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1. Le riflessioni sul cristianesimo sinora pubblicate e il commento all’antologia del Corano rappresentano l’avvio di un progetto più vasto: un’analisi critica delle religioni come prodotti culturali che hanno ancora e ovunque un enorme potere sull’immaginario collettivo. Tale progetto è giustificato dal fatto che, anche se non se ne dà ancora una percezione storica, si va configurando all’orizzonte il pericolo di una globalizzazione delle religioni, vale a dire di un sincretismo che, ferme restando le diversità teologiche e rituali, giunga a riconoscere che tutte le religioni fanno capo ad un unico Dio. A riguardo, l’incontro organizzato, alcuni anni fa, ad Assisi da papa Woytila con i rappresentanti di tutte le religioni del mondo, ha rappresentato un indizio estremamente significativo. Date le diverse tradizioni, le differenze dottrinarie e i contesti in cui le grandi religioni sono attecchiti, e all’interno dei quali sono egemoniche, è ovvio che la globalizzazione religiosa non potrà mai diventare più di un fatto formale. Perché, dunque, si può definirla come un pericolo? Primo, perché esso rappresenterebbe un ulteriore processo di astrazione delle dottrine religiose rispetto alle diverse circostanze storiche che le hanno prodotte, rendendo sempre più difficile il riconoscimento del rapporto interattivo tra quelle circostanze e l’ideologia propria di una determinata religione. Secondo, perché il riferimento ad un unico Dio, riconosciuto da sempre, sia pure con nomi e in accezioni diverse, dall’umanità, consoliderebbe la convinzione che la religione fa capo ad un bisogno costitutivo della mente umana e che tale bisogno, per come si è espresso storicamente, è riconducibile ad un’intuizione trascendente. Scongiurare tale pericolo, particolarmente grave per chi pensa che la fuoriuscita dalla preistoria dell’umanità debba passare attraverso il superamento d’ogni forma d’alienazione (politica, economica, religiosa, ecc.), non è un’impresa semplice: allo stato attuale delle cose, tenendo conto dell’incremento delle spinte fondamentalistiche determinate dalla globalizzazione socio-economica, che ovunque spingono i popoli a regredire alla ricerca delle loro radici identitarie, esso appare addirittura utopistico. Cosa fare? Penso che l’unica possibilità sia quella di continuare a riflettere criticamente sulle religioni e di portare avanti un’analisi storicistica e ideologica che demistifichi il processo d’astrazione in virtù del quale esse sembrano ricondursi ad una rivelazione piuttosto che ad una produzione culturale. Questo compito non può riguardare solo il Cristianesimo. Esso va esteso a tutte le religioni la cui lunga durata attesta che il processo d’astrazione ideologico ha funzionato, permettendo ad esse di sopravvivere anche quando sono cambiate le circostanze storiche che le hanno prodotte. In questa ottica va letto quest’articolo, il primo dedicato all’Induismo. Esaurita l’analisi dell’Induismo, occorrerà affrontare il problema dell’Islamismo, in maniera più approfondita rispetto all’Antologia commentata del Corano, già pubblicata (Corano e Civiltà islamica.html). Per chi volesse affrontare le tematiche in questione, consiglio le seguenti opere: M. Torri Storia dell’India, Laterza, Bari 2000 G. Scalabrino Borsani La filosofia indiana (Storia della filosofia a cura di Mario Dal Pra, Vallardi, Milano 1976) G. Filoramo (a cura di) Hinduismo, Laterza, Bari 2002 Id. Storia delle religioni. India, Laterza, Bari 2005) H.-C. Puech (a cura di) Le religioni dell’Estremo Oriente, Laterza, Bari 1988 G. Dumézil Mito e epopea, Einaudi, Torino 1982 L. Dumont Homo hierarchicus. Il sistema delle casti e le sue implicazioni, Feltrinelli, Milano 1991 Gerhard J. Bellinger Enciclopedia delle Religioni, Garzanti, Milano 2004.
Consiglio vivamente a lettore di consultare l’Introduzione al saggio sulla Bibbia (Facci un dio...), laddove la metodologia di analisi adottata è esposta in maniera sufficientemente chiara. In quest’Introduzione, il lettore troverà anche una considerazione che dovrei ripetere ogni volta negli articoli dedicati alle religioni. Essa verte sul fatto che le storie specialistiche sono ricchissime d’informazioni, ma molto meno utili dei libri di storia nei quali il fenomeno religioso è correlato con gli eventi politici, economici, sociali e culturali. L’Introduzione all’Induismo convalida ancora una volta questo assunto
2. Benché unica tra le grandi religioni ad avere mantenuto una connotazione marcatamente etnica, configurandosi ancora oggi e nonostante gli sforzi di universalizzazione legati al cosiddetto Neo-Induismo, come religione degli Indiani, l’Induismo ha un particolare interesse poiché rappresenta la religione storica di più lunga durata, le cui origini risalgono al secondo millennio a. C. e che, ancora oggi, è praticata da 700 milioni di credenti.
Con il termine "Induismo" s’indica convenzionalmente l'intera esperienza religiosa degli indiani nel suo svolgimento storico, fin dalle origini, fissate approssimativamente intorno al 1500 a.C. In senso proprio, occorrerebbe denotare come "Induismo" soltanto la religione che, praticata dal VI secolo a.C., costituisce l'evoluzione di due fasi anteriori dette rispettivamente "vedismo", dal nome dei libri sacri, i Veda, e "brahmanesimo", dal nome degli appartenenti alla casta sacerdotale, i brahmani.
L’accezione convenzionale può essere accolta in nome del fatto che, per quanto, come vedremo successivamente, tra le diverse fasi di sviluppo della religione indiana si diano differenze di un certo rilievo, la loro evoluzione riconosce una sorta di basso continuo. L’applicazione all’Induismo di un criterio di analisi storicistico, per cui, sulla base di un bisogno intrinseco alla natura umana di sopperire ai limiti della condizione esistenziale, recepito e utilizzato in forme diverse dalle classi dominanti, le religioni, nella loro struttura ideologica e nella loro evoluzione, riflettono ed interagiscono con le condizioni ambientali, sembra d’acchito urtare contro questo dato. In tutto il corso della sua storia, infatti, l’Induismo ha mantenuto il riferimento costante all’Uno, il Brahman indivisibile, immutabile, ineffabile, eterno, dal quale emana la molteplicità divisibile, vale a dire il mondo delle apparenze, destinato a trasformarsi e a perire. Il Brahman è dunque l’Assoluto, l’unica e impersonale Realtà esistente, mentre il mondo percepibile è solo maya (illusione, parvenza). Illusionale è anche la coscienza che ogni individuo ha di sé come separato dall’Uno, di cui, di fatto, partecipa attraverso l’anima spirituale (atman). Nonostante la concettualizzazione di questi diversi aspetti riconosca molteplici e sottili articolazioni all’interno dei vari sistemi di pensiero che si sono succeduti, la cosmogonia induista è rimasta letteralmente irretita dal rapporto tra l’Uno e il Molteplice, considerando costantemente e univocamente il primo come essenza della realtà e il secondo come mero fenomeno apparente. Sulla base di questo che, in termini occidentali, si potrebbe definire un idealismo assoluto, il destino individuale non può essere concepito che come liberazione dal velo di maya e ricongiunzione dell’atman al brahman. Di fronte ad un nucleo concettuale così solido, stabile e duraturo, l’approccio storicista sembra destinato al fallimento. Nulla, ovviamente vieta di pensare, assumendo il fenomeno religioso come un prodotto culturale, che in India sia maturata precocemente una visione totalizzante del mondo che ha letteralmente irretito nel corso dei secoli centinaia di generazioni. Questo assunto, però, porta semplicemente a privilegiare l’aspetto psicosociologico, se non addirittura psicoanalitico, rispetto a quello socio-storico, che ritiene i prodotti culturali espressivi di determinate condizioni ambientali. Aggirare quest’ostacolo non è semplice, ma neppure impossibile. E’ propria di tutte le grandi ideologie religiose la capacità di rimuovere attraverso la cosmogonia e la teologia le matrici storiche da cui esse prendono origine. Questa capacità si esprime in forma estrema nell’Induismo. Ma si tratta, per l’appunto, del velo di maya che le religioni distendono sulle loro origini. Un dato di partenza è l’esistenza, prima dell’Induismo, nel territorio indiano, a partire dal terzo millennio a. C. Di una religione comune a tanti altri popoli antichi incentrata sul culto di una Grande Madre dispensatrice di vita, della cui fertilità erano espressione gli esseri umani, gli animali e le piante. Anche se l’attecchimento del Vedismo ha prodotto la quasi completa rimozione di tale religione originaria, alcune tracce archeologiche sono inequivocabili. Questo significa, né più né meno, che se si dà una matrice religiosa originaria, univocamente presente nella preistoria delle grandi religioni, essa è riconducibile al culto della Natura: un culto sostanzialmente animistico, ricco di valenze simboliche, ma espressivo di una motivazione radicalmente umana, quella di sopravvivere grazie alla Grande Madre. In quest’ottica, non è riconoscibile alcuna preoccupazione trascendente, nonostante il culto dei morti induca alcuni studiosi ad ammetterla. In realtà, nella misura in cui i sogni, interpretati realisticamente, fanno pensare ad una loro sopravvivenza, i morti continuano a fare parte della comunità: privati del corpo che consente di provvedere a se stessi, sono esseri infinitamente bisognosi ai quali i vivi devono fornire gli strumenti di sopravvivenza. Non si dà, ovviamente, neppure alcun dubbio sulla realtà oggettiva del mondo, anche se esso viene vissuto come pervaso da forze sovrannaturali. Tali forze servono a spiegare i cambiamenti naturali, sia quelli ciclici sia quelli occasionali (terremoti, eruzioni vulcaniche, ecc.), in difetto di qualunque sapere scientifico. Esse però sono sovrannaturali non nel senso che stanno al di là della natura, bensì perché non ricadono nell’ambito della percezione. Il passaggio da questa matrice, che implica l’accettazione univoca dell’orizzonte mondano, alla grande religione incentrata sull’apertura di un orizzonte trascendente o sulla negazione del carattere oggettivo del mondo reale, che diventa apparenza dietro la quale si cela un’essenza, avviene sempre e comunque sulla base di cambiamento storici, politici ed economici. Tale passaggio può essere ricostruito nitidamente nel corso della storia dell’Induismo – storia peraltro estremamente complessa -, considerando alcuni momenti di particolare significato. Il primo è la sua stessa nascita e il suo sovrapporsi alla religione animistica preesistente, che esso finisce con il sostituire. Tale nascita coincide con l’invasione dell’India da parte degli Arya, una popolazione di civiltà superiore a quell’indigena, che instaura un regime castale il quale relega le popolazioni autoctone nel ruolo di esclusi (gli “intoccabili”). Si può discutere all’infinito se l’invasione sia avvenuta sotto forma di irruzione violenta e di conquista oppure in virtù di una lenta e graduale migrazione della popolazione aria nel territorio indiano, che si è fusa con quella autoctona. L’assenza di tracce archeologiche di devastazione depone, secondo alcuni, a favore della seconda ipotesi, ma essa potrebbe essere anche spiegata da una rapida resa degli abitanti di fronte ad un popolo invasore dotato di una nettissima superiorità militare. Del resto, la percezione che gli Arya hanno degli indigeni – piccoli e di carnagione scura – non è molto diversa da quella che i Conquistadores spagnoli avranno degli Indios americani. E’ difficile dunque pensare ad un incrocio razziale. Rimane il fatto che, prima del 1500 a. C., in India vige un regime tribale che, con tutti i suoi limiti, è un regime solidaristico che riconosce differenze sociali, ma non le tollera oltre un certo limite, mentre, dopo quella data, che coincide con l’invasione degli Arya e la sostituzione della religione autoctona con quella vedica – la prima espressione dell’Induismo -, la società si struttura, sia pure gradualmente, sulla base del regime castale. Tale regime, che fa capo ad uno status di nascita destinato a perdurare, e su questa base definisce quattro diverse caste (Sacerdoti, Guerrieri, Produttori, Servi) rigidamente gerarchizzate ed endogamiche, al di fuori delle quali rimangono gli autoctoni sopravvissuti (i fuoricasta o intoccabili), trova una potente giustificazione ideologica nella nuova religione, il Vedismo, che si trasformerà successivamente in Brahmanesimo. Tale giustificazione si fonda sul concetto di Dharma, vale a dire di un ordine cosmico immutabile, di una legge di natura contro la quale gli esseri umani nulla possono. Tale concetto implica che l’esperienza umana si svolge in un contesto che la trascende e fa riferimento all’unità del Tutto, all’interno delle quali le parti – i singoli individui – sono richiamati ad assolvere i loro doveri, ciascuno in rapporto alla casta cui appartiene. I fuoricasta, ovviamente, devono accettare anch’essi la loro umiliante condizione, che non implica alcun diritto. In nome di cosa? Del fatto che la collocazione castale o extracastale dipende dal Kharma, altro concetto centrale dell’Induismo, vale a dire dai meriti o dai demeriti acquisiti dagli individui nelle precedenti esperienze. Per questa via, la distribuzione gerarchica degli esseri umani nella scala sociale trova una giustificazione ideologica che cristallizza la società nell’ordine che è stato prodotto dall’invasione e dalla conquista. E’ evidente che il regime castale privilegia una minoranza (i Sacerdoti o Brahmani, i Guerrieri e i Produttori) destinando la maggioranza della popolazione – i servi (Shudra) e gli intoccabili (Parya) – al lavoro, alla miseria e all’infelicità. Alcuni studiosi, più realisti del re, sostengono che le caste indiane non corrispondono in alcun modo alle classi riconosciute in Occidente. Esse, infatti, se comportano indubbiamente dei privilegi, terminano anche obblighi rituali che sono più intesi e vincolanti a livello di caste superiori. C’è un fondo di verità in questa considerazione, che peraltro è relativa. La storia dell’India rende assolutamente evidente, fino ai nostri giorni, la tenace difesa del regime castale da parte dei ceti superiori. E’ difficile pensare che tale difesa possa essere ricondotta all’amore per i gravosi obblighi rituali che non per i privilegi socio-economici e culturali. Ciò è confermato dal fatto che, in quanto espressione dei ceti dominanti, l’Induismo originario è una religione sostanzialmente ottimistica. Se è vero, infatti, che il Kharma comporta anche per essi il pericolo di rinascere appartenendo ad una casta inferiore o addirittura ad una specie animale, non lo è di meno che la loro elevata appartenenza castale significa che essi più vicini rispetto ai Servi e ai Parya (gli “Intoccabili”) alla possibilità di fuoriuscire dal ciclo dell’esistenza (samsara) e di conseguire la ricongiunzione con la totalità cosmica. Vivere bene nell’orizzonte mondano e approdare, al di là della vita, ad uno stato di beatitudine è sempre stata un’aspirazione egoistica dei ceti privilegiati. Per i ceti miserabili, viceversa, la beatitudine di l‡ della vita ha sempre rappresentato un compenso rispetto ad un’esperienza mondana penosa. Il riferimento all’Uno, al Dharma e al Kharma, che caratterizza la più antica forma di Induismo – la religione vedica – appare, dunque, dal punto di vista storico-culturale, funzionale a giustificare e assolutizzare un ordine sociale fondato sul dominio politico e militare di una classe privilegiata e su una gerarchia iniqua, che riconosce alla sua base una classe servile e, al disotto di essa, addirittura una quota di emarginati (gli intoccabili). La lettura dei testi vedici, soprattutto delle Upanishad, dense di riflessioni su tematiche esistenziali e filosofiche, e incentrate sul richiamo mistico all’Ordine del Tutto al quale l’individuo partecipa attraverso il culto e il rito, può anche affascinare (posto che si conceda spazio alla suggestione mistica). Non bisognerebbe però dimenticare che esse sovrastrutturano e, in una qualche misura, giustificano una realtà storica caratterizzata dall’oppressione dell’uomo sull’uomo, che ha destinato secolarmente una quota rilevante d’Indiani alla miseria e al dolore. Chiedersi perché gli Indiani abbiano accettato quasi passivamente tale stato di cose, è un problema che qui può essere solo sfiorato (sarà ripreso in un altro articolo). La risposta più semplice, e grossolana, per quanto niente affatto priva di verità, è che il Vedismo e il Bramanesimo hanno sviluppato una cosmogonia e una filosofia di notevole complessità e raffinatezza (motivo, questo, per cui essa soddisfa le esigenze spiritualiste di alcuni intellettuali occidentali), ma hanno concesso alle masse popolari e rurali di continuare a praticare il loro tradizionale politeismo magico-religioso e i riti più vari, sia pure nell’ottica soteriologica dell’approdo all’Ordine cosmico. Si è sempre data, dunque, come peraltro anche nella storia del Cristianesimo, una religione elitaria e una religione popolare, a dire il vero alquanto rozza se si presta fede alle raffigurazioni simboliche delle divinità. Ciò non significa che il regime castale, che assegnava il massimo potere ai Sacerdoti (i Brahmani), non sia stato contestato. Il secondo momento importante nell’evoluzione dell’Induismo si riconduce, appunto, ad una di queste contestazioni, che risale al VI secolo. Secolo di particolare importanza perché, come rileva con finezza Torri nella sua Storia dell’India, esso è caratterizzato da mutamenti sociali e politici e da un’autentica rivoluzione culturale. I mutamenti sociali sono da ricondurre alla definitiva affermazione del sistema castale rispetto a quello tribale: “il differenziarsi del sistema economico provocò il graduale venir meno della solidarietà tribale e l’irrigidimento delle differenze sociali, lungo una linea d’evoluzione (o d’involuzione) che dai varna del periodo vedico finì per portare all’emergere di una molteplicità di gruppi sociali organizzati gerarchicamente e sempre più rigidamente separati tra loro da regole endogamiche (cioè gruppi sociali con le caratteristiche tipiche delle caste)... L’espansione della colonizzazione di terre fino allora incolte contribuì a marginalizzare le popolazioni tribali aborigene, che vivevano dei frutti spontanei del suolo e della caccia... In certi casi queste popolazioni si integrarono nel nuovo ordine sociale che stava nascendo, ma sia che vi si integrassero, sia che ne rimanessero ai margini, esse formarono categorie sociali discriminate (al di fuori e inferiori rispetto a quelle incluse nel sistema dei varna)... E’ in questo modo che, storicamente, emerse il gruppo sociale dei fuoricasta, o paria, o intoccabili.” (Storia dell’India, pp. 53-54) 3. Devo aprire, a questo punto una parentesi. Nel saggio sulla Bibbia, ho identificato nel peccato originale e nella cacciata dal paradiso terrestre, che destina l’uomo a vivere del sudore della sua fronte coltivando i campi, l’espressione di un tema ricorrente in tutte le culture antiche e tradotto nei miti più vari (uno dei quali è, appunto, il Paradiso terrestre): il passaggio da un’originaria età dell’oro, nel corso della quale l’uomo era felice, ad una nuova condizione caratterizzata dalla fatica, dalla miseria e dal dolore. Ho formulato l’ipotesi che tale mito faccia riferimento ad un cambiamento storico avvenuto in epoche diverse per i popoli antichi ma con una forza inesorabile, identificando tale cambiamento – evidentemente critico e traumatico nell’immaginario collettivo – con il passaggio dal modo di produzione incentrato sulla caccia e sulla raccolta al modo di produzione incentrato sull’agricoltura: nomadico, tribale e solidaristico il primo, stanziale, gerarchizzante e iniquo il secondo, in quanto fondato sullo sfruttamento della manodopera servile e sull’arricchimento progressivo delle classi privilegiate (sacerdoti, guerrieri e proprietari terrieri). Si tratta di un’ipotesi che può apparire azzardata a chi pensa che l’evoluzione storica, vale a dire il progresso, non possa determinare un critico decadimento della qualità della vita. Non affronterò qui il dibattito ancora aperto tra gli antropologi e gli studiosi di storia antica. Mi limito a rilevare che, ancora oggi, secondo alcuni antropologi (per esempio Sahlins), la qualità della vita delle residue popolazioni primitive, in termini d’equilibrio ecologico, relazioni interpersonali di gruppo e uso del tempo libero, si può ritenere nettamente superiore alla vita affannosa e stressante di un qualunque cittadino occidentale, pur munito di tutti i comforts prodotti dal progresso tecnologico. L’ipotesi in questione è importante per quanto riguarda la storia delle religioni non solo perché quasi tutte riconoscono il riferimento ad una mitica età dell’oro, ma soprattutto perché esse, prendendo atto che il tramonto di quell’età ha prodotto una condizione d’universale dolore, si organizzano univocamente con l’intento di dare senso a tal esperienza e di fornire agli esseri umani strumenti di salvezza. La differenza tra le grandi religioni sta solo nel modo diverso in cui esse concepiscono la salvezza dalla pena del vivere. Il secondo momento importante nell’evoluzione dell’Induismo, che rappresenta uno di questi modi, è identificabile nella nascita del Buddismo, che è, in ultima analisi, una dottrina soteriologia atea. All’origine, il Buddismo non è altro che una delle tante correnti eretiche interne al Bramanesimo che contestano il potere smisurato dei Brahmani e il regime castale. Esso, però, a differenza d’altre correnti eretiche, dà voce all’infinita miseria in cui vivono le masse: introduce insomma, nell’orizzonte gioioso della religione dei ceti dominanti, una nota di pessimismo cosmico e offre una via d’uscita al senso d’impotenza divenuto la caratteristica dominante della società indiana dell’epoca Nell’ottica del Buddismo a qualunque casta si appartenga, la vita è solo dolore, sicché la fuoriuscita da essa è una necessità per chiunque, e, cosa ancora più importante, è concessa a chiunque riesca a meritarla. Con il suo pessimismo cosmico, Buddha, pur appartenendo ad una casta nobiliare, dissacra il regime castale in riferimento al fatto che, al di là dei privilegi e dello status sociale, c’è qualcosa che uguaglia tutte le esistenze: il dolore appunto. Data questa verità, che elimina d’emblée le differenze sociali, la via della salvezza è aperta a tutti, anche agli intoccabili. In realtà si tratta di una possibilità meramente teorica. Il buddismo originario è una religione elitaria e monastica, che ritiene, di fatto, le sterminate masse rurali irrecuperabili data la loro rozza sensibilità religiosa e filosofica. Questo è il motivo per cui, nonostante una notevole diffusione dal Vi al II secolo, culminata nel regno di Ashoka, convertitosi alla religione dell’”Illuminato” e propugnatore di un regime fondato sulla benevolenza, sulla non violenza, sul rispetto di tutte le credenze religiose e sull’interesse per la cosa pubblica, il declino del buddismo è inesorabile e finisce con la sua espulsione dal territorio indiano. In conseguenza di questo, il potere dei Brahmani si rafforza e il regime castale viene confermato come espressivo di un ordine che trascende la storia, la società e la volontà individuale. Un ordine destinato a durare nei secoli e che ancora oggi appare superato solo sul piano giuridico. C’è dunque una differenza rilevante tra l’Induismo e le altre grandi religioni (Ebraismo, Cristianesimo, Islamismo). Queste ultime si originano univocamente sulla base di un ugualitarismo radicale che contesta l’ordine di cose esistente, vale a dire le ingiustizie sociali. L’Induismo, viceversa, è una religione che sancisce le ingiustizie sociali riconducendole ad un ordine cosmico tale per cui ciò che appare iniquo agli esseri umani è in realtà fondato su un criterio “meritocratico”.
Il fatto che il regime castale sia andato incontro ad una critica radicale da parte dei pensatori ((Brahmoo Samaj, l'Arya Samaj, Ramakrishna, Vivekananda, Rabindranath Tagore, Mahatma Gandhì, Shri Aurobindo, Ramana Maharshi, ecc.) che, a partire dal 1750, sotto la spinta e l’influsso dell’Occidente, hanno avviato movimenti di riforma atti a modernizzare l’Induismo e ad impedire che esso crollasse in seguito al confronto del Cristianesimo dei Figli di Dio, non deve far dimenticare che quel regime ha contrassegnato quasi tutta la storia dell’India. |