1.
Dopo la pubblicazione dell'Introduzione alla storia dell'economia, alcuni lettori mi hanno scritto esprimendo per un verso il loro apprezzamento per la chiarezza dell'articolo e, per un altro, alcune perplessità. Queste vertono sostanzialmente sul ritenere l'economia una realtà in qualche misura distante dall'esperienza soggettiva. Nessuno misconosce, ovviamente, l'influenza che la condizione economica può avere sulla psicologia collettiva e individuale, né che si dà una patologia psichiatrica legata alla povertà, alla disoccupazione, alla precarietà, al mobbing, ecc. Al di là di questo, però, la mia convinzione, espressa più volte, che l'ideologia economica, così come si è definita nel corso del tempo, abbia inciso profondamente nella mentalità collettiva e individuale fino ad impregnare gli strati più profondi della soggettività e a determinare fenomeni, normali e patologici, che non sarebbero comprensibili senza tenere conto di essa, non è condivisa.
Uno tra i lettori più attenti, che, peraltro, è un amico di antica data, ritiene che tale convinzione riveli una certa persistenza, nelle mie analisi, di una suggestione legata alla formazione marxista che avrei difficoltà a sormontare.
Nell'autobiografia intellettuale, ho onestamente riconosciuto che l'incontro con il pensiero di Marx e la frequentazione assidua dei testi prodotti nell'ambito del marxismo occidentale (da Mondolfo a Marcuse) ha profondamente influenzato il mio modo di vedere, la mia visione del mondo, con la conseguenza di indurmi a considerare con attenzione il rapporto tra soggettività individuale e storia sociale.
Al di là di questo riconoscimento, è importante, come si suol dire, affrontare il toro per le corna: chiarire, nella maniera più precisa possibile, il peso che io ritengo eserciti l'ideologia economica sulla esperienza psicologica individuale e interpersonale.
Erich Fromm, con Avere o Essere (Mondadori, Milano 1976), ha affrontato questo problema in maniera esemplare. Il riferimento alla sua opera è implicito in questo articolo.
Per avviare il discorso su di una base concreta, utilizzo, come punto di partenza, un manuale di microeconomia (Robert H. Frank, Microeconomia. Comportamento razionale, mercato istituzioni, Mc Graw-Hill, Milano 1992), che ha avuto una larga diffusione a livello universitario. Utilizzo tale testo, anziché manuali che godono di maggior prestigio (dall'intramontabile Samuelson al limpido Stiglitz) per un motivo piuttosto semplice. Samuelson e Stiglitz sono ideologicamente reticenti; Frank è del tutto esplicito.
Egli scrive nella prefazione: "In tutto il libro, ho cercato di sviluppare la comprensione intuitiva dell'economia attraverso esempi e applicazioni tratti dall'esperienza quotidiana; alla fine del testo, lo studente dovrebbe interpretare ogni dettaglio del paesaggio umano come risultato di un calcolo, implicito o esplicito, di costi e benefici." (p. XXVI)
Il corsivo, che è mio, suggerisce già che l'ambizione della scienza economica è di competere a tutto campo con la psicologia per fornire un'interpretazione motivazionale dei comportamenti umani.
La conferma definitiva si ha leggendo il primo capitolo, il cui titolo - Pensare da economisti - non riguarda solo i fatti economici, ma i comportamenti umani nella loro totalità. L'autore, infatti, dopo aver definito la microeconomia come "disciplina che studia le decisioni degli individui in condizioni di scarsità" (p. 3), aggiunge che "la scarsità non va intesa solo in senso materiale; infatti, anche quando vi è abbondanza di beni materiali, altri tipi di risorse, altrettanto importanti, scarseggiano" (id). Il riferimento immediato, in rapporto all'economia, è ovviamente il tempo, "una risorsa scarsa per chiunque". Ma "né tempo né denaro sono le uniche risorse limitate" (id): "di fatto, ogni scelta implica scarsità di risorse: talora si tratta di risorse monetarie, ma non sempre le decisioni più importanti sono condizionate dalla scarsità di denaro. La scarsità è un attributo in qualche modo inerente alla condizione umana, e in un certo senso è anche il sale della vita: chi avesse a disposizione tempo e risorse illimitate non sarebbe mai posto di fronte ad un'alternativa di scelta." (pp. 3-4)
Posto che la vita, di fatto, è una successione di processi decisionali più o meno importanti, gli economisti propongono di valutare i comportamenti sulla base del criterio costi-benefici, secondo il quale i comportamenti da compiere sono solo quelli tali per cui i benefici superano i costi. L'unico problema è che "calcolare costi e benefici è spesso un compito difficile, un'arte più che una scienza." (p. 6)
Gli esempi che porta l'autore sono sufficientemente espliciti riguardo al fatto che non solo le decisioni economiche, ma tutti i processi decisionali della vita quotidiana possono essere valutati adottando il punto di vista economico, vale a dire il calcolo.
Sarebbe, dunque, la razionalità il fondamento dell'esperienza umana e del modo di rapportarsi alla vita di ogni soggetto. Ciò potrebbe far pensare che il pensiero economico propugna un modello interpretativo dei comportamenti umani basato sull'interesse individuale, vale a dire sull'egoismo. Ma l'autore specifica che non si dà solo una razionalità egoistica, bensì anche una razionalità secondo i fini: "questa richiede che le persone agiscano in modo efficiente per raggiungere qualsiasi obiettivo si pongano." (p. 15) L'aspetto interessante di questa seconda definizione "è che permette di considerare motivazioni "benevole", come la carità, il dovere e così via." (p. 15) Naturalmente, non essendo quantificabili, la valutazione di tali motivazioni dipende dai punti di vista: sia pure approssimativamente, essa però non deve prescindere dal criterio costi-benefici.
In conclusione, dunque, "i principi della teoria della scelta razionale non sono limitati a questioni riguardanti i mercati di beni e servizi in senso stretto, ma si utilizzano implicitamente o esplicitamente in quasi ogni decisione e comportamento umano." (p. 22)
Non si tratta di un approccio del tutto nuovo. La sua matrice originaria si può fare risalire all'utilitarismo inglese del XVIII secolo, che assume l'utile come criterio dell'azione e fondamento della felicità e del bene. Nell'ottica degli utilitaristi (Bentham, J. S. Mill), però, tale criterio ha una portata sociale perché non c'è vero utile per l'individuo se esso non favorisce anche il maggior bene possibile per tutti.
L'assunzione della razionalità rispetto allo scopo, vale a dire di un agire in vista dei mezzi ritenuti adeguati per realizzare un certo scopo, come criterio fondamentale del sistema capitalistico si deve a Weber, che la distingue nettamente da altre forme di agire incentrate sui valori, sull'affettività o su abitudini acquisite.
La razionalità, infine, è divenuta un riferimento dominante in economia in seguito all'affermazione della teoria dei giochi, che studia le strategie di comportamento ottimale in situazioni, anche conflittuali, in cui si tenda a conseguire un utile.
Non è inopportuno rilevare che, nell'ambito della psicologia statunitense, esiste una corrente che interpreta i comportamenti umani sulla base del rapporto tra mezzi adottati e scopi perseguiti. Tale corrente, denominata scopistica, non riconosce la sua derivazione dall'economia, che peraltro è evidente.
Ci si può chiedere ovviamente se sia stata la psicologia ad influenzare l'economia o viceversa. Se il problema viene affrontato in termini teorici, di rapporto tra discipline, esso è insolubile. Di fatto, è più semplice riconoscere che, nel nostro mondo, tutte le scienze umane e sociali, eccezion fatta per i pochi autori che mantengono un atteggiamento critico, sono rimaste influenzate dal processo di sviluppo socio-economico del capitalismo che, in seguito al crollo del muro di Berlino, è giunto a porsi come un'ideologia totalizzante.
2.
Se si muove dal presupposto, intrinseco all'antropologia borghese, che l'essere umano sia fondamentalmente egoista e che, nel rapporto con la vita, miri essenzialmente ad avvantaggiare se stesso, si può pensare che la teoria economica delle scelte razionali non abbia fatto altro che cogliere le conseguenze di questo a livello economico e generalizzarle, formulando un modello interpretativo dei comportamenti umani economicistico.
Se si prescinde da quel presupposto, sulla base del fatto che la natura umana riconosce un duplice orientamento motivazionale - ego-centrico e socio-centrico - ai quali ogni cultura offre la possibilità di esprimersi in forme più o meno equilibrate, viene da chiedersi se il pensiero economico non abbia contribuito ad indurre una trasformazione economicistica della cultura e della mentalità che si riflette all'interno delle esperienze soggettive e delle relazioni interpersonali.
Molti dati, purtroppo, inducono a pensare che qualcosa del genere sia avvenuto nel contesto della nostra società.
Ciò può forse sorprendere se si tiene conto che la scienza economica è la più avulsa (dopo l'antropologia culturale) dal senso comune. Non c'è bisogno di pensare, però, che i cambiamenti di mentalità passino necessariamente attraverso riflessioni, studi, acquisizioni di informazioni, ecc. Essi spesso dipendono dall'aria che si respira in un determinato contesto culturale.
Pochi dubbi si possono avere riguardo al fatto che in una società in cui i soggetti sono impegnati frequentemente a scambiare beni e servizi con denaro, e devono quindi adottare più o meno consapevolmente il criterio costi-benefici, tale criterio possa giungere ad assumere una configurazione totalizzante, fino al punto di investire anche le sfere di vita che dovrebbero esserne esenti.
Quali prove si possono fornire a favore di questa trasformazione economicistica della psicologia individuale e collettiva?
Le prove sono molteplici. Mi limiterò ad accennare alle più importanti.
Un primo ambito riguarda i rapporti tra genitori e figli, e va esaminato sotto il duplice profilo del rapporto dei genitori con i figli e dei figli con i genitori.
Mettere al mondo un figlio, curarlo, allevarlo, farlo studiare, portarlo all'autonomia comporta un investimento netto in termini di affetti, energie, tempo, denaro. Sulla carta, dato che la procreazione e l'assunzione di responsabilità che ne consegue rappresentano (o dovrebbero rappresentare) una libera scelta, l'investimento genitoriale dovrebbe avere le caratteristiche del dono almeno in gran parte gratuito. Dovrebbe, in breve, essere una scelta ispirata al fine di mettere il figlio in considerazione di vivere la sua avventura terrena e di giocarsi le sue carte.
Nella realtà, via via che i cambiamenti sociali hanno comportato da parte dei genitori un investimento sempre maggiore di risorse psicologiche e economiche, ciò ha comportato, a livello inconscio, il prodursi dell'aspettativa di un utile o, al limite, di un beneficio maggiore del costo. Il beneficio in questione può essere riferito semplicemente al fatto che i figli vengano su bene, si comportino bene in società, e acquisiscano uno status di cui i genitori possano menar vanto. Il problema è che tale beneficio spesso viene perseguito proiettando sui figli aspettative piuttosto definite, narcisistiche, corrispondenti cioè più ai desideri dei genitori che dei figli, e cercando di mobilitare in essi una risposta sulla base dell'indebitamento.
In casi estremi, ma non eccezionali, il figlio diventa addirittura un capitale da cui trarre un guadagno. E' questa logica che sottende il comportamento dei genitori che alimentano le speranze dei figli di diventare calciatori o sportivi di successo, che cercano di inserire i propri rampolli, fin da bambini, nei circuiti dorati dello spettacolo (dalle pubblicità alla televisione al cinema), ecc., che smaniano perché divengano professionisti di successo (avvocato, medico, ingegnere), ecc.
La risposta dei figli alle aspettative genitoriali, consce e inconsce, fondate sul calcolo, non sono univoche. Alcuni, in numero sempre minore, sviluppano di fatto un vissuto di indebitamento, che li porta ad accondiscendere a quelle aspettative. Nella maggioranza, però, l'adozione della logica economicistica comporta una risposta paradossale fondata sul credito piuttosto che sul debito.
Il punto su cui fa leva questa trasformazione è che, non avendo essi chiesto di venire al mondo, coloro che hanno operato questa scelta, sono tenuti ad assicurare loro il massimo agio possibile. L'arma che viene adottata per conseguire il beneficio è la minaccia di una rappresaglia, che va dal mettere i genitori di fronte alla loro infelicità al fare incombere nella loro mente il fantasma della devianza o, al limite, del suicidio.
La motivazione rivendicativa dei figli è ulteriormente accresciuta dal fatto che essi, in genere, analizzando i comportamenti dei genitori alla luce di un modello astratto di razionalità per cui questi dovrebbero essere perfetti, giungono facilmente a rilevare degli errori che avrebbero danneggiato il loro sviluppo. In conseguenza di questo, al credito che vantano per essere stati messi al mondo "arbitrariamente", si aggiunge spesso il riferimento ad un danno subito per il quale chiedono un risarcimento.
Mentre il vissuto d'indebitamento filiale si può ritenere psicologicamente originario, quello fondato sul credito e sul risarcimento, vale a dire sul principio di ricavare un vantaggio dal proprio ruolo è evidentemente influenzato dall'aria che si respira, vale a dire dal criterio costi-benefici.
Al di là del rapporto tra genitori e figli, tale criterio influenza ormai potentemente la vita di relazione interpersonale a tutti i livelli, fin dall'adolescenza.
L'amicizia giovanile viene considerata un grande valore, perché affranca dallo spettro della solitudine e dell'isolamento. Essa però viene vissuta alla luce di aspettative idealizzate, per cui ci si aspetta dall'amico un comportamento costantemente conforme ai propri bisogni. L'amico, insomma, è colui che, nel rapporto, si dà molto da fare.
Questo codice economicistico impatta in una situazione che riproduce, a livello amicale, la differenza già accennata a livello filiale. Alcuni soggetti, che hanno acquisito attraverso il rapporto con i genitori il vissuto dell'indebitamento, i quali dunque credono che il fondamento dei rapporti sia il donarsi agli altri, trasferiscono questa modalità a livello amicale. Si tratta, anche in questo caso, di una minoranza, che attira irresistibilmente gli altri, contaminati, senza saperlo, dalla logica del vantaggio interpersonale.
Su questa base, si organizzano reti di relazioni all'interno delle quali c'è qualcuno che si danna l'anima per soddisfare le aspettative altrui e qualcun altro che sfrutta la disponibilità per avvantaggiarsi. Relazioni del genere tendono alla cristallizzazione, perché gli uni sono terrorizzati dall'idea di tradire le aspettative altrui e di essere rifiutati e gli altri si rivolgono ad essi dando per scontata la loro disponibilità illimitata.
Il criterio costi-benefici governa ormai anche gran parte dei rapporti affettivi tra uomo e donna, fin dall'adolescenza. Il "costo" dei rapporti affettivi è il grado di libertà cui occorre rinunciare per stare insieme e il rischio che si corre in caso di abbandono; il "beneficio" è la sicurezza che si ricava dal poter contare su qualcuno e dall'organizzare la vita in coppia.
Nella nostra società, il costo viene sistematicamente enfatizzato a partire dall'adolescenza, in nome di un orientamento claustrofobico pressoché universale e della vergogna estrema di poter subire un abbandono.
In conseguenza di questo, i rapporti affettivi, adolescenziali e giovanili, si configurano come relazioni competitive all'interno delle quali ciascuno tenta di scongiurare la possibilità di trovarsi in una condizione di debolezza rispetto all'altro. Si dà per scontato, infatti, che chi cade in una tale condizione deve temere, in nome della sua debolezza, sia un disinvestimento affettivo sia una rappresaglia (l'abbandono). La cosa più importante, infine, non è sperimentare la capacità di amare e di costruire con l'altro una relazione significativa, bensì salvare la faccia, vale a dire non ritrovarsi, nel caso dello scioglimento del rapporto, in una situazione svantaggiosa, di perdita.
Al di là delle relazioni giovanili, tale logica governa anche le scelte matrimoniali e la vita di coppia. Sempre più spesso, le scelte matrimoniali avvengono sulla base di un calcolo. Ogni soggetto aspira ad avere un partner che abbia caratteristiche qualitativamente elevate in termini di bellezza, status, reddito, patrimonio, cultura, ecc. La scelta reale, di fatto, poi porta a rinunciare a queste aspettative ottimali, ma in nome di un bisogno supremo di sicurezza, che assegna al partner la funzione di soddisfare le proprie esigenze più intime, spesso inconsapevoli o nevrotiche.
Per quanto riguarda le donne, tali esigenze sono in genere riconducibili ad un bisogno incoercibile di attenzione, di affetto, di calore, tale per cui il partner dovrebbe trasformarsi in un erogatore a comando di conferme. Il partner ideale, insomma, è uno schiavo sempre pronto ad assoggettarsi a richieste che, data la precarietà della condizione psicologica femminile, si pongono spesso come insaziabili.
Gli uomini, viceversa, trasferiscono nel rapporto con la partner un bisogno di accadimento alimentato dalle madri e misconosciuto, che si trasforma nella pretesa di essere curati, di ricevere attenzioni, di essere sollevati dalle incombenze domestiche e dalla cura dei figli, ecc. Anche per essi, la partner ideale è una schiava che soddisfa tutte le loro esigenze.
Anche a livello matrimoniale, si riproduce la contraddizione cui s' è fatto cenno. Alcuni soggetti, di fatto, sentono come un loro dovere imprescindibile l'annullarsi a favore dell'altro. La maggioranza, però, avverte come un proprio diritto ricavare il massimo vantaggio dalla relazione con il partner.
3.
Analizzando le relazioni interpersonali affettive senza alcun atteggiamento moralistico, riesce dunque evidente che il criterio costi-benefici impregna profondamente ormai la soggettività e dà luogo, quasi sempre inconsapevolmente, ad un modo di relazionarsi con gli altri che appare chiaramente incentrato sullo "sfruttamento". Che questa situazione non sia vissuta drammaticamente, come espressione di un'alienazione dell'affettività, dipende dal fatto che le aspettative fondate sul calcolo si realizzano in conseguenza del fatto che alcuni soggetti, di solito estremamente sensibili e condizionati dal rapporto originario con la famiglia a vivere per sdebitarsi, le accolgono e, dandosi da fare, soddisfano il loro incoercibile bisogno di sentirsi confermati.
Raramente gli "sfruttatori" cadono in crisi. E' questo il caso, per esempio, di alcuni figli sensibili che imboccano rapidamente, per influenze ambientali, la via di un rapporto tirannico con i genitori, fondato su richieste di soddisfazione dei loro bisogni, solitamente consumistici, sempre più elevate e che, ad un certo punto, cominciano a sentirsi in colpa per il loro egoismo.
Più spesso, la crisi sopravviene negli "sfruttati".
Da questo punto di vista, la psicopatologia è un osservatorio privilegiato che permette di oggettivare l'alienazione dell'affettività che caratterizza il nostro mondo.
Perché tale osservatorio divenga proficuo, però, non ci si può limitare, come accade spesso a livello psicoterapeutico, a ripetere lo slogan secondo il quale le persone "masochiste" devono acquisire la capacità di pensare un po' più a se stesse. Si tratta, in realtà, di risalire alla radice del problema, che è per l'appunto la trasformazione economicistica della psicologia contemporanea.
Sarebbe più semplice interpretare tale trasformazione riconducendola ad un egoismo primario, rappresentato intensamente nella maggioranza delle persone e troppo debolmente in una minoranza. Questa interpretazione ha come limite l'assumere l'uomo, così com'esso si è definito nel nostro contesto di civiltà, come esemplare universale. Con ciò si ricade però nella trappola dell'ideologia che naturalizza uno stato di cose prodotto dalla storia e dall'evoluzione sociale.