1.
In un articolo precedente (La ricetta della felicità) ho analizzato la moda dei libri sempre più numerosi pubblicati in Occidente per insegnare alle persone come si può raggiungere uno stato di benessere e di equilibrio psicofisico e relazionale. Nessuno di questi libri affronta il problema da un punto di vista globale. Non è certo un caso.
Un paradosso della nostra epoca è che alla globalizzazione economica e culturale, la quale, per come si sta realizzando, pone l’umanità di fronte alla prova che i processi storici trascendono la volontà dei singoli individui e quella collettiva dei governi nazionali, corrisponde, a livello ideologico, il tentativo di enfatizzare l’individuo come padrone di sé, dotato di una psiche (se non addirittura di un’anima) capace, quali che siano le condizioni ambientali, di svilupparsi indefinitamente nella direzione dell’equilibrio psicofisico, vale a dire della felicità personale. In questa ottica idealistica, le condizioni ambientali possono incidere negativamente, ma solo se l’individuo le subisce passivamente. Con le “ricettine” fornite dagli “specialisti”, incentrate sul pensiero positivo, sull’autostima, su tecniche di meditazione trascendentale, ecc., ciascuno può recuperare e salvaguardare il proprio benessere dalle influenze dell’ambiente. La felicità, insomma, dipende dall’individuo e dalla sua capacità di utilizzare le risorse mentali: quest’assioma riassume l’essenza della squallida filosofia che va sotto il nome di new age.
Un discorso serio sulla felicità oggi non può prescindere da un dato oggettivo, ampiamente noto. Negli ultimi trent’anni, nei paesi occidentali, il PIL (prodotto interno lordo) si è raddoppiato, mentre i diversi indici che i sociologi utilizzano per valutare il benessere psicofisico dei cittadini (come per esempio l’Indice di Salute Sociale) sono progressivamente diminuiti sino a dimezzare il loro valore. Questo significa che l’Occidente è complessivamente più ricco e meno felice. Si tratta di un trend che, durando da trent’anni, è difficile considerare congiunturale. Se lo si assume come un dato strutturale, si giunge però alla paradossale conclusione che se la crescita economica, sia pure con fasi alterne, continuerà ad aumentare, il suo prezzo sarà un tasso d’infelicità che l’umanità non ha mai conosciuto nel corso della sua storia. Come interpretare questo paradosso, evitando di cadere nella trappola spiritualista secondo la quale l’uomo non vive di solo pane e ha bisogno, per raggiungere un minimo di serenità, di un orizzonte trascendente?
Un primo punto importante consiste in un’analisi critica del PIL. Equiparare la crescita della ricchezza con il benessere inteso genericamente è un mito, caro ai neoliberisti, che va smantellato. La critica del PIL non è di ordine moralistico, ma strettamente tecnica. Per il PIL, ogni attività economica è buona in sé e per sé: esso dunque non discrimina tra quelle che migliorano effettivamente la qualità della vita dei cittadini e quelle che non la migliorano o addirittura la peggiora.
Ne Il sogno europeo Jeremy Rifkin (Mondadori, Milano 2004) scrive: “Se a causa della disoccupazione e della povertà si diffonde la criminalità, imponendo un incremento dei costi e del personale impegnato in ordine pubblico, giustizia, amministrazione carceraria, nonché un’esplosione della spesa per i servizi di protezione e sorveglianza privati, l’attività economica si riflette in un aumento del PIL. Se una discarica abusiva di rifiuti tossici deve essere bonificata, o contenuta una fuoriuscita di petrolio da un oleodotto, o purificata una falda acquifera contaminata, l’attività economica risultante fa salire il PIL. Se cresce l’impiego di combustibili fossili, il PIL aumenta, anche se questo comporta un impoverimento delle riserve esistenti di energia non rinnovabili. E se la salute di milioni di persone si deteriora a causa dell’obesità, del fumo, del consumo di alcol e dell’abuso di droghe, la maggiore spesa per la sanità contribuisce all’aumento del PIL. Lo stesso vale per le misure di protezione contro il terrorismo. L’acquisto di nuovi missili, aerei, carri armati e bombe va a incrementare il PIL… Ecco il punto: una parte rilevante del PIL – in una percentuale che cresce di anno in anno – è costituita da attività economiche che non migliorano il benessere.”
Questo significa, né più né meno, che, avendo tutte le forze politiche condizionato gli elettori a considerare il PIL un indice della ricchezza e della felicità collettiva e individuale, l’ossessione dei governi, che ormai legano il loro destino all’andamento dell’economia, è di promuovere a qualunque costo la crescita economica. Tra i costi in questione, evidentemente, c’è anche la qualità della vita dei cittadini. Si dà per scontato, infatti, che questi, se sono posti in condizione di disporre di un reddito da spendere, fanno sempre meno attenzione a ciò che di negativo la produzione di tale reddito comporta per la collettività e per l’individuo stesso. Produrre sempre di più, consumare sempre di più: è questa la ricetta della felicità a cui fanno riferimento, sia pure in termini diversi, tutti i paesi e i governi occidentali, anche se si danno diverse interpretazioni dei modi di porre in essere tale ricetta tra forze di centro-destra e forze di centro-sinistra.
En passant, non è inopportuno ricordare che Marx, analizzando il rapporto tra produzione e consumo, ha intuito per primo, anche senza rilevarlo esplicitamente, un pericolo potenziale intrinseco al capitalismo: “Mediante la produzione non è solo prodotta la materia del consumo, ma anche il modo del consumo; la produzione opera non solo sul piano oggettivo, ma anche su quello soggettivo. La produzione crea anche i consumatori. 3) La produzione non solo fornisce un materiale al bisogno, ma sì anche un bisogno al materiale. Quando il consumo esce dalla sua prima, immediata rozzezza naturale - ed il rinvio ad essa sarebbe il risultato di una produzione ancora immersa nella rozzezza naturale-, allora il consumo, anche come impulso, è mediato dalla materia. Il bisogno, che il consumo avverte di quella certa materia risulta dal percepirla. Il materiale artistico - così come ogni altro prodotto - costruisce un senso artistico ed un pubblico capace di godimento artistico. Dunque, la produzione non produce solo un materiale per il soggetto, ma anche un soggetto per il materiale. Quindi la produzione produce il consumo 1) poiché le fornisce il materiale; 2) poiché determina il modo del consumo; 3) poiché essa genera come bisogno nei consumatori quei prodotti posti da essa stessa come materiale. Essa, dunque, produce materiale per il consumo, modo del consumo, spinta al consumo.” All’epoca,caratterizzata da una produzione esuberante di lusso riservata a pochi privilegiati, Marx, ovviamente, non aveva alcuna possibilità di prevedere il consumismo di massa. Egli fornisce comunque la chiave per comprendere il paradosso del rapporto inverso tra PIL e benessere psicofisico. Tale chiave si riconduce all’induzione da parte dell’apparato produttivo di falsi bisogni. Ampiamente esplorato in passato, tale tema richiede di essere aggiornato.
2.
A partire dalla fine degli anni Sessanta, soprattutto per merito della scuola di Francoforte e, in particolare, di Marcuse (L’uomo a una dimensione) e di Fromm (Avere e Essere), il problema dei falsi bisogni è divenuto uno dei temi privilegiati dalla psicosociologia critica. Spentasi la stagione del pensiero forte di origine marxista, esso è stato praticamente accantonato in nome del riconoscimento della propensione al consumo come espressione di un autentico bisogno umano e di un’aspirazione incoercibile al benessere. Da questo punto di vista, intrinseco all’economia capitalistica, l’unico interrogativo riguardava e riguarda la possibilità di concedere a tutti gli esseri umani la possibilità di un reddito adeguato a soddisfare quel bisogno. Non è azzardato pensare che la globalizzazione si è avviata per rispondere a tale interrogativo.
Il presupposto implicito della globalizzazione, che peraltro corrisponde ad una fase di sviluppo necessaria del capitalismo, è che tutti i popoli del pianeta aspirino a conseguire il tenore di vita dell’Occidente. La frenesia con cui alcuni paesi, dalle Tigri dell’Est asiatico all’India e alla Cina, si sono avviati verso un’industrializzazione a tappe forzate sembra giustificare ampiamente tale presupposto. Da ciò si sarebbe portati a pensare che le analisi di Marcuse e di Fromm erano puramente ideologiche. Per quanto contraddittoria, la società del benessere avrebbe imboccato una via di sviluppo che rappresenta un tragitto obbligato per tutti i popoli che vivono nel sottosviluppo, e che, tra l’altro, corrisponde ad aspirazioni umane universali. Paradossalmente, Marx stesso sarebbe stato d’accordo su questa conclusione o almeno sulla prima parte di essa. Egli riteneva, infatti, che il passaggio al comunismo sarebbe potuto avvenire solo laddove una società avesse raggiunto il massimo grado di sviluppo delle forze produttive, quello che gli economisti chiamano la frontiera della produzione. Ciò che egli contestava era che il consumo di beni potesse di per sé soddisfare i più profondi bisogni umani. Per quest’aspetto, Marcuse e Fromm non hanno fatto altro che verificare la fondatezza della diagnosi di Marx in un contesto, quello statunitense, che è giunto, dagli anni Ottanta in poi, a identificare consumo e felicità.
Nell’introduzione di Star Male di Testa, riecheggiando le riflessioni di Marcuse e di Fromm, sottolineavo il fatto che la nostra società è caratterizzata da un squilibrio sorprendente tra il suo patrimonio culturale e tecnologico, e il sottosviluppo umano, che identificavo nella miseria psicologica del cittadino comune, un cui indizio è la crescita esponenziale dei fenomeni di disagio psichico. Riprendere e approfondire questo discorso appare opportuno dal momento in cui, dal seno stesso della società opulenta, si cominciano a levare voci che, se non hanno una valenza critica rispetto al sistema, rilevano almeno il problema: l’infelicità diffusa associata al benessere materiale. A tali voci ho già fatto cenno in articoli precedenti.
Lo spunto per un’ulteriore riflessione viene offerta dal libro di uno psichiatra, il dottor Peter C. Whybrow, direttore del Semel Institute of Neuroscience and Human Behavior alla University of California, il cui titolo, che sembra riecheggiare una delle sentenze più famose di Seneca (“Non è povero chi ha poco, è povero chi desidera di più”) è inequivocabile: American mania: When more is not enough (Una mania americana: quando di più non è abbastanza). Egli scrive: “nella nostra ossessiva ricerca di avere sempre di più, ci facciamo del male.”
A sostegno di questa diagnosi, egli cita le statistiche del governo degli Stati Uniti, le quali attestano che il 30% della popolazione soffre di ansia (il doppio della percentuale di dieci anni fa) e il 20% di depressione (il triplo della percentuale di dieci anni fa). Il nesso tra l’aumento del disagio psichico e lo stile di vita è abbastanza evidente. Per consumare sempre di più, occorre produrre sempre di più: dedicare dunque al lavoro tempo e energie tali che non ne rimangono molte per godersi la vita. Il massimo godimento si riduce all’avidità, all’acquisto, al possesso di beni che possono essere esibiti come status symbol. Inesorabilmente, questo stile di vita chiude sempre di più gli individui nella ricerca del piacere privato, allenta, in conseguenza della competitività, i vincoli sociali, costringendoli a vivere su di un piede di guerra, e riduce proporzionalmente e progressivamente la pratica degli affetti. Scrive ancora Whybrow: “Penso che abbiamo rifuggito la felicità e siamo sbucati dalla parte opposta e ora non sappiamo più bene dove ci troviamo. Credo che la felicità sia da qualche parte, alle nostre spalle. Questo modo frenetico che abbiamo di cercare ciò che speriamo sia la felicità e la perfezione è in realtà una follia, come lo sono le manie.”
Egli offre anche una chiave di interpretazione neurobiologica del consumismo, secondo la quale “il consumo attiverebbe le dopamine neurotrasmettitrici, che ci premiano con il piacere, viaggiando sugli stessi percorsi di droghe come la caffeina e la cocaina.” Riguardo alla possibile soluzione del problema, Whybrow rimane dentro la logica del sistema si cui fa parte. La soluzione – afferma – sta nell’individuo; sta ad ognuno di noi pensare alla propria vita e rallentare il ritmo, in modo da ridimensionare i nostri appetiti e trovare un migliore equilibrio tra lavoro e famiglia. Come accennavo all’inizio, è la solita soluzione new-age.
3.
Nonostante il titolo piuttosto efficace, il libro di Whybrow attesta che lo spirito critico non è morto, ma risente del contesto culturale. Messa a confronto con le analisi di Marcuse e di Fromm, quella di Whybrow è molto modesta. Egli rileva un fenomeno sociologico – la tendenza al consumismo sfrenato -, ne identifica le cause in un modo di vivere che, per alimentare i consumi, estenua l’individuo a livello lavorativo e lo induce a chiudersi sempre più in se stesso, e ritiene, un po’ ingenuamente, che basti un po’ di saggezza personale a risolvere il problema. Cionostante, è un libro indiziario di un problema che, dopo anni di rimozione, si sta imponendo di nuovo all’attenzione: in quale misura il consumo di beni produce il benessere soggettivo e collettivo? In quale misura, diventando un obiettivo univoco e ossessivo, esso può comprometterlo?
La risposta, se non vuole essere di ordine intellettualistico o moralistico deve partire dal cogliere il problema nella sua complessità. Di questa, vanno rilevati due aspetti: uno di ordine locale, che concerne gli Stati Uniti, uno di ordine generale, che riguarda tutti i paesi occidentali.
Negli Stati Uniti, la “mania” del consumo corrisponde paradossalmente ad un “dovere” sociale (naturalmente, solo per chi può trascendere il livello dei consumi primari). Dall’avvento, con Reagan, del neoliberismo fino alla fine degli anni ’90, l’economia americana si è fondata, in opposizione al keynesismo, sulla teoria dell’offerta, secondo la quale il motore della crescita è la produzione, il cui incremento, attraverso l’aumento dell’occupazione, determina una ricchezza crescente e diffusa. Dato che la produzione dipende dagli investimenti, la teoria dell’offerta postula che si dia risparmio, cioè denaro sottratto ai consumi. Come alimentare il risparmio senza incidere sui consumi di massa, essenziali ai fini del mantenimento del modello di sviluppo americano? La risposta del neoliberismo è stata netta: attraverso la riduzione delle tasse, soprattutto a favore dei ceti più agiati, ritenuti più razionali come investitori. Le conseguenze del reaganismo sono state serie: la crescita non è decollata, mentre il bilancio pubbico e la bilancia commerciale statunitense hanno accumulato un passivo inquietante. A ciò si è aggiunto, dalla metà degli anni Novanta, il gioco perverso della Borsa, che ha consentito agli americani di elevare il tasso di consumo sulla base di futuri guadagni immaginari, vale a dire sui debiti. Dato che i capitali investiti in Borsa hanno assicurato un boom economico gigantesco, la teoria dell’offerta è sembrata per alcuni anni corrispondere ad una verità fattuale. Il gioco speculativo borsistico, però, non poteva andare avanti all’infinito.
La crisi è subentrata nel primo semestre del 2000, associata all’intuizione dei piccoli investitori di essere stati truffati. Il pericolo di una recessione di dimensioni enormi è stata scongiurata casualmente dall’attentato dell’11 settembre, in conseguenza del quale, prevedendo l’aumento critico dell’insicurezza che già serpeggiava, il governo ha invitato tutti i cittadini a consumare il più possibile per il bene della patria. Da allora in poi, la mania del consumo si è estesa a macchia d’olio. Si tratta certo di un fenomeno psicosociologico, che soddisfa motivazioni soggettive. Rimane il fatto che, ancora oggi, un rallentamento dei consumi statunitensi potrebbe far crollare i valori borsistici e precipitare l’America, gravata di debiti, nella recessione. Dato questo sfondo, la saggezza individuale conta poco.
Gli americani sanno, anche senza rendersene conto, che avendo imboccato la via di vivere indebitandosi non possono tornare indietro. Il circolo vizioso è questo: acquistando prodotti importati, gli americani inviano all’estero dollari che vengono reinvestiti in Buoni del Tesoro, vengono cioè prestati loro dagli altri paesi (Giappone, Tigri Asiatiche, Cina, India, ecc.). Se essi rallentano le importazioni, rischiano di subire il disinvestimento dei Buoni del tesoro e la svendita dei dollari, con effetti catastrofici sull’economia. La “mania” americana è dunque una mania indotta e, in una certa misura, obbligatoria. Tenendo conto di questo, non sorprende che essa non produca livelli di appagamento adeguati. Certo, c’entrano i ritmi di lavoro necessari per produrre il reddito da consumare. Ma, tranne per una fascia della popolazione straricca (il 10%), le spese per consumi eccedono i redditi e sono realizzate sulla base dell’indebitamento. Oltre a quello pubblico, infatti, gli Stati Uniti detengono anche il primato dell’indebitamento privato. Insomma, si consuma a rotta di collo, ma con la paura di non potere estinguere i debiti contratti.
Al consumismo, in breve, si associa un’ansia elevata riferita alla possibilità, tutt’altro che remota, di dovere un giorno o l’altro pagare il conto con una brusca restrizione dei consumi. Tale possibilità non è tanto incresciosa per la felicità, molto relativa, che si ricava dalla disponibilità di beni che, di fatto, non servono a nulla, bensì per la perdita di prestigio sociale che si associa ad essa. Per gli statunitensi, di fatto, più che per ogni altro popolo occidentale, l’apparire è infinitamente più importante dell’essere. Non è detto ovviamente che i cittadini americani si rendano conto della trappola in cui si sono cacciati (e hanno cacciato il mondo costretto a pagare i loro consumi). Anche se non se ne rendono conto, essi seguono i comportamenti rituali dettati dalla logica del sistema. La situazione statunitense è del tutto particolare.
Negli altri paesi occidentali, la spinta al consumismo, alimentata da un battage pubblicitario incessante, è piuttosto forte. In essi, però, tale spinta è potentemente arginata da un’insicurezza che alcuni considerano eccessiva, ma che coincide con aspettative sull’andamento dell’economia grigie quando non addirittura nere. Anche in Europa, e particolarmente in Italia, come sa chiunque ricorda un’infelice pubblicità, si è tentato di infondere nel consumatore uno stato d’animo che lo inducesse a fare il suo dovere per il bene comune. La cosa non ha funzionato perché, giusta l’intuizione di Keynes, la domanda è in funzione del reddito, e l’Italia, già gravata da un debito pubblico rilevante, non può permettersi di vivere sulle spalle degli altri, come in parte fanno gli Stati Uniti. Il vincolo di bilancio funziona come una frustrazione del desiderio consumistico indotto dai mass-media. Paradossalmente, lo stesso sistema che punta sul consumo come motore della produzione ha manifestato sempre di più in questi anni una tendenza a favorire una distribuzione squilibrata del reddito, privilegiando la concentrazione dei capitali e l’erosione del potere di acquisto dei ceti meno abbienti e anche di quelli medi. Le conseguenze di questo fenomeno a livello di soggettività e di comportamento del consumatore sono rilevanti.
4.
Il consumo è con tutta evidenza l’espressione di un bisogno universale che riconosce la sua matrice nell’organizzazione psicobiologica dell’uomo. Ogni essere umano ha delle esigenze che egli non può soddisfare autonomamente. A queste esigenze – di ossigeno, di cibo, di riparo dalle intemperie, di un partner sessuale, ecc. -, comuni a tutti gli animali superiori, nell’uomo si aggiungono esigenze del tutto particolari: quella di accumulare beni per arginare l’ansia previsionale, di soddisfare la sua tensione verso una qualità della vita umana, di sperimentare piacere, ecc. L’uomo, insomma, non ha solo bisogni omeostatici.
Lo spettro dei bisogni umani va da un estremo – quello alimentare – vincolato ad un apporto quantitativo piuttosto limitato in quanto fisiologicamente determinato – ad un estremo opposto – quello “spirituale” – caratterizzato dal consumo di oggetti culturali del più vario genere. All’interno di questo spettro, si danno bisogni di beni materiali che soddisfano in parte esigenze fisiologiche e in parte esigenze psicologiche. Il consumismo che si è diffuso nella nostra società del benessere sarebbe incomprensibile se non si tenesse conto che, in rapporto all’indefinita ricchezza dei suoi bisogni, l’umanità è vissuta per un lunghissimo periodo – quello precedente l’avvento dell’industria – in una situazione complessivamente carenziale e frustrante. Nessun oggetto più del cibo comprova questo assunto. Due terzi dell’umanità sperimentano ancora l’incubo atavico della fame. Il terzo che è riuscito a liberarsi da tale incubo, ne è ancora affetto a livello inconscio. E’ questo il motivo che spiega il regime di sovralimentazione che caratterizza le società opulente.
E’ una trappola mentale quella che porta l’uomo a reagire alle carenze e alle frustrazioni sperimentate o depositate nella memoria collettiva con eccessi. In realtà, ogni bisogno riconosce due soglie: una inferiore, al di sotto della quale l’uomo sperimenta disagio psicofisico, e una superiore, al di sopra della quale il consumo rischia di risultare progressivamente meno soddisfacente e al limite frustrante. Dato che il sistema capitalistico si regge sulla legge dello sviluppo illimitato, è ovvio che esso debba ignorare la seconda soglia, vale a dire promuovere nell’essere umano un desiderio infinito di beni di consumo e persuaderlo che la soddisfazione di tali desideri porta alla felicità. Il problema che si è posto da alcuni decenni e che si pone attualmente è lo scarto tra l’induzione di tali desideri e l’impossibilità, intrinseca al sistema capitalistico, di favorire una distribuzione del reddito che, almeno in una certa misura, consenta di soddisfarli.
Non penso che nessuno abbia programmato una soluzione a tavolino. Però, dal punto di vista psicosociologico, è del tutto evidente che una soluzione si sta lentamente definendo, ed è, naturalmente, un rimedio peggiore del male. Tale soluzione, già ampiamente diffusa negli Stati Uniti, comincia ad essere evidente anche in Europa sotto forma di un fenomeno psicosociologico e comportamentale molto significativo: la compulsione al consumo.
C’è una sottile differenza tra il consumismo e la compulsione al consumo. Entrambi sono caratterizzati da un vissuto che identifica nell’acquisto e nel possesso dei beni un obiettivo desiderato e irrinunciabile. Rispetto al consumismo, però, che comporta un desiderio intenso la cui soddisfazione non eccede, se non in minima misura, il vincolo del reddito disponibile, la compulsione al consumo comporta il fatto che un determinato bene, che ancora non si possiede, assume un significato ossessivo, fino al punto che il soggetto avverte che, non potendo disporne, è come se gli mancasse qualcosa di essenziale per mantenere l’equilibrio. La compulsione, insomma, è alimentata dalla percezione angosciosa di una mancanza radicale e da un’astinenza che perdura, incrementandosi, finché non si realizza il possesso dell’oggetto.
L’aspetto più sorprendente della compulsione al consumo non è però legata al modo drammatico in cui viene percepito il bisogno di un oggetto, bensì al fatto che l’acquisto non produce affatto il piacere che il soggetto si aspetta. Non appena viene acquistato, infatti, l’oggetto perde il suo significato appagante. La soddisfazione del possesso si estingue rapidamente, e più o meno immediatamente compare, nell’orizzonte soggettivo, un nuovo oggetto che si configura come incoercibilmente desiderabile e necessario. In conseguenza di questo, il consumatore compulsivo si ritrova ad inseguire un miraggio che si sposta via via che egli avanza sul terreno dell’acquisizione di beni. La differenza tra consumismo e compulsione al consumo è evidente.
Per quanto il consumista possa nutrire desideri che possono definirsi superflui, egli trae dal possesso degli oggetti una qualche soddisfazione. Il soggetto affetto da compulsione al consumo, viceversa, ricava piacere, e un piacere angoscioso, solo dal desiderare gli oggetti. Egli, insomma, è preda di un’appetizione che non si conclude mai con un comportamento consumatorio piacevole. La compulsione al consumo configura, in senso proprio, la “mania” dello shopping, vale a dire un comportamento psicopatologico individuale. Via via, però, che tale comportamento, come è già evidente negli Stati Uniti e come comincia ad accadere anche in Europa, si diffonde sociologicamente, diventa difficile spiegarlo come una somma di patologie individuali.
A riguardo, Whybrow, riprendendo un tema ampiamente esplorato dalla psicosociologia critica, accenna al fatto che la mania del consumo indirizza verso gli oggetti un bisogno di felicità che può essere soddisfatto solo dalle relazioni intersoggettive. Intendendo ricavare dal possesso degli oggetti, un piacere che solo relazioni interpersonali sociali e affettive possono produrre, il soggetto si voterebbe alla frustrazione. Sarebbe dunque il progressivo isterilimento dei rapporti interpersonali affettivi la causa della compulsione al consumo. C’è del vero in questa ipotesi, anche se Whybrow trascura il fatto che l’affettività umana è programmata per stabilire vincoli significativi con la totalità del mondo: con le persone, dunque, ma anche con le cose, la natura e gli oggetti culturali. L’anaffettività in questione, dunque, sembra piuttosto di ordine globale: sembra, in altri termini, riconducibile ad un progressivo isterilimento della capacità di sentire umanamente. Anche riconoscendone la parziale fondatezza, l’ipotesi di Whybrow va completata.
La realtà è che il sistema capitalistico in questa fase di sviluppo deve soddisfare due diverse esigenze: da una parte, esso deve favorire la concentrazione dei capitali per consentirne un impiego sempre più “razionale” (includendo nella razionalità anche la pura speculazione finanziaria che lo accresce), e in conseguenza di questo deve ridurre il potere d’acquisto dei ceti meno abbienti (compresa ormai una parte del ceto medio); per un altro verso, esso non può rinunciare al volano del consumo, che impedisce le crisi più temibili, quelle da sovrapproduzione. Come conciliare queste diverse esigenze? Come forzare il consumo al di là dei vincoli di bilancio e del reddito? Si dà evidentemente una sola possibilità: spingere i consumatori all’indebitamento. A tal fine, non basta insistere su di una propaganda pubblicitaria che alimenti i falsi bisogni. E’ necessario creare una motivazione che trasformi il desiderio di consumo in compulsione al consumo.
Questa motivazione è stata identificata nell’invidia sociale, nel rendere intollerabile e squalificante il confronto con qualcuno che ha qualcosa che il soggetto desidera. Posto che questa motivazione si insedi in una soggettività, l’individuo è costretto per non stare male a consumare anche al di là del suo vincolo di bilancio. Il potenziale danno che da ciò può ricavare è ampiamente, e illusoriamente, compensato dal giungere ad avere qualcosa che qualcun altro possa invidiargli, posto che egli stesso continua ad essere roso da un’implacabile invidia. Una società competitiva modella la psicologia dei soggetti in maniera tale da eleggere a principio del piacere il confronto vincente con gli altri. Nella misura in cui tale confronto si pone sul terreno del possesso di oggetti, è evidente che esso anima il desiderio di averne di più rispetto agli altri. In quest’ottica, l’oggetto desiderato in tanto attrae irresistibilmente in quanto il possederlo significa, inconsciamente, giungere ad avere qualcosa che qualcun altro ha (essere alla pari) e che qualcun altro non ha (essere superiori).
La dinamica della compulsione al consumo si iscrive dunque nel quadro di una società che comporta una gerarchia di status riferita alla disponibilità di oggetti assunta come indizio della superiorità o dell’inferiorità individuale. Essa non ha rapporto con il piacere personale, bensì si articola sul tema del confronto sociale. Si tratta dunque dell’espressione di una relazione sociale alienata, nella quale si dà sempre qualcuno che può far soffrire perché ha di più e qualcun altro che si può far soffrire ponendolo di fronte al fatto di avere di meno. Questo può far capire facilmente la tensione ossessiva del desiderio prima dell’acquisto. Non possedendo l’oggetto, l’individuo sa che qualcun altro già ce l’ha. Circostanze queste che attivano in lui un’invidia patologica. In quest’ottica si può capire anche l’insoddisfazione che il soggetto ricava dal possesso. Nella misura in cui la tensione del desiderio attiva il sistema dopaminico – che entra in gioco in tutte le situazioni competitive -, il possesso dell’oggetto non riesce ad attivare il sistema endorfinico, che è quello da cui dipende il piacere. Perché? Perché la tensione competitiva si orienta immediatamente verso un altro oggetto che manca, che qualcun altro ha.
La compulsione al consumo maschera, insomma, un rapporto sociale distorto dall’invidia e dal desiderio di mettersi in condizione di liberarsene inducendola in qualcun altro. Rodere d‘invidia nei confronti di qualcuno e far rodere d’invidia qualcun altro: questa motivazione patologica, che non è certo nuova nella storia dell’umanità, pare che stia assumendo nella nostra società un potere sul comportamento soggettivo del tutto inconsueto. In conseguenza di essa, l’aspirazione al benessere materiale, che, in quanto bisogno autentico e universale, è stata la molla dello sviluppo capitalistico, si sta trasformando in una motivazione distorta, il cui obiettivo immaginario è giungere a non sentirsi inferiore a nessuno e a sentire che gli altri soffrono della loro inferiorità. Posto questo obiettivo, gli oggetti, per quanto ossessivamente desiderati, diventano inutili per quanto riguarda la loro capacità di produrre un appagamento umano. Essi sono solo lo strumento attraverso il quale si afferma un bisogno di socialità alienato. Ha scritto Seneca che povero non è chi ha poco, ma chi desidera di più. Se questo è vero, la nostra società opulenta è psicologicamente miserabile, e dunque infelice.
5.
Il discorso a questo punto sembrerebbe concluso. In realtà esso richiede un approfondimento. L’uso infatti di categorie psicodinamiche – come l’invidia patologica – per spiegare comportamenti psicosociologici è, nella mia ottica, lecita solo se tali categorie possono essere articolate in termini culturali. Nel caso in questione, che riguarda l’assetto delle società occidentali – democratiche e capitalistiche -, il problema è facile da risolvere. Basta ricondursi alla lezione di Alexis de Tocqueville, che identifica nell’uguaglianza il valore supremo della democrazia. Il suo pensiero è sintetizzato in maniera eccellente da Raymond Aron (Le tappe del pensiero sociologico, Mondadori, Milano 1989) in questi termini: “Ai suoi occhi, la democrazia consiste nell’uguaglianza delle condizioni. E’ democratica quella società in cui non sussistono più distinzioni di ordini e di classi, in cui tutti gli individui che compongono la collettività sono socialmente uguali, il che, del resto, non significa intellettualmente uguali, che sarebbe assurdo, né economicamente uguali che, per Tocqueville, sarebbe impossibile. L’uguaglianza sociale significa che non esistono differenze ereditarie di condizione e che ogni occupazione, ogni professione, ogni dignità, ogni onore è accessibile a tutti. L’idea di democrazia implica, dunque, ad un tempo, l’uguaglianza sociale e la tendenza all’uniformità del modo e del tenore di vita.” (p. 215) La tendenza all’uniformità del modo e del tenore di vita ha avuto, nel corso del tempo, la tendenza a prevalere su qualunque altra motivazione.
E’ questa aspirazione imitativa verso l’alto, ovvero verso i consumi dei ceti più abbienti, la matrice psicosociologica dell’invidia patologica che caratterizza la nostra società. E’ evidente che si tratta di una motivazione potente ma alienata, che privilegia l’avere rispetto all’essere. Per la maggioranza delle persone non potrebbe essere, peraltro altrimenti, poiché le pari opportunità di sviluppo, auspicate da Tocqueville e dalle forze di sinistra, non si sono mai realizzate. Il difetto di autorealizzazione conseguente alla disparità delle condizioni di partenza facilmente attiva come compenso l’invidia patologica.
Un’ulteriore citazione di Tocqueville, riportata da Aron, può essere pertinente: “L’uguaglianza fornisce quotidianamente una moltitudine di piccole gioie a ogni uomo. Il fascino dell’uguaglianza si fa sentire in ogni momentio ed è alla portata di tutti. I cuori più nobili non vi sono insensibili, le anime più volgari se ne deliziano. La passione che l’uguaglianza fa nascere deve dunque essere ad un tempo energica e generale... Penso che i popoli democratici hanno un gusto naturale per la libertà. Abbandonati a se stessi la cercano, la amano provano dolore nell’esserne privati. Ma per l’uguaglianza hanno una passione ardente, insaziabile, eterna, invincibile. Vogliono l’uguaglianza nella libertà, e se non possono ottenerla la vogliono pure nella schiavitù. Soffriranno la povertà, l’asservimento, la barbarie.” (op, cit. p. 244)
Oggi la compulsione al consumo e l’invidia patologica che la sottendono vanno aggiunte a questa triste lista.
Giugno 2005