non esistenza. L’estrema improbabilità dell’esistenza di un Essere supremo non impedirà agli uomini di continuare a fare riferimento ad essa. La battaglia per un ateismo globalizzato si può ritenere perduta in partenza, non da ultimo perché non è prevedibile che gli esseri umani, sia pure in un contesto storico-culturale diverso, possano farcela in maggioranza a reggere il peso dell’ansia esistenziale senza che sopravvenga la fantasia di “qualcosa” al di là della vita. Questa considerazione nulla toglie al valore del saggio, che è rimarchevole non tanto per la lucida utopia di Dawkins, quanto perché esso affronta in maniera efficace un problema di grande significato che si può ritenere risolto alla luce della scienza. Un’antica tradizione, che ancora echeggia nei messaggi della Chiesa cattolica, fa riferimento al fatto che, venendo meno il riferimento a Dio, l’umanità non può non cadere nell’anomia, nell’amoralità e nella barbarie. da questo punto di vista, Dio è il fondamento di un ordinamento sociale e morale umano. Oggi è possibile contestare tale assunto in nome del fatto che se non credenti onesti e moralmente integri sono sempre esistiti, la possibilità di un’etica senza Dio può essere confortata dai risultati delle scienze evoluzionistiche e dalla stessa psicologia. Il capitolo sesto - le origini dell’etica: perché siamo buoni - è il più affascinante e persuasivo del saggio. Lo riporto integralmente per poi discuterlo. 2. “Cap. VI Le origini dell'etica: perché siamo buoni? Strana è la nostra condizione qui sulla terra. Ciascuno di noi viene per una breve visita, senza sapere perché, eppure a volte quasi presagendo uno scopo. Dal punto di vista della vita quotidiana, però, una cosa sappiamo per certo: l'uomo è qui per il bene di altri uomini, soprattutto di quelli dal cui sorriso e dal cui benessere dipende la sua felicità. ALBERT EINSTEIN Molti credenti fanno fatica a immaginare come, senza religione, si possa essere buoni o anche solo desiderare di esserlo. A questo argomento è dedicato il presente capitolo. I detti credenti, però, vanno oltre lo stadio del dubbio, arrivando a odiare fino al parossismo coloro che non condividono la loro fede. E’ un problema importante, perché sono considerazioni di natura morale a dettare l'atteggiamento religioso verso questioni che non hanno alcuna vera connessione con l'etica. Per esempio l'opposizione all'insegnamento dell'evoluzionismo non ha alcun nesso con l'evoluzione o con qualsivoglia tema scientifico, ma è dettata dallo sdegno morale, il quale si esprime in varie forme. Si va dall'ingenua massima “Se si insegna ai bambini che si sono evoluti dalle scimmie, si comporteranno come scimmie”, alla più sofisticata strategia “a cuneo” del “progetto intelligente”, impietosamente messa a nudo da Barbara Forrest e Paul Gross in Creationism's Trojan Horse: The Wedge of Intelligent Design. Ricevo molte lettere dai lettori dei miei libri, la stragrande maggioranza assai benevole. Alcune sono critiche in maniera costruttiva, altre maligne o addirittura violente. Spiace dirlo, ma le più cattive di tutte sono quasi sempre di persone religiose. Questo trattamento così poco cristiano lo subisce spesso chi è percepito come nemico del cristianesimo. Ecco per esempio un'e‑mail mandata a Brian Flemming, autore e regista di The God Who Wasn't There, un sincero e coinvolgente documentario pro‑ateismo. Intitolata “Quando voi brucerete noi rideremo” e datata 21 dicembre 2005, dice: Avete una bella faccia tosta. Vorrei prendere un coltello, sbudellare voi idioti e urlare di gioia mentre i visceri vi escono dalla pancia. State fomentando una guerra santa in cui un bel giorno io e altri come me avremo il piacere di passare all'azione. A questo punto il pio scrivente sembra sfiorato dalla tardiva coscienza di stare usando un linguaggio poco cristiano, perché prosegue con spirito più caritatevole: Tuttavia DIO ci insegna a non cercare vendetta, ma a pregare per tutti quelli come voi. La sua carità, però, è di breve durata: Mi conforta sapere che la punizione che DIO vi assegnerà sarà 1000 volte più grande di qualunque punizione possa infliggervi io. Il bello è che SOFFRIRETE in eterno per peccati di cui non vi rendete nemmeno conto. La collera di DIO sarà senza pietà. Spero per il vostro bene che la verità vi sia rivelata prima che il coltello vi penetri nella carne. Buon NATALE!!! PS. Voi atei non avete idea del castigo che c'è in serbo per voi... Ringrazio DIO di non essere voi. Trovo davvero sconcertante che una mera differenza di opinioni teologiche generi tanto veleno. Ecco un esempio delle lettere che arrivano alla direttrice della rivista “Freethought Today”, pubblicata dalla Freedom from Religion Foundation, un'associazione che si propone di difendere pacificamente il principio costituzionale della separazione tra Stato e Chiesa: Salve, canaglie mangiaformaggio. Ci stanno più cristiani come noi che voi perdenti. NON c'è separazione tra chiesa e stato e voi pagani perderete... Cosa c'entra il formaggio? Alcuni amici americani mi hanno suggerito che potrebbe avere a che fare con lo stato del Wisconsin che, oltre a essere notoriamente liberal, è sede dell'FFRF e ha floride industrie casearie, ma dev'esserci dell'altro. Che sia un riferimento ai francesi mangiaformaggio e calabrache? Qual è l'iconografia semiotica del formaggio? Ma proseguiamo: Feccia adoratrice di Satana... Facci il favore di crepare e andare all'inferno... Spero che becchi una malattia dolorosa come il cancro al retto e muori di una morte lenta e atroce, così incontri il tuo Dio, SATANA... Ehi squinzia, questa storia della libertà dalla religione fa cagare... Insomma voi froci e lesbiche state ben attenti a cosa fate, perché quando meno ve l'aspettate dio vi colpisce... Se non ti piace questo paese e le cose su cui si fonda, leva le chiappe di qua e va' all'inferno. ES. Vaffanculo, puttana comunista... Leva le tue chiappe nere dagli Stati Uniti d'America... Non hai scuse. La creazione è una prova provata del potere onnipotente di NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO. Perché non del “potere onnipotente” di Allah? O Brahman? O anche Jahvè? Non ce ne andremo con la coda tra le gambe. Se in futuro ci sarà bisogno di violenza, ricordatevi che l'avete voluta voi. Ho il colpo in canna. Perché ‑ non posso fare a meno di chiedermi ‑ Dio avrebbe bisogno di una difesa così feroce? Verrebbe da immaginarlo capacissimo di difendersi da sé. Si tenga poi presente che la direttrice di “Freethought Today”, cui vengono indirizzate queste violente minacce, è una giovane mite e affascinante. Forse perché non vivo in America, le lettere d'odio che ricevo io non sono quasi mai così violente, ma non sono nemmeno animate da quello spirito caritatevole per il quale va famoso il fondatore del cristianesimo. La seguente lettera di un medico britannico, datata maggio 2005, esprime, sì, odio, ma è più tormentata che cattiva e rivela che la questione etica è fonte inesauribile di ostilità verso l'ateismo. Dopo alcuni paragrafi preliminari in cui stronca l'evoluzione (e si chiede sarcasticamente se un “negro” sia “ancora in via di evoluzione”), il medico insulta Darwin, attribuisce erroneamente ad Huxley convinzioni antievoluzionistiche e mi incoraggia a leggere un libro (l'ho letto) nel quale si sostiene che il mondo ha solo ottomila anni (come può essere, lo scrivente, davvero un dottore?). Ecco come conclude il messaggio: I suoi libri, il suo prestigio a Oxford, tutto quanto ama e ha ottenuto nella vita sono del tutto inutili... Diventa inevitabile la domanda‑sfida di Camus: Perché non ci suicidiamo tutti? Di fatto la sua visione del mondo, dottor Dawkins, ha questo effetto sugli studenti e su molte altre persone... in quanto secondo lei ci siamo evoluti per puro caso dal nulla e torneremo al nulla. Anche se la religione non dicesse la verità, è meglio, molto, molto meglio credere a un nobile mito, come quello di Platone, se esso ci concede la pace dello spirito finché viviamo. Invece la sua visione del mondo conduce all'ansia, alla tossicodipendenza, alla violenza, al nichilismo, all'edonismo, alla scienza in stile Frankenstein, all'inferno in terra e alla terza guerra mondiale... Mi chiedo quanto lei sia felice nei suoi rapporti personali. E divorziato? Vedovo? Gay? Quelli come lei non sono mai felici; se lo fossero, non farebbero di tutto per dimostrare che non c'è né felicità né significato nelle cose. I sentimenti, se non il tono, espressi in questa lettera sono assai diffusi. Quest'uomo crede che il darwinismo sia intrinsecamente nichilistico, che insegni che ci siamo evoluti per puro caso (per l'ennesima volta, la selezione naturale è proprio l'opposto di un processo casuale) e che quando moriremo non resterà niente di noi. Conseguenza diretta di questa presunta negatività sono ogni sorta di mali. Forse il lettore non intendeva dire realmente che la vedovanza è una conseguenza diretta del mio darwinismo, ma a quel punto la sua lettera aveva raggiunto il livello di malevolenza scatenata che ho rilevato più volte nei miei corrispondenti cristiani. Ho dedicato un intero libro (L'arcobaleno della vita) al significato ultimo delle cose, alla poesia della scienza e alla confutazione puntuale dell'accusa di negatività nichilistica, dunque non mi dilungherò oltre. In questo capitolo analizzeremo il male e il suo opposto, il bene; parleremo quindi dell'etica e delle sue origini, chiedendoci perché dobbiamo seguirla e se per seguirla occorra credere in una religione. Il nostro senso morale ha un'origine darwiniana? Diversi autori, come Robert Hinde in Why Good is Good, Michael Shermer in The Science of God and Evil, Robert Buckman in Can We Be Good Without God? e Marc Hauser in Moral Minds, sostengono che il senso del bene e del male si può far risalire al nostro passato darwiniano. In questo paragrafo illustrerò la mia opinione personale sull'argomento. In apparenza, l'idea darwiniana di evoluzione per selezione naturale sembra non prestarsi a spiegare la bontà o il senso di moralità, decenza, empatia e pietà. La selezione naturale spiega facilmente la fame, la paura e il desiderio sessuale, che contribuiscono tutti in maniera diretta alla nostra sopravvivenza o alla conservazione dei nostri geni; ma come spiega la profonda compassione che proviamo quando vediamo un orlano piangere o un'anziana vedova disperarsi per la sua solitudine o un animale gemere di dolore? Che cosa ci fa avvertire il forte impulso di mandare in forma anonima denaro o abiti alle vittime di uno tsunami che ha colpito una regione al capo opposto del mondo, cioè persone che non conosceremo mai e che è molto improbabile ci restituiscano il favore? Da dove nasce lo spirito del buon samaritano? La bontà è forse incompatibile con la teoria del “gene egoista”? No. Questo è un fraintendimento ricorrente della teoria, un malaugurato fraintendimento (e, con il senno di poi, prevedibile). E’ necessario mettere l'accento sulla parola giusta. Nell'espressione “il gene egoista”, l'accento è sul termine gene, perché è il gene che si contrappone all'organismo o alla specie egoista. Mi spiego. Secondo la logica darwinista, nella gerarchia della vita l'unità che sopravvive e passa attraverso il filtro della selezione naturale tende a essere egoista. Le unità che sopravvivono nel mondo sono quelle che sono riuscite a sopravvivere a spese delle loro rivali al medesimo livello di gerarchia. Questo è il significato di “egoista” in tale contesto. Il concetto alla base dell'espressione “gene egoista”, con l'accento correttamente posto sul sostantivo anziché sull'aggettivo, è che l'unità di selezione naturale (Cioè l'unità di interesse egoistico) non è l'organismo egoista, e nemmeno il gruppo, la specie o l'ecosistema egoista, ma il gene, appunto. E’ il gene che, sotto forma di informazioni, sopravvive o no per molte generazioni. Diversamente dal gene (e con tutta probabilità dal meme), l'organismo, il gruppo e la specie non sono le entità adatte a fungere da unità in questo senso, perché non producono copie esatte di se stessi e non competono in un pool di unità autoreplicanti. I geni invece competono nel pool genico e si replicano, e per questo motivo, essenzialmente logico, si è individuato il gene come unità di “egoismo” nello specifico senso darwiniano del termine. Il modo più ovvio per i geni di assicurarsi la sopravvivenza “egoistica” rispetto ad altri geni è programmare i singoli organismi a essere egoisti. Vi sono in effetti molte circostanze in cui la sopravvivenza del singolo organismo favorisce la sopravvivenza dei geni che si trovano al suo interno, ma circostanze differenti favoriscono tattiche differenti. Vi sono circostanze, non particolarmente rare, in cui i geni si assicurano la sopravvivenza egoistica inducendo gli organismi a comportarsi in maniera altruistica. Tali circostanze sono ormai ben comprese e rientrano in due categorie principali. Un gene che programma organismi singoli che favoriscano la sua discendenza genetica ha elevate probabilità statistiche di riprodurre copie di se stesso. La frequenza del gene aumenta a tal punto nel pool genico che l'altruismo verso i discendenti diventa la norma. Essere buoni con i propri figli è l'esempio più ovvio, ma non l'unico. Api, vespe, formiche, termiti e, in misura minore, vertebrati come i ratti talpa glabri, le manguste gialle e i picchi delle ghiande (Melanerpes formicivorus) hanno sviluppato comunità in cui i fratelli maggiori si prendono cura dei fratelli minori (con i quali è probabile condividano i geni delle cure parentali). In generale, come ha dimostrato il mio compianto collega WD. [William Donald] Hamilton, gli animali accudiscono, difendono; dividono le risorse, avvisano del pericolo e mostrano altri comportamenti altruistici verso i consanguinei, perché è probabile che essi condividano copie degli stessi geni. L'altro tipo di altruismo alla cui base c'è un buon motivo darwiniano è l'altruismo reciproco (“Tu mi gratti la schiena e io la gratto a te”). Introdotto per la prima volta in biologia evoluzionistica da Robert Trivers e talora espresso con il linguaggio matematico della teoria dei giochi, l'altruismo reciproco non dipende dai geni condivisi, tant'è che funziona altrettanto bene, e anzi forse meglio, tra individui di specie molto diverse, che instaurano relazioni definite spesso di simbiosi. Il principio è lo stesso alla base di tutti i commerci e baratti umani. Il cacciatore ha bisogno di una lancia e il fabbro ha bisogno di carne. L'asimmetria favorisce un accordo. L'ape ha bisogno di nettare e il fiore ha bisogno di essere impollinato. I fiori non • volano, così pagano le api in “moneta nettare” per “noleggiare” le loro ali. I rateli (Mellivora capensis) sono in grado di forzare gli alveari, ma non hanno le ali per cercarli. Gli uccelli indicatori (Indicatoridae) conducono i rateli (e a volte gli uomini) fino al miele con uno speciale volo di allettamento che non viene utilizzato per nessun altro scopo. Entrambe le parti traggono beneficio dall'accordo. Poniamo che un uomo trovi un vaso d'oro sotto un masso troppo pesante per essere spostato. Ricorrerà all'aiuto di altri uomini anche se così sarà costretto a dividere l'oro, perché senza il loro aiuto resterebbe a mani vuote. Il mondo biologico è ricco di tali relazioni mutualistiche: bufali e bufaghe beccorosso, fiori tubulari e colibrì, cernie e labn pulitori, mucche e batteri intestinali. L'altruismo reciproco funziona a causa dell'asimmetria nei bisogni e della capacità di soddisfarli. Ecco perché è particolarmente efficace tra specie diverse: in quel caso l'asimmetria è più grande. In campo umano, sistemi come il do ut des e il denaro permettono rinvii. Le parti in causa non consegnano i beni nello stesso momento, ma contraggono un debito da saldare in futuro o anche da girare ad altri. A quanto ne so, nessun animale non umano che vive allo stato di natura ha un equivalente diretto del denaro, ma la capacità di ricordare l'identità dei singoli individui svolge la stessa funzione in maniera più informale. I vampiri, per esempio, imparano quali altri individui del loro gruppo sociale pagano sicuramente i loro debiti (in sangue rigurgitato) e quali invece imbrogliano. La selezione naturale favorisce geni che, in relazioni di bisogno e disponibilità asimmetrici, predispongono gli individui a dare quando possono e a chiedere quando non possono. Favorisce anche la tendenza a ricordare gli obblighi, portare rancore, • sorvegliare le relazioni di scambio e punire gli imbroglioni che prendono ma non danno quando viene il loro turno. Esiste infatti sempre il rischio dell'inganno, e le soluzioni stabili al problema dell'altruismo reciproco cui si perviene con la teoria dei giochi includono sempre il fattore punizione degli imbrogli. La teoria matematica fornisce due ampie categorie di soluzioni stabili per “giochi” di questo tipo. “Sii sempre cattivo” è stabile, nel senso che, se tutti gli altri sono cattivi, il. singolo individuo buono non può ottenere il risultato migliore. Ma c'è anche un'altra strategia stabile. (“Stabile” significa che, quando supera una frequenza critica nella popolazione, nessuna alternativa ottiene il risultato migliore.) Si tratta della strategia “Comincia a essere buono e concedi agli altri il beneficio del dubbio. Poi fa' il bene a chi ti ha fatto del bene, ma vendicati di chi ti ha fatto del male”. Nel linguaggio della teoria dei giochi, questa strategia (o famiglia di strategie correlate) ha vari nomi, come Tit‑for‑Tat, Retaliator e Reciprocator. Sotto il profilo evolutivo, è stabile in certe condizioni, nel senso che, data una popolazione dominata da “restitutori”, nessun singolo individuo cattivo e nessun singolo individuo incondizionatamente buono otterranno il risultato migliore. Vi sono altre varianti più complicate del Tit‑for‑Tat che, in alcune circostanze, hanno il risultato migliore. Ho spiegato come la parentela e lo scambio siano i due pilastri dell'altruismo nel mondo darwiniano, ma vi sono strutture secondarie che si aggiungono a quei pilastri. Specie nella società umana, in cui esistono linguaggio e pettegolezzo, la reputazione è importante. Un individuo può avere fama di essere buono e generoso; un altro può essere ritenuto una persona poco affidabile che imbroglia e si rimangia le promesse; un altro ancora sarà magari giudicato generoso nei rapporti di fiducia, ma spietato con chi lo inganna. Secondo la teoria ristretta dell'altruismo reciproco, gli animali di qualsivoglia specie basano il loro comportamento sulla reattività inconscia alle caratteristiche “buone” o “cattive” degli altri animali. Nelle società umane va aggiunto il potere del linguaggio di diffondere la reputazione sotto forma (in genere) di pettegolezzo. Non occorre aver subito direttamente uno sgarbo da X quando al bar non ha pagato da bere come gli sarebbe toccato: sappiamo dal tamtam che X è un taccagno o, per aggiungere una complicazione all'esempio, sappiamo che Y è una gran malalingua. La reputazione è importante e i biologi riconoscono che vi è un valore di sopravvivenza darwiniano non solo nell'essere buoni restitutori, ma anche nell'incoraggiare la reputazione di buoni restitutori. Oltre a essere una lucida analisi dell'intera etica darwiniana, The Origins of Virtue, di Matt Ridley, è una eccellente elaborazione sul tema della reputazione. L'economista statunitense di origine norvegese Thorstein Veblen e, in modo un po' diverso, lo zoologo israeliano Amotz Zahavi, hanno formulato un'altra affascinante ipotesi: il dare altruistico può essere una pubblicità di dominanza o superiorità. Gli antropologi lo chiamano “effetto potlatch”; il potlatch, infatti, è l'usanza in base alla quale i capotribù rivali del Pacifico nordoccidentale si affrontano in duelli alimentari, ossia in banchetti di tal crapula da portare alla rovina. Nei casi estremi, le rappresaglie mangerecce continuano al punto che una delle due parti contendenti è ridotta alla miseria e l'altra non sta molto meglio. Sull'idea di Veblen di “consumo cospicuo” concordano molti osservatori della scena contemporanea. Il contributo di Zahavi, che fu ignorato per molti anni dai biologi, finché non venne rivalutato dal teorico Alan Grafen che lo tradusse in un brillante modello matematico, è stato di fornire una versione evoluzionistica dell'idea di potlatch. Zahavi ha studiato i “garruli arabi”, piccoli uccelli della famiglia Timaliidae che vivono e si riproducono in gruppi sociali altamente cooperativi. Come molti uccelli di piccole dimensioni, i garruli lanciano strida di avvertimento e si donano cibo a vicenda. In una classica indagine darwiniana su tali atti altruistici, si analizzano innanzitutto le relazioni di scambio e di parentela tra gli uccelli. Quando un garrulo nutre un compagno, lo fa perché quello è uno stretto parente o perché si aspetta di ricevere da lui un futuro favore? Né l'uno né l'altro: l'interpretazione di Zahavi è radicalmente imprevista. I garruli dominanti affermano la loro superiorità nutrendo i subordinati. Per citare il linguaggio antropomorfico che Zahavi si diverte a utilizzare, l'uccello dominante dice l'equivalente di: “Sono così superiore a te che posso permettermi di darti del cibo” o: “Guarda quanto sono superiore a te: mi espongo alla vista dei falchi su un ramo alto e faccio da sentinella per avvertire il resto dello stormo che si sta cibando al suolo”. Dalle osservazioni di Zahavi e dei suoi colleghi, risulta che i garruli competono attivamente per il ruolo pericoloso di sentinella; e quando un subordinato tenta di offrire cibo a un dominante, l'apparente generosità è respinta con violenza. L'idea di Zahavi, in sostanza, è che chi vanta superiorità debba “autenticarla” con un costo adeguato. Solo un individuo realmente superiore può vantarsi di questa superiorità per mezzo di un dono costoso. Gli individui si comprano il successo, per esempio nell'attirare femmine, attraverso costose dimostrazioni di superiorità, tra cui una generosità ostentata e un'assunzione di rischio improntata al “senso civico”. Adesso abbiamo quattro buoni motivi darwiniani perché gli individui siano altruisti, generosi o “morali” gli uni verso gli altri. Il primo è il caso speciale della parentela genetica. Il secondo è lo scambio: vengono restituiti i favori fatti e si fanno favori in “previsione” di una restituzione. Da questo consegue il terzo motivo, il vantaggio darwiniano di acquisire una reputazione di generosità e bontà. Il quarto, se ha ragione Zahavi, è il beneficio aggiuntivo della generosità cospicua come mezzo per assicurarsi una pubblicità indubitabilmente autentica. Per gran parte della nostra preistoria, noi esseri umani ci siamo trovati in condizioni che favorivano parecchio l'evolversi di tutti e quattro i tipi di altruismo. Vivevamo in villaggi o, in precedenza, in gruppi nomadi come i babbuini, ed eravamo parzialmente isolati dai gruppi o dai villaggi vicini. I nostri compagni erano perlopiù parenti, più strettamente legati a noi dei membri di altri gruppi, sicché c'erano molte possibilità che si sviluppasse l'altruismo parentale. Parenti a parte, nel corso della vita tendevamo a incontrare più volte gli stessi individui: la condizione ideale per l'evolversi dell'altruismo reciproco. Erano anche le condizioni ideali per farsi la fama di altruisti e per mostrare una generosità cospicua. Tramite uno di questi mezzi, o tramite tutti quanti, furono favorite nei primi uomini le tendenze genetiche all'altruismo. E facile capire perché i nostri antenati preistorici fossero buoni con i membri del loro gruppo, e invece cattivi fino alla xenofobia con gli altri gruppi. Ma come mai, ora che quasi tutti viviamo in metropoli dove non siamo più circondati da parenti e dove ogni giorno incontriamo individui che non vedremo mai più, siamo ancora così buoni gli uni con gli altri, a volte perfino con persone che si potrebbero considerare appartenenti a un gruppo esterno? E importante capire bene fin dove arriva la selezione naturale. La selezione non favorisce l'evolversi della consapevolezza cognitiva di ciò che giova ai nostri geni. Tale consapevolezza ha dovuto attendere il ventesimo secolo per raggiungere il livello cognitivo e, ancora oggi, la piena comprensione è limitata a un numero esiguo di scienziati del settore. Quello che la selezione naturale favorisce sono le regole empiriche, le quali in pratica favoriscono i geni che le hanno prodotte. Per loro stessa natura, a volte queste regole falliscono lo scopo. Nel cervello di un uccello, la regola “Prenditi cura di creaturine che pigolano nel tuo nido e infila del cibo nei loro becchi rossi” ha perlopiù l'effetto di preservare i geni che hanno prodotto la regola, perché le creaturine che pigolano nel nido di un adulto sono di solito i suoi figli. La regola fallisce lo scopo se un uccellino estraneo riesce a infilarsi nel nido, circostanza che per esempio si verifica grazie all'abile manovra dei cuculi adulti. Forse il nostro impulso da buoni samaritani è dovuto a una lacuna della regola, come l'istinto parentale della cannaiola adulta che si affanna per allevare un pulcino di cuculo. Un'analogia ancora più calzante è il desiderio umano di adottare un figlio. Devo affrettarmi ad aggiungere che il termine “lacuna” va qui inteso in senso strettamente darwiniano, e non ha alcun significato peggiorativo. L'ipotesi dell'“errore” o del (“prodotto indiretto” che sto qui adottando è all'incirca questa: nell'epoca ancestrale in cui vivevamo in piccoli gruppi stabili come quelli dei babbuini, la selezione naturale inscrisse nel nostro cervello pulsioni altruistiche, oltre a pulsioni sessuali, alimentari, xenofobiche e così via. Un uomo e una donna intelligenti leggono Darwin e sanno che il fine ultimo dei loro desideri sessuali è la procreazione; sanno che la donna non può concepire perché prende la pillola anticoncezionale, tuttavia questa consapevolezza non diminuisce in alcun modo il loro desiderio. Il desiderio sessuale è il desiderio sessuale, e la sua intensità, nella psicologia di un individuo, è indipendente dalla finalità darwiniana che lo suscita. È una pulsione forte che esiste a prescindere dalla sua fondamentale finalità biologica. Sto suggerendo che lo stesso vale per la pulsione della bontà, ovvero dell'altruismo, della generosità, dell'empatia, della pietà. In epoca ancestrale, avevamo modo di essere altruisti solo verso i parenti stretti e i potenziali restitutori di favori. Oggi queste limitazioni non esistono più, ma la regola empirica continua a esistere. Perché non dovrebbe? E come il desiderio sessuale. Non possiamo fare a meno di provare pietà quando vediamo un infelice che piange (benché non sia nostro parente né possa restituirci favori), così come non possiamo fare a meno di provare desiderio per una persona del sesso opposto (che può essere sterile o comunque inidonea alla procreazione). Entrambi i sentimenti sono lacune, errori darwiniani; errori benedetti e preziosi. Non si pensi neanche per un attimo che, con questa reductio ad Darwin, voglia sminuire o svalutare i nobili sentimenti della compassione e della generosità, o che voglia svilire il desiderio sessuale. Quando trova espressione nella cultura letteraria, il desiderio sessuale produce grande poesia e grande dramma: si pensi alle poesie d'amore di John Donne o a Romeo e Giulietta di Shakespeare. Lo stesso accade, ovviamente, alla erronea deriva della bontà e dell'altruismo reciproco. Vista fuori del contesto, la clemenza verso un debitore è antidarwiniana come adottare il figlio di un altro: La clemenza ha questa qualità, non è forzata: scende come pioggerella dal cielo sul terreno sottostante. La pulsione sessuale è il motore di molte delle ambizioni e dei conflitti umani, e in buona parte è una lacuna della regola empirica. Perché lo stesso non dovrebbe valere anche per la generosità e la compassione, se sono deriva inefficiente delle leggi del villaggio ancestrale? Per la selezione naturale, il modo migliore di introdurre entrambe le pulsioni in epoca ancestrale era inscrivere regole empiriche nel cervello. Queste regole ci influenzano tuttora, anche nelle circostanze che le rendono inappropriate alle funzioni originarie. Le regole empiriche ci influenzano ancora oggi, non con un determinismo calvinistico, ma con il filtro civilizzatore della letteratura e del costume, della legge e della tradizione; nonché, ovviamente, della religione. Come la regola del desiderio • sessuale primitivo passa attraverso il filtro della civiltà per • tradursi nelle scene d'amore di Romeo e Giulietta, così le regole della vendetta primitiva (“noi contro loro”) si traducono nelle lotte tra Capuleti e Montecchi; mentre le regole dell'altruismo e dell'empatia primitivi prevalgono nell'errore che ci rallegra il cuore: la riconciliazione catartica della scena finale. Origini dell'etica: studio di un caso Se, come il desiderio sessuale, il senso morale fosse effettivamente radicato nel lontano passato darwiniano, e fosse quindi nato prima della religione, dovremmo aspettarci che le ricerche sul cervello rivelino universali morali che superano le barriere geografiche, culturali nonché religiose. In Moral Minds: How Nature Designed our Universal Sense of Right and Wrong, il biologo di Harvard Marc Hauser ha descritto una proficua serie di esperimenti proposti in origine da filosofi morali. Il suo studio ci permette anche di vedere in che modo ragionano i filosofi morali. Viene posto un ipotetico dilemma etico e la difficoltà che abbiamo a risolverlo ci dice qualcosa sul nostro senso del bene e del male. Su un punto Hauser si spinge più in là dei filosofi: attraverso questionari distribuiti tramite Internet, conduce indagini statistiche ed esperimenti psicologici sul senso morale di persone in carne e ossa. Dal punto di vista che ci interessa qui, il dato fondamentale è che quasi tutti prendono le stesse decisioni quando si trovano davanti ai dilemmi, e la convergenza è molto superiore alla capacità di spiegare il motivo delle decisioni. E proprio ciò che sarebbe lecito aspettarsi se il senso morale fosse inscritto nel cervello come la pulsione sessuale, la paura dell'altezza o, come preferisce dire Hauser, la capacità linguistica (i dettagli variano da cultura a cultura, ma la struttura profonda della grammatica è universale). Come vedremo, il modo in cui la gente risponde ai quesiti morali e l'incapacità di spiegare le ragioni delle scelte sono in larga misura indipendenti dalla presenza o assenza di convinzioni religiose. Per dirla con le sue stesse parole, il messaggio di Hauser è: (“Alla base dei nostri giudizi morali c'è una grammatica morale universale, una facoltà della mente che si è evoluta per milioni di anni e ha finito per produrre un insieme di principi utili a elaborare una gamma di possibili sistemi etici. Come nel caso del linguaggio, i principi alla base della nostra grammatica morale volano sotto il radar della consapevolezza”. I dilemmi morali posti da Hauser sono in genere variazioni sul tema del treno fuori controllo che minaccia di uccidere un certo numero di individui. Nell'esempio più semplice, una persona, Denise, si trova vicino agli scambi e ha quindi la possibilità di dirottare il treno su un binario secondario e salvare così la vita a cinque persone intrappolate sulla linea principale. Purtroppo, però, c'è un uomo sul binario secondario. Siccome lui è uno solo e le persone intrappolate sulla linea principale sono cinque, quasi tutti giudicano moralmente ammissibile, anche se non doveroso, che Denise azioni lo scambio per salvare i cinque e condannare l'uomo solo. Non sappiamo se l'uomo sacrificabile sia per caso Beethoven o un nostro caro amico. Nelle varianti che vengono via via proposte, i dilemmi morali si fanno sempre più spinosi. E se si fermasse il treno lanciandogli davanti un oggetto pesante da un ponte? Ma sì, senz'altro: gettiamolo. E se l'unico oggetto pesante disponibile fosse un uomo molto grasso che se ne sta lì seduto ad ammirare il tramonto? Quasi tutti convengono che è immorale gettare il grassone giù dal ponte, anche se, tutto sommato, il dilemma parrebbe analogo a quello di Denise, che si trova a dover sacrificare una persona per salvarne cinque. La maggior parte della gente ha la netta sensazione che vi sia una differenza sostanziale tra i due casi, anche se magari non sa spiegare bene il perché. Quello del grassone ricorda un altro dilemma posto da Hauser. In un ospedale stanno morendo cinque pazienti per una grave patologia di cinque distinti organi. Ognuno di loro verrebbe salvato se si trovasse un donatore per quell'organo, ma non ci sono donatori di sorta. Il chirurgo si accorge a un certo punto che in sala d'aspetto c'è un uomo sano, con i cinque organi del caso in perfette condizioni e adatti al trapianto. Quasi nessuno risponde che è morale uccidere l'uomo per salvare i cinque. Come nel caso del grassone sul ponte, la gente intuisce che non si può assaltare un innocuo e ignaro passante e usarlo per il bene degli altri. Com'è noto, fu Immanuel Kant a elaborare l'imperativo categorico secondo il quale un essere razionale non deve mai essere usato come mezzo per raggiungere un fine, nemmeno se il fine fosse di beneficio agli altri. Questa è la differenza fondamentale tra il caso del grassone sul ponte (o dell'uomo nella sala d'aspetto dell'ospedale) e il caso dell'uomo sul binario secondario. Il grassone sul ponte verrebbe chiaramente usato come mezzo per fermare il treno impazzito, e si violerebbe l'imperativo kantiano. L'uomo sul binario secondario non verrebbe usato per salvare le cinque persone sulla linea principale; a essere usato è il binario alternativo e lui ha solo la sfortuna di trovarcisi sopra. Come mai questa distinzione ci soddisfa? Kant lo riteneva un assoluto morale. Per Hauser, è un risultato dell'evoluzione. Nei corso del libro, le situazioni ipotetiche riguardanti il treno fuori controllo diventano sempre più complicate e i dilemmi morali si fanno via via più tortuosi. Tra gli altri, Hauser propone i casi di Ned e di Oscar. Ned è accanto alle rotaie, ma, diversamente da Denise, che poteva dirottare il treno su un binario secondario, può azionare solo uno scambio con cui dirotterebbe il convoglio su un raccordo che si ricongiunge con il binario principale poco prima delle cinque persone: non serve azionare lo scambio, il treno investirebbe comunque le persone. Tuttavia, il caso vuole che sul raccordo ci sia un uomo estremamente grasso, pesante abbastanza per fermare il treno. Ned deve azionare lo scambio oppure no? La maggior parte della gente risponde di no. Ma qual è la differenza tra il dilemma di Ned e quello di Denise? Con tutta probabilità, la gente applica in maniera intuitiva l'imperativo kantiano. Denise impedisce al treno di investire cinque persone e la sfortunata vittima sul binario secondario è un “danno collaterale”, per usare una graziosa espressione di Donald Rumsfeld; Denise non usa l'uomo come mezzo per salvare gli altri. Ned invece userebbe il grassone per fermare il treno e la maggior parte della gente (forse senza pensarci), insieme con Kant (che invece ci pensò moltissimo), la considera una differenza sostanziale. La differenza è riproposta dal dilemma di Oscar. Oscar si trova nella stessa situazione di Ned, solo che sul raccordo c'è un grande oggetto di ferro, talmente pesante che potrebbe fermare il treno. Oscar non dovrebbe quindi avere problemi ad azionare lo scambio e deviare il treno, solo che c'è un uomo che cammina davanti all'oggetto di ferro e quest'uomo, come il grassone di Ned, verrebbe sicuramente ucciso se Oscar azionasse lo scambio. La differenza è che l'uomo sul binario non verrebbe “usato” per fermare il treno: sarebbe, come nel dilemma di Denise, un danno collaterale. Come Hauser e come la maggior parte dei soggetti intervistati, sento che Oscar può azionare lo scambio, ma non Ned. Trovo però molto difficile giustificare la mia intuizione. Hauser dimostra che queste intuizioni morali spesso non passano al vaglio della riflessione, ma sono fortemente sentite a causa del nostro retaggio evolutivo. Durante un'affascinante incursione nell'antropologia, Hauser e i suoi colleghi hanno adattato gli esperimenti morali agli indios Cuna, una piccola tribù dell'America centrale che non ha una religione formale e non ha quasi nessun contatto con gli occidentali. Hanno sostituito il treno con un equivalente locale ‑ un coccodrillo che si avvicina alle canoe ‑ e proposto gli stessi dilemmi. Con piccole differenze dovute al contesto diverso, i Cuna hanno espresso gli stessi giudizi morali di noialtri occidentali. Di particolare interesse per il presente saggio è che Hauser si è anche domandato se i credenti differiscono dagli atei nelle loro intuizioni morali. Se traessimo la morale dalla religione, dovrebbe esserci differenza. Ma a quanto pare non c'è. In un'indagine condotta con il filosofo morale Peter Singer, Hauser ha proposto tre ipotetici dilemmi e confrontato i verdetti degli atei con quelli dei credenti. I soggetti dovevano decidere se un'azione ipotetica era moralmente “doverosa”, “ammissibile” o “proibita”. 1. Il dilemma di Denise. IL 90% delle persone ha detto che era ammissibile deviare il treno, uccidendo una persona per salvarne cinque. 2. Un bambino sta annegando in uno stagno e non c'è in vista nessuno che possa salvarlo. Noi possiamo farlo, ma ci rovineremmo i pantaloni. Il 97% ha convenuto che si debba salvare il bambino (strano a dirsi, il 3% preferisce salvare i pantaloni). 3. Il dilemma degli organi da espiantare. Il 97% dei soggetti ha convenuto che non si poteva prendere di forza un individuo sano in sala d'aspetto e ucciderlo per prelevargli gli organi e salvare i cinque malati. Il risultato principale dello studio di Hauser e Singer è che non c'è differenza statisticamente rilevante tra atei e credenti nell'elaborazione dei giudizi. Ed è coerente con l'idea, condivisa da me e da molti altri, che non c'è bisogno di Dio per essere buoni... o cattivi. Se non c'è Dio, perché essere buoni? Posta in questi termini, la domanda suona decisamente tendenziosa. Quando un credente mi rivolge questa domanda (e molti lo fanno), sono subito tentato di rispondergli provocatoriamente: “Mi sta per caso dicendo che l'unico motivo per cui cerca di essere buono è ottenere l'approvazione e la ricompensa di Dio o evitare la sua disapprovazione e punizione? Questa non è etica, ma solo ruffianeria, adulazione, timore della grande telecamera in cielo o della microcamera in testa che sorvegliano ogni sua mossa o addirittura ogni suo pensiero”. Come ha detto Einstein: “Se le persone fossero buone solo per timore della punizione e speranza della ricompensa, saremmo messi molto male”. In The Science of Good and Evil, Michael Shermer osserva che la domanda “Se non c'è Dio, perché essere buoni?” è un modo per chiudere qualsiasi discussione (debate stopper). Se infatti qualcuno rispondesse che, in assenza di Dio, “commetterebbe furti, stupri e omicidi”, si dichiarerebbe un immorale e “noi saremmo autorizzati a stargli alla larga”; se invece ammettesse che continuerebbe a essere buono anche senza la sorveglianza divina, riconoscerebbe fatalmente che non è necessario Dio per essere buoni. Ritengo che molti credenti pensino sia la religione a indurli a essere buoni, soprattutto se la loro religione è fra quelle che sfruttano sistematicamente il senso di colpa. A mio avviso, solo chi ha una bassissima autostima può credere che, se all'improvviso la fede in Dio venisse meno, diventeremmo tutti degli edonisti insensibili ed egoisti, senza gentilezza, carità, generosità e quant'altro meriti il nome di bontà. Molti sono convinti che Dostoevskij la pensasse così, forse a causa delle parole che mise in bocca a Ivan Karamazov: egli [Ivan Fédorovi] ha dichiarato solennemente, nel corso di una discussione, che su tutta la Terra non vi è proprio nulla che obblighi gli uomini ad amare i propri simili e che non esiste affatto una legge di natura per cui l'uomo debba amare l'umanità, e che se anche esiste ed è esistito finora l'amore sulla Terra, non è per una legge naturale, ma unicamente perché gli uomini hanno creduto nell'immortalità. Ivan Fèdorovi ha aggiunto fra l'altro, per inciso, che proprio in questo consiste tutta la legge naturale, ma, annientate nell'uomo la fede nella propria immortalità, e non solo in lui si inaridirà di colpo l'amore, bensì qualsiasi forza vitale in grado di perpetuare la vita nel mondo. E non basta: allora non vi sarà più nulla di immorale e tutto sarà lecito, perfino l'antropofagia. Ma ancora non è tutto: egli ha concluso affermando che per ogni singolo individuo, come noi ora per esempio, che non creda né in Dio, né nella propria immortalità, la legge morale naturale deve immediatamente tramutarsi nell'esatto opposto dell'antica legge religiosa, e l'egoismo, spinto fino al delitto, deve essere non solo consentito all'uomo, ma addirittura riconosciuto necessario come la via d'uscita più ragionevole, se non la più nobile nella sua condizione. Forse, ingenuamente, tendo ad avere una visione della natura umana meno cinica di quella di Ivan Karamazov. Abbiamo proprio bisogno che operazioni di polizia, da parte di Dio o del prossimo, ci impediscano di comportarci in maniera egoistica e criminale? Vorrei tanto credere che né tu né io, caro lettore, abbiamo bisogno ditale sorveglianza; ma introdurrò il seme del dubbio in questa fiducia citando Steven Pinker, che, in Tabula rasa, racconta la sua disillusione durante uno sciopero della polizia a Montreal: Da adolescente, nel Canada orgogliosamente pacifico dei romantici anni '60, credevo ciecamente nell'anarchismo di Bakunin e ridevo di quello che mi dicevano i miei genitori: che se il governo avesse mai abbassato le armi, sarebbe scoppiato l'inferno. Le nostre opposte predizioni furono messe alla prova alle 8 di mattina del 17 ottobre 1969, quando la polizia di Montreal entrò in sciopero. Alle 11.20 fu rapinata la prima banca. A mezzogiorno la maggior parte dei negozi del centro avevano abbassato le saracinesche a causa dei saccheggi. Nel giro di altre poche ore, alcuni tassisti diedero fuoco al garage di una società che con le sue limousine aveva loro conteso i clienti per e dall'aeroporto, un cecchino appostato su un tetto uccise un agente di polizia della provincia, diversi hotel e ristoranti furono presi d'assalto e un medico uccise un ladro penetrato nella sua casa nei dintorni della città. Al termine della giornata erano state rapinate sei banche, saccheggiati centinaia di negozi, appiccati venti incendi, infrante un numero di vetrine da riempire quaranta vagoni ferroviari e provocati danni alle proprietà per 3 milioni di dollari. Alla fine, per riportare l'ordine, le autorità cittadine dovettero far intervenire l'esercito e, naturalmente, la polizia a cavallo. Questo decisivo test empirico mandò in pezzi la mia fede politica ... Forse sono un ingenuo a credere che la gente resterebbe buona se non fosse osservata e sorvegliata da Dio, tuttavia la maggior parte della popolazione di Montreal credeva, presumibilmente, in Dio. Come mai non temeva che Dio la punisse per le sue cattive azioni mentre i poliziotti umani erano temporaneamente fuori scena? Lo sciopero di Montreal non è stato un ottimo esperimento naturale in grado di verificare l'ipotesi che la fede in Dio ci renda buoni? O aveva ragione il cinico H.L. Mencken quando osservò: “Chi dice che abbiamo bisogno della religione intende dire in realtà che abbiamo bisogno della polizia”? Naturalmente non tutti, a Montreal, si comportarono male quando la polizia uscì di scena. Sarebbe interessante sapere se sia emersa una tendenza, per quanto lieve, dei credenti a saccheggiare e distruggere meno dei non credenti. Non dispongo di questo dato, ma penso che la tendenza sia stata semmai opposta. Spesso si dice cinicamente che non ci sono atei in trincea. Io penso (con qualche prova, anche se è forse semplicistico trarne delle conclusioni) che ci siano pochissimi atei nelle carceri. Non voglio dire che l'ateismo accresca il senso morale, anche se credo l'accresca l'umanesimo, il sistema etico che spesso l'accompagna. È in ogni caso probabile che l'ateismo sia correlato con un terzo fattore che potrebbe neutralizzare gli impulsi criminali: maggiore istruzione, maggiore intelligenza e maggiore riflessività. Le prove attualmente esistenti certo non suffragano l'idea diffusa che la religiosità sia strettamente correlata con la moralità. I dati relazionali non sono mai decisivi, ma la seguente statistica, riportata da Sam Harris nel suo Letter to a Christian Nation, è comunque impressionante: Benché in America appartenere a un partito politico non sia un perfetto indice di religiosità, non è un segreto che gli “stati rossi” [i repubblicani] siano rossi soprattutto per la soverchiante influenza politica dei cristiani conservatori. Se vi fosse una forte corrispondenza tra conservatorismo cristiano e società sana, sarebbe logico vederne alcuni segni nell'America repubblicana; ma non li vediamo. Delle venticinque città con il più basso tasso di crimini violenti, il 62% si trovano negli stati “azzurri” [democratici] e ii 38% in quelli “rossi” [repubblicani]. Delle venticinque città più pericolose, il 76% sono negli stati repubblicani e il 24% in quelli democratici. Anzi, tre delle cinque città più pericolose in assoluto sono nel pio Texas. I dodici stati con i più alti tassi di rapine sono repubblicani. Ventiquattro dei ventinove stati con i più alti tassi di furti sono repubblicani. Dei ventidue stati con il più alto tasso di omicidi, diciassette sono repubblicani. La ricerca sistematica tende a suffragare questi dati relazionali. Il paleontologo Gregory S. Paul, in un articolo uscito sul “Journal of Religion and Society” nel 2005, mette a confronto 17 nazioni sviluppate e giunge alla devastante conclusione che ai più alti livelli di religiosità corrispondono i più alti livelli di omicidi, mortalità infantile e giovanile, malattie veneree, gravidanze e aborti di adolescenti. In Rompere l'incantesimo, Dan Dennett rivolge una critica graffiante a questo genere di studi: Inutile dire che questi risultati infliggono un colpo talmente duro alle solite affermazioni di una superiore moralità delle persone religiose, che vi è stata una considerevole ondata di ulteriori studi avviati da organizzazioni religiose che volevano confutare quei risultati ... una cosa di cui possiamo essere abbastanza sicuri è che se vi fosse una significativa relazione positiva fra comportamento morale e affiliazione, pratica o credenza religiosa, questa sarebbe presto individuata, visto che molte organizzazioni religiose sono ansiose di confermare scientificamente le loro credenze tradizionali in materia. (Sono abbastanza colpite dal potere veritativo della scienza quando questa supporta ciò che loro già credono.) Ogni mese che passa senza che tale dimostrazione sia prodotta non fa che accentuare il sospetto che le cose non stiano così. La maggior parte delle persone riflessive, penso, è convinta che la moralità di chi si comporta bene in assenza della polizia sia più autentica di quella che scompare appena i poliziotti scendono in sciopero o appena vengono spente le telecamere, sia quelle vere del commissariato sia quelle immaginarie di un dio celeste. Ma forse è ingiusto interpretare in maniera così cinica la domanda “Se non c'è Dio, perché preoccuparsi di essere buoni?”. Un apologeta della religione potrebbe darne un'interpretazione più sinceramente morale, per esempio: “Se non si crede in Dio, non si crede nemmeno in un criterio etico assoluto. Possiamo avere anche tutta la volontà del mondo di essere buoni, ma come facciamo a distinguere che cosa è bene e che cosa è male? Solo la religione, alla fine, ci fornisce i parametri del bene e del male. Senza la religione, si dovrebbe decidere volta per volta e in questo modo, senza un codice di riferimento, l'etica procederebbe a lume di naso. Se l'etica fosse una questione contingente, Hitler potrebbe affermare che i suoi parametri eugenetici sono morali e gli atei potrebbero scegliere di vivere secondo i loro personali concetti di bene. Il cristiano, l'ebreo e il musulmano invece possono dire che il male ha un significato assoluto, vero in tutti i tempi e tutti i luoghi, e dunque che Hitler era malvagio in assoluto”. Se anche fosse vero che abbiamo bisogno di Dio per essere morali, ciò non renderebbe ovviamente l'esistenza di Dio più probabile, ma solo più desiderabile (molti non vedono la differenza). Non è però questo il problema. Il mio immaginario apologeta della religione non ha bisogno di ammettere che il motivo religioso per fare il bene sia ossequiare Dio. Sostiene invece che, quale che sia il motivo di cercare il bene, senza Dio non ci sarebbe un criterio per decidere che cosa è bene. Ciascuno potrebbe inventarsi una sua definizione di bene e comportarsi di conseguenza. I principi morali che si basano solo sulla religione (diversamente dalla “regola aurea”, che è spesso associata alle religioni, ma anche ad altri contesti) si potrebbero definire “assolutisti”. Il bene è bene e il male male, e non occorre girarci intorno per decidere di volta in volta se, per esempio, c'è qualcuno che potrebbe patire le conseguenze di un certo comportamento. Il mio apologeta della religione sostiene che solo la religione può offrire una base per decidere che cosa è bene. Alcuni filosofi, soprattutto Kant, hanno cercato di ricavare precetti morali assoluti da fonti non religiose. Benché, come quasi tutti alla sua epoca, credesse in Dio. Kant cercò di basare la morale sul dovere per il dovere, anziché sul dovere per amore di Dio. Ordina il suo famoso imperativo categorico: “Agisci in modo che tu possa volere che la massima della tua azione divenga legge universale”. Proviamo ad applicare l'imperativo nel caso delle bugie. Immaginiamo un mondo in cui le persone dicessero bugie per principio e dove la bugia fosse considerata una cosa buona e morale. In un tal mondo, la bugia in sé cesserebbe di avere significato. Per definizione, la menzogna richiede una presunzione di verità. Se il principio morale è una cosa che vorremmo che tutti seguissero, mentire non può essere un principio morale perché il principio stesso diverrebbe privo di significato. La menzogna come regola di vita è intrinsecamente instabile. Più in generale, l'egoismo o il parassitismo sfrenato che sfrutta la bontà altrui magari funzionano per me, individuo egoista cui danno soddisfazione personale, ma non posso augurarmi che tutti adottino il parassitismo egoistico come principio morale, se non altro perché non avrei più nessuno da sfruttare. L'imperativo kantiano funziona se lo si applica al dire la verità e a qualche altro caso. Ma non è facile estenderlo all'etica in generale. A dispetto di Kant, si è tentati di convenire con l'ipotetico apologeta della religione che gli assoluti etici derivano perlopiù dalla religione. E sempre sbagliato porre fine alle sofferenze di un paziente terminale che chiede l'eutanasia? E sempre sbagliato sopprimere un embrione? Alcuni credono di sì, e ne hanno la certezza assoluta. Non tollerano discussioni o dibattiti. Chiunque sia in disaccordo con loro merita la fucilazione; metaforicamente, certo, non letteralmente, anche se ad alcuni ginecologi delle cliniche americane in cui si praticano aborti qualcuno ha sparato davvero. Per fortuna, i principi morali non sono assoluti. I filosofi morali sono i professionisti della riflessione sul bene e il male. Come osserva in stile epigrafico Robert Hinde, essi convengono che “i precetti morali, anche se non sono necessariamente elaborati secondo ragione, dovrebbero essere difendibili secondo ragione”). Vi sono varie categorie di filosofi morali, ma la terminologia moderna li divide sostanzialmente in “deontologi” (come Kant, 1724‑1804) e “consequenzialisti” (tra cui “utilitaristi” come Jeremy Bentham, 1748‑1832). “Deontologia” è una bella parola che sta per “credenza che l'etica consista nell'obbedire alle regole”. Il termine viene dal greco déon‑déontos, dovere, e, alla lettera, è la “scienza del dovere”. La deontologia non si identifica con l'assolutismo morale, ma per gli obiettivi che mi propongo in questo saggio non serve disquisire sulle differenze. Gli assolutisti credono che vi siano imperativi giusti o sbagliati in assoluto, a prescindere dalle conseguenze pratiche. Più pragmaticamente, i consequenzialisti sostengono che la moralità di un'azione dovrebbe essere giudicata dalle sue conseguenze. Una forma di consequenzialismo è l'utilitarismo, la filosofia di cui sono stati massimi esponenti Bentham, il suo amico James Mill (1773‑1836) e il figlio di Mill, John Stuart Mill (1806‑1873). L'utilitarismo viene spesso riassunto dalla massima purtroppo inesatta di Bentham: “La maggior felicità possibile per il maggior numero di persone è il fondamento della morale e della legislazione”. Non tutti gli assolutismi derivano dalla religione, ma è abbastanza difficile difendere i principi morali assolutisti su basi diverse da quelle religiose. L'unico concorrente che mi viene in mente è il patriottismo, specie in tempo di guerra. Come disse il celebre regista spagnolo Luis Buñuel: “Dio e Patria sono una squadra imbattibile; battono tutti i record di oppressione e spargimento di sangue”. Gli ufficiali di reclutamento fanno assegnamento sul senso del dovere patriottico delle loro “vittime”. Durante la prima guerra mondiale, le donne distribuivano penne bianche ai giovani in borghese. “Oh, non vorremmo perdervi, ma pensiamo dovreste andare, perché il re e la patria hanno bisogno di voi” La gente disprezzava gli obiettori di coscienza, anche quelli del paese nemico, perché il patriottismo era ritenuto una virtù assoluta. È difficile essere più “deontologi” del soldato professionista che dice: “La patria è la patria, a torto o a ragione”; perché lo slogan lo obbliga a uccidere chiunque i politici decidano in futuro di definire nemico. Il ragionamento consequenzialista potrà magari influenzare la decisione politica di andare Ila guerra, ma, una volta che la guerra sia stata dichiarata, il patriottismo assolutista prende il sopravvento con una forza e una potenza mai viste al di fuori della religione. Un soldato che si lasciasse convincere da un'etica consequenzialista a non dare il massimo di sé in battaglia con tutta probabilità finirebbe davanti alla corte marziale e verrebbe giustiziato. Ho tratto spunto per queste riflessioni di filosofia morale dalla classica tesi religiosa secondo la quale senza Dio l'etica sarebbe relativa e arbitraria. La fonte preferita dell'etica assoluta, se escludiamo Kant e altri raffinati filosofi, nonché il patriottismo e le sue glorie, è di solito un testo sacro cui viene attribuita un'autorità molto superiore a quella giustificata dalla verità storica. Di fatto, chi crede nell'autorità delle Scritture mostra scarsissimo interesse per le origini storiche (di norma tolto dubbie) del sacro testo.”
3. E’ evidente che il capitolo ruota sulla dotazione empatica dell’uomo, che comporta, come affermava Rousseau, l’identificazione con l’altro, con il simile, soprattutto quando egli esprime una condizione di bisogno o di sofferenza. L’origine e il significato evoluzionistico dell’empatia sono stati rilevati originariamente da Darwin stesso, che ha però utilizzato il termine simpatia (etimologicamente più corretto, forse). Darwin stesso ha rilevato che tale capacità, fondamentale ai fini dell’organizzazione di un gruppo ugualitaristico, collaborativo e solidale, riconosce come limite l’esistenza di un vincolo di familiarità tra i membri del gruppo, al di là del quale l’estraneo è percepito come potenziale nemico. Con la sua teorizzazione di una “lacuna” evolutiva, Dawkins aggiunge di fatto qualcosa di importante a Darwin. Selezionata, infatti, per soddisfare le esigenze della vita di un gruppo, assicurando ad esso una notevole coesione e uno scambio reciproco sul piano dell’aiuto, l’empatia si sarebbe infatti naturalmente estesa a tutti i simili bisognosi o sofferenti. Avrebbe, insomma, sormontato l’ambito evoluzionistico, ponendosi come fattore di umanizzazione su di una scala potenzialmente globale. L’ipotesi di Dawkins di una grammatica morale innata è sufficientemente articolata e persuasiva. Il problema, però, è che non basta portare le prove a favore di tale ipotesi. Occorre cercare di capire perché, se essa è vera, gli esseri umani non riescono a realizzarla se non quando si sottopongono a test etici. E’ evidente che a questo livello la cultura incide, nel senso che può facilmente indurre un’anestetizzazione dell’empatia. Nella nostra società questa influenza ha raggiunto livelli critici. Dato che il processo di secolarizzazione è in atto, penso che più importante ancora della critica della religione sia il chiedersi per quali vie e con quali mezzi l’emozionalità umana possa essere restaurata nella sua dimensione empatica. Certo, la religione stessa persegue per alcuni aspetti questo obiettivo. Dopo duemila anni di cristianesimo, si può ben dire però che esso non è stato raggiunto. Il problema dunque è trovare alternative socialmente, culturalmente, politicamente praticabili. Da questo punto di vista, la sola scienza non basta. La scienza può sgombrare il campo dalle superstizioni e dalle false credenze, ma non può dotare l’uomo del coraggio di farsi carico della sua condizione esistenziale, della sua vulnerabilità e della sua finitezza. A tale fine occorre una programmazione educativa che aiuti gli esseri in fase evolutiva ad accettare la consapevolezza della loro condizione e ad acquisire emotivamente il coraggio che occorre per confrontarsi con essa senza terrore. Ancora più importante è un’organizzazione sociale che faccia sentire ogni individuo inserito in una comunità umana e solidale che può essergli di aiuto e che egli stesso può aiutare. L’illusione della religione verrà meno quando l’uomo giungerà a farsi una ragione del suo esserci e a trovare in esso un senso individuale e sociale.
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