Cervello, Mente e Infinito
1. Il problema dell’Infinito
L’intuizione emozionale dell’Infinito, vale a dire di “qualcosa” che non ha fine, limite, confine, circola nella mente umana presumibilmente da sempre, da quando gli esseri umani, dotati di un cervello del tutto particolare, al calar della notte, rivolgevano lo sguardo al cielo stellato e si accoccolavano stretti tra loro per arginare la paura di essere stati “gettati” in un mondo affascinante, ma anche ostile e denso di pericoli. Gettati da chi? Paradossalmente, da un Cervello singolare giunto a sentire quel “qualcosa”, a trascendere il mondo della percezione, del qui ed ora in cui vivono gli altri animali.. Di questo trauma originario, l’Uomo ancora oggi non è riuscito a farsi una ragione.
Molti mali dell’umanità, di fatto, sono riconducibili alla difficoltà di accettare lo scarto tra l’intuizione emozionale dell’Infinito e la dimensione esistenziale della finitezza, che implica il limite e l’imperfezione. Tale difficoltà è del tutto evidente a vari livelli.
A livello soggettivo, la non accettazione del limite è la caratteristica essenziale di qualunque esperienza perfezionistica. Anche se sa che la perfezione non esiste, l’individuo è sollecitato dall’angoscia a perseguirla fino al limite inquietante del delirio di onnipotenza.
Un delirio di onnipotenza è implicito anche nel sistema economico nel quale viviamo – il Capitalismo – che ha come obbiettivo lo sviluppo illimitato della ricchezza, incompatibile con il fatto che le risorse naturali da utilizzare sono scarse.
Nella misura in cui questo delirio si estende a tutto il mondo all’insegna della globalizzazione, esso pone in luce un altro aspetto inquietante: l’etnocentrismo di tutte le culture, ciascuna delle quali ritiene di essere, se non addirittura perfetta, vicina alla perfezione e quindi superiore a tutte le altre.
L’inquietudine prodotta dall’apertura della mente umana a “qualcosa” che trascende il finito spiega la presenza costante del tema dell’Infinito nella storia della cultura.
Nell’Abbecedario ho scritto:
“Sull'infinito ci sguazzano da sempre, oltre che i preti, che hanno un filo diretto con l'al di là, i filosofi, i matematici, i fisici, gli astronomi.”
Il tema dell’Infinito, di fatto, è stato egemonizzato dai teologi e dai filosofi spiritualisti per ricavarne la prova che nell’uomo esiste una dimensione non riducibile all’organizzazione biologica – l’Anima, insomma -, intesa come riflesso di un Essere Supremo o del Tutto.
Da Galilei in poi, esso è entrato a pieno titolo nell’ambito della scienza come problema cosmologico: ancora oggi, di fatto, gli astronomi e i fisici si chiedono se l’Universo è finito o infinito.
Nell’Ottocento, un genio travagliato da disturbi psichici, G. Cantor, si è dedicato all’Infinito matematico, scoprendo verità che ancora oggi inquietano (per esempio che si danno Infiniti di diversa grandezza).
L’Infinito può essere dunque affrontato sotto il profilo ontologico, cosmologico e matematico.
A noi qui interessa l’aspetto psicologico, vale a dire la presenza dell’intuizione emozionale dell’Infinito nell’orizzonte di ogni soggetto. Di questo problema sorprendentemente non c’è traccia nei trattati di Psicologia.
Anche la psicoanalisi non ha dedicato grande attenzione ad esso. Sollecitato da un intellettuale (Romain Rolland), Freud archiviò il problema riconducendolo al sentimento oceanico che il bambino sperimenta nel rapporto originariamente fusionale con la madre. Un solo psicoanalista (I. Matte Blanco) ha posto l’Infinito al centro della sua attenzione, giungendo però a conclusioni non condivisibili perché l’apparato mentale di cui parla sembra creato da Dio più che dalla natura.
Lo sviluppo della neurobiologia ha spostato il discorso su un terreno indagabile. Se tutto ciò che l’uomo può sentire, fantasticare, pensare ha origine nel funzionamento del Cervello, anche l’intuizione emozionale dell’Infinito va ricondotta alla singolare struttura di questo organo.
2. Infinito e complessità del cervello
Affronterò il tema da un punto di vista evoluzionistico, quindi materialistico. Questo approccio, ritenuto in passato del tutto improprio, oggi appare possibile perché la neurobiologia offre dati che consentono di cominciare a capire la complessità funzionale di un organo che pesa poco più di un kilogrammo. Tale complessità dipende da una particolare organizzazione strutturale, riguardo alla quale uno studioso (J. Barrows, Infinito, Mondadori, Milano 2005) ha scritto:
“Non c’è alcun limite definito a ciò che possiamo pensare e alle fantasie della nostra mente… Naturalmente, nonostante le opinioni in contrario, c’è soltanto un numero finito di pensieri che possiamo avere. Il numero è immenso – probabilmente il numero più grande che abbiate mai visto – ma non di meno finito. Conteggiando il numero delle configurazioni neurali che il cervello umano può ospitare, si è stimato che sia in grado di rappresentare circa 1070.000.000.000.000 “pensieri” possibili... Il cervello è piuttosto piccolo, contiene solo 1027 atomi circa, ma la sensazione che abbiamo di poter pensare senza limiti deriva non tanto da questo numero, quanto dall’immensità del numero totale delle connessioni che possono stabilirsi tra gruppi di atomi.”
Il cervello contiene 100 miliardi di cellule (i neuroni) tra i quali si dà una fittissima rete di connessioni, le sinapsi, che rappresentano canali attraverso i quali possono scorrere degli impulsi. Il numero enorme citato da Barrows è, per l’appunto, il numero delle connessioni sinaptiche.
L’attività del cervello è massiva: essa coinvolge sempre la totalità della struttura, anche se il funzionamento attiva un’area (per esempio quella della vista) più delle altre. Nel cervello scorrono una quantità straordinaria di impulsi che coincidono con contenuti psichici: emozioni, pensieri, memorie, immagini. Per fortuna, la coscienza è al riparo da questo bombardamento che la immergerebbe in uno stato confusionale permanente in virtù di meccanismi molteplici di difesa. Essa letteralmente galleggia su questo flusso caotico, di cui ha una vaga consapevolezza. Vaga, ma certa come attestano alcuni indizi.
Il primo è fornito dalla psicopatologia ed è rappresentato dalle ossessioni, vale a dire idee, pensieri, immagini sentimenti, ricordi o impulsi che attraversano la mente iterativamente e automaticamente senza che il soggetto li riconosca come prodotti della sua coscienza e, spesso, contro la sua volontà.
L’affiorare a livello cosciente delle ossessioni, la cui varietà è indefinita e, in alcuni casi, di straordinaria intensità, attesta che il mondo interiore è molto più attivo e caotico di quanto solitamente si pensa.
Un secondo indizio è l’insonnia “patologica”, espressione di un disagio psichico riconducibile a turbolenze emozionali che inibiscono i meccanismi che la natura ha predisposto perché avvenga il “distacco della spina” dal mondo esterno. Essa è angosciosa non solo perché impedisce al cervello di riposare, ma soprattutto perché il soggetto è invaso da un tumulto interiore che non riesce a padroneggiare. Intuisce, insomma, il “rumore di fondo” dell’attività cerebrale ed è preda di pensieri ed emozioni incontrollabili.
Anche indipendentemente dall’insonnia “patologica”, capita a chiunque nel corso della vita di andare a letto e di rendersi conto che la mente, per motivi quasi sempre oscuri e indecifrabili, ha deciso di restare sveglia e attiva del tutto indipendentemente dalla sua volontà. Anche se occasionale, una circostanza del genere fa toccare con mano un lavorio mentale sotterraneo che mortifica la presunzione dell’io cosciente di essere padrone di sé.
Un terzo indizio è lo stato d’animo che tutti sperimentiamo quotidianamente e stabilmente, come un filo continuo dell’esperienza soggettiva, e che può essere sommariamente qualificato: si è più o meno su o giù, sereni o inquieti, vitali o apatici, euforici o tristi, ecc. Lo stato d’animo è l’indizio immediato dell’attività della mente al di sotto della coscienza: un’attività che sfugge al nostro controllo e coinvolge processi di pensiero, emozioni, memorie, immagini, ecc. Solo raramente esso può essere interpretato in rapporto a determinate circostanze di vita. Più spesso, esso, soprattutto se va incontro a repentine fluttuazioni non dipendenti da eventi esterni, appare incomprensibile ma non modificabile da parte della volontà.
Sentiamo, insomma, che qualcosa dentro di noi si muove di continuo, ma non sappiamo cosa.
Un altro indizio della complessità del mondo interiore, infine, è l’attività onirica.
Ogni cervello, quando la coscienza è fuori gioco, produce un’ora e mezzo di sogni ogni notte in sequenze di circa quindici minuti. L’esperienza onirica è a tal punto consueta che noi non ci meravigliamo più di sognare. Ma cos’è di fatto un sogno? E’ una prolungata esperienza allucinatoria nel corso della quale la mente produce mondi immaginari di ogni genere. Gran parte dei sogni sono banali. Alcuni, però, pongono in luce potenzialità emozionali, cognitive e creative che, da svegli, non siamo in grado di utilizzare: potenzialità, dunque, del cervello e della mente, ma non della coscienza.
L’assuefazione al sogno, oltre ad indurci a rimuovere il dato di realtà per cui allucinare è una capacità intrinseca alla mente umana, fa sì che noi stentiamo a capire l’effetto che esso può avere avuto sui primi uomini dotati di un cervello come il nostro.
Non si va lontano dal vero ipotizzando che i primitivi abbiano ricavato dai sogni la convinzione della sopravvivenza dei defunti. Ancora oggi c’è chi pensa qualcosa del genere. Razionalmente, questa credenza fa sorridere perché implica il potere delle anime dei defunti di accedere liberamente al nostro spazio mentale. Essa, però, pone in luce un aspetto sorprendente del funzionamento mentale: la vivacità con cui si mantengono alcune memorie, che sembrano sottratte al tempo.
Capita talora di rievocare in sogno una persona con cui non si ha rapporto da molti anni, casomai un amico d’infanzia. Il ricordo cosciente è vago e sbiadito. Il sogno, invece, ce lo restituisce dal vivo, con la sua fisionomia, i suoi gesti, la sua voce. Non ci meravigliamo della memoria prodigiosa che la rievocazione onirica implica. Ma ciò attesta che abbiamo perduto la capacità di meravigliarci.
Cervello e mente sono sistemi complessi, e lo sono dall’epoca della loro comparsa.
La difficoltà con cui ancora oggi noi viviamo questa realtà, rende presumibile, anche se non certo, che l’intuizione dell’infinito riconosca come matrice primaria la percezione più o meno inconsapevole che l’uomo ha avuto e ha della complessità del suo cervello, dell’attività che sottende lo stato d’animo cosciente e l’attività onirica.
Tale intuizione si è illanguidita progressivamente nel corso dei secoli, e in maniera rilevante nel nostro mondo, perché l’enfatizzazione dell’Io cosciente e padrone di sé ci ha indotto e ci induce a pensare di avere un certo controllo sulle funzioni mentali. Tale controllo, in realtà, è relativo e precario. Gran parte dell’attività mentale scorre al di sotto della coscienza.
Uno dei maggiori neurobiologi contemporanei, J. LeDoux, scrive,: "Quello che una persona è, ciò che pensa, sente e fa non è per nulla influenzato dalla sola coscienza. Molti dei nostri pensieri, sentimenti e azioni hanno luogo in maniera automatica, e solamente dopo che sono accaduti, forse, diventano accessibili alla coscienza... La comprensione del mistero della personalità dipende in maniera cruciale dalla comprensione delle funzioni inconsce del cervello.” (Il Sé sinaptico, Raffaello Cortina, Milano 2002)p.16)
L’inconscio di cui parla LeDoux non è naturalmente solo quello scoperto dalla psicoanalisi, ma quello più ampio che contiene per esempio i moduli comportamentali automatizzati che ci consentono di camminare, guidare la macchina, parlare e scrivere fluidamente, ecc.
Se ci si sofferma un attimo sul linguaggio verbale il discorso diventa immediatamente chiaro. Ciascuno di noi dispone di un vocabolario che, a seconda del livello culturale, costa di qualche migliaio di parole. Nessuno sarebbe in grado di mettere sulla carta questo vocabolario: esso è depositato a livello inconscio. Ciò nondimeno, ciascuno di noi parla e scrive fluidamente seguendo il filo del pensiero. Non ci chiediamo come facciamo a trovare le parole giuste. il problema è che non le troviamo noi, lo fa la nostra mente a livello inconscio. Ci accorgiamo di questo in sole due circostanze: quando la mente, che non è perfetta, sbaglia nel consultare repentinamente il vocabolario, come fa di solito, e rimaniamo in sospeso a cercare la parola giusta, e quando commettiamo un lapsus verbale per cui, senza accorgercene, diciamo il contrario di ciò che intendiamo dire (un esempio classico: manicomio per matrimonio).
La neurobiologia attesta dunque inconfutabilmente la straordinaria complessità del cervello. Non sorprende che siffatta complessità abbia alimentato nel corso dei secoli la convinzione che la mente umana non può essere stata progettata che da un divino Architetto. La genetica evoluzionistica, invece, fornisce prove consistenti che non c’è bisogno di ipotizzare qualcosa del genere.
La diversità psichica dell’uomo rispetto all’animale più vicino nella scala zoologica – lo scimpanzè – è a tale punto straordinaria che Darwin, avendo intuito che essa rappresentava il piedistallo del creazionismo, ha tentato vanamente di ridurla.
Ne L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (Newton Compton, Roma 1994), operando un confronto tra le facoltà mentali degli animali e quelle umane. Egli scrive:
“Se nessun altro essere vivente, tranne l’uomo, avesse posseduto una qualche facoltà mentale, o se i suoi poteri fossero stati di natura del tutto diversa da quella degli animali inferiori, allora non saremmo mai stati in grado di convincerci che le nostre elevate facoltà si sono sviluppate gradualmente. Ma si può dimostrare che non vi è nessuna fondamentale differenza di questo genere.” (p. 90)
Anche i Grandi, evidentemente sbagliano. La differenza c’è ed è di fatto straordinaria. Essa però può essere interpretata tenendo conto di come, sulla base dell’evoluzione naturale, è comparsa la nostra specie.
3. Come nasce la specie umana?
L’errore di Darwin è comprensibile tenendo conto del fatto che all’epoca non esisteva ancora le Genetica, che ha risolto parecchi problemi evoluzionistici.
Nell’ottica genetica, ogni organo, e quindi anche il cervello, viene costruito sulla base di istruzioni dettate dai geni. I geni sono semplicemente molecole chimiche che determinano la costruzione delle proteine, che sono i “mattoni” degli organi. Fino a qualche tempo fa si pensava che i geni presenti nell’organismo umano fossero circa centomila: un numero sostanzialmente limitato per spiegare la complessità dell’organismo. Con le ricerche sul genoma, si è giunti però alla conclusione che essi sono solo trentamila.
Il dato più inquietante prodotto dalla Genetica è che il corredo umano è per il 98, 5% identico a quello degli scimpanzè. Com’è possibile che questa minima diversità dia luogo ad esperienze psichiche e comportamentali così radicalmente differenti?
La risposta scientifica è semplice. Occorre distinguere due tipi di geni: quelli strutturali, che governano la costruzione di un organo, e quelli regolatori, che governano l’entrata in azione dei primi. Dati gli stessi geni strutturali, i loro effetti possono essere molto diversi in dipendenza dall’attività dei geni regolatori. Un anticipo o un ritardo nell’entrata in azione dei geni strutturali dà luogo a conseguenze molto rilevanti.
La prova che nell’uomo i geni regolatori agiscono in maniera del tutto differente rispetto agli scimpanzé (e ovviamente a tutti gli altri animali) è riconducibile al ritardo dello sviluppo specifico dell’uomo, che tecnicamente va sotto il nome di neotenia. Il ritardo attesta che i geni regolatori funzionano nell’uomo in maniera singolare: essi inducono una lenta maturazione fisica e psichica.
La neotenia è uno degli stratagemmi che l’evoluzione ha adottato per creare specie diverse. Per illustrare questo concetto basta fare un esempio, il più noto.
In un lago limitrofo a Città del Messico vive un animale – l’axolotl – che somiglia ad un girino gigante ma a differenza del girino, è in grado di riprodursi. Si tratta cioè di un essere immaturo nell'aspetto, ma adulto nelle funzioni. Che si tratti di una specie neotenica è certo. Basta in laboratorio aggiungere un po’ di iodio nell’acqua e si trasforma in salamandra. Se si immergono nel lago in questione girini di rana o di salamandra, essi muoiono. Lo iodio è il costituente essenziale dell'ormone che produce la metamorfosi.
L'axolotl dunque è in grado sia di trasformarsi in salamandra se le acque in cui vive sono ricche di iodio, sia di rimanere allo stato embrionale e continuare a riprodursi sotto forma di girino, se le acque sono prive di iodio.
Evidentemente è intervenuta una mutazione genetica che ha bloccato la crescita ma non la maturazione sessuale.
Cosa c'entra questo esempio con la storia dell'evoluzione umana?
C’entra perché oggi tutti gli specialisti sono d’accordo con il considerare l’uomo un animale neotenico. La neotenia è attestata inconfutabilmente da alcune caratteristiche anatomiche di tipo fetale presenti ancora nell’adulto: la testa grande in rapporto al corpo, l’assenza quasi completa di peli, la pelle sottile e delicata, le ossa fragili, i denti di piccole dimensioni, ecc.
E d’accordo: ma cosa c’entra la neotenia con l’intuizione emozionale dell’Infinito?
A livello umano, la neotenia ha prodotto due singolari effetti a livello cerebrale: il mantenersi di un’emozionalità pedomorfa e la crescita di una neocorteccia dotata di grandi potenzialità cognitive.
I due effetti sembrano contraddittori, perché, in conseguenza del senso comune, si tende ad associare all’emozionalità pedomorfa una sorta d’infantilismo irrazionale e all’intelligenza la razionalità adulta.
In realtà, il pedomorfismo neotenico coincide non già con l’infantilismo, ma con il mantenersi nell’adulto, a livello più spesso inconscio, di aspetti significativi del modo di essere del bambino: un tasso piuttosto basso di aggressività, la socievolezza, la vivacità emozionale, la curiosità esplorativa, la fantasia, l’immaginazione, la plasticità a livello di apprendimento, ecc.
Negli altri animali, questi aspetti non scompaiono del tutto con l’avvento della maturità sessuale, ma vengono subordinati alle esigenze adattive proprie dell’adulto, che sono di ordine eminentemente pratico: la conservazione di sé, la riproduzione e la collocazione nella gerarchia sociale.
Nell’uomo, invece, essi si mantengono attivi nel corso di tutta la fase evolutiva e, se l’organizzazione adulta della personalità non li reprime, anche per tutta la vita.
Il bambino che è in noi – metafora abusata, ma che conserva il suo valore scientifico al punto che un biologo evoluzionista ha scritto giustamente che il bambino è il padre dell’uomo – è una realtà, anche se, spesso, essa è opacata o repressa dalle influenze culturali.
Sul peso che l’emozionalità pedomorfa ha nella soggettività introversa ho scritto già molto. Aggiungo solo che ancora oggi parecchi introversi non ne apprezzano le potenzialità creative, ma l’avversano come espressione di immaturità, debolezza e inadeguatezza.
Anche lo sviluppo della corteccia è una conseguenza della neotenia, essendo dovuto al mantenersi a lungo nell’uomo di un tasso di crescita caratteristico delle prime fasi di sviluppo. Una citazione vale più di molte parole:
“Prima della nascita, il cervello del feto della scimmia aumenta rapidamente in dimensioni e in complessità. Quando l’animale nasce, il cervello ha già raggiunto il settanta per cento delle sue dimensioni definitive di adulto. Il rimanente trenta per cento della crescita viene completato rapidamente durante i primi sei mesi di vita… Nella nostra specie, invece, alla nascita il cervello è solo il 23% delle sue dimensioni adulte. Per altri sei anni dopo la nascita continua una crescita rapida e l’intero processo di accrescimento non è completo sino al ventitreesimo anno di vita. [Nell’uomo, dunque], la crescita del cervello continua per circa dieci anni dopo che abbiamo raggiunto la maturità sessuale, mentre per lo scimpanzé termina sei o sette anni prima che l’animale diventi attivo dal punto di vista della riproduzione.” (Desmond Morris, La scimmia nuda, Bompiani, Milano 2003)
L’associazione tra un’emozionalità pedomorfa e grandi potenzialità cognitive può essere valutata da due diversi punti di vista.
A posteriori riesce chiaro che essa rappresenta una spinta motivazionale che trasforma la creatività intrinseca alla psicologia infantile in uno strumento che consente all’uomo di inoltrarsi su territori simbolici aperti all’infinito. Il bambino utilizza la sua creatività prevalentemente per giocare. Anche l’adulto può giocare, ma, condensando la creatività e la fantasia, egli può esplorare i mondi simbolici e giungere a produrre l’arte, la musica, la scienza, la letteratura, la filosofia, ecc.
Questa considerazione, però, per l’appunto, vale a posteriori, dopo che un lungo tragitto attesta che quei territori sono di fatto stati e continuano ad essere esplorati.
All’inizio, il disporre di un cervello neotenico non poteva essere funzionale a concedere agli uomini le gioie intellettuali, anche se la presenza costante di raffigurazioni pittoriche in caverne preistoriche qualcosa significa. Occorre dunque ammettere che il cervello neotenico abbia avuto originariamente altri significati adattivi. Quali?
Una risposta può essere fornita dalla preistoria e confermata, come vedremo, dalla psicologia evolutiva.
Le raffigurazioni pittoriche, per quanto rare, non sono l’unico indizio che permette di identificare l’appartenenza dei fossili alla specie umana. Un altro indizio, assolutamente costante, riguarda l’inumazione dei morti.
Alcuni specialisti sostengono che la pratica funeraria serviva essenzialmente a proteggere i corpi dei congiunti dallo scempio degli animali. Una preoccupazione del genere, se non attesta necessariamente la credenza nella sopravvivenza dei morti, implica legami affettivi interpersonali che sopravvivono al lutto.
Espressione di pietas nei confronti di chi non può più difendersi, l’inumazione dei morti consente di capire che il cervello neotenico umano è fin dall’origine ricco di empatia. Anche se il concetto di empatia è entrato a pieno titolo nella nostra cultura, e fa parte del senso comune, pochi però si rendono conto che essa rappresenta l’espressione più immediatamente indiziaria dell’intuizione emozionale dell’infinito.
Gli animali sociali sono dotati della capacità di riconoscere il simile e di partecipare delle sue vicissitudini. L’angoscia che si legge nell’espressione di un gruppo di scimpanzè che assiste impotente alla cattura e al divoramento di un loro membro da parte di un predatore è eloquente. A riguardo, è giusto, come ha fatto Darwin, parlare di simpatia (che etimologicamente significa condividere il dolore altrui).
Si dà qualche prova che gli animali capaci di simpatia possono sperimentarla anche al di fuori del loro gruppo e della loro specie. Accade che un animale adulto si faccia carico del piccolo di un’altra specie affine. Si tratta però di assolute eccezioni. La simpatia animale rimane solitamente vincolata al gruppo.
L’empatia umana, invece, trascende di gran lunga la sim-patia: essa, infatti, come ha intuito Rousseau, si estende a tutti gli esseri senzienti e quindi capaci di soffrire. Ha insomma un’estensione illimitata che, sotto il profilo adattivo, non sembra comprensibile.
A cosa può essere servito agli uomini primitivi empatizzare con gli animali senzienti se non a costringerli a fare rituali di espiazione quando li uccidevano per mangiarli? A cosa può essere servita l’empatia allorché essi hanno deciso di addomesticarli e allevarli per poi sacrificarli?
Ancora oggi si danno a riguardo dei misteri. Nessuno, che viva con un gatto o con un cane, rimane sorpreso dello stabilirsi di un rapporto affettivo per cui l’animale viene familiarizzato al punto che vederlo soffrire o perderlo dà luogo ad un vivo dolore. Ma perché mai un qualunque cucciolo animale, compreso un tigrotto o un leoncino, evocano dentro di noi un moto di tenerezza? Perché se, andando in macchina e ci si para di fronte un animale terrorizzato, sterziamo istintivamente? Perché se incontriamo per strada un animale sfracellato vibra in noi una corda di raccapriccio e di pena?
L’empatia umana fa dunque riferimento ad una classe generalizzata, illimitata: quella degli esseri capaci di soffrire. Essa implica la consapevolezza di un destino comune a tutti gli esseri senzienti, che trascende il qui ed ora.
Illimitata, tale classe è anche differenziata rispetto ad altre.
Ci possiamo rendere conto facilmente di questo considerando il fatto che sopprimere una mosca come pulire il parabrezza obnubilata da infiniti cadaveri di insetti, alcuni dei quali lasciano anche tracce di sangue, non ci causa alcun turbamento, ma stritolare nella mano un passerotto palpitante per i più è (ancora).
Se ammettiamo che l’empatia fa parte normalmente, anche se in misura diversa, del corredo genetico umano, e che essa ha contribuito a dilatare l’orizzonte emozionale della specie, dobbiamo chiederci quale ruolo essa ha svolto in passato e a quali vicissitudini è andata incontro nel corso del tempo.
4. Empatia, umanizzazione e civilizzazione
La risposta postula di trascendere la nostra condizione di esseri civilizzati, in qualche misura separati e protetti rispetto alla natura, e di ricostruire le condizioni originarie in cui è vissuta la specie umana.
Quattro aspetti vanno, a riguardo, considerati: l’ambiente inospitale, quello della savana, popolato da predatori feroci; la sprovvedutezza dell’essere umano dovuto alla perdita di strumenti difensivi (pelliccia, artigli, denti acuminati, cute spessa, ecc.); il bipedismo, che diminuisce la velocità nella fuga; la necessità di fornire protezione ai neonati e ai bambini, i cui tempi di evoluzione sono estremamente ritardati.
La somma di questi fattori avrebbe potuto facilmente indurre a prevedere una rapida estinzione. L’uomo, invece, bene o male, ce l’ha fatta. Usando la sua intelligenza, certo, ma essa non sarebbe bastata se la consapevolezza esistenziale e l’empatia non avessero promosso anzitutto una solidarietà totale di gruppo all’insegna dell’uno per tutti e tutti per uno.
L’appartenenza al gruppo e la cooperazione tra i membri finalizzata ad assicurare la loro sopravvivenza e la perpetuazione del gruppo stesso è stata l’arma vincente della specie umana sul piano dell’adattamento.
Ciò è confermato dal fatto che, presso quasi tutte le comunità primitive indagate dagli antropologi non esiste un termine che definisca l’individuo. Laddove esiste, esso implica che l’individuo è una popolazione di anime: c’è l’io personale, ma anche l’io di un membro defunto e quello di un essere virtuale, destinato a venire alla luce dopo di lui e al suo posto.
In una civiltà individualistica come la nostra, noi tendiamo ad ignorare o a sottovalutare la presenza, a livello inconscio, come residuato dell’esperienza che l’umanità ha fatto per migliaia di anni, di un bisogno di appartenenza sociale radicale, che fa della relazione con l’Altro il fondamento stesso della nostra identità (tale che l’Altro non esiste solo in carne ed ossa fuori di noi, ma nella struttura stessa della soggettività: il Super-io di Freud, l’Altro generalizzato di Mead).
L’appartenenza sociale, di fatto, è stata la difesa primaria che l’umanità ha posto in essere contro il ricatto vertiginoso dell’Infinito.
Al di là della solidarietà, occorre, però, considerare anche un’altra conseguenza della neotenia: l’identificazione con i piccoli e la necessità del mantenersi di un lungo periodo di interazione tra adulti e minori. Questa esperienza ha prodotto un’organizzazione sociale incentrata sulla cura e la tutela dei bambini, vale a dire su di un’organizzazione familiare estesa a tutti i membri adulti del gruppo. Ancora oggi, presso tutte le popolazioni primitive, ogni bambino è in grado di identificare i genitori biologici, ma egli appella come padri tutti i membri adulti maschili e come madri tutti quelli femminili.
L’esperienza di familiarizzazione durata per migliaia di anni ha prodotto l’ingentilimento della specie umana, dando luogo ad affetti potenti e duraturi. La neotenia biologica, insomma, ha creato le condizioni per la “neotenizzazione” culturale degli esseri umani adulti.
E’ evidente, però, che questo processo deve, ad un certo punto, essersi arrestato e addirittura invertito. Se fosse andato avanti, noi ci troveremmo in un contesto sociale solidale, cooperativo e umanizzato. Contesti del genere esistono ancora presso popolazioni primitive o sottosviluppate. Si tratta però di isole che tendono a scomparire a favore di una “civilizzazione”, modellata sulla cultura dell’occidente, che è adultomorfa, razionale e per alcuni aspetti cinica.
Come spiegare il rapporto inverso tra civilizzazione e disumanizzazione?
Alcuni studiosi sostengono che l’empatia, fin dalla comparsa della specie umana, abbia riconosciuto come limite il gruppo, al di là del quale il simile è stato sempre vissuto come estraneo e potenzialmente nemico.
Numerosi dati, però, attestano che questo limite non è naturale, ma prodotto dall’evoluzione storica. Una prova a riguardo può essere fornita dall’antropologia culturale. Costretti ad uccidere gli animali per provvedere alla propria sopravvivenza, i primitivi dovevano espiare la colpa con riti propiziatori atti ad impedire che l’animale ucciso o i suoi simili si vendicassero. Riti dello stesso genere, da una certa epoca in poi, hanno riguardato i nemici uccisi in battaglia, che venivano addirittura onorati come eroi.
La paura della vendetta da parte degli spiriti dei nemici uccisi è una spiegazione parziale del fenomeno ritualistico. Essa infatti non implica solo il riferimento alla rappresaglia, ma il senso di colpa per avere fatto violenza ad esseri senzienti.
Ciò significa che la violenza si è sovrapposta all’empatia, che, in precedenza, deve averla arginata.
Di fatto, se noi pensiamo all’esistenza dei primi gruppi di uomini, che avevano necessità di imparentarsi attraverso lo scambio reciproco delle donne, riesce difficile ammettere che l’imparentamento coincidesse, se non rarissimamente, con rapporti bellicosi.
Il problema è che la diffusione dei gruppi umani sulla faccia della terra ha dato luogo a differenziazioni culturali che, a partire dalla lingua, hanno estraniato i gruppi, rendendo impossibile il reciproco riconoscimento e la comunicazione. Il nemico, dunque, è originariamente l’estraneo in quanto incomprensibile nei suoi modi di parlare e nei suoi comportamenti.
Anche questa conclusione va presa con prudenza. C’è almeno un evento storico di grande portata che la invalida: la scoperta dell’America da parte dei Bianchi. Non solo Cristoforo Colombo ma tutti i testimoni rievocano il modo pacifico e ospitale con cui furono accolti dai Caraibici, che non manifestarono alcuna paura di fronte ad esseri con la corazza e le armi. Per essi, evidentemente, valeva ancora l’identificazione con il simile. Nei Bianchi, casomai, già difettava: essi infatti pensarono che i Caraibici rappresentassero una specie infraumana.
L’esistenza di una dimensione persecutoria intrinseca all’apparato mentale è comunque innegabile. Di questa si parlerà tra poco.
5. L’ansia esistenziale
Attraverso il pedomorfismo emozionale e l’acquisizione di capacità cognitive, la neotenia ha prodotto una progressiva dilatazione degli orizzonti emozionali e intellettivi. C’è un intreccio tra i due aspetti, ma è fuori di dubbio che il sentire anticipa il capire, che poi deve dare ad esso un’organizzazione cognitiva.
Un periodo critico dell’evoluzione infantile ne fornisce la prova. Tra i cinque e i sette anni, il bambino giunge ad intuire ciò che significa morire: non esserci più. Che si tratti di un’intuizione prevalentemente emozionale è fuori di dubbio. All’epoca il bambino non ha raggiunto ancora una capacità di astrazione tale da poter distinguere essere e non essere. C’è da considerare, inoltre, che la mente umana, anche adulta, può rappresentare qualunque stato, ma non quello dell’essere morto: limite, questo, che permette di comprendere lo smarrimento che coglie quando si tenta di rappresentare quello stato in rapporto a sé.
Cosa significa dunque l’intuizione della morte? Né più né meno che l’orizzonte mentale del bambino si dilata fino al punto di concepire il tempo come una successione illimitata,. In questo flusso senza fine egli intuisce che i suoi sono destinati a morire e poi lui stesso e poi i suoi figli, ecc.
Tra i cinque e i sette anni si avvia un processo di presa di coscienza (prevalentemente intuitivo) sulla condizione esistenziale umana. Il destino mortale è solo un aspetto di questo processo. Gli altri aspetti sono legati alla vulnerabilità – l’esposizione al dolore di ogni genere -, alla precarietà – l’essere tutti “come d’autunno sugli alberi le foglie” –, e alla finitezza – l’estensione limitata dei nostri poteri fisici e psichici.
Riguardo a questi aspetti si può fare una considerazione di ordine generale. Essi sono vissuti e sentiti da ogni essere umano, prima ancora di essere capiti. E’ chiaro, però, che, benché riconducibili all’esperienza che l’uomo fa del suo esserci, essi implicano il riferimento a dimensioni che li trascendono. La consapevolezza del destino mortale non sarebbe potuta sopravvenire se non sulla base dell’intuizione del tempo come successione illimitata di istanti, di un tempo dunque infinito. lo stesso discorso può essere applicato alle altre dimensioni dell’ansia esistenziale. la vulnerabilità presume l’invulnerabilità, la precarietà la permanenza, la finitezza l’onnipotenza, ecc.
Questi sono gli attributi della Divinità. L’intuizione emozionale dell’Infinito produce la consapevolezza della condizione esistenziale perché essa implica il riferimento ad uno stato dell’essere radicalmente diverso da quello umano. Su questa base si può spiegare l’associazione costante, nella cultura umana, tra consapevolezza esistenziale e “religiosità”.
L’intuizione emozionale dell’infinito, dunque, circola dentro di noi in due forme diverse: da un lato, come percezione indistinta della complessità del nostro mondo interiore; dall’altra, come consapevolezza esistenziale ed empatia.
La consapevolezza esistenziale - che coincide con la presa d’atto della propria vulnerabilità, precarietà, finitezza e destino mortale – rende l’uomo un animale naturalmente ansioso. Nello spazio previsionale aperto dall’intuizione emozionale dell’infinito, l’uomo infatti può proiettare tutto il male possibile che gli può accadere, vale a dire tutti gli eventi negativi potenzialmente realizzabili: lutti, incidenti, disgrazie, malattie e, infine, la morte.
Nessuno, tranne che l’evento fatale non anticipi prematuramente tutti gli altri può sfuggire alla consapevolezza di imbattersi, nel corso della vita, in una quota di dolore. Si può essere più o meno fortunati, ma il destino è comune.
Di difese rispetto all’ansia esistenziale se ne danno di vario genere.
Una flebile difesa è fondata sulla razionalità, vale a dire sulla valutazione probabilistica degli eventi negativi. Se godo di buona salute, non posso ignorare che in qualche parte del mio organismo una cellula stia andando incontro ad una trasformazione maligna. Il benessere rende però questa possibilità altamente improbabile e, dunque, emotivamente controllabile.
Se sono bene informato, so anche che i casi di nuovo tumore diagnosticati ogni anno in Italia sono all’incirca duecentomila: molti meno di quanto comunemente si pensa. La probabilità che tocchi a me, dunque, è infinitesimale (1 su 30000).
Una difesa più valida è quella che un tempo si definiva forza di carattere e oggi sembra più proprio definire coraggio di esistere. Il coraggio di esistere implica il prepararsi ad affrontare le avversità della vita senza cadere nel vittimismo, nel patetismo o nella rabbia contro la sorte. La preparazione, naturalmente, funziona meglio se le persone hanno un rapporto appagante con la vita. Il patrimonio di umana felicità che si può sperimentare vivendo autenticamente è uno dei migliori antidoti contro il dolore dell’esistenza.
La difesa più valida in assoluto rimane, però, quella sperimentata dagli uomini primitivi: la solidarietà del gruppo, vale a dire il poter contare sull’aiuto e sull’affetto di altre persone, sentire la loro partecipazione alla nostra vita.
Perché questa difesa si realizzi nel contesto di una società complessa e anonima, occorre costruire, nel corso della vita, una rete di relazioni significative sulla base dell’empatia reciproca.
Naturalmente anche la partecipazione più intima non azzera il riferimento alla solitudine esistenziale, ma, di sicuro, lo allevia.
La consapevolezza esistenziale, però, donando all’uomo coscienza di sé e del suo esserci, ha introdotto nel suo orizzonte, come accennato, anche una dimensione persecutoria: la dimensione del “male”, comunque inteso, che incombe su di lui.
Originariamente, il male era riferito prevalentemente alle circostanze naturali (dalla malattia alla siccità, alle carestie, ai predatori, ecc.). Successivamente, esso ha investito anche l’Estraneo-Nemico. Lentamente nel corso della storia, in misura direttamente proporzionale allo sviluppo tecnologico, la dimensione persecutoria ha investito l’umano.
L’Altro, dunque, è giunto ad essere caratterizzato a livello inconscio dalla duplice valenza di punto di riferimento dell’io e di potenziale aggressore.
Tutto ciò non avrebbe inciso profondamente se l’emozionalità umana si fosse mantenuta sul registro realistico che caratterizza quella animale, che è adattiva in quanto riferita a situazioni attuali e contingenti. Gli animali dotati di emozioni nutrono paure, rabbie, affetti, avversioni, ecc. che sono però strettamente funzionali ad affrontare le circostanze in cui si imbattono. In essi, pur sovrapponendosi agli istinti, le emozioni svolgono dunque una funzione realistica adattiva.
6. Aspetti adattivi e disadattivi dell’emozionalità umana
Con il passaggio all’uomo, l’intuizione emozionale dell’infinito ha investito tutta la sfera delle emozioni realizzando uno spettro molto più ampio rispetto a quello degli animali.
Certo, l’ampiezza dello spettro dipende anche dagli aspetti cognitivi. Esso però sembra riconoscere come matrice primaria il mondo delle emozioni.
Per un verso, indubbiamente le emozioni conservano nell’uomo un significato adattivo: la paura riferita ad un pericolo reale promuove reazioni automatiche di difesa, la rabbia determina comportamenti di protesta e di lotta, l’amore induce una tenerezza e una sollecitudine particolare nei confronti di chi ne è l’oggetto, ecc.
Per un altro verso, però, l’emozionalità umana ha anche aspetti non adattivi o francamente “disadattivi”.
Tra i primi si possono fare rientrare sia le emozioni estatiche (come la vertigine che talora sopravviene guardando intensamente un cielo stellato o l’ebbrezza che si associa ad un innamoramento) che quelle estetiche (come il brivido che pervade ascoltando la musica o guardando dal vivo un’opera d’arte). Nulla vieta di pensare che, mutatis mutandis, emozioni del genere siano state provate dai primi uomini, come attestano per le raffigurazioni pittoriche nelle caverne, che non sono mai state prodotte da altre specie umane. Esse sono dunque primarie, ma non riconducibili a finalità adattive.
Tra i secondi, occorre far rientrare gran parte delle turbolenze emozionali che sottendono esperienze di disagio psichico, realizzando effetti squilibranti più o meno intensi. La progressiva diffusione epidemiologica dei sintomi psichiatrici nel contesto della nostra civiltà, tale che ormai un cittadino su cinque incorre in episodi depressivi e uno su venti in attacchi di panico, sottolinea la vulnerabilità emozionale dell’essere umano.
Ma si tratta di una vulnerabilità specifica. Alla luce dell’analisi, infatti, tali turbolenze risultano costantemente riconducibili a drammatiche interazioni sociali, che rimbombano a livello soggettivo laddove l’Altro è rappresentato e si traducono in emozioni sociali – paure, rabbie, vergogne, sensi di colpa, ecc. – che possono raggiungere un’intensità massimale.
Che cosa significa in ultima analisi questo? Che, in conseguenza della neotenia, l’emozionalità umana si è antropomorfizzata, vale a dire è in gran parte incapsulata nella relazione reale e immaginaria tra l’Io e l’Altro, che cattura l’esperienza soggettiva e può promuovere emozioni di intensità infinita.
Emozioni positive, certo, sul registro dell’amore, dell’affettività, della compassione, ma anche emozioni negative, sul registro della rabbia, dell’odio, della vendetta.
La qualificazione positiva o negativa è una convenzione: serve solo a distinguere emozioni il cui significato è in opposizione.
L’incapsulamento dell’emozionalità umana nella relazione tra Io e Altro e la sua infinitizzazione la rendono di fatto potenzialmente pericolosa in rapporto a tutto lo spettro.
L’amore infinito può promuovere un’idealizzazione impropria, spingere verso la fusione con l’altro, sollecitare l’annullamento dei propri bisogni a favore dell’altro, al limite assumere una dimensione passionale e morbosa.
Una sensibilità sociale troppo intensa nei confronti delle aspettative altrui può provocare, per esempio nel corso della fase evolutiva, un blocco del bisogno di opposizione/individuazione che costringe l’individuo ad essere quello che gli altri vogliono che egli sia.
La compassione stessa, se induce l’individuo ad identificarsi totalmente con coloro che soffrono, può indurlo a dimenticare che egli stesso, almeno potenzialmente, appartiene a tale categoria, e dunque deve riservare anche per sé una qualche cura.
Per quanto riguarda le emozioni negative, il discorso è semplice e drammatico al tempo stesso. La rabbia e l’odio infiniti possono giungere solo nell’uomo ad anestetizzare completamente l’empatia fino al punto di promuovere l’eliminazione aggressiva o comportamenti brutali di vario genere nei confronti del simile.
Laddove, come accade negli introversi, tali emozioni, per quanto intense, si associano ad un difetto di aggressività, esse possono comunque dare luogo ad espressioni di intolleranza, che però attivano regolarmente più o meno seri sensi di colpa (la sindrome di Robespierre).
La dilatazione dello spettro emozionale è, dunque, un bel problema.
Essa mantiene costantemente, dentro di noi, in conseguenza dell’ansia esistenziale, la percezione della nostra finitezza e della mancanza ad essere.
Può fare sperimentare emozioni positive e negative disfunzionali e squilibranti.
Può promuovere qualunque forma di alienazione rassicurante, dall’integrarsi passivamente nella società per sentirsi normali a forme di fede integralista.
Può, infine, facilmente attivare difese compulsive di vario genere (alcol, droga, consumismo, lavoro ossessivo, erotismo, ecc.).
Quest’ultimo aspetto è forse il tratto più specifico della nostra civiltà, che non è azzardato definire compulsiva, vale a dire sottesa dall’esigenza inconsapevole di azzerare lo scarto tra finitezza e infinito con modalità che sono, in genere, rimedi peggiori del male.
Il processo di secolarizzazione, che sta lentamente ma inesorabilmente inattivando la protezione secolarmente assicurata dalle credenze religiose, mondanizza l’esperienza umana, la restituisce cioè alla sua dimensione propria, terrena e transitoria, ma, al tempo stesso, pone gli esseri umani faccia a faccia con la loro mancanza ad essere, la loro insignificanza ontologica, la loro solitudine esistenziale.
E’ evidente che gli uomini del nostro tempo non reggono il peso della finitezza e, per rimuoverla, cadono nella trappola di falsi bisogni che li illudono di poter colmate lo scarto tra finito e infinito.
7. Che fare?
Occorre prendere coscienza, anzitutto, che, essendo radicata nella organizzazione funzionale del cervello, l’intuizione emozionale dell’Infinito non può essere estirpata. Occorre dunque convivere con essa. Ciò significa essenzialmente due cose: tentare di non cadere nella trappola dell’Infinito e, al tempo stesso, utilizzare le potenzialità umanizzanti che esso contiene.
Ho dedicato a questi due aspetti il quarto e il quinto capitolo dell’Abbecedario, ai quali rimando. Qui dirò l’essenziale.
Il ricatto dell’Infinito è la suggestione che esso evoca di poter azzerare lo scarto tra la nostra finitezza e la mancanza ad essere intrinseca all’esistenza. Ritengo che tale suggestione riconosca una sola modalità di realizzazione funzionale: una profonda e partecipata fede religiosa. Personalmente, non essendo credente, ritengo che la credenza in un Essere Supremo, la cui realtà ontologica coincide con l’Infinito, sia una forma di alienazione. Occorre riconoscere, però, che essa è la più vantaggiosa soggettivamente e la meno nociva.
Per chi non ha o non può darsi una fede religiosa, non cadere nella trappola dell’Infinito significa essenzialmente accettare la contingenza intrinseca alla nostra esperienza. Si nasce con un certo corredo genetico, si attecchisce in un determinato ambiente familiare e sociale, si vive in un mondo storico che ha una sua organizzazione, i suoi codici normativi, i suoi valori. Queste sono le condizioni a partire dalle quali ciascuno di noi deve giocarsi la propria partita.
Purtroppo, una conseguenza dell’intuizione emozionale dell’Infinito è che l’uomo può trascendere il qui ed ora anche in senso storico: ipotizzare e sognare un mondo ideale, fatto a misura d’uomo (o, addirittura, a misura di sé). Questo sogno è supportato da un senso di giustizia che, a livello inconscio, ha un’intensità drammatica. In nome di questo sogno, numerosi soggetti non tollerano lo scarto tra mondo reale e mondo ideale, tra le opportunità offerte e quelle desiderate, tra ciò che essi sono o possono diventare e ciò che desiderebbero essere. Via via che prendono coscienza di quello scarto, essi reagiscono con una rabbia più o meno intensa.
Accettare la finitezza implica riconoscere la propria appartenenza alla natura e alla storia, e capire che questi vincoli non azzerano mai la possibilità di costruire una personalità e una vita che abbia senso.
L’accettazione riconosce non pochi ostacoli. Il più pericoloso è il senso di giustizia. Se esso, infatti, rimane intrappolato nella dimensione dell’Infinito, la conseguenza è di alimentare la confusione patetica per cui il bisogno di umana felicità, radicato nella profondità dell’inconscio, viene scambiato con un diritto. In conseguenza di questo, tutte le circostanze che ostacolano la realizzazione di quel bisogno vengono vissute come violazioni di un diritto, e, come accennato, interagite con una rabbia che, al limite, può essere cieca e indifferenziata. La rabbia cieca può dare un senso di onnipotenza e spingere il soggetto ad assumere il ruolo di implacabile Giudice Universale. Non ne deriva, però, nulla di buono, se non il deteriorarsi dell’immagine interna, l’affiorare di sensi di colpa e l’aumento del malessere.
Ciascuno ha il diritto di criticare il mondo così com’è. La critica, però, per essere utile, non deve trascendere o reprimere l’empatia, che comporta per tutti gli esseri umani una presunzione d’innocenza (almeno nel senso che, in genere, non sanno quello che fanno e tanto meno perché lo fanno) e la presa di coscienza che essi fanno quello che possono in rapporto agli strumenti di cui dispongono.
La rabbia infinita, insomma, va finitizzata, vale a dire elaborata in maniera tale che essa risulti adeguata alle situazioni cui fa riferimento.
Lo stesso discorso vale per tutte le emozioni – ansia, paura, depressione, esaltazione, amore cieco – che tendono verso l’infinitizzazione.
A riguardo, occorre tenere conto di due aspetti che la ricerca neurobiologica e psicodinamica sta illuminando.
Il primo aspetto è che le emozioni sono caratterizzate, rispetto al pensiero, da una particolare “risonanza” psicosomatica. Il termine metaforico fa riferimento alla vibrazione acustica di una corda, che dipende dalla sua lunghezza e dal suo spessore. Abusando della metafora, potremmo dire che, nel passaggio all’uomo, la natura ha enormemente allungato e ispessito le corde delle emozioni.
Il secondo aspetto fa riferimento al ruolo delle memorie. Le memorie vengono registrate in misura direttamente proporzionale all’intensità delle emozioni associate agli eventi che le generano. Il patrimonio emozionale di ogni individuo è sterminato e depositato in una regione cerebrale (denominata ippocampo perché somiglia ad un cavalluccio marino) connessa sia con i centri emozionali che con la corteccia.
L’analisi ha stabilito inconfutabilmente che, a livello inconscio (e in misura minore a livello cosciente e subconscio), le memorie sono impacchettate a seconda della qualità emozionale che ne ha determinato la registrazione e che le connota. L’impacchettamento delle memorie fa sì che gli stimoli emozionali attuali ne rievocano alcune, ma, al limite, possono rievocarle anche tutte. Da ciò deriva il fatto che solo l’uomo può provare paure, dolori, rabbie, tristezze, amori, gioie infiniti, con tutte le conseguenze positive e negative che ne seguono.
La finitizzazione delle emozioni interpersonali postula la capacità di elaborare il patrimonio delle memorie in maniera tale che esse, pure influenzando il presente, risultino archiviate, cioè depotenziate nella loro risonanza e adeguate agli eventi e alle situazioni che le hanno prodotte.
Se si riesce a finitizzare le emozioni interpersonali, e impedire che il loro incapsulamento nella relazione con l’Altro divenga tormentosa e ossessiva, si raggiunge un singolare equilibrio incentrato sulla pietas, vale a dire su di un sentimento di comprensione profonda nei confronti dell’umanità, impegnata nella dura battaglia di reggere il peso della sua mancanza ad essere, che non esclude affatto la critica nei confronti dei comportamenti che, apparentemente, alleviano quel peso per chi li esercita scaricandolo però sugli altri, ma impedisce ad essa di finire sul terreno dell’estraneazione per cui chi li agisce è un “mostro”.
La comprensione critica, di cui ho parlato altrove, è lo strumento essenziale per giungere alla pietas. Essa muove dal presupposto che tutti gli esseri umani agiscono, consapevolmente e più spesso inconsapevolmente, per contenere, arginare o rimuovere l’angoscia della mancanza ad essere con cui convivono. Su questa base, la critica degli errori che commettono, per quanto gravi, può essere anche aspra ma non astiosa e intollerante.
E’ superfluo aggiungere che la pietas va applicata anche a sé. Prendere coscienza e criticare il tributo che ciascuno di noi paga, in termini di errori, alla trappola dell’Infinito, non deve renderci intolleranti nei nostri stessi confronti, ma aiutarci semplicemente a sfuggire ad essa rivendicando il diritto di coltivare la nostra finitezza.
La coltivazione della finitezza significa due cose.
La prima è intendere la vita come un processo di umanizzazione che ha termine solo con la morte. Assoggettata a questo intento, l’intuizione emozionale dell’Infinito assicura una tensione verso il miglioramento di sé che non è certo una dimensione egoistica o narcisistica. L’individuo che si umanizza usando le potenzialità neoteniche del cervello acquisisce un valore che non può non riflettersi nei rapporti sociali che intrattiene.
In un certo qual senso, paradossale, l’umanizzazione è un processo inverso rispetto alla civilizzazione che si è prodotta in Occidente nel corso degli ultimi due secoli. Essa postula di tornare a contatto con la nostra natura più profonda, che è sensibile, empatia e solidale.
Ciò però non implica alcuna nostalgia di un passato remoto e irreversibile.
Storicamente, l’intuizione emozionale dell’Infinito, come ha promosso la maturazione di un modello socio-economico incentrato sullo sviluppo illimitato della tecnologia e dei beni materiali, così ha consentito anche, da parte di alcuni soggetti, l’esplorazione del mondi simbolici prodotti da quella intuizione che ha arricchito il patrimonio culturale dell’umanità con l’Arte, la Filosofia, la Letteratura, la Scienza, ecc. Aprirsi a questo patrimonio utilizzandolo e, se si hanno attitudini, arricchendolo ulteriormente, è uno dei pochi modi concessi all’uomo di inseguire significativamente il miraggio dell’Infinito.
Appendice
Dall’Abbecedario (cap.V)
Da parecchi anni si sa ormai che il maggior produttore di droghe che esiste al mondo è il cervello umano. Altro che il cartello di Medellin! Ne produce tali e tante, che c’è da chiedersi come mai non siamo del tutto rincoglioniti (o, forse, lo siamo e non ce ne accorgiamo). Droghe? Droghe, anche se il loro nome ufficiale suona come neuro-ormoni. Che effetti producono, in termini terra terra, le droghe? Alcune rilassano, altre eccitano. A seconda che chi le usa ha bisogno di darsi una calmata o di sballare, producono benessere, finché il tizio non scopre (e, prima o poi, avviene) che, finito l’effetto, si trova un po’ troppo spostato dall’altra parte: insomma, peggio di prima. Nel cervello umano c’è un gran traffico di sostanze chimiche che rilassano e che eccitano. Quando gli scienziati anni fa, cominciarono a cercare di capirci qualcosa (profittando, ovviamente, della lunga consuetudine degli animali a farsi fare a fettine), ne isolarono due-tre e il gioco sembrava fatto. Poi, le cose si sono complicate maledettamente. Adesso se ne conoscono a centinaia e la partita sembra lontano dall’essere chiusa. Il cervello è immerso in una specie di brodo chimico nel quale si dà un po’ di tutto, e gli scienziati non riescono a capire come quella brodaglia ci permetta di far due più due. Ma la meraviglia delle meraviglie è sopravvenuta quando dal brodo qualcuno ha tirato fuori quello che nessuno si aspettava.
È ormai assodato che ogni cervello umano produce sostanze la cui struttura chimica è simile alla morfina e altre il cui effetto è simile alla cocaina e agli psicostimolanti. Le prime sono state denominate endorfine, le seconde catecolamine (la più potente delle quali è la dopamina). A che servono? Se lo sta chiedendo un sacco di gente in tutto il mondo. Quello che per ora è certo è che queste droghe tendono a far giustizia: per come è fatto, l’uomo deve soffrire, ma non tanto. Se riesce a imbroccare la via giusta, c’è anche il rischio che sia felice. E già, ma qual è la via giusta? Gli esperimenti sugli animali un’indicazione l’hanno fornita.
Fin dagli anni ’50, due neurofisiologi in collaborazione si erano divertiti a mettere degli elettrodi (degli aghi sottilissimi capaci di condurre elettricità e quindi di stimolare artificialmente i centri nervosi) nel cervello dei ratti, in una zona che si sapeva avere più o meno a che fare con gli istinti e le emozioni. Fautori dell’autodeterminazione, i ricercatori avevano messo a disposizione degli animali alcune leve, premendo le quali potevano autostimolarsi. Il trucco veniva scoperto rapidamente. Ma accadevano cose strane. Se gli elettrodi erano piazzati in alcuni punti, gli animali manifestavano segni evidenti di piacere, tant’è che sulla leva davano giù da matti (fino a cinquemila volte l’ora) e non li fermava più nulla: né l’offerta di cibo, né la presenza di un partner in calore né l’aumento del voltaggio. Andavano avanti sino all’estenuazione. E qualcuno ci ha rimesso – felice e contento – la pelle, per via dello stress. Se gli elettrodi erano impiantati in altri punti, l’effetto era opposto. L’animale si bloccava come paralizzato, visibilmente impaurito. Se veniva forzato a spingere la leva, dava segni di panico e di terrore. Applicata alle scimmie, la tecnica ha confermato che, nella struttura profonda del cervello, esiste un sistema del piacere e uno del dolore. Anche negli uomini, in condizioni sperimentali autorizzate e nel corso di interventi chirurgici sul cervello a paziente sveglio, eseguiti a fini medici, i risultati sono stati confermati. Le sensazioni di incredibile benessere e di panico (spesso mescolato a oscuri sensi di colpa) venivano, in quest’ultimo caso riferite verbalmente e arricchite da vissuti personali (memorie, contenuti di pensiero e via dicendo).
La scienza fa riflettere. Oltre che l’assillo di mangiare e di copulare, quale altro bisogno verrebbe da attribuire a un ratto? Logicamente, secondo la teoria degli istinti, l’autostimolazione doveva portare quegli animali a diventare obesi, erotomani (e casomai aggressivi). Ma l’esperimento parla chiaro. Sia pure in una condizione artificiale, il piacere appare come un istinto dotato di un’autonomia tale da annullare quello di conservazione. È evidente che il ratto profitta della liberalizzazione della droga perché sente qualcosa di simile a quello che prova quando mangia e quando monta. Simile, ma più potente. Se un ratto senza elettrodi viene posto in una gabbia con una montagna di cibo e partner in calore a volontà, mangia e monta, monta e mangia, ma a un certo punto si ferma perché è sazio. E che diavolo mai è questo piacere per così dire metafisico (parolaccia che sta per tutto quello che non si capisce) che viene sperimentato con la leva? A che serve insomma il sistema del piacere che ha evidentemente delle potenzialità che vanno al di là dell’appagamento degli istinti di base (fame, sesso)?
Rimando la risposta ai capitoli sulle emozioni. Un’anticipazione però ci vuole. E qui vengono in ballo le endorfine. È evidente che la produzione di endorfine è devoluta in qualche misura a proteggere dal dolore. Sotto questo profilo, però, la natura ha giocato al risparmio. Se ci si rompe le ossa, la protezione (ahimè) risulta relativa. E allora? Un sacco di dati attestano che le endorfine funzionano come un sistema di ricompensa. Ogni volta che l’animale (uomo compreso) col suo comportamento attivo riesce a provare piacere, la produzione di endorfine aumenta e aggiunge – per così dire – all’esperienza soggettiva del godimento un benessere profondo, psicofisico.È vero anche il contrario: qualunque scacco, qualunque frustrazione determinano una inibizione della produzione endorfinica, una condizione più o meno profonda di malessere. Non ci vuole molto a capire (anche se finora nessuno lo ha detto esplicitamente) che con le emozioni la storia dell’adattamento si complica. A sopravvivere ci tiene ogni animale, ma quelli dotati di emozioni, oltre a sopravvivere, sono costretti a cercare – spinti dalla volontà di vivere – il miglior equilibrio possibile nel rapporto con l’ambiente: a cercare – né più né meno – la felicità. Così si spiega perché gli animali superiori, compresi quelli domestici, oltre a mangiare, a dormire e a riprodursi, hanno bisogno di curiosare, di giocare, di essere carezzati e via dicendo. Esplorano, a modo loro, il mondo alla ricerca del benessere “interiore”. A modo loro, vale a dire in rapporto alle loro potenzialità che sono limitate.
E l’uomo, che deve vedersela con la giostra dell’infinito? L’uomo in genere ci prova a fare lo gnorri o il furbo. Ai tossicodipendenti il mercato offre la levetta chimica. La scoprono, la usano e, inibendo con la merce la produzione propria, soffrono le pene dell’inferno peggio dei ratti (che almeno muoiono felici e contenti). E che dire di quelli per i quali contano solo i soldi o il lavoro o il sesso o il potere e, in genere, per stare sulla cresta dell’onda, sniffano da matti? Felici li si vede sulle copertine dei giornali. Nell’intimo sono tutti terrorizzati dal pericolo di colare giù a picco.
Più di ogni altro animale l’uomo aspira alla felicità. Non può fare altrimenti essendo ricco di potenzialità emozionali e intellettive, e per giunta motivato da un’angoscia di precarietà che è solo sua. L’antifona dell’infinito, a questo punto, è chiara. Se le consapevolezze che essa comporta – i lutti, i dolori, le malattie, la vecchiaia, la morte – fossero sempre al centro della coscienza, ci troveremmo tutti a pensare come Buddha che la vita è una moneta falsa. Quelle consapevolezze, invece, sono tenute al margine della coscienza dall’aspirazione alla felicità. Il problema è come realizzarla. Le strategie non funzionano tutte. Il sistema del piacere non è specializzato, non riconosce un centro per la fame, uno per il sesso, uno per i soldi, unoper la musica e via dicendo. È polivalente e, per di più, esigente, maledettamente esigente. Si mantiene in equilibrio solo se è stimolato in più modi. Predilige insomma i piaceri eterogenei, da quelli fisici a quelli spirituali. E, dato che è un sistema unico, pare che questa differenza, alla quale si appellano gli edonisti per un verso, le vittime della virtù per un altro, la natura non la riconosca. Mens sana in corpore sano è una bella formula di saggezza, ma, da Cartesio in poi, gli uomini hanno sempre più difficoltà a praticarla. Esistono troppi corpi nel nostro mondo scolpiti nelle palestre che mascherano un cervello da gallina. Non meglio se la cavano quei pochi, che, disprezzando le mode e coltivando solo lo spirito, vanno in giro con la testa piegata da un peso che il corpo macilento sembra non reggere.
Qualunque limitazione della pratica delle diverse attività da cui un individuo può ricavare piacere è controproducente. Così, se uno pretende di soddisfarsi ingurgitando solo del cibo, ne può mettere dentro quanto ne vuole: gli rimane la fame (di vivere); se un altro vuole appagarsi solo con le letture dei libri, si incupisce. Idem per gli assatanati del lavoro, dei soldi, del potere, del sesso e di tutte le ossessioni unilaterali. La verità più o meno è questa: per avere un po’ di pace, l’uomo è costretto a sviluppare tutte le sue qualità – fisiche e psichiche – in un rapporto significativo, cioè vissuto, sentito, partecipato, con il mondo (con se stesso, la natura, gli altri e la cultura). Questa è la dura (?) lex scritta nel congegno.