1.
Ho già affrontato il tema della tendenza costante e universale della coscienza umana e della cultura alla mistificazione in un articolo (Sullo statuto mistificato della coscienza). Questo problema però è a tal punto intrecciato con il mio tragitto culturale e l’elaborazione teorica da rappresentare il leit-motiv che sottende tutto l’Abbecedario di scienze umane e sociali.
Sulla base dei grandi Demistificatori dell’800 (Darwin, Marx, Nietzsche, Freud), la cultura occidentale, a partire dagli anni ’60, sferrò un attacco convergente contro le pretese certezze dell’Io. L’attacco era eterogeneo perché muoveva da presupposti filosofici e metodologici diversi, che si riconducevano al marxismo, allo strutturalismo, all’esistenzialismo, all’antipsichiatria. Nonostante i presupposti diversi, e per alcuni aspetti inconciliabili, la convergenza fu tale da lasciar pensare ad un certo punto che la cultura occidentale, fortemente radicata, in conseguenza sia del Cristianesimo che dell’ideologia borghese, sul concetto dell’individuo autocosciente, consapevole e libero, potesse andare incontro ad una salutare catastrofe.
La crisi sarebbe risultata salutare nel senso di restituire all’uomo una consapevolezza definitiva della sua appartenenza alla Natura, del carattere casuale del suo esserci, della struttura e dei limiti del suo apparato mentale, dell’alienazione primaria dovuta al funzionamento della coscienza e di quella secondaria dovuta alla cultura. Certo, il prezzo da pagare per questa rivoluzione culturale sarebbe stato, a livello collettivo e individuale, pesantissimo. Si riteneva, però, che esso sarebbe stato ampiamente ricompensato da un nuovo senso dell’esistere aperto sulla frontiera della sfida, dell’avventura, della costruzione di un mondo fatto a misura d’uomo, dell’impegno di ogni soggetto sul terreno dell’individuazione.
E’ difficile spiegare perché tale catastrofe non sia avvenuta. In parte, ciò è stato dovuto al fatto che la cultura critica dell’epoca volava molto in alto rispetto alla coscienza comune. I pensatori marxisti, strutturalisti, esistenzialisti e gli stessi antipsichiatri scrivevano libri complessivamente difficili. In parte, occorre tenere conto che, nonostante l’eterogeneità dei presupposti, quella cultura era accomunata da una contestazione più o meno radicale del sistema capitalistico e della civiltà borghese, che avevano (e hanno) non pochi difensori tra le fila degli studiosi. Infine, non si può ignorare che, dalla metà degli anni ’80, si è avviata, nel contesto dell’Occidente, una restaurazione su vasta scala dei suoi valori, tra i quali campeggia ancora oggi il riferimento all’individuo libero e consapevole.
Questo mito continua ad essere difeso, di fatto, sia dalla Chiesa, che su di esso fonda il riferimento al merito e al demerito che decide il destino oltremondano del soggetto, sia dal capitalismo, che assegna al consumatore la razionalità delle scelte, sia dalla democrazia liberale, che identifica nella volontà degli elettori il potere sovrano.
Riguardo al problema dell’autocoscienza, le discipline scientifiche continuano ad oscillare tra valutazioni di segno opposto. Nell’ambito della biologia evoluzionistica, aspro ancora è il contrasto tra innatisti, che, al limite estremo, difendono un determinismo biologico radicale, e gli empiristi, che assegnano all’individuo un certo grado di libertà dall’influenza dei geni. Nell’ambito della neurobiologia, c’è chi sostiene che gran parte dell’attività cerebrale che sottende il comportamento si svolge al di fuori della coscienza, e chi, invece, pensa che il venti per cento dell’attività cosciente basti a confortare l’ipotesi che l’uomo può operare scelte libere. Nell’ambito della psicologia, esiste un analogo contrasto tra gli psicoanalisti radicale, i quali rimangono fedeli all’insegnamento freudiano, secondo il quale l’Io non è padrone in casa sua, e gli psicoterapeuti umanologi, che esaltano la capacità dell’Io di padroneggiare se stesso.
Su questo sfondo, non può non sorprendere il fatto che su una rivista divulgativa di grande diffusione (Focus di gennaio) appaia in copertina un titolo ad effetto, che fa riferimento tout-court alla Stupidità e rimanda ad un inserto piuttosto corposo.
Mi piacerebbe assumere questo indizio come segno di qualcosa che sta cambiando nell’aria, dell’intuizione della necessità di rimettere in discussione lo statuto dell’Io cosciente. Forse, però, questa illusione è desinata a cadere nel vuoto.
Riporto integralmente gli articoli (eccezion fatta per alcune immagini e tabelle) perché essi offrono comunque lo spunto per approfondire il tema della mistificazione.
2.
“Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, ma riguardo all’universo ho ancora dei dubbi.” La frase, attribuita ad Alfred Einstein espirme un’idea antica. Già nel 250 a. C. il libro biblico dell’Ecclesiaste avvertiva: “infinito è il numero degli stolti”, rivelando che il problema era già stato colto in tutta la sua gravità. Del resto, il rpimo stupido della storia fu già… Adamo: per gustare un frutto perse il Paradiso.
Sulla punta della lingua
Ma che cosa di intende per stupidità? Il concetto, istintivamente noto a tutti, sembra però sfuggire a qualunque definizione teorica. Non è il contrario di intelligenza: ci sono, infatti, persone intelligenti che, a volte, si comportano da stupide.
L’unico che è riuscito a darne una definizione convincente è stato, nel 1988, lo storico ed economista Carlo Cipolla: una persona stupida è quella che causa un danno a un'altra persona o a un gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé, o addirittura subendo una perdita. "La nostra vita è punteggiata da perdite di denaro, tempo, energia, tranquillità e buonumore a causa delle improbabili azioni di qualche assurda creatura che capita nei momenti più impensabili a provocarci danni, frustrazioni e difficoltà senza aver assolutamente nulla da guadagnare da quello che compie" scrive Cipolla. Una cosa quindi è chiara: la stupidità ha una spiccata vocazione a tradursi in azioni, ed è proprio questo a renderla così pericolosa.
Nessuna attenuante
Secondo Cipolla, che ha identificato 5 "leggi fondamentali della stupidità", le persone intelligenti tendono sempre a sottovalutare i rischi connessi alla stupidità. Che, quindi, è ancora più pericolosa della crudeltà: quest'ultima, avendo una logica comprensibile, può almeno essere prevista e affrontata.
Anche il Codice Penale non si dimostra clemente nei confronti della stupidità: i "futili motivi" costituiscono un'aggravante, e non un'attenuante, di una pena. Basta pensare ad alcuni fatti di cronaca, come il lancio dei sassi dal cavalcavia, che nel 1996 a Tortona ha ucciso una giovane donna, o l'allagamento del liceo Parini a Milano: gli autori del gesto volevano evitare un'interrogazione, ma hanno finito per danneggiare la scuola e la propria carriera di studenti. Stupidi sono anche gli "untori" di ieri e di oggi: chi, in tempi di Aids, ha rapporti sessuali non protetti, o chi non utilizza un antivirus sul proprio computer, esponendo sé e altri al contagio.
Fonte di riso
E proprio per allontanarne il timore (attribuendola ad altri) o per consolarci della sua inevitabilità, da sempre la stupidità offre ricchi spunti comici. Sono stupidi molti protagonisti di film ma ancor prima lo erano state alcune figure della letteratura (il Calandrino del Decameron di Boccaccio; o lo Zanni, servo sciocco della commedia dell'arte). E anche il protagonista della fiaba di Andersen I vestiti nuovi dell'imperatore: un sovrano (stupido) viene convinto da unsarto imbroglione a indossare un vestito stupendo, che risulterebbe invisibile agli stupidi. Ma èuna truffa: nessuno perà, pur di non ammettere la propria stupidità e contraddire l'imperatore, osa dire di non vedere il vestito: solo un bambino dice ad alta voce che il re è nudo, svelando l’inganno.
Sono stupidi i carabinieri protagonisti di molte barzellette, e lo sono spesso gli asini delle favole, da quello di Buridano (che per non saper scegliere tra due mucchi di fieno muore di fame) al ciuco in cui si trasforma Pinocchio quando smette di studiare per poter gozzovigliare.
“Le persone e i libri più sciocchi sono quelli che più ci ammaliano” notava lo scrittore Ennio Flaiano. Nell'opera teatrale La cena dei cretini, i protagonisti hanno un passatempo: cercare stupidi da invitare a cena per poi divertirsi alle loro spalle (ma alla fine sarà lo stupido a beffarli…). Dello stesso tenore è il Darwin Awards (v. riquadro sopra), riconoscimento riservato a chi ha "aiutato a migliorare il pool genetico umano rimuovendosi da esso in modo spettacolarmente stupido". Un esempio? II 33enne inglese che l'anno scorso si è inferto una ferita mortale mentre verificava se il proprio giubbotto fosse "a prova di coltellata".
Come funziona?
Ma attenzione: ridere della stupidità potrebbe renderla "simpatica" e quindi portare a sottovalutarla ulteriormente. Se infatti, nella finzione, lo stupido è perfettamente riconoscibile, ben diversa è la situazione nella realtà. «È fondamentale renderci conto di che si tratta, per poter controllarne meglio le conseguenze» avverte Giancarlo Livraghi, che da una decina di anni (anche grazie alle segnalazioni di un centinaio di internauti) sta ampliando le intuizioni di Cipolla. «Non potremo mai sconfiggerla del tutto, ma i suoi effetti possono essere meno gravi se capiamo come funziona». La stupidità, infatti, ha 3 caratteristiche.
1) La stupidità, anzitutto, è inconsapevole e recidiva "Il pericolo della stupidità deriva anche dal fatto che lo stupido non sa di essere stupido" spiega Cipolla. "Ciò contribuisce a dare maggiore forza ed efficacia alla sua azione devastatrice". Lo stupido infatti non riconosce i propri limiti, resta fossilizzato nelle proprie convinzioni, non sa cambiare. Come Fantozzi, l'impiegato creato da Paolo Villaggio, che ripete all'infinito gli stessi errori.
«In ambito clinico la stupidità è la malattia peggiore, perché è inguaribile» spiega Luigi Molli, docente di psicologia della comunicazione all'Università di Milano-Bicocca. «Lo stupido è portato a ripetere sempre gli stessi comportamenti perché non è in grado di capire il danno che fa e quindi non può autocorreggersi». Come dice il comico Flavio Oreglio: "Lo stupido è come il diamante: è per sempre".
2) La stupidità è anche contagiosa. Le folle, cioè, sono molto più stupide delle singole persone che le compongono. Questo spiega anche come interi popoli (come avvenne per la Germania nazista o l'Italia mussoliniana) possono essere facilmente condizionati a perseguire obiettivi folli. Un fenomeno ben noto in psicologia. «Il contagio emotivo proprio del gruppo diminuisce le capacità critiche” spiga Anolli. «Si verifica la "Polarizzazione della presa di decisione": si sceglie la soluzione più semplice, che spesso è anche la meno intelligente». Come dicevano i Romani, Senatores boni viri, Senatus mala bestia: anche se i singoli senatori sono brave persone, il Senato è una brutta bestia.
3) Oltre alla collettività, c'è un altro fattore che amplifica la stupidità: trovarsi in una posizione di comando "II potete rende stupidi" scriveva il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche. Perché? «Le persone al potere sono spesso indotte a pensare che proprio perché sono al potete sono migliori, più capaci, più intelligenti, più sagge del resto dell'umanità» spiega Livraghi. «Inoltre sono circondate da cortigiani, seguaci e profittatori che rinforzano continuamente questa illusione». Così chi è al governo arriva a compiere le più gravi sciocchezze nell'accondiscendenza generale. Inoltre "il potere - politico, economico o burocratico - accresce il potenziale nocivo di una persona stupida` avverte Cipolla. L'esempio estremo è rappresentato nel film II dottor Stranamore di Stanley Kubrick, dove un gruppo di stupidi ai massimi vertici attiva a innescare l"ordigno fine del mondo" che causa la scomparsa del pianeta. Ma non serve scomodare la fantascienza. La storia, infatti, pullula di clamorosamente stupidi errori di valutazione.
Un esempio? Luigi XVI, il 14 luglio 1789 (giorno della Presa della Bastiglia, l'evento che diede inizio alla Rivoluzione francese), appuntò sul suo diario: "Oggi niente di nuovo”. Lo stesso ottuso se ottuso senso so di invincibilità potrebbe aver condizionato il generale George Armstrong Custer ad attaccare gli indiani nel Montana nel 1876 (vicino al torrente Little Big Horn centinaia di uomini dell'esercito degli Usa furono massacrati dall'alleanza Sioux-Cheyenne) o Napoleone a invadere la Russia nell'inverno del 1812 (durante il quale la Grande armata francese venne decimata dal freddo e dagli stenti). Senza contare le disfatte, prevedibili, di Caporetto, del Vietnam e... dell'Iraq di oggi.
E se lo stupido fossi io?
A questo punto, però, urge una riflessione. Poiché una caratteristica degli stupidi è non sapere di esserlo, se pensiamo di non esserlo, non possiamo escludere che invece lo siamo. Almeno qualche volta o sotto qualche aspetto. «Si tende a etichettare come stupidi tutti i comportamenti che non rientrano nei nostri schemi mentali ordinari. Ma pensare che solo gli altri siano stupidi è un circolo vizioso altrettanto stupido» osserva Livraghi. «Invece, in ognuno di noi c'è un fattore di stupidità che è sempre maggiore di quello che pensiamo».
Ma potrebbe non essere necessariamente un guaio. Probabilmente, anzi, la stupidità ha perfino una funzione evolutiva: serve a farci compiere atti avventati, che in molti casi possono essere più utili che il non fare nulla. «La stupidità, in quanto atteggiamento irrazionale, consente all'uomo di accettare sfide che normalmente non accetterebbe. E la deviazione dalla stupidità porta alla genialità e all'invenzione di soluzioni innovative» osserva il manager Francesco Betti. La stupidità, insomma, ci permette di sbagliare, e nell'esperienza dell'errore c'è sempre un progresso della conoscenza. Il punto chiave per annullare la stupidità, quindi, è riconoscere i propri errori e correggersi. Come diceva lo scrittore francese Paul Valery: "C'è uno stupido dentro di me. Devo approfittare dei suoi errori".
Ma come? Uno studio dell'Università di Exeter (Gran Bretagna), pubblicato a luglio sul Iournal of Cognitive Neuroscience, ha identificato un'area del cervello, nella regione temporale della corteccia, che si attiva quando si sta per ripetere un errore già commesso: un segnale di allarme che ci impedisce di ricadere negli stessi sbagli. Se alla base della stupidità ci fosse un'anomalia in questa regione, forse un giorno potremmo correggerla con un intervento. A meno di non finire nelle mani di un chirurgo stupido...
Per saperne di più:
Carlo Maria Cipolla, Allegro ma non troppo (il Mulino).
Giancarlo Livraghi, Il potere della stupidità (Monti & Ambrosini).
Francesco Betti, Le strategie della stupidità (Etas).
Intelligenti o stupidi? E se stupidi, quanto? Chi crede di cavarsela con un frettoloso esame di coscienza, è pregato di ricredersi. Non basta mettersi davanti allo specchio e porre al proprio riflesso il fatidico quesito. Tutti siamo disposti ad ammettere di essere un po' matti, ma stupidi nessuno. E invece, spulciando nella letteratura scientifica, si scopre che un po' stupidi lo siamo tutti, chi per un verso e chi per l'altro; ma il cervello è fatto in modo da nasconderti questa realtà con grande cura. Si scopre anche che, tutto sommato, è meglio così.
Stupido alla guida
Un gigantesco ingorgo blocca costantemente le vie cittadine e le autostrade. Le statistiche dicono che il 50% degli autisti non sa guidare: questo non riesce a posteggiare, quello procede a 20 km l'ora, l'altro occupa la mezzeria come se la strada fosse tutta sua. Ma chi non sa guidare non se ne rende conto altrimenti rinuncerebbe convertendosi ai mezzi pubblici e aumentando le proprie (e altrui) probabilità di sopravvivenza; e l'esempio può essere esteso alle piste da sci, al mondo del lavoro, al campo di calcio del dopolavoro e via elencando... Chi è tanto intelligente da capire che non sa guidare? Se intervistaste in ospedale chi è stato appena estratto dai rottami contorti di un'auto, come ha fatto Ola Svenson, psicologo della Stockolms Universitet scoprireste che nessuno, ma proprio nessuno ammette di appartenere alla categoria degli incapaci. Non solo: l'80% dei ricoverati pensa addirittura di appartenere all'élite dei guidatori con abilità superiori alla media. E la responsabilità dell'incidente? Se è vero che nessuno esita ad attribuire i successi alle proprie qualità, sono invece pochi coloro che riconoscono la responsabilità dei propri fallimenti: i più tendono a scaricarli sulla cattiva sorte o su qualche idiota che ha incrociato il loro percorso.
Ma non è tutto. Immaginate ora di essere un vero disastro in un settore: per esempio in pittura, nel nuoto, o in statistica. E immaginate di essere tanto intelligenti da ammetterlo... Non illudetevi: anche in questo caso svelerete un lato stupido. «Il vostro cervello aggirerà per voi l'ostacolo, sminuendo l'importanza di quel settore» spiega Cordelia Fine, ricercatrice presso il Centre for applied philosophy and public ethics dell'University of Melbourne, “e quella carenza non vi turberà più, perché il vostro cervello considererà superflue l'attitudine al disegno, al nuoto o alla statistica». Insomma, riteniamo che le nostre debolezze siano così comuni da rientrare nella fisiologica fallibilità umana, mentre i nostri punti di forza sono rari e speciali.
Fallibilità umana
C'è una spiegazione a questo comportamento? «Con tutta probabilità, il fallimento è il principale nemico del nostro io, della nostra autostima ed è per questo che il cervello, un gran vanesio, fa del suo meglio per sbarrare la strada a questo sgradito ospite» dice Fine.
Non deve essere una grande novità se già sul frontone del tempio di Delfi, in Grecia, era scritto "Uomo conosci te stesso, e conoscerai l'universo e gli dei". Conoscere se stessi, infatti, non è così facile: l'idea di chi siamo varia con il variare delle necessità. Nel 1989 Rasyid Sanitioso e Ziva Kunda, psicologi allora alla Princeton University nel New Jersey, mostrarono ad alcuni giovani ricercatori falsi studi che documentavano un maggior successo degli estroversi; ad altri invece mostrarono studi che premiavano gli introversi. Ebbene: qualsiasi tratto della personalità fosse presentato come la chiave del successo, gli studenti ritenevano di esserne dotati. E le informazioni contrastanti? La memoria aveva collaborato a nascondere o addirittura distruggere i dati indesiderati. Ma rimuovere i ricordi può essere pericoloso; in questo modo si rischia di sbagliare stupidamente e rovinarsi vita e carriera.
Scelte ottuse
Anche altre scelte importanti sono fatte in modo ottuso, senza valutare pro e contro, dati di fatto e statistiche reali. Sposarsi, per esempio, è una decisione che vincola per la vita. Chi, salendo le scale della chiesa o del Comune, ha precisa consapevolezza che il proprio matrimonio ha una probabilità su 2 di franare? Lì, al momento del fatidico sì, lo sanno i genitori degli sposi, i nonni, i testimoni, amici e parenti e persino l’officiante. Ma i due diretti interessati dimostrano una pervicace stolidità, convinti, come sono, che il loro sarà l'eccezione a tutte le regole. Del resto, se non ne fossero convinti, la riproduzione umana sarebbe affidata al mal funzionamento dei contraccettivi e l'Homo sapiens si sarebbe probabilmente estinto.
E la capacità di ammettere i nostri errori di giudizio? Praticamente inesistente: siamo abbarbicati alle nostre convinzioni come ancore di salvezza. Ciò che chiediamo al mondo non sono nuove sfide alle nostre ideologie politiche e sociali. Preferiamo persone, libri e quotidiani che condividano i nostri illuminati valori. Ma circondandoci di persone opportuniste riduciamo la probabilità che le nostre opinioni siano contraddette. Thomas Carretta, psicologo dell'tJniversity of Pittsburgh (Usa), ha dimostrato che, durante le udienze tenutesi al Senato degli Stati Uniti per lo scandalo Watergate, i sostenitori del presidente Richard Nixon hanno spinto questa strategia agli estremi: a mano a mano che si accumulavano le prove contro il presidente, i suoi sostenitori perdevano interesse per la politica.
Inutile disilludere
Nei vari settori della ricerca l'ottusità si presenta puntualmente: gli sperimentatori tendono a considerare una ricerca convincente e accurata se i risultati confermano il loro punto di vista, mentre la giudicheranno scadente e viziata se i risultati non concordano con le loro aspettative. Un fenomeno che rallenta non poco il progredire della conoscenza. Ma questo fattore spiega anche perché, spesso, sia inutile tentare di disilludere chi si ostina a mantenere idee palesemente sbagliate.
Tutte le volte che il nostro cervello pensa al futuro, sforna previsioni stoltamente ottimistiche. Per esempio siamo sicuri, contro ogni ragionevole dubbio, che vincerà il nostro partito politico o la squadra del cuore.
Elisha Babad, docente di psicologia educativa e sociale alla Hebrew University di Gerusalemme, ha studiato 2.000 elettori dimostrando che più si è coinvolti, e più si ritiene elevata la probabilità di successo. Se poi tutti quelli che conosciamo sono della nostra area politica, le probabilità di vittoria sembreranno ancora più consistenti.
Le previsioni autocelebrative si verificano anche al botteghino delle scommesse, dove le persone sperperano denaro, perché la capacità di giudizio è dominata dal desiderio di vincere.
Verità scomode
Perché questo stupido ottimismo del cervello? Perché ci protegge da scomode verità. «La capacità di alterare le informazioni e di autocensurare le argomentazioni fa pendere il piatto a nostro favore, e ci mantiene allegri» spiega Fine.
Ci sono in effetti persone che si avvicinano in modo straordinario alla verità su di sé e sul mondo. Hanno di sé una percezione equilibrata, sono imparziali quando si tratta di attribuire le responsabilità di successi e faIlimenti ed effettuano previsioni realistiche per il futuro; sono la testimonianza vivente di quanto sia rischioso conoscere se stessi: si tratta, infatti, dei soggetti clinicamente depressi. Martin Seligman, docente di psicologia alla University of Pennsylvania a Filadelfia, ha dimostrato che quello che chiama lo "stile esplicativo" pessimistico è diffuso fra i depressi: quando falliscono se ne assumono la colpa, si danno dello stupido e del buono a nulla e sono convinti che questa situazione durerà per sempre.
E quali sono risultati di tanta (talvolta eccessiva) onestà intellettuale? Deborah Danner, ricercatrice dell'University of Kentucky a Lexington. ha preso in esame gli effetti sulla longevità di 180 novizie americane ottimiste e pessimiste: quanto più ottimiste erano le religiose, tanto più a lungo vivevano; le più gioviali sono vissute in media quasi un decennio più delle consorelle pessimiste. Certo, essere realisti e al tempo stesso sereni e ottimisti sarebbe meglio; ma non c'è dubbio: talvolta, un po' di stupidità fa bene.
Per saperne di più:
Cordelia Fine, Gli inganni della mente (Saggi Mondadori). E meglio non fidarsi del cervello.
3.
Al solito, gli articoli mescolano ad alcune verità incisive (tutti siamo stupidi, indipendentemente dall’intelligenza, dalla cultura e dall’immagine che abbiamo di noi stessi) non poche amenità (è meglio essere un po’ stupidi, non pensare troppo e non porsi troppi problemi per non cadere in depressione).
E’ singolare, tra l’altro, che la bibliografia rimandi ad opere recenti, complessivamente di mediocre valore, ed ignori del tutto i grandi Demistificatori.
Occorre anzitutto rimediare a questa lacuna. Ho scritto altrove che conoscere in profondità le opere di Darwin, Marx, Nietzsche e Freud (che andrebbero poi integrate dalla lettura di Lévi-Strauss, M. Foucault, F. Braudel, E. Fromm, I. Illich, S. Y. Gould, ecc.) è un impegno intellettualmente oneroso al quale occorre dedicare una vita. Penso che non si possa chiedere uno sforzo del genere agli esseri umani. Per acquisire però un’attrezzatura critica demistificante, basterebbe leggere almeno: la prima parte de L’Origine dell’Uomo di Darwin, l’Ideologia tedesca e i Manoscritti economico-filosofici di Marx, Al di là del bene e del male e Genealogia della morale di Nietzsche, L’avvenire di un’illusione e Il disagio della Civiltà di Freud, Psicologia della società contemporanea di Fromm; per una storia dei bisogni di Illich. L’impresa impegnerebbe - tra lettura, riflessione, elaborazione, assimilazione - poco più di un semestre.
L’impresa potrebbe essere agevolata dalla lettura del mio Abbecedario di Scienze Umane e Sociali, che è il tentativo di un nano di allargare un orizzonte concettuale inerpicandosi sulle spalle dei Giganti e integrandolo con i dati forniti dalla neurobiologia e dalla teoria dei bisogni intrinseci.
Quale utilità potrebbe avere uno sforzo del genere? In quale misura un singolo individuo può diminuire (senza la pretesa di azzerarlo) il suo tributo alla stupidità?
Cerco di rispondere senza ripetere quanto ho già scritto nell’articolo sullo statuto mistificato della coscienza. Affronto il discorso per la via più impervia, quella che comporta la presa d’atto che anche i grandi Demistificatori sono caduti nella trappola della mistificazione.
La lettura di Darwin offre la possibilità di disintossicarsi da qualunque forma di antropocentrismo. Frutto casuale dell’evoluzione naturale, l’uomo non può pretendere, né come appartenente ad una specie singolare né come individuo, di avere un valore straordinario. Egli è un animale impegnato come tutti gli altri a sopravvivere e a perpetuarsi, e costretto più di essi, in conseguenza della sua sprovvedutezza istintuale, a darsi da fare per trasformare l’ambiente adattandolo ai suoi bisogni.
Utile per dare senso all’ansia esistenziale che circola al fondo della mente umana, Darwin, però non va preso alla lettera. Egli stesso ha pagato un prezzo alla mistificazione sotto forma di ossessione gradualistica, vale a dire di una concezione dell’evoluzione che, non potendo comportare salti di qualità, lo ha indotto a ridurre al massimo grado le differenze delle facoltà mentali tra gli altri animali e l’uomo.
Demistificare Darwin significa mantenere il riferimento all’uomo come essere casuale e insignificante nell’economia dell’Universo e, al tempo stesso, prendere atto di un apparato mentale, che si può attribuire ad un “salto” qualitativo dell’evoluzione, dotato di potenzialità emozionali e cognitive del tutto incommensurabili rispetto agli altri animali.
Quando legge Darwin, Marx, che ne rimane entusiasta pur rendendosi conto del tributo dell’evoluzionismo darwiniano al pensiero di A. Smith, ha già fatto da tempo i conti con qualunque suggestione trascendente. Il suo materialismo è radicale, ma non rozzo. Egli intuisce che, dotato di potenzialità del tutto particolari, lo sforzo dell’uomo di adattare l’ambiente ai suoi bisogni ha prodotto una seconda natura – la storia – che, sotto forma di cultura materiale e “spirituale” ( religione, filosofia, letteratura, arte, idee, valori, pregiudizi, luoghi comuni, ecc.) fascia totalmente il suo essere. Egli si rende conto che la cultura, pur promuovendo l’adattamento sotto forma di civilizzazione, ha prodotto la separazione dell’uomo dalla Natura, dalla sua stessa originaria natura e dall’altro: ha prodotto, insomma, l’alienazione che lo spinge a “naturalizzare” la cultura e ad assolutizzarla come se essa coincidesse con una realtà poco o punto modificabile.
Lottare contro l’alienazione, che è la demistificazione promossa dal pensiero di Marx, significa restituire all’uomo la consapevolezza di essere al tempo stesso un prodotto della Natura e della Storia e mobilitarlo verso l’obbiettivo di una compiuta naturalizzazione dell’uomo e umanizzazione della natura. Tale obbiettivo postula che la coscienza umana sgombri il campo da tutte le illusioni in cui è stata recintata dalla cultura e in cui essa stessa si recinta.
Marx stesso però è caduto nella trappola della mistificazione nel momento in cui ha avuto bisogno di pensare, sulla scia dell’hegelismo, che la storia umana non potesse non gravitare “fatalmente” e, da ultimo, raggiungere quell’obbiettivo. Il determinismo storico di Marx, per quanto fondato su di un umanitarismo radicale, o, forse, proprio per questo, ha assegnato alla vicenda storica della specie umana un fine incompatibile con la sua comparsa casuale. Non è illecito, ancora oggi, ipotizzare utopisticamente che il regno della libertà e della giustizia potranno realizzarsi. Dato però il carattere “sperimentale” della specie umana, nulla vieta di pensare che essa possa anche operare scelte tali da allontanarsi piuttosto che approssimarsi a quel regno o addirittura compromettere definitivamente la sua sopravvivenza.
Nietzsche, in conseguenza del demone della sua genialità, è fieramente avverso a qualunque forma di egualitarismo di stampo cristiano, borghese o socialista. Egli sa che, essendo ogni individuo unico e irripetibile, le potenzialità emozionali e intellettive sono distribuite secondo uno spettro che comporta, in una minoranza di soggetti iperdotati, una sorta di incompatibilità con qualsivoglia codice normativo.
In termini contemporanei, è facile annoverare Nietzsche tra i pensatori che hanno contribuito a valorizzare il bisogno di individuazione. Purtroppo, però, egli lo valorizza contrapponendolo frontalmente all’appartenenza, che riconduce ad un deteriore istinto gregario. In conseguenza di questo, l’individuazione diventa un fatto elitario che concerne solo coloro che, dotati di una volontà di potenza, sono in grado di affermare se stessi contro tutto e contro tutti.
Già questa si può ritenere una definizione ideologica del bisogno di individuazione. Ma c’è di peggio. Affascinato dalla volontà di potenza, Nietzsche assegna un valore positivo a tutte le sue manifestazioni, quindi non solo alla passione della conoscenza che porta a mettere in gioco il senso comune e le convenzioni sociali, o alle intuizioni morali che consentono di agire un comportamento differenziato rispetto al modello normativo vigente in una determinata società, ma anche all’egoismo, alla sopraffazione, alla violenza, alla guerra.
Subordinato alla volontà di potenza, l’individuazione diventa pertanto uno strumento di selezione culturale che perpetua quella naturale.
La mistificazione in cui cade Nietzsche è, per l’appunto, di ritenere che la cultura non debba arginare in alcun modo la legge naturale del più forte, e che ogni tentativo di arginamento coincida con un processo di decadenza che può rallentare l’avvento di una nuova specie selezionata, aristocratica. Egli ignora che nell’anima umana c’è anche l’empatia (che non ha nulla a che vedere con la compassione cristiana), la quale comporta l’identificazione col più debole e non già la tendenza a prevaricarlo e ad usarlo.
Non c’è da sorprendersi che Freud abbia ammirato tanto Nietzsche. Il problema è che lo ha ammirato prevalentemente per quanto riguarda la parte caduca del suo pensiero. Nella volontà di potenza nietzschiana, Freud legge l’espressione delle pulsioni che giacciono al fondo della mente e rappresentano la natura umana.
Le pulsioni tendono alla loro soddisfazione senza alcun rispetto di qualsivoglia principio di realtà. Esse sono cieche, irrazionali e perpetuamente attive.
Posto questo assunto ideologico, nel quale, oltre che l’influenza di Nietzsche, è agevole identificare anche quella di Hobbes, l’uomo è un essere in sé e per sé asociale e antisociale, la cui natura va sottoposta alla frustrazione e al controllo della società e della cultura per evitare uno stato permanente di bellum omnium contra omnes. Per quanto, però, la civilizzazione possa procedere, essa dovrà sempre e comunque fare i conti con le pulsioni, che rappresentano un residuo animalesco insopprimibile.
La mistificazione di Freud, che muove da una cieca adesione alla concezione antropologica borghese, risente a tal punto delle circostanze storiche che, dopo la prima guerra mondiale, egli sente addirittura l’esigenza di rielaborare la teoria pulsionale e di assumere l’istinto di morte come pulsione primaria che l’eros tende ad arginare per scongiurarne gli effetti catastrofici.
Nulla dà la misura di quanta stupidità può esservi in un genio della frase seguente, tratta da Il disagio della civiltà:
“L'uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d'amore, capace al massimo di difendersi quando è attaccata; è vero invece che bisogna attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività. Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale soccorritore e oggetto sessuale, ma anche un oggetto su cui può magari sfogare la propria aggressività, sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, abusarne sessualmente senza il suo consenso, sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo e uccidere. Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestare quest'affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia? Questa crudele aggressività è di regola in attesa di una provoca, oppure si mette al servizio di qualche altro scopo, che si sarebbe potuto raggiungere anche con mezzi meno brutali. In circostanze che le sono propizie, quando le forze psichiche contrarie che solitamente la inibiscono cessano di funzionare, essa si manifesta anche spontaneamente e rivela nell'uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto della propria specie"
Cosa c’è di infinitamente stupido in queste affermazioni apodittiche che sono un prontuario di luoghi comuni ancora oggi attivi nel modo di vedere di molti cittadini? L’ho scritto nell’Abbecedario: se l’uomo fosse una bestia selvaggia (per esempio un lupo) sarebbe infinitamente più rispettoso del simile…
4.
Da questa breve sintesi, risulta chiaro che anche i grandi Demistificatori hanno pagato il loro prezzo alla stupidità umana. Attraverso essi, che pure hanno esplorato con coraggio territori poco praticati o sconosciuti, risulta più chiaro che cosa si debba intendere con questo termine. La mistificazione, nel loro pensiero, si può fare risalire, per un verso, a presupposti culturali impliciti nel loro modo di essere (il moderatismo di Darwin, la tensione utopistica di Marx, l’avversione di Nietzsche nei confronti del Cristianesimo, il pessimismo antropologico di Freud), e, per un altro, ad un bisogno che altrove ho definito ideologico e che consiste nel non tollerare contraddizioni e lacune che incombono su una visione del mondo con una carica minacciosa che sembra poterla invalidare, se non addirittura disintegrare.
Questo bisogno è assolutamente evidente in Darwin, per il quale ammettere la possibilità di salti evoluzionistici repentini significava invalidare la selezione naturale, e in Freud, per il quale attribuire all’uomo un bisogno sociale primario avrebbe significato non solo dovere rinunciare alla teoria pulsionale ma mettere in discussione la civiltà borghese nella quale credeva. Per Marx e Nietzsche il discorso è più complesso. Marx non riesce a tollerare l’idea che le ingiustizie del mondo possano essere irreparabili e destinate a riprodursi per sempre. Deve pertanto semplificare la storia per leggere in essa un movimento che, inesorabilmente, sia pure con il concorso degli uomini, giungerà al regno della giustizia. Nietzsche, antisistemico per eccellenza, non tollera che l’umanità, nella sua evoluzione, possa arrestarsi su di un registro di un universale appiattimento borghese sotteso da un ipocrito riferimento ai valori cristiani. Non tollera, in breve, la possibilità, assolutamente reale, che gli uomini possano rimanere istupiditi per sempre dalla loro esigenza di semplificare le cose e dalla cultura che se ne fa carico.
E’ sorprendente che geni di grande statura abbiano avvertito l’esigenza di far quadrare i conti del loro pensiero colmando le contraddizioni e le lacune con una strategia inconsapevole di mistificazione.
Se questo però è accaduto, non c’è da sorprendersi che accada solitamente ai comuni mortali. Il bisogno ideologico sacrifica la complessità del reale sull’altare di un’esigenza primaria di unità e di coesione che fa anzitutto riferimento all’io e si estende poi alla sua visione del mondo.
Non penso sinceramente che si tratti di un bisogno cognitivo. Al di sotto di esso preme, presumibilmente, una terribile e perpetua paura di cadere in confusione, di disorientarsi e di vedere sgretolata ogni certezza.
La stupidità costitutiva della coscienza umana penso che sia una prova evidente della sua genesi casuale.
A noi fa piacere pensare che, essendosi trovato a disporre di un cervello evoluto e potente, l’uomo lo abbia utilizzato e lo utilizzi per assicurarsi un controllo razionale – strumentale e culturale – sulla realtà. Ma le cose, forse, sono andate diversamente.
Il cervello umano è evoluto casualmente. Le potenzialità adattive che esso implica, e che hanno permesso alla specie umana di sopravvivere, erano limitate all’empatia, che ha prodotto la solidarietà e la cooperazione di gruppo, alla costruzione di utensili di immediata utilità, e al linguaggio, che ha permesso la comunicazione tra i membri del gruppo e la trasmissione della cultura. Altre potenzialità, implicite nella struttura del cervello, come per esempio l’immaginazione e il pensiero riflessivo, non avevano alcun significato adattivo. Esse, casomai, potevano comportare solo, com'è accaduto, il sopravvenire di una consapevolezza esistenziale ansiogena. L’uomo si è trovato semplicemente a disporne e ad usarle, spostandosi progressivamente sul terreno del dare senso al mondo e a se stesso e, dato che un senso ultimo non si dà, ha dovuto necessariamente mistificare, vale a dire recintarsi in una rassicurante gabbia di certezze assolute.
Se questo è vero, un buon uso della mente non può prescindere dalla necessità che l’uomo ha di tutelarsi rispetto ad un congegno troppo drammaticamente aperto, a livello inconscio, sulla frontiera della complessità. Ciò però non contrasta, o non dovrebbe contrastare con l’accettare una sfida intrinseca alla sua struttura, e cioè con la disposizione a cogliere nella contraddizione non già una minaccia alla stabilità dell’Io, ma uno spiraglio verso un modo di vedere e di vivere un po’ meno stupido.