Verso la psicologizzazione della società

1.

Umberto Galimberti, nell’ambito delle discipline umane e sociali, è una delle poche teste pensanti che circolano in Italia. Se si mette tra parentesi un certo estremismo filosofico, riconducibile ad una formazione fenomenologico-esistenziale sottesa e impregnata da un vero e proprio culto di Nietzsche, le sue riflessioni meritano quasi sempre grande attenzione perché sfuggono alla banalizzazione prodotta non già dal pensiero debole, ma dal clima che questa corrente filosofica ha registrato e in parte prodotto. Esse infatti sono costantemente critiche nei confronti dello stato di cose esistente e giungono ad asserzioni e conclusioni che possono essere più o meno condivisibili, ma hanno il pregio di porsi come nette ed inequivocabili.

In alcuni articoli recenti, Galimberti ha cominciato a stigmatizzare la crescente psicologizzazione della società, vale a dire l’incontro tra una domanda di aiuto che affiora con una progressione esponenziale dal corpo sociale, facente capo ad un malessere diffuso che le persone non riescono ad amministrare con i propri strumenti, e un’offerta che, all’insegna non già della psicoanalisi ma del cosiddetto pensiero positivo, se ne fa carico, promettendo né più né meno la soluzione di tutti i problemi, se non addirittura la felicità.

Anche nel rapporto sull’Italia dell’Eurispes, pubblicato già sul sito, il fenomeno è rilevato nella sua portata sociologica. Cito letteralmente (per chi non ha avuto tempo di leggerlo):

“Un Paese sull’orlo di una crisi di nervi.

L’Eurispes stima in 4,9 miliardi di euro il giro d’affari del mercato della psiche. Se moltiplichiamo infatti il costo medio di una singola seduta (90 euro) per 20, ossia il numero medio di sedute previste per un ciclo di psicoterapia breve, otteniamo una spesa pro capite di 1.800 euro. Moltiplichiamo ora quest’ultimo valore per il numero degli italiani (2.700.000) che nel 2004 avrebbero avuto contatti con uno psicologo, ed otterremo un importo pari di 4.860 milioni di euro. L’immagine che ne risulta è quella di una società altamente stressata e colpita da varie forme di malessere psicologico, che al tempo stesso, però, sta acquisendo una consapevolezza sempre maggiore delle proprie difficoltà e la capacità di affidarsi con fiducia crescente alle cure di un professionista.

Il tariffario dello psicologo.

Una seduta di consulenza e/o sostegno psicologico individuale può costare dai 35 ai 115 euro, da 45 a 165 euro se è rivolta alla coppia o alla famiglia; meno costose le sedute di gruppo che oscillano tra i 15 e i 45 euro. Per la psicoterapia i prezzi sono più elevati: da 40 a 140 euro per la seduta individuale, da 55 a 185 euro per la psicoterapia di coppia o familiare, da 20 a 70 euro per quella di gruppo.

La domanda di psicologia: chi si rivolge allo psicologo.

Nell’ambito di uno studio condotto dall’Osservatorio Permanente sulla Professione Psicologica nel Lazio, sono stati considerati, per analizzare l’utenza di servizi psicologici, 2.000 nuclei familiari, per un totale di 4.350 individui. In base a questa ricerca, quasi il 6% degli italiani maggiorenni si sarebbe rivolto, nel corso del 2004, ad uno psicologo o ad una psicologa: in proiezione, si tratterebbe di circa 2.700.000 contatti all’anno e, considerando i 48.000 psicologi presenti in Italia, risulterebbero in media 56 contatti per professionista. Si tratta di cifre rilevanti qualora si pensi che, in base ai dati sul Servizio Sanitario Nazionale, negli ultimi sei mesi del 2004 il 18,7% degli italiani ha visitato un ambulatorio specialistico, l’8,9% ha fruito di un servizio diagnostico ospedaliero, mentre soltanto il 3,4% ha avuto un trattamento in un day hospital e l’1,3% ha consultato un pediatra di base.

La percentuale di contatti con psicologi aumenta in relazione all’ampiezza del centro di residenza degli intervistati (dal 4,6% nei comuni sotto i 20.000 abitanti fino al 7,3% nei centri oltre i 100.000) e al loro livello di istruzione, salendo dall’1,2% fra coloro che hanno conseguito la licenza elementare, al 14,8% fra i laureati. Il rapporto con lo psicologo è influenzato anche dall’età: le persone di età compresa tra i 25 e i 44 anni contattano con maggior frequenza questo professionista (16,2%), mentre nella fascia oltre i 65 anni si registra il valore più basso (1,8% dei contatti). Una certa mancanza di disponibilità a ricorrere alle cure dello psicologo risulta essere più diffusa fra le persone sopra i 55 anni, nel Nord-Ovest e con un basso livello di istruzione. Motivi personali o legati alle problematiche della scuola dei figli oppure a esperienze di lavoro stimolano maggiormente la domanda di psicologia fra i soggetti compresi nell’arco temporale 25 — 44 anni. La fascia d’età compresa tra 25 e 34 anni è poi l’unica in cui ci si rivolge allo psicologo prevalentemente per ragioni personali, mentre nelle altre fasce d’età la maggioranza dei contatti avviene per motivi diversi.

In generale, tra coloro che nel 2004 hanno avuto contatti con la psicologia, poco meno della metà (45,3%) è stato spinto da motivi legati alla sfera personale, che riguardano soprattutto l’intervistato stesso (nel 76% dei casi), i figli (16%), oppure altri componenti della famiglia (10%).

L’incontro con lo psicologo può avvenire in diversi contesti: soprattutto negli studi privati (nel 23,7% dei casi), ma anche a scuola (16,4%), con una frequenza maggiore rispetto ai servizi pubblici di tipo clinico o comunque sanitario (14,8%). Si ricorre meno allo psicologo in ambito aziendale per motivi legati alla formazione o per avere un aiuto ad orientarsi nel lavoro (12,7%) o per la selezione del personale (4,8%).

I motivi che spingono a ricorrere allo psicologo.

Le prestazioni richieste sono quasi esclusivamente di tipo clinico in senso stretto (consultazione e psicoterapia), mentre tutte le altre voci hanno consistenza solo marginale. Il 39,7% degli utenti si è rivolto allo psicologo per consultazione e diagnosi, il 29,1% per una psicoterapia breve di sostegno, il 22% ha affrontato un percorso di psicoterapia o di psicoanalisi e il 4,7% ha scelto la strada della psicoterapia di gruppo.

Il 38% degli intervistati va dallo psicologo per guarire da un disturbo specifico e il 25% per affrontare un malessere. Solamente l’11% ritiene sia utile come "supporto nella gestione dei problemi quotidiani" e il 9% lo considera un percorso di crescita personale.

Il 46,1% di coloro che si sono rivolti allo psicologo per sé dichiara di avere fatto la sua scelta dietro il consiglio di un medico, il 38% su suggerimento di un parente, amico o collega; il 6,2% si è affidato alle Pagine Gialle e l’1,1% a Internet; nel 2% dei casi il contatto è stato sollecitato dal tribunale.

Psiche e mezzi di comunicazione.

La presenza di psicologi in televisione, alla radio o sul web, è sempre più frequente e sempre più numerosi sono i quotidiani, i periodici, i libri, le trasmissioni radiotelevisive, i siti Internet, che affrontano questioni relative alla psiche.

Dall’Ordine degli Psicologi del Lazio, che ha emanato un Codice di Condotta sulla psicologia on line e ha previsto l’azione di un Osservatorio sul web, è stata realizzata un’indagine sull’immagine della psicologia in rete analizzando, tra maggio e ottobre 2004, 100 siti che si occupano a vario titolo della materia. Spesso la psicologia è considerata una curiosità, affiancata alle tematiche e ai servizi più diversi. Infatti, è molto ampia la varietà dei servizi offerti dai 100 siti esaminati: informazione scientifica e professionale, bibliografie, presentazione di eventi, pubblicizzazione dell’attività professionale dei titolari del sito, orientamento universitario e/o professionale, bacheche per annunci di qualsiasi tipo, consulenze in settori differenti dalla psicologia. Significativo, a questo proposito, è il valore raggiunto dalla categoria residuale "Altro" nella quale ben 59 dei 100 siti considerati offrono i servizi e le rubriche più svariati: consigli per il giardinaggio, ricamo, ricette di cucina, giochi, barzellette e passatempi vari. In alcuni siti, insieme all’interpretazione dei sogni, si propongono anche i numeri da giocare al lotto e le previsioni zodiacali. Il servizio di consulenza psicologica o psicoterapeutica on line che molti siti (39, sui 100 esaminati) forniscono rischia di ridursi talvolta alla generica offerta di conforto o di consigli: proposto all’interno delle rubriche di corrispondenza on line del tipo "l’esperto risponde", difficilmente l’aiuto psicologico si può configurare in un’ottica scientifica, come uno spazio di riflessione, analisi, o introspezione.

In generale, sembra esistere — salvo felici eccezioni — un’incompatibilità tra i tempi e il ritmo dell’esperienza a cui fa riferimento la psicologia e le necessità e i vincoli della carta stampata, della televisione, di Internet, che tendono quindi a snaturare profondamente la peculiarità della consulenza psicologica.”

I dati sono ben poco confutabili, anche se si deve tenere conto che la domanda, almeno in parte, è influenzata dall’offerta. Messa in un angolo dalla neopsichiatria, che ha egemonizzato tutto l’ambito del disagio psichico che essa riconduce ad una malattia (ambito che, fino a vent’anni fa, ammetteva una quota rilevantissima di forme nevrotiche, psicogene), la corporazione degli psicoterapeuti di formazione psicologica, estremamente ambiziosa e assetata di guadagno, si è adattata a svolgere una funzione subordinata rispetto alla neopsichiatria, accettando di intervenire sulle “malattie” curate con psicofarmaci in una funzione di sostegno. Allo stesso tempo, essa si è posta alla ricerca di ambiti in cui lo psicoterapeuta possa avere le mani libere rispetto allo psichiatra, e li ha trovati in tutte le situazioni in cui i soggetti sperimentano una sofferenza generica legata a problemi inerenti il ruolo genitoriale, alle relazioni private, allo studio, all’interazione con l’ambiente di lavoro, a un comportamento sociale soggettivamente insoddisfacente, ecc.

E’ evidente che ricondurre tutte queste difficoltà ad un disagio di ordine psicologico, e far circolare questo messaggio attraverso i mass-media, alimenta  e induce di fatto una domanda d’aiuto.

Al di là dell’induzione, la realtà di un malessere psicologico diffuso è un dato oggettivo, ed è un dato comune a tutte le società occidentali: secondo alcuni, è il prezzo da pagare sull’altare dello sviluppo socio-economico.

2.

Galimberti non confuta questo dato. Egli però si chiede in quale misura tale malessere non implichi una tendenza delle persone a rifuggire dalle proprie responsabilità individuali e in quale misura esso non sia sfruttato dagli specialisti e dal sistema per confinare nell’ambito privato problematiche che si riflettono a livello psicologico ma hanno matrici culturali, sociali e da ultimo politiche.

Una lunga citazione tratta da un recente articolo può permettere di capire meglio il pensiero di Galimberti e di valutarlo. Egli scrive:

“Davvero siamo così vulnerabili che di fronte ad ogni incertezza della nostra vita abbiamo bisogno di un’assistenza psicologica? Io penso di no, e perciò continuo a domandarmi: non è che si va diffondendo anche da noi, come è già diffusa in America, un’etica terapeutica per cui basta che un bambino sia un po’ vivace e turbolento, che subito viene etichettato come affetto da un “disturbo da deficit di attenzione con iperattività”?

Che dire poi degli studenti, che si apprestano a fare gli esami di maturità, che si definiscono “stressati” per aver studiato durante l’anno con una media di un’ora al giorno, e intorno ai quali si affollano i consigli degli psicologi, quando non addirittura quelli dei dietologi e dei medici?

Che significa mettere in guardia le donne in procinto di partorire dalla “depressione post-partum” iscrivendo preventivamente quel fenomeno naturale che è la generazione di un figlio in uno scenario al confine con la patologia?

Davvero i cassintegrati e i licenziati hanno bisogno di un’assistenza psicologica per evitare drammi familiari, e non invece un nuovo posto di lavoro?

Che cosa significa questo continuo ricorso al termine “sindrome” da “ansia generalizzata” per dire che uno è preoccupato, da “ansia sociale” per dire che uno è timido, da “fobia sociale” per dire che uno è molto riservato, da “libera ansia fluttuante” per chi non sa di che cosa si preoccupa?

Dai risultati di una ricerca, risulta che, negli anni Settanta, la parola  “sindrome” non compariva né sui giornali né nelle aule dei tribunali. Nel 1985 faceva la sua comparsa in 90 articoli, nel 1993 in 1000 articoli e nel 2003 in 8000 articoli di riviste e periodici.

Per non parlare poi della parola “autostima” sconosciuta negli anni Settanta e oggi diffusissima nei media, a scuola, nei servizi sanitari, sul posto di lavoro e nel linguaggio quotidiano. Dalla mancanza di autostima oggi si fanno dipendere gli insuccessi scolastici, le demotivazioni in campo professionale, la depressione in ambito familiare, la devianza giovanile nei tortuosi percorsi dell’alcool e della droga, le condotte suicidali.

Infine il “trauma” che non è più considerato come una giusta e fisiologica reazione emotiva ad un evento doloroso e sconcertante, ma come il generatore di un progressivo disadattamento alla vita tale da condizionarla per tutto il suo corso, e quindi bisognoso di assistenza terapeutica.

Ma che cosa c’è sotto questo cambiamento linguistico, per cui esperienze ritenute fino a ieri normali vengono rubricate tra le sindromi psicologiche? A cosa mira questa invasione della psicologia nella vita quotidiana, se non a creare in noi tutti un senso di vulnerabilità e quindi un bisogno di protezione, di tutela, quando non addirittura di cura?

Io penso che la patologizzazione di esperienze umane sino a ieri ritenute normali risponda all’esigenza di omologare gli individui non solo nel loro modo di pensare (a questo ha già provveduto il “pensiero unico”, per cui, come già annotava Nietzsche:”Chi pensa diversamente, va spontaneamente in manicomio”), ma soprattutto nel loro modo di sentire.

E qui non si fatica a scorgere, sotto l’imperativo terapeutico che va massicciamente diffondendosi nella nostra società, l’intento di promuovere non tanto l’autorealizzazione, quanto l’autolimitazione degli individui che, una volta persuasi di avere un sé fragile e debole, saranno loro stessi a chiedere non solo un ricorso alle pratiche terapeutiche, ma addirittura alla gestione della propria esistenza, che è quanto di più desiderabile possa esistere per il potere. Non è infatti difficile intravedere le potenziali implicazioni autoritarie a cui inevitabilmente porta la diffusione generalizzata dell’etica terapeutica, che è la versione secolarizzata dell’etica della salvezza, con cui le religioni hanno sempre tenuto gli uomini sotto tutela.”

Sia pure in maniera estremamente sintetica, Galimberti pone una serie di problemi su cui riflettere.

Egli individua, nella cultura e nella programmazione sociale, non solo l’induzione di una domanda che trasforma problematiche di tipo esistenziale in “sindromi” o “disturbi”, ma anche l’esistenza di risposte  che mirano a produrre la dipendenza dei soggetti dagli specialisti e un orientamento verso l’adattamento normativo.

E’ difficile non riconoscere che qualcosa del genere sta accadendo nella nostra società, che sembra condannata, non solo economicamente, ma anche culturalmente, ad omologarsi alla società statunitense.

Anni fa, Th. Szasz scrisse un inquietante e divertente libricino (penso ancora reperibile in commercio) dal titolo “Il mito della psicoterapia”. In esso, Szasz, oltre a denunciare l’ambizione della psicoanalisi di sostituire la religione, stigmatizzava la proliferazione di tecniche psicoterapeutiche intese a rispondere, talora in maniera bizzarra, a tutte le difficoltà sperimentate dai soggetti, sottolineando in particolare l’ossessione per le prestazioni sessuali.

D’ acqua ne è passata sotto i ponti. L’ossessione per la sessualità non è certo assente nella domanda di aiuto che si rivolge alla psicologia. Essa però sembra assorbita in un contesto più ampio, caratterizzato per un verso dal rifiuto di pagare i prezzi che la vita, nella sua nuda dimensione esistenziale, impone, e, per un altro, da una “mania” di normalità assoluta che impedisce di accettare i propri limiti e promuove un incessante, e fatuo, desiderio di crescere, maturare, sviluppare le proprie potenzialità, utilizzare al meglio le risorse del cervello, ecc.

Per questi due aspetti, la denuncia di Galimberti mi sembra puntuale e significativa, anche se egli non li rileva esplicitamente. Approfondirne il significato, può portare forse a capire meglio come stanno le cose nella nostra società e il rapporto che i soggetti intrattengono con essa.

3.

Riguardo al primo aspetto, dovrei rinviare il lettore a tutto ciò che ho scritto in questi anni sulla dimensione psicologica che ho definito ansia esistenziale. Nell’attesa di raccogliere le riflessioni in un’Area tematica, preferisco una rapida sintesi.

L’ansia esistenziale non è dovuta a conflitti psicodinamici, bensì alla struttura stessa della soggettività, che, nel suo intimo, a partire da una certa età, alberga la consapevolezza della vulnerabilità, della precarietà e della finitezza. Essere vulnerabili implica l’intuizione di essere esposti alla possibilità di soffrire (secondo tutte le modalità possibili di dolore); essere precari alla casualità, accidentalità e, da ultimo, all’insignificanza dell’io in un’ottica naturalistica; essere finiti ai limiti propri della condizione umana che vengono rappresentati (drammaticamente) dall’essere destinati a morire.

Accettare queste consapevolezze, nel senso di riconoscere di averle inesorabilmente dentro di sé, confrontarsi con esse e prendere posizione (quale che sia: religiosa o laica), è un passaggio obbligato dell’esistenza umana: un passaggio che, se non produce la felicità, sicuramente può determinare una qualche serenità.

Il problema è che la nostra cultura non solo non facilita questo passaggio, ma ne misconosce l’importanza e tende addirittura a rimuoverlo in nome di un assurdo diritto alla felicità individuale. Di questa rimozione si danno prove molteplici, a partire dall’allevamento dei bambini che è totalmente incentrato dal metterli al riparo da ogni dolore e orientarli verso una percezione della vita positiva, ottimistica, adattiva.

La conseguenza di ciò è che, al di là delle problematiche personali e relazionali, le persone convivono con un senso di inquietudine interiore, di insoddisfazione, di mancanza ad essere, che è implacabile e si trasforma in domanda di aiuto rivolto verso la psicologia. Questa, a sua volta, prescindendo dall’orientamento psicoanalitico ritenuto vieppiù inquietante perché, con la peste della teoria pulsionale (contestabile e sbagliata), comporta anche il temibile vaccino della scoperta delle indefinite capacità di mistificazione della coscienza umana, si è attrezzata per rispondere al malessere sulla base di una presa in carico di ciò che dovrebbe essere messo in discussione - il diritto alla felicità -, che in realtà è semplicemente un bisogno che si può realizzare pagando un prezzo alla struttura intrinseca della condizione umana, e non già rivolgendosi pateticamente verso il pensiero positivo o l’adozione di formulette prêt-a-porter.

Si va realizzando insomma una sorta di connivenza tra il bisogno di mistificazione proprio della coscienza umana, che mira a rimuovere l’ansia esistenziale, e l’aiuto offerto dalla psicologia, la quale accentua quel bisogno portando le persone a pensare che, con un po’ di riflessione a buon mercato sulla vita, tutti i problemi possano essere risolti.

Già questo sarebbe un bel problema. Il secondo aspetto lo rende ancora più complesso.

Al di là dei limiti inerenti la condizione umana in sé e per sé, si danno, infatti, quelli che ogni soggetto ricava dalla sua personale carriera all’interno di un determinato contesto familiare, sociale e storico-culturale. Non è detto che questa carriera, come accade in alcuni casi, debba essere devastante, ma è fuor di dubbio che essa in molti casi è alienante.

E’ importante mettere a fuoco meglio questo concetto di alienazione.

Ogni essere umano viene al mondo con un determinato corredo genetico, unico e irripetibile. Anche prescindendo dal determinismo neurogenetico, per cui ciascuno ha dentro di sé un “destino” già scritto, è fuori di dubbio che ogni corredo genetico comporta un insieme finito di possibili sviluppi della personalità, un insieme, insomma, di possibili modi di essere. Tale insieme si può considerare come uno spettro che, ad un estremo, comporta una realizzazione minima o addirittura distorta delle proprie potenzialità e all’estremo opposto una realizzazione ottimale (sempre in senso finito). Tale spettro si realizza nell’interazione con l’ambiente in rapporto a circostanze di ordine oggettivo (le opportunità offerte) e soggettivo (le scelte che, consapevolmente o inconsapevolmente, il soggetto opera).

E’ assolutamente evidente che, nonostante le apparenze e i luoghi comuni, nel nostro mondo tale interazione solo eccezionalmente si realizza. Puntare il dito sulla distribuzione del tutto squilibrata delle opportunità significa cogliere un aspetto del problema, ma non il più importante.

La verità ultima è che, si diano o meno opportunità, è il modello di normalità dominante che non funziona, perché privilegia, a tutti i livelli della scala sociale, l’avere e l’apparire rispetto all’essere, vale a dire ad uno sviluppo integrato della personalità secondo le sue linee di tendenza.

Per avviare uno sviluppo del genere, dunque un processo autentico di individuazione, occorre mettere in gioco e smantellare anzitutto le sovrastrutture normative mistificate che governano l’esperienza di gran parte dei soggetti nella nostra società.

Il problema è che le persone si rivolgono ai terapeuti senza alcuna consapevolezza di questo problema e senza alcuna intenzione di fare un tragitto di demistificazione. La loro domanda verte piuttosto sul misurare lo scarto tra il loro modo di essere e il modello normativo e sul chiedere un aiuto per azzerarlo.

Con le loro formulette sull’autostima, sul pensiero positivo, sulla crescita illimitata, sulla creatività, sul sano egoismo e sulla sana estroversione, gli psicoterapeuti si prestano a fornire alla domanda una risposta adattiva e indolore.

Galimberti ha ragione nel sostenere che, facendo questo, la psicologia è ancella del potere, sancendo la possibilità dell’adattamento e della crescita della personalità senza che ciò implichi un atteggiamento critico nei confronti della normalità dominante, dell’alienazione di potenzialità umane che essa implica e della connivenza dell’io con tale alienazione. Non penso però che il ruolo ancillare della psicologia e della pratica psicoterapeutica rappresenti una scelta tattica o il frutto di un’alleanza con il potere. Esso, purtroppo, è da ricondurre al fatto che la formazione degli psicologi e degli psicoterapeuti è semplicemente priva di qualsivoglia strumento di analisi critica della realtà che consenta loro di sormontare l’orizzonte dell’esistente. Questo difetto li intrappola in una sorta di psicologismo radicale, la cui conseguenza è che essi interpretano (bene o male: dipende dalle formulette adottate) tutto, ma di fatto non comprendono quasi nulla della condizione umana.

Occorrerà citare per  l‘ennesima volta Politzer che ha scritto: “La psicologia non detiene il segreto dei fatti umani, semplicemente perché questo segreto non è di ordine psicologico”? Più che citarlo, occorrerebbe aggiungere che quel segreto sta per un verso dalla parte della natura, che ha impiantato nella testa degli uomini un congegno prodigioso non meno che inquietante, e, per un altro, dalla parte della cultura che, per facilitarne l’uso, impone agli uomini di non pensare e di non sentire troppo: di affidarsi insomma a chi sa o pretende di sapere.