Verso una panantropologia - Parte 1

Verso una panantropologia - Parte 2

1.

Nella presentazione del sito ho rilevato la necessità di procedere verso la formulazione di un modello antropologico, che rappresenti una cornice unitaria per tutte le scienze umane e sociali - dalla neurobiologia alla politica. La necessità muove dallo stato frammentario del sapere inerente l'uomo e i fatti umani, che si riflette in tutte le discipline che l'assumono come oggetto ed impedisce ad esse di raggiungere lo statuto scientifico cui aspirano. E' un po' come se la riflessione e l'indagine dell'uomo su se stesso, dopo aver abbandonato il piano della filosofia e dell'introspezione e adottato come modello quello delle scienze naturali, abbia prodotto e continui a produrre un'infinità di tessere la cui composizione sembra piuttosto allontanare che non favorire una concezione integrata.

I fautori del pensiero debole sostengono che l'esigenza di una concezione del genere va abbandonata in nome dell'accettazione di una complessità, inerente l'ordine reale a tutti i livelli, che proprio a livello umano raggiunge un grado tale da rendere impossibile ogni possibilità di semplificazione significativa (che, per esempio sotto forma di legge, è il prodotto proprio del pensiero scientifico).

La difficoltà che ho di accettare questa ideologia della complessità riconosce due motivi.

Il primo è di ordine epistemologico. I fautori del pensiero debole sembrano adottare il termine complessità nell'accezione che esso ha a livello di senso comune, riconducibile alla metafora della foresta laddove l'eccesso della vegetazione impedisce qualunque visione d'insieme. La scienza dei sistemi complessi, però, esiste, anche se la sua nascita è relativamente recente. Essa ha riconosciuto che, al di là dei fenomeni che possono essere interpretati sulla base di una logica lineare (quella che fa riferimento al rapporto causa-effetto), ne esistono infiniti altri, incomprensibili in termini lineari, il cui studio pone di fronte al fatto che l'apparente disordine è comunque sotteso da un ordine, che può essere interpretato e spiegato, anche se in termini probabilistici non deterministici.

Un esempio a riguardo può essere tratto da uno degli articoli pubblicati sul sito nel quale faccio riferimento al fatto che, con la sua organizzazione e la sua capacità di rispondere, frustrare o alienare i bisogni umani, ogni società produce un tasso di benessere e di malessere nei membri che ad essa partecipano. Isolando, all'interno di questo tasso, un'emozione particolare, la rabbia intesa come risposta alle ingiustizie (vere o presunte) che i soggetti vivono, si può parlare di una rabbia sociale e la si può assumere come un prodotto di quella determinata organizzazione sociale.

Ora, posto che in una società, la rabbia sociale, sia essa consapevole o inconsapevole, raggiunge un certo livello, è prevedibile che essa si traduca in comportamenti antisociali, devianti o autodistruttivi.

Si tratta dunque di una legge in senso proprio, perché comporta una previsione che può essere di fatto verificata attraverso la quantificazione statistica di quei comportamenti. Essa però è indeterministica nel senso che non consente di sapere anticipatamente chi li agirà (anche se qualche previsione in rapporto allo status sociale è senz'altro possibile).

E' evidente che un modello panantropologico deve prescindere dalla logica lineare e adottare quella propria dei sistemi complessi. Ciò non significa, però, che debba arrendersi all'apparente disordine che caratterizza il panorama umano. Essa può cercare di mettere a fuoco l'ordine sottostante che lo genera.

Il secondo motivo per cui rifiuto l'ideologia del pensiero debole è che la metafora della foresta inestricabile, all'interno della quale l'uomo può procedere solo aprendosi un sentiero, inibisce il pensiero critico. Della foresta in questione, infatti, fanno parte anche i prodotti delle discipline umane e sociali, parte dei quali hanno un significato ideologico. In nome della complessità (malintesa), occorrerebbe accettare la convivenza di principi, ipotesi e teorie i più diversi ciascuno dei quali avrebbe qualche grado di verità.

L'esempio più pertinente a riguardo - peraltro uno dei tanti - è fornito dall'economia, che continua ad articolarsi sulla base del presupposto dell'individualismo utilitaristico, che dà come verità acquisite che l'individuo viene prima del sociale e che la sua natura è caratterizzata dall'egoismo. Tale presupposto è facilmente confutabile, ma, essendo stato interiorizzato da gran parte dei cittadini occidentali, continua a far parte a pieno titolo della foresta, anche se si tratta di un ramo secco da tagliare.

Se anche la riflessione panantropologica non potesse ancora approdare ad un modello integrato (che io comunque ritengo già possibile), essa potrebbe essere utile in prospettiva nel selezionare, all'interno del sapere prodotto dalle scienze umane e sociali, ciò che si può ritenere valido o convalidabile da ciò che invece è spurio.

E' agevole capire, sulla base di queste premesse, che il progetto di un modello panantropologico non è di facile realizzazione.

Sono sollecitato a tentare di avviarne la formulazione dalla convinzione che la teoria dei bisogni intrinseci, la quale attribuisce all'uomo una doppia natura, ricavata dall'analisi dei fenomeni psicopatologici, possa rappresentare il fondamento di tale modello.

Per ora il progetto si può ritenere sperimentale. Si procederà, dunque, a vista, cercando di aprire un sentiero nella foresta.

Dato che il discorso richiede di affrontare una serie di problemi scientifici e filosofici piuttosto ardui, gli articoli a riguardo si susseguiranno con una cadenza regolare - bimestre per bimestre -, ma saranno relativamente brevi e corredati da note che focalizzano determinati concetti o l'importanza del pensiero di alcuni autori.

Quanto ci potrà essere di poco articolato in testi prodotti all'impronta, vale a dire senza il riferimento alla struttura di un saggio, può darsi che, alla fine, possa trovar rimedio in un'elaborazione finale.

2.

Il punto di avvio del discorso è già denso di difficoltà. Non si può, infatti, che partire ab ovo, dalla comparsa dell'uomo, imbattendosi immediatamente nella difficoltà di dati carenti o parziali. Per quanto, infatti, si possa valorizzare l'aspetto più singolare della specie umana - la sua capacità di trasformare l'ambiente e di produrre oggetti culturali (materiali e immateriali) - è fuor di dubbio che tale capacità in tanto si è espressa in quanto è intrinseca al cervello umano, la cui struttura biologica è un prodotto evolutivo.

Un primo presupposto importante, in un'ottica panantropologica, è, per l'appunto, che l'uomo è il prodotto di un'evoluzione naturale (graduale o discontinua per ora non importa) che, pur essendo caratterizzata da un'evidente tendenza alla complessità degli organismi, non è animata da alcuna logica e da alcun finalismo.

Questo presupposto può apparire banale per quanto concerne il problema del creazionismo. L'ipotesi creazionista, comunque formulata, urta contro il fatto che l'ominazione, vale a dire il processo che ha portato dagli ominidi primitivi all'homo sapiens, non è avvenuta linearmente, ma seguendo un tragitto accidentato, rappresentato, secondo un'immagine cara ai paleoantropologi, da un cespuglio, alcuni rami dei quali si sono estinti, e che solo alla fine è confluito nell'homo sapiens.

Ciò significa che, nel corso dell'ominazione, vari tipi di homo si sono succeduti, alcuni dei quali sono convissuti. La convivenza meno compatibile con l'ipotesi creazionista è quella dell'homo sapiens sapiens (la specie alla quale apparteniamo) con l'homo sapiens neardenthalensis, le cui tracce si ritrovano sia in Medio Oriente che in Europa, estintosi 35000 anni fa.

Per quanto i dati archelogici sui Neardenthalensis siano ancora carenti, al punto che non è certa neppure la pratica della sepoltura (mentre è probabile che assistessero i vecchi e i disabili), e per quanto si possano sottolineare le differenze evidenti della struttura cranica rispetto ai Sapiens Sapiens (a parità, però, di volume), si tratta in maniera inconfutabile di una specie umana capace di costruire utensili (coltelli, raschiatoi, punteruoli, lance, ecc.), dunque "intelligente".

Alla luce di questi dati, che di sicuro si arricchiranno ulteriormente in virtù delle ricerche paleoantropologiche e archeologiche in corso, ammettere il creazionismo significa né più né meno fare riferimento ad un Architetto o ad un Progettista dalle idee piuttosto confuse, che avrebbe messo alla prova varie specie dotate di caratteristiche umane per poi sceglierne definitivamente una e votare all'estinzione l'altra (o le altre).

Ritengo che l'ominazione e, soprattutto, la convivenza dell'homo sapiens sapiens con l'homo neanderthalensis bastino ad escludere definitivamente il creazionismo dal discorso panantropologico.

Alla stessa conclusione si perviene considerando non tanto la strenua opposizione che la Chiesa - cattolica e protestante - ha manifestato in passato nei confronti dell'evoluzionismo darwiniano, ma il recente risveglio e il radicalizzarsi di tale opposizione nell'ambito del protestantesimo statunitense.

Per quanto possa apparire ridicola la proposta di un'interpretazione letterale della Bibbia sull'origine dell'uomo, è fuor di dubbio che i Protestanti hanno colto in maniera più lucida rispetto alla Chiesa cattolica l'incompatibilità radicale tra la teoria dell'evoluzione naturale e il dogma della Creazione. Dopo una strenua opposizione, infatti, la Chiesa cattolica ha fatto buon viso a cattivo gioco ammettendo che l'intervento divino ha infuso l'anima in una specie animale prodotta dall'evoluzione, differenziandola per sempre dagli animali non umani.

Ma questa ipotesi compromissoria se si accorda a fatica con il cespuglio evolutivo, è incompatibile con l'esistenza contemporanea, per un certo tempo, di due specie umane.

En passant (gli excursus contrassegneranno tutti gli articoli dedicati alla panantropologia), aggiungerei che, al di là di questa incompatibilità, c'è almeno un altro aspetto dell'evoluzione naturale che non solo contrasta con il Creazionismo, ma lo dissacra. Si tratta di un aspetto sorprendente per la sua ovvietà, che raramente però è rilevato.

Nella cornice dell'evoluzione naturale che si siano definiti tre diversi regimi alimentari (erbivoro, carnivoro, onnivoro) è semplicemente un fatto.

Il regime carnivoro ha, però, scisso l'universo animale in predatori e prede, introducendo il tema della lotta per sopravvivere in senso stretto (vale a dire riferito alla formula mors tua vita mea). Quella scissione implica che infinite specie animali, poco provviste di strumenti difensivi, vivono costantemente in uno stato di allarme che, per quanto concerne quelle dotate di capacità emozionali, si trasforma spesso in attacchi di "panico". Basta aver visionato un solo filmato che documenta la cattura da parte di un felino di uno scimpanzè che viene sbranato in presenza dei membri del gruppo, impotenti e terrorizzati, per rendersi conto di quanta crudeltà è intrinseca alla lotta per sopravvivere.

Poniamo tra parentesi il fatto che l'uomo stesso, alle sue origine, si è ritrovato nel duplice ruolo di predatore e di preda, e ne ha ricavato un trauma tale da trasformarsi in un terribile predatore, che, per giunta, ha immediatamente applicato la legge del più forte alla sua stessa specie.

Ci si può chiedere semplicemente in quale modo l'esistenza della predazione, che destina le prede a vivere in un regime di terrore, si accordi con la bellezza e l'armonia del Creato cui fa riferimento la Bibbia (e i suoi stolti esegeti) e con l'infinita Sapienza divina. Il problema diventa ancora più inquietante teologicamente se si considera il fatto che il regime carnivoro non ha un carattere di necessità neppure da un punto di vista biologico. Esso, infatti, è indipendente dalla taglia: il ragno divora le sue vittime, l'elefante è erbivoro.

E' evidente che l'esistenza di animali che sentono e soffrono (anche se ovviamente in termini diversi rispetto all'uomo) non pone alcun problema da un punto di vista naturalistico, poiché l'evoluzione non procede sulla base di un progetto, ma ne pone infiniti e insolubili da un punto di vista teologico, tanto più che la gratuita sofferenza animale non comporta alcun merito.

La Chiesa cattolica continua a stigmatizzare la tracotanza dell'uomo nello sperimentare sulla vita. Se fosse almeno minimamente coerente, dovrebbe ammettere che, in questo, l'uomo non fa altro che proseguire l'"impresa" divina, e con una cautela sicuramente maggiore.

Il presupposto in questione, per cui l'uomo è solo il prodotto di un'evoluzione naturale, mette da parte il creazionismo, ma pone di fronte ad una serie complessa di problemi, che non possono essere sottaciuti.

Se l'uomo, in quanto essere biologico, è un prodotto dell'evoluzione naturale, vale a dire del caso , ciò significa che la specie umana, come tutte le altre, è una specie "sperimentale", prodotta per essere messa alla prova della selezione: per verificare insomma se e come essa potesse cavarsela sul piano dell'adattamento.

I biologi sostengono che, dal momento in cui compare, una specie si può ritenere "buona", nel senso stretto di avere raggiunto la massima espressione del suo potenziale genetico, solo dopo circa cinquecentomila anni.

L'homo sapiens sapiens è comparso sul pianeta da non più di centomila anni. Si tratterebbe, dunque, se si accetta il punto di vista dei biologi, di una specie ancora immatura (e a rischio). Anche ammettendo una qualche continuità evolutiva con le specie umane precedenti, la cui comparsa risale a 300000 mila anni fa, il discorso di fondo non cambia.

Esso diventa poi più complesso se si tiene conto che il criterio adottato dai biologi evoluzionisti cui si è fatto cenno concerne sostanzialmente specie biologiche il cui potenziale adattivo, essendo caratterizzato da una rilevante componente istintuale, vale a dire da moduli comportamentali in gran parte automatici maturati nel corso della filogenesi, si può ritenere incommensurabilmente inferiore a quello umano.

Ammettere che la specie umana sia ancora immatura è confortante e inquietante al tempo stesso. L'immaturità in questione, infatti, significa che essa, nel suo sforzo di sopravvivere e di adattarsi all'ambiente (trasformandolo in rapporto ai suoi singolari bisogni), è proceduta sostanzialmente sulla base di tentativi ed errori, senza un'immediata consapevolezza (e talora neppure remota) degli uni e degli altri. Ci si può confortare pensando che essa, nel corso del tempo, possa giungere a riconoscere gli errori e a rimediare ad essi, in particolare per quanto concerne lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo e quello, sempre più intensivo, della natura. Ci si può viceversa inquietare pensando che quegli errori possano essere perpetuati sino ad una catastrofe antropologica (vale a dire uno stato di guerriglia permanente tra sfruttatori e sfruttati, oppressori ed oppressi, ricchi e poveri, ecc.) o ambientale, che potrebbe far venire meno le condizioni biosferiche di sopravvivenza della specie umana.

In quest'ultimo caso, l'azzardo che la Natura ha corso nel creare l'uomo si configurerebbe come un esperimento fallito.

Il carattere sperimentale della specie umana è attestato inconfutabilmente dallo scarto che si è venuto a creare, con la comparsa dell'uomo, tra i suoi singolari bisogni e l'ambiente naturale.

E' stato A. Gehlen , nella sua opera più nota (L'Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983), a rilevare che, rispetto alle altre specie, quella umana è manchevole e quasi priva di capacità adattive naturali. La manchevolezza di cui parla Gehlen è da ricondurre alla critica diminuzione del bagaglio istintuale che si realizza con la comparsa dell'homo sapiens. Tale diminuzione implica che non si dà più un ambiente naturale al quale l'uomo possa adattarsi con moduli comportamentali istintuali per soddisfare i suoi bisogni immediati.

Un osservatore neutrale che avesse potuto assistere alla nascita dell'homo sapiens sapiens e valutarne le potenzialità adattive oggettive in rapporto all'ambiente, sarebbe presumibilmente giunto alla conclusione che la nuova specie era destinata ad una rapida estinzione. Sprovvisto di pelliccia, di artigli, di zanne, rallentato nella velocità dalla stazione eretta, immerso in una sterile savana popolata di animali feroci, l'uomo sarebbe apparso, a quell'osservatore, una specie ad alto rischio sotto il profilo competitivo ed estremamente vulnerabile.

Se l'osservatore, poi, avesse potuto prendere atto di ciò che avveniva nella testa o, per meglio dire, nel cervello di quel singolare animale, avrebbe avuto motivi ulteriori di preconizzarne una rapida estinzione.

Si sarebbe, infatti, ritrovato a constatare che l'apparato cerebrale di cui la specie umana era giunta a disporre comportava, anche solo sotto il profilo strettamente strutturale, vale a dire del numero dei neuroni e delle connessioni tra essi, un'infinita complessità il cui significato adattivo gli sarebbe apparsa per molti aspetti misteriosa. Quella complessità, tra l'altro, implicava anche un barlume di consapevolezza sulla propria condizione di essere vulnerabile, precario, finito e destinato a finire: consapevolezza che rendeva l'uomo più inquieto e ansioso di tutti gli altri animali, sentendo egli e sapendo di essere esposto alle ingovernabili forze della natura e ai numerosi predatori cui contendeva e con cui divideva il territorio..

3.

Si sostiene di solito che la debolezza biologica dell'uomo, il suo essere mancante e incapace di adattarsi naturalmente all'ambiente hanno rappresentato le molle dell'evoluzione culturale, vale a dire di un'evoluzione orientata a trasformare l'ambiente adattandolo alle singolari esigenze della specie. E' senz'altro vero. C'è da considerare però che il riferimento alla produzione della cultura - materiale e "spirituale" - viene spesso assunto come indizio della capacità dell'uomo di simbolizzare: capacità necessaria per vedere in qualcosa - un oggetto naturale - qualcos'altro che esso contiene in potenza, un utensile.

Imboccando questa via, si salta un passaggio straordinariamente importante. Intrinseca al cervello umano, infatti, quella capacità si realizza solo in virtù della condivisione della propria esperienza con quella di altri, vale a dire di una situazione cooperativa di gruppo.

Se l'uomo, dunque, è scampato all'estinzione, ciò si deve a due fattori interagenti tra loro: la socialità di gruppo, ereditata dagli animali superiori, e la capacità di utilizzare la socialità per progettare e realizzare soluzioni tecniche di problemi adattivi altrimenti insolubili.

Già iscritto nell'immaturità dell'infante umano, la cui dipendenza dalla protezione e dalle cure degli adulti e i cui tempi evolutivi sono smisurati rispetto a quelli degli altri primati, il bisogno di socialità, originariamente, si poneva come assoluto e coercitivo anche per gli individui adulti. Nelle condizioni originarie in cui è comparsa la specie umana, e per un lunghissimo periodo di tempo, infatti, essere fuori da un gruppo, essere solo significava per l'individuo una condanna a morte.

Il mito di Robinson Crusoe, in altri termini, non ha alcun significato in termini evolutivi. Affermare, come accade ancora oggi da parte di ideologi borghesi, che l'individuo viene prima della società e che quest'ultima non esiste se non sotto forma di somma di singole individualità, è, dunque, null'altro che un errore. L'individuo autonomo, che, separato dal gruppo, se la cava da solo, è un prodotto storico tardivo, l'espressione di un processo di individuazione che si è realizzato solo sulla base di un enorme patrimonio culturale prodotto a livello sociale e messo a disposizione dell'individuo.

Queste considerazioni sono importanti non solo perché obbligano ad attribuire alla natura umana un bisogno di condivisione sociale primario. Esse sottolineano anche il fatto che, originariamente, l'appartenenza sociale era per l'individuo il fondamento della sua identità, del suo equilibrio psicologico e della sua stessa sopravvivenza.

L'azzardo della comparsa della specie umana è stato dunque compensato dalla cooperazione di gruppo all'insegna dell'uno per tutti e tutti per uno. L'ingegno umano, vale a dire la capacità di produrre utensili e simboli, ha potenziato in misura critica i vantaggi della cooperazione, già presente, in forma elementare, nelle scimmie.

E' in virtù dell'avere ereditato dai progenitori un bisogno primario sociale e di avere utilizzato le potenzialità intrinseche alla neocorteccia che la specie umana è sopravvissuta e si è adattata all'ambiente avviando una trasformazione dello stesso che ha riconosciuto due "momenti" rivoluzionari - il primo legato alla nascita dell'agricoltura, il secondo all'avvio dell'industrializzazione - e che è ancora in atto.

Tutto ciò si può ritenere ormai acquisito, anche se, tra gli studiosi, si dà una certa tendenza a sopravvalutare l'acquisizione della capacità di astrazione logica e di manipolare simboli rispetto alla cooperazione sociale, in difetto della quale tale capacità non si sarebbe realizzata pur essendo intrinseca alla struttura cerebrale.

Se si valorizzano entrambi gli aspetti, e si tiene conto che il secondo ha funzionato come background della sopravvivenza della specie umana e dell'adattamento, non si stenta a capire perché, nella struttura più profonda dell'apparato mentale, l'appartenenza e la condivisione sociale mantengano, a livello emozionale, un primato indubbio rispetto alle esigenze dell'individuo.

La scoperta dei neuroni specchio, sulla quale ho scritto di recente, può essere interpretata come una conferma definitiva di questo assunto.

Note

1. Teoria dei sistemi complessi

Sulla teoria dei sistemi complessi (caotici o catastrofici), cui ho già fatto cenno (in maniera troppo sintetica e approssimativa) in psicopatologia Strutturale e Dialettica, pubblicherò un articolo il prossimo bimestre.

2. Caso

Attribuire al caso la nascita della vita sulla Terra e la comparsa dell'uomo, a seguito di una lunga evoluzione, urta di solito contro resistenze di due generi.

La prima è legata all'accezione comune del termine, che si fonda sull'opposizione casualità/causalità. Alla luce di tale opposizione, caso sta semplicemente per un evento o una serie di eventi la cui realizzazione non implica rapporti di causa/effetto. Tenendo conto del peso che il principio di causalità ha nell'organizzazione cognitiva della mente umana, questa resistenza è facile da comprendere. Essa, però, riposa su un errore.

L'opposto del caso non è la causalità, ma la necessità, vale a dire l'inevitabilità con cui un evento si produce date determinate circostanze (che quindi possono essere assunte come cause).

Posto ciò, per caso occorre intendere un evento che può, ma non necessariamente deve accadere: un evento, dunque, fortuito. Se esso non accade, non c'è nulla da spiegare. Se, viceversa, accade, è possibile spiegarlo come risultante delle interazioni di parecchie catene causali, nessuna delle quali in sé e per sé, separatamente, può determinarlo.

Un evento è dunque casuale semplicemente perché l'intersezione di catene causali da cui viene prodotto è fortuita.

Per fare un esempio chiarificatore, si può dire che la mortalità dell'uomo è una necessità biologica, destinata inesorabilmente a verificarsi. Che un individuo muoia però per un incidente stradale piuttosto che di morte naturale è un evento casuale. Allorché esso avviene, è possibile analizzarne le cause e, dunque, spiegarlo. Rimane il fatto che, prescindendo dal Fato, in quanto probabile, esso avrebbe potuto non realizzarsi.

Il concetto di caso si intreccia dunque con quello di probabilità, che è diverso rispetto alla necessità..

Il secondo tipo di resistenza, che va ricondotto al Creazionismo o alla Teoria del Disegno Intelligente, si fonda sulla confusione per cui ciò che è altamente improbabile è, ipso facto, impossibile. Tale confusione ignora un confine che, invece, esiste ed è agevole da esemplificare.

Se un individuo gioca una colonna dell'Enalotto, è estremamente improbabile che vinca, ma non impossibile, mentre è ovviamente impossibile se egli non gioca.

Nella sua banalità, l'esempio consente un'ulteriore notazione, non insignificante. Nel momento in cui un evento casuale si realizza, il fatto che esso, in termini statistici sia più o meno probabile, poco importa. La vittoria fortuita del giocatore in questione è un dato di realtà, come pure la sconfitta di coloro che hanno investito ingenti somme nella compilazione di complessi sistemi. In questo caso, si è realizzato un evento il cui grado di probabilità era infinitamente minore rispetto ad un altro.

L'esistenza del caso è, dunque, riconducibile semplicemente al fatto che accade qualcosa di non assolutamente necessario.

Al limite estremo, la contestazione confessionale della casualità della nascita del vivente verte sull'omologare il grado di probabilità di tale evento a quello di una scimmia che, battendo a caso i tasti di un computer, giungesse a scrivere per filo e per segno la Divina Commedia. A questo livello si sfiora il ridicolo perché non si tiene conto che, nel passaggio dalla materia inanimata alla vita, la Natura si è limitata a produrre semplicemente una sostanza (il DNA) dotata di potere replicativo e autopoietico. Il DNA è senz'altro qualcosa di straordinario, ma ha poco a che vedere con la Divina Commedia (intesa ovviamente come metafora della bellezza e della complessità del Cosmo).

Al di là di queste considerazioni, che richiederebbero un approfondimento ben maggiore, per accettare l'ipotesi della casualità all'origine della vita basta ricondursi semplicemente al buon senso. Il fatto che essendoci e avendo coscienza di esserci a noi risulta impossibile concepire un Universo privo di vita e senza esseri umani, è un motivo sufficiente per ammettere la Creazione e il Finalismo, o non è piuttosto l'espressione di un inguaribile e protervo antropocentrismo?

Il paradosso dei paradossi, quando si affronta il problema della comparsa dell'uomo, è che anche il Creazionismo, in ultima analisi, implica la casualità. Quale credente, infatti, oserebbe attribuire a Dio la necessità di creare l'uomo?

2. A. Gehlen

1.

Arnold Gehlen è uno dei primi studiosi che si è inoltrato sul terreno di un’antropologia che, senza rinunciare alla riflessione filosofia, integra e valorizza nella sua cornice i dati offerti all’epoca dalle discipline scientifiche. Si può ritenere, dunque, un precursore di una branca del sapere che io ho proposto di definire panantropologia.

In tutta la sua opera, Gehlen si riconduce all’intuizione originaria che è alla base del suo pensiero: la definizione della specie umana come una specie singolarmente carente di capacità ad attive istintive, consapevole di questa carenza e pertanto aperta al mondo per adattarlo ai suoi bisogni, vale a dire costretta a produrre la cultura.

Con questa definizione, Gehlen naturalizza la condizione dell’uomo di essere gettato nel mondo a cui, già nel 1927, era pervenuto Heidegger sulla base di una riflessione strettamente filosofica. Nonostante l’apparente convergenza nella definizione dello statuto umano, tra i due autori si dà una differenza radicale, che Gehlen ha sempre rimarcato.

Anche se egli non si è mai dichiarato esplicitamente materialista, non è venuto meno nel corso della sua vita al principio per cui l’uomo è un singolare prodotto della natura il cui funzionamento postula il tenere conto delle strutture biologiche e di quelle culturali. Questo principio lo ha messo al riparo dalle suggestioni metafisiche cui indulge l’ultimo Heidegger e in opposizione rispetto alla tradizione spiritualista che caratterizza, da Kant in poi, la filosofia tedesca.

Prospettive antropologiche rappresenta una sintesi, per alcuni aspetti eccellente, del pensiero di Gehlen, del suo valore  e dei suoi limiti, sui quali mi soffermerò in sede di valutazione critica.

Si tratta di una raccolta operata dall’autore stesso di dieci saggi, redatti in epoche diverse. I cui contenuti sono, pertanto, eterogenei, ma polarizzati su tre tematiche fondamentali nel pensiero geheliano: la natura umana, le istituzioni e la tecnica.

L’interesse per la natura umana è costante nella storia della filosofia, ma, ancora agli inizi del Novecento, appare caratterizzato da una tendenza a tenere poco conto degli apporti della scienza. Ciò dipende non solo da una certa presunzione metodologica e da una scarsa conoscenza, ma soprattutto dall’incidenza della distinzione introdotta da Cartesio tra res cogitans e res extensa.

Una scienza globale dell’uomo, nell’ottica di Gehlen, deve anzitutto sormontare tale distinzione:

“Esiste qui evidentemente una tematica biologica ed una pertinente alla scienza della cultura. Questa antica connessione nella quale furono visti in un primo tempo i due aspetti della cosa e nella quale ancora Kant li vide, non è forse casuale: ha sicuramente le sue buone ragioni. L'uomo è un essere complicato nel quale questi due aspetti hanno palesemente pari rilevanza. Si pone di conseguenza la domanda se non si possa sviluppare una rappresentazione, un'immagine dell'uomo, portando avanti insieme di nuovo entrambi questi aspetti principali, mentre l'attività creatrice di cultura di un essere biologicamente organizzato in questo modo e la sua struttura biologica possono in qualche misura chiarirsi a vicenda.” (p. 27-28)

Oltre che essere formulata, però, tale domanda postula una nuova impostazione:

“Nelle scienze empiriche - e io ho inteso considerare tale la filosofia - è un modo di procedere legittimo quello di cambiare la domanda. Certi esempi in fisica, ma anche in psicologia, rendono legittima l'aspettativa che proprio attraverso modificazioni del modo di porre la domanda si potessero ottenere i risultati più sbalorditivi. Non si potrebbe - così si poteva formulare l'idea - trovare un tipo di tema-chiave tale che non vi si ponesse affatto il problema corpo-anima? E questo doveva essere un tema da affrontare in sede di scienza empirica se si voleva assicurarsi il vantaggio di eliminare, insieme al dualismo, tutte le domande metafisiche, cioè le domande alle quali non era possibile dare risposte. Il ruolo di un tale punto di partenza sembra poter essere svolto dall'azione, cioè dalla concezione dell'uomo come un essere in primo luogo agente, là dove «azione» in prima approssimazione deve designare l'attività indirizzata alla modificazione della natura in vista degli scopi dell'uomo.” (p. 33)

“Se si chiedesse da che cosa è caratterizzato in primo luogo il nostro schema, si dovrebbe rispondere: il lato fisico, corporeo dell'uomo e il suo lato interiore, spirituale possono venire concepiti insieme a una sola condizione: che noi osserviamo, dal punto di vista biologico di come un essere si conservi e prolunghi la sua esistenza, che il suo conservarsi intelligente e previdente viene ottenuto proprio attraverso determinate proprietà fisiche. Un essere organicamente così costituito è capace di vivere solo sulla base di una modificazione previdente della natura. Si deve perciò porre al centro di tutti i problemi e domande ulteriori l'azione, e definire l'uomo come essere agente.” (p. 76)

E la praxis, dunque, vale a dire la trasformazione della natura, e non il pensiero a differenziare l’uomo dagli altri animali. Tutti gli esseri viventi cercano di adattarsi all’ambiente, ma l’adattamento di cui l’uomo ha bisogno, e che è riuscito a realizzare, è di ordine del tutto diverso e riconosce la sua matrice in un’organizzazione biologica caratterizzata dalla “carenza”. Gehlen riprende da Herder questo concetto, ma lo elabora in maniera affatto personale:

“Non posso considerarmi innocente dalla colpa di avere insieme allargato il concetto di «essere carente» nonostante la confessata validità soltanto approssimativa di questo concetto, che in primo luogo deve servire soltanto a richiamare l'attenzione sul fatto che l'uomo in qualsiasi ambiente naturale è incapace di vivere per carenza di organi e istinti specializzati. Senza un ambiente specifico della specie al quale fosse adattato, senza uno schema innato di movimento e comportamento (e ciò negli animali significa «istinto»), per carenza quindi di specifici organi e istinti, povero di sensi, privo di armi, nudo, embrionale nel suo habitus, istintivamente insicuro già per via del farsi sentire interiore dei suoi impulsi, egli è chiamato all'azione, alla modificazione intelligente di qualsivoglia condizione naturale incontrata'. Mani e cervello potrebbero venire considerati organi specializzati dell'uomo, ma lo sono in un senso diverso da quello degli organi degli animali: ambigui nella utilizzazione, specializzati per compiti e prestazioni non specializzate, quindi all'altezza degli imprevedibili problemi del mondo illimitato. La prova di sé di un essere tanto arrischiato, cioè mantenersi in vita, può consistere nel suo strato di base solo in un superamento e in una compensazione della sua dotazione carente, e là dove scopriamo le più antiche culture, scopriamo anche gli attrezzi necessari alla vita, le amigdale, i coltelli di selce, le punte di lancia, sempre prodotte con tecniche andate perdute, le tracce di fuoco, eccetera.” (p. 137-138)

“L'uomo è qualificato già dal punto di vista fisico, dalla sua dotazione carente di armi organiche o di mezzi di difesa organici, dalla insicurezza e dallo stato di decostruzione dei suoi istinti, dalle modeste prestazioni dei sensi, in modo tale che io ho ritenuto praticabile a questo proposito l'uso dell'espressione «essere carente» introdotta da Herder... Si può in ogni caso affermare quanto segue: l'uomo, posto come un animale di fronte alla natura grezza, sarebbe in tutte 1e situazioni incapace di vivere con la sua physis innata e la sua carenza di istinti. Queste carenze vengono però compensate attraverso la capacità, che sa rispondere alla più urgente necessità: modificare questa natura grezza, e in realtà qualsivoglia natura, in qualunque modo ciò possa essere fatto, in modo tale che essa possa divenire per lui utilizzabile.” (p. 34)

Il fondamento scientifico dell’essere carente esiste. Gehlen è tra i primi a valorizzare le scoperte di L. Bolk sul ritardo dello sviluppo (neotenia) in rapporto agli altri animali:

 “Si è notato già da tempo che l'uomo, considerato morfologicamente, rappresenta per così dire un'eccezione. I progressi della natura consistono per lo più nella specializzazione organica delle sue specie, e quindi nella costruzione di adattamenti naturali, sempre più adeguati alla prestazione, ad ambienti determinati. Un organismo animale «si conserva» in forza della sua specifica organizzazione in una struttura di condizioni, in quanto è «adattato», senza che ci poniamo qui la domanda sul modo in cui questa armonia si è realizzata. Ora, se si considera l'uomo in modo teoricamente spregiudicato, si notano alcuni tratti caratteristici, che in un primo momento sarà sufficiente elencare:

E' «organicamente carente di strumenti», senza armi naturali, senza organi di offesa e di difesa o di fuga, con sensi incapaci di prestazioni particolarmente significative, in quanto ognuno dei nostri sensi sarebbe ampiamente superato dagli «specialisti» nel regno animale. E' sprovvisto di rivestimento pilifero e senza adattamento alle intemperie, ed anche molti secoli di autoosservazione non gli hanno insegnato se egli possieda degli istinti in senso proprio e quali. Lo si è già notato da lungo tempo, e sia Herder (1772) sia Kant (1784) vi hanno già richiamato l'attenzione. Ma solo recentemente sulla base del contributo di Bolk, anatomista di Amsterdam recentemente scomparso, si è sviluppata una teoria che concepisce tutti i tratti caratteristici particolari della struttura dell'uomo dal punto di vista della «primitività». Con questo termine si intende da un lato la circostanza che certe particolarità organiche, come la dentatura senza interstizi, la mano con cinque dita ed altre, debbano essere «arcaiche», cioè vecchie dal punto di vista evolutivo, in quanto sono comprensibili solo come punto di arrivo di specializzazioni, quali quelle che troviamo presso le grandi scimmie (sviluppo all'infuori del canino, accorciamento del pollice); dall'altro lato l'altra circostanza che altre particolarità (mancanza di pelo, curvatura a volta del cranio con dentatura sottostante, struttura della regione del bacino, eccetera) sono da intendere come una condizione fetale fissata, divenuta durevole. Questo ritardamento, al quale l'uomo deve un habitus per così dire embrionale, è un principio esplicativo di grande valore, perché permette di comprendere anche altre proprietà umane, innanzitutto il tempo di sviluppo prolungato in modo sproporzionato, la lunga inettitudine della fase infantile, la ritardata maturazione sessuale, eccetera. Il complesso di questi tratti caratteristici puòvenire riassunto sotto la categoria della «non specializzazione».” (p. 73)

Il ritardo dello sviluppo dell’uomo attestato dalla biologia è la causa della sua “apertura al mondo” la quale:

“rientra come una proprietà interna nel contesto delle fondamentali proprietà esterne, delle quali Louis Bolk, il defunto geniale anatomista di Amsterdam, sostenne che sono nel complesso proprietà embrionali stabilizzate e divenute permanenti per tutto il corso della vita: così la curvatura a volta del cranio, la collocazione delle mascelle sotto la scatola cranica, l'assenza di rivestimento pilifero, la struttura del bacino dalla quale deriva l'andatura eretta, eccetera. Anche l'apertura al mondo dell'uomo rappresenta una caratteristica infantile di questo genere che permane stabilizzata, ed è perciò possibile, come afferma Portmann, comprendere una serie di proprietà, che a prima vista sono puramente fisiche, come la durata della gravidanza e il grado ritardato del perfezionamento degli strumenti di movimento e di comunicazione alla nascita, soltanto in interrelazione con la costruzione della nostra vita sociale, e anzi del complessivo modo di esistere aperto al mondo dell'uomo. L'intero afflusso, indeterminatamente aperto, di stimoli che si esercitano sul bambino diviene così addirittura una funzione parziale obbligatoria di maturazioni e sviluppi psichici, che si svolgono nella maggior parte dei mammiferi superiori interamente nel corpo materno.” (p. 89)

La non specializzazione, vale a dire l’assenza di un corredo istintivo che consenta un adattamento quasi automatico all’ambiente, è, per Gehlen, l’aspetto più singolare della specie umana, che proprio per ciò rappresenta un’eccezione. La povertà degli istinti comporta, infatti, come conseguenza che l’uomo si trova gettato in un mondo indeterminato:

 “A differenza degli animali, infatti, l'uomo è consegnato a un mondo indeterminato, infinitamente aperto con una sovrabbondanza di possibilità non previste. Non gli è dato alcun organo adattato con precisione all'ambiente che, rispondendo a pochi istinti finalizzati, gli schiuda soltanto quel ritaglio del mondo che è importante per la vita e gli oscuri con delicatezza tutto il resto.

L'uomo è invece gettato inerme, privo di istinti, non specializzato, cioè non adattato, in un mondo che proprio per questi motivi è tanto enormemente ricco di contenuti perché sopraffà e travolge con impressioni un essere a cui manca la protettiva limitatezza organica che possiede l'animale, il quale può vivere nel suo corpo perché l'ambiente si armonizza con questo.

La quasi totale mancanza di organi carichi di istinto, specializzati in grado elevato, il mondo come sfera indeterminata infinitamente aperta della sua esistenza e la necessità di vivere scegliendo e prendendo posizione incessantemente, e quindi di agire, tutti questi sono soltanto diversi aspetti della medesima situazione fondamentale umana. Questo mondo, che diversamente dall'ambiente dell'animale non è stato reso amico degli istinti da una sapienza superiore, deve anche venire interpretato agendo. Una percezione interpretata, un moto in preciso accordo con l'oggetto sono già prestazioni che presuppongono un lavoro applicato di mesi e anni della prima infanzia, in un periodo di esercizio lungo, protetto e difeso dall'esterno. L'appropriazione di un mondo aperto, indeterminato, con il risultato tardo e faticoso di credere di cogliere già percependo l'essere-così delle cose, questa appropriazione è, vista dall'altro lato, sviluppo delle nostre possibilità di azione, costruzione di capacità di prestazione e abilità che sono state in precedenza acquisite.” (p. 54)

“La povertà di istinti dell'uomo, vista da lungo tempo, sta in una interrelazione tanto stretta con la non specializzazione del suo habitus complessivo quanto con la sua apertura al mondo: perché che cosa sono - per dirlo brevemente - gli istinti se non coordinamenti innati dei movimenti di genere speciale, dei quali un essere tanto carente organicamente ne possiede solo pochi? E dato che gli istinti possono essere soltanto di elevata conformità allo scopo, in quanto rispondono a stimoli del mondo molto determinati e aggiustati, anche da questo punto di vista l'uomo non può essere un essere istintuale, perché nella sua situazione vitale nulla garantisce che egli incontri segnali di questo genere, esposto come è alla sfera aperta del mondo. Da qui però si origina nell'uomo un profluvio di forza pulsionale non vincolata, da orientare nel corso dell'esperienza e della contrapposizione al mondo, in larga misura eccedente l'ammontare di energia che sarebbe necessario per la mera conservazione della vita, e di conseguenza un bisogno di trasformazione, di disciplinamento, perfino di inibizione, che bisogna vedere e comprendere se si vogliono comprendere due tratti che sono anch'essi palesemente caratteristici: da un lato l'eccezionale energia pulsionale dispiegata in modo inesauribile con cui l'uomo ha trasformato la faccia della terra, e dall'altro lato ciò che vi è di pericoloso, arrischiato, in questione, nella sua organizzazione - «la complessiva debolezza della natura umana abbandonata a se stessa, non difesa da nessuna forma rigida» (Bachofen) - e con essa ancora il potere sovrano delle forme disciplinari, dei costumi, delle morali e delle sanzioni, degli ordinamenti del dominio e della guida, il potere del Leviatano.” (p. 82)

L’apertura dell’uomo al mondo, come conseguenza del suo essere carente, è la matrice dell’azione rivolta ad adattare il mondo ai suoi bisogni, vale a dire della cultura. Ma, nell’ottica gehliana, si tratta di una condizione drammatica, ben lontana dal razionalismo che attribuisce al pensiero un controllo e un dominio sulla realtà (esterna e interna).

2.

Negli animali gli istinti sono guide filogenetiche del comportamento, che aiutano l’individuo ad adattarsi all’ambiente utilizzando moduli già lungamente sperimentati. Anche se si ammette, oggi, che tali moduli non sono del tutto automatici e non escludono la necessità di un qualche apprendimento, è fuori di dubbio che essi riducono di gran lunga lo sforzo di interpretare l’ambiente.

L’allentamento degli istinti realizzatasi con la comparsa della specie umana, associata alla sprovvedutezza neotenica, pone l’uomo di fronte ad un mondo indeterminato, sovrabbondante di possibilità, che egli deve interpretare al fine di porre in essere comportamenti adattivi. L’uomo, insomma, si ritrova gettato nel mondo ed inerme, consapevole oltretutto di questa sua condizione.

Ricostruita a posteriori, l’adattamento intervenuto impedire di apprezzare il carattere drammatico dell’originaria condizione umana:

 “L'uomo si è diffuso sulla terra e, nonostante le sue carenze di strumenti fisici, ha assoggettato la natura in misura crescente. Non è possibile indicare alcun «ambiente», alcun insieme di condizioni naturali e originarie che debbano venire soddisfatte perché «l'uomo» possa vivere, ma lo vediamo «conservarsi» ovunque, al polo e all'equatore, sull'acqua e in terra, in foreste, paludi, montagne e steppe. E in effetti egli vive come «essere culturale», cioè sulla base dei risultati della sua attività previdente, pianificata e complessiva, che gli permette, a partire dalle più casuali costellazioni di condizioni naturali, attraverso la loro modificazione provvidenziale e attiva, di mettere a punto le tecniche e i mezzi della sua esistenza. E perciò possibile chiamare «sfera culturale» di volta in volta l'insieme di condizioni originarie attivamente modificate, entro le quali soltanto l'uomo vive e può vivere.” (p. 73-74)

Alle sue origini, però, l’apertura al mondo è una condizione negativa. L’uomo, infatti, si trova investito da un profluvio di stimoli e da un eccesso pulsionale, che lo costringono ad agire, ma all’insegna di un’angoscia perpetua sottostante il suo essere:

“Per via della carenza di istinti e degli organi loro corrispondenti, univocamente adattati all'ambiente, cioè specializzati, per via dell'involuzione di numerosi organi di difesa, di attacco e di selezione che non sono negati all'animale, per via del singolare eccesso di impulsi che si accompagna alla carenza di istinti e non specializzazione, in breve per via della dipendenza, già dal punto di vista fisico, dell'uomo dal suo intelletto, ovunque lo vediamo, l'uomo possiede una certa disposizione alla degenerazione e una plasticità, che facilmente eccede diventando lussureggiante, e una deperibilità di una quantità di possibilità di adattamento spesso non sollecitate, e inoltre una tendenza alla degenerazione delle sue pulsioni che risiede nell'eccesso di impulsi già menzionati.” (p. 61)

“L'«apertura al mondo» dell'uomo (Scheler) è propriamente, considerata dal punto di vista biologico, uno stato di cose negative. All'animale la saggezza della natura ha schermato tutto ciò che non si presenta alla percezione come importante per la vita in quanto nemico, preda o segnale sessuale o, in altri casi, in un campo percettivo con contenuti biologici sovrabbondanti, solo l'oggetto del comportamento, ciò che è e può divenire istintualmente significativo. L'uomo è invece posto di fronte a un profluvio di stimoli, a una ricchezza del percepibile comprensibile da un punto di vista biologico soltanto se la si pone in relazione alla necessità di trovare occasioni per la propria attività di cui vive fisicamente, in condizioni qualsiasi, mai adatte, e quindi multiformi e svariate in grado fortuito. L'onere che ciò comporta viene da lui superato grazie alla sua attività, anche se vi è molta strada da fare prima che venga raggiunto lo sguardo d'insieme senza fatica, che venga riconosciuta la ricchezza di contenuti, che venga sviluppata ed esercitata la capacità di movimento e di lavoro manuale. Possiamo quindi designare questi sviluppi anche come processi di esonero.” (p. 77)

La difesa dall’angoscia è la produzione della sfera culturale, che implica le interpretazioni che l’uomo fornisce della sua condizione e del mondo in cui si trova gettato; gli strumenti tecnici che egli produce e le trasformazioni del mondo che, attraverso essi, realizza; le istituzioni sociali.

Gehlen scrive a riguardo:

“Proprio nella misura in cui il mondo si sottrae alla presa dell'uomo, nella misura in cui non offre alcun appiglio all'azione modificatrice e utilizzatrice dell'uomo, e quindi nelle sue entità immodificabili, esso viene interpretato a partire da un senso, e a queste interpretazioni vengono collegate per lo meno sequenze di azioni, più precisamente di natura simbolica.

Dal punto di vista che sto sostenendo, una filosofia o visione del mondo o mitologia appare come una interpretazione del senso proprio delle entità del mondo non modificabili, là dove queste interpretazioni divengono moventi per un agire che in un primo tempo è culturale o rituale, che si pone in rapporto con quella parte del mondo alla quale bisogna rassegnarsi, come per esempio la morte. (p. 39)

L’uomo può sopravvivere attraverso il suo agire, ma rimangono comunque aspetti della sua realtà esistenziale e del mondo rispetto ai quali è letteralmente impotente. Lo scarto tra l’agire e l’impotenza è colmato per un verso dalla mitologia e per un altro dalla mistificazione per cui ogni cultura assegna ai suoi valori un carattere assoluto:

“Le norme giuridiche, religiose, estetiche, politiche e simili, in una società possono divergere pienamente da quelle che sono in vigore in un'altra società. Sorge l'impressione di un grado molto elevato di indeterminazione, almeno nel senso di imprevedibilità. Così mi sembra impossibile anche definire concetti come quello di «diritto» o di «religione» in modo tale che possano anche realmente comprendere tutti i fenomeni noti così informalmente definiti. Per esempio, che possa comprendere nel caso della religione anche il primo buddismo, cioè una religione redentiva (dottrina della redenzione? tecnica della redenzione?) che non conosceva dèi o creatori del mondo. Le diverse culture si differenziano nelle loro prospettive e negli elementi che le compongono in modo altrettanto radicale delle lingue, la cui infinita, e anzi categorica, diversità vale anche per gli altri campi culturali, e quindi per le forme della famiglia, della proprietà, del dominio, eccetera...

Ogni cultura esperisce le norme e conformazioni culturali da lei elaborate, per esempio il suo pensiero giuridico, le sue forme di matrimonio, la sua scala di interessi, passioni e sentimenti, come le sole naturali e secondo natura. Essa di regola esperisce le norme di un'altra cultura o società come curiose, comiche, particolari, per lo più però come innaturali, anormali, contro natura, o addirittura, procedendo oltre, come peccaminose e riprovevoli.” (p. 117)

La naturalizzazione delle norme culturali non ha nulla a che vedere con una matrice biologica: essa attesta semplicemente che esse non sono poste in dubbio.

Si tratta di una difesa che ogni gruppo culturale adotta nei confronti del mondo indeterminato dei possibili valori culturali. Essa, al tempo stesso, irrigidisce e fragilizza le culture. E’ inevitabile, infatti, che, nel corso della storia, intervengano confronti tra culture, che scuotendo i presupposti impliciti in ciascuna di esse, possono produrne la dissoluzione o la ristrutturazione:

“I modi culturali di comportamenti, i generi di pensiero e di esperienza, le forme di reazione, eccetera, sviluppati in una determinata società appaiono «naturali» a coloro che sono stati allevati entro questa società; invece quelli che se ne discostano appaiono ridicoli, inauditi o perversi. Quando queste norme vengono scosse - ciò che sempre avviene in qualche momento, anzitutto per opera di un contatto con l'esterno o di un certo grado di complicazione del sistema culturale - allora appaiono arbitrarie o convenzionali, e ad esse se ne contrappongono altre che si impongono come naturali. Ciò che può ora però ottenere il carattere di naturale sarà a sua volta determinato in ultima istanza dal sistema dei presupposti della cultura in questione, che quindi in ultima istanza si limita a sostituire un principio dei modi di comportamento culturalmente modellati, che ha perso l'apparenza della naturalità, con un altro che ha guadagnato questa apparenza. A partire dal 1885 l'autocomprensione di questo processo suole essere espressa con il termine «rivoluzione» (Karl Bleibtreu).” (p. 123)

Gehlen, dunque, è un antesignano del relativismo culturale.

La componente di drammaticità, però, che egli associa alla sprovvedutezza umana e all’angoscia dell’apertura ad un mondo indeterminato, lo porta ad una concezione delle istituzioni che è difficile non considerare conservatrice. Il conservatorismo gehliano ha una precisa ragione d’essere. L’allentamento critico dell’apparato istintivo nell’uomo, coincide, infatti, secondo Gehlen con un eccesso di energia pulsionale potenzialmente pericolosa che va incanalata per proteggere l’individuo e la società dalla “degenerazione:

“L'uomo è già fisicamente predisposto per il controllo, la disciplina, l'allenamento, un'ordinata sollecitazione dall'alto che non sembra già indirettamente garantita dal mero lavoro necessario per la vita; infatti noi vediamo ovunque un ordinamento di regole e consuetudini della condotta di vita ancora più perfezionato, anzi sviluppato fino nei particolari. I primi ambienti culturali ci mostrano nel modo più chiaro come il bisogno dell'intelletto di interpretazioni concordanti e ordinate sia congiunto a quello che il corpo ha di sollecitazione coerente, formata e metodica, e questa è soprattutto la funzione svolta da quei primi sistemi-guida che sono le religioni e le visioni del mondo. A questo proposito le difficoltà maggiori sono create dalla necessità di disciplinare la vita pulsionale umana, innanzitutto nella direzione di una certa regolarità che comprende occasionali privazioni.

Infatti nella nostra natura non è prevista né un'assoluta regolarità né una stabilmente ordinata soddisfazione dei bisogni che non lascerebbe mai spazio a privazioni che occasionalmente mobilitino le riserve della nostra physis.” (p. 61)

“Va aggiunta a questo punto ancora un'altra proprietà fondamentale della vita pulsionale umana, cioè la sua cronica e ininterrotta vivacità ed eccitabilità, ciò che Max Scheler aveva chiamato eccesso pulsionale. Si ha talvolta l'impressione che diversi gruppi di residui istintuali siano fra loro in concorrenza nel campo dell'azione per il controllo durevole e contemporaneo dello stesso campo di espressione, cioè della facoltà motoria. Ciò li costringe a compiere grandi semplificazioni e fusioni, che poi noi designiamo come gelosia, ambizione, desiderio di guadagno, senso del dovere. Sicuramente i costumi, e le consuetudini giuridiche e le istituzioni di una società costituiscono la grammatica, secondo le cui regole devono articolarsi le nostre pulsioni; forse sono questi soprattutto i grandi semplificatori, che producono e sorreggono dall'esterno quelle grandi sintesi in cui i diversi impulsi si fondono in atteggiamenti. Se questi poteri di sostegno vengono scossi, allora queste intenzioni si sfasciano in impulsi mutevoli, che balbettano e si esprimono in modo incomprensibile perché hanno perduto la facoltà della parola nel suo complesso...

Possiamo affermare ora in generale: se consideriamo l'uomo come essere sociale, le istituzioni di una società, cioè le forme sociali, le forme della produzione, le forme del diritto, i riti, eccetera, costituiscono la grammatica e la sintassi e perciò le forme di espressione entro le quali devono muoversi le ripartizioni degli impulsi e degli istinti degli esseri umani. Avviene come se questo repertorio di istituzioni funzionasse come una chiusa che canalizzasse determinati impulsi e ne trattenesse altri. (p. 94-95)

La necessità delle istituzioni si fonda per l’appunto sulla necessità di contenere l’energia pulsionale umana:

“L'interiorità umana è un territorio troppo mosso perché si possa fare reciproco affidamento su di esso. Le istituzioni operano come piloni di sostegno e come puntelli esterni, la cui mutevolezza è provata dalla storia e dalla storia della cultura umana nel loro complesso.” (p. 42)

“Gli istinti non determinano nell'uomo, come nell'animale, singoli svolgimenti del comportamento ben stabiliti. Invece ogni cultura estrae, dalla molteplicità dei possibili modi di comportamento umano, determinate varianti e le eleva a modelli di comportamento sanzionato socialmente, che sono vincolanti per tutti i membri del gruppo. Tali modelli culturali di comportamento o istituzioni significano per l'individuo un esonero da troppe decisioni, un indicatore stradale attraverso l'eccesso di impressioni e stimoli, dai quali l'uomo aperto al mondo viene sommerso.

Da questa prospettiva le istituzioni appaiono come la forma dell'esecuzione di compiti o del superamento di circostanze (importanti per la vita), dato che la riproduzione o la difesa o la nutrizione esigono una cooperazione regolata e durevole; dall'altro lato appaiono come le forze stabilizzanti: sono le forme che un essere per sua natura arrischiato o instabile, effettivamente sovraccarico di oneri, trova per sopportarsi vicendevolmente e per sopportare se stesso, qualcosa in virtù della quale si possa far conto e fare affidamento su se stessi e sugli altri. Da un lato in queste istituzioni gli scopi della vita vengono trattati e praticati collettivamente, dall'altro lato gli esseri umani in queste istituzioni si orientano a definitive certezze su ciò che va fatto e ciò che non va fatto, con lo straordinario guadagno di una stabilizzazione anche della vita interiore, di modo che essi non debbano in ogni circostanza contrapporsi affettivamente o estorcersi decisioni fondamentali.” (p. 105-106)

“L'interna instabilità della vita istintuale umana appare quasi senza limiti. Sono forme inibitorie fisse e sempre anche limitanti, lentamente sperimentate nel corso dei secoli e millenni quali il diritto, la proprietà, la famiglia monogamica, il lavoro diviso in modo determinato, che hanno spinto e disciplinato le nostre pulsioni e intenzioni in direzione delle esigenze in grado elevato esclusive e selettive che si possono chiamare cultura. Queste istituzioni come il diritto, la famiglia monogamica, la proprietà, non sono in alcun senso naturali, e possono venire molto rapidamente distrutte. Altrettanto poco naturale è la cultura per i nostri istinti e atteggiamenti, che devono piuttosto venire irrigiditi, contenuti e spinti verso l'alto da quelle istituzioni. E quando si abbattono i puntelli, noi ci primitivizziamo molto rapidamente. Perciò non vi è, come credeva Lorenz, una disgregazione di istinti originariamente sicuri, ma la reistintivizzazione, il ritorno alla fondamentale e costituzionale insicurezza e capacità di degenerazione della vita istintuale. Quando vengono meno e vengono distrutte le protezioni e stabilizzazioni esteriori che risiedono nelle tradizioni stabilite, allora il nostro comportamento diviene privo di forma, determinato dagli affetti, istintivo, non calcolabile, inaffidabile. In quanto anche in condizioni normali il progresso della civiltà procede distruggendo, cioè smantella tradizioni, sistemi giuridici, istituzioni, esso naturalizza l'uomo, lo primitivizza e lo ributta nella instabilità naturale della sua vita istintuale. I movimenti verso il decadimento sono sempre naturali e verisimii; i movimenti verso il grande, l'esigente e il categorico sono sempre forzati, faticosi e improbabili. Il caos, proprio come ritenevano i più antichi miti, è da collocare all'inizio e naturale, il cosmos è divino e minacciato.

Sostengo apertamente una posizione che è il rovescio di quella del Settecento: è giunto il tempo per un antiRousseau, per una filosofia del pessimismo e dell'esprzt de serieux. «Ritornare alla Natura» significa per Rousseau: la cultura sfigura l'uomo; lo stato di natura lo rivela in piena ingenuità, giustizia e ispirazione. Contro Rousseau, e all'opposto di quanto egli afferma, ci appare oggi che lo stato di natura nell'uomo è il caos, la testa della Medusa al vedere la quale si è pietrificati. La cultura è l'improbabile, cioè il diritto, la costumatezza, la disciplina, l'egemonia della moralità. Ma questa cultura divenuta troppo ricca, troppo differenziata, porta con sé un esonero che si è spinto troppo lontano e che l'uomo non sopporta. Quando si fanno avanti i prestigiatori, i dilettanti, gli intellettuali saltimbanchi, quando si alza il vento della pagliacciata generale, allora si allentano anche le istituzioni più antiche e i corpi professionali più rigidi: il diritto diventa elastico, l'arte nervosa, la religione sentimentale. Allora l'occhio esperto scorge già sotto la schiuma la testa di Medusa; l'uomo diviene naturale e tutto diventa possibile. Ciò deve significare: ritornare alla Cultura!” (p. 90-91)

Alla necessità delle istituzioni l’uomo deve arrendersi accettale al di là del grado di umanizzazione che esse consentono:

“La complicazione, l'unilateralità e spesso la bizzarria delle istituzioni umane possono  venire concepite molto bene sullo sfondo di una concezione dell'uomo che afferma che egli è l'essere piantato  in asso dall'istinto. Se è vero che l'uomo è aperto al mondo, che egli è determinabile nel suo comportamento da eventi esterni, da nuovi dati, se è vero che egli è impoverito e reso insicuro nel suo dominio istintuale, allora quella che possiamo chiamare la sua seducibilità diventa  uno dei tratti caratteristici principali. Ed è notoriamente quella istanza che stabilisce direttive e nuclei di stabilizzazione nell'uomo, quella che è designata con il termine «morale», il cui senso consiste nel garantire la sicurezza e l'imperturbabilità del comportamento su una base di un fiducia reciproca. (p. 41)

3.

L’eccesso pulsionale della natura umana è la matrice di un altro concetto coniato da Gehlen di grande interesse: l’esonero. Si tratta di un concetto solo apparentemente complesso. In conseguenza della carenza e dell’apertura ad un mondo indeterminato, la condizione umana comporta un onere troppo pesante, che la cultura e le istituzioni tendono a ridurre in una certa misura esonerandolo, mettendolo cioè in condizione di vivere senza fare troppi sforzi.

L’esonero è semplificato anzitutto dal linguaggio, ma esso traspare da tutta la cultura ed è portato al suo massimo dalla tecnica:

“Questa accentuazione della polifonia della nostra sensibilità originaria e dell'instancabile attività attraverso la quale noi giungiamo a costruire insieme le prestazioni del percepire, del parlare, dell'utilizzazione motoria dell'azione, era importante allo scopo di mostrare come l'uomo nella sua dotazione carente di strumenti organici sia costretto ad appropriarsi e ad elaborare il mondo in tutti i particolari e a far crescere dentro di sé un sistema di consuetudini del comportamento vitale e dell'agire pratico. Di fatto, di questa immediata molteplicità di attività e questa vitale molteplicità di strati con cui il bambino si esercita nella scoperta del suo mondo, è soltanto il primo strato, peraltro quello fondamentale, che viene per lo più valutato dalla filosofia, soltanto perché la visione del mondo «adulta», che in realtà è un risultato, si presenta come originaria e perché essa tutto sommato contiene il contrario della prima: il nostro percepire sembra passivo, la nostra attività limitata ad azioni abituali, quotidiane, le cose appaiono unilaterali, conoscibili in modo sufficiente soltanto otticamente o addirittura concettualmente. Nel frattempo si è svolto infatti alle spalle della coscienza un infinitamente importante secondo passo della nostra esperienza e della nostra costruzione dell'esperienza: si sono costituite forme della percezione e in generale del sapere vitale più elevate, simboliche, cioè semplicemente abbreviate e quindi esoneranti, che esonerano intere concatenazioni esperienziali ampie e conquistate con difficoltà, in quanto le mettono in cortocircuito. Così vediamo il peso, la durezza, la mollezza, l'umidità o la secchezza delle cose, o i loro «valori di maneggiabilità», senza tendere la mano per constatare questa impressione che originariamente è certamente tattile, o senza dover mettere in moto i nostri organi motori. Noi in conclusione vediamo «simbolicamente», e il nostro vedere può diventare un gettare lo sguardo/trascurare (Ubersehen) nel doppio senso: un gettare lo sguardo a grandi linee, per il quale è sufficiente che le cose siano accennate in modo meramente simbolico, e un trascurare in modo regolato ciò che al momento non interessa onon attrae.” (p. 56-57)

“Si faccia ora attenzione: quando noi abbiamo «appreso» a vedere i valori di maneggiabiità, siamo esonerati dal primo compito della scoperta e siamo divenuti disponibili per una utilizzazione delle cose, per la quale è necessario un mero indizio di ciò che è stato scoperto. Il bambino impara così a trasporre in conoscenze meramente simboliche gli stati di fatto scoperti. Questo è il risultato proprio di quella coordinazione in cui consiste un autentico processo esperienziale compiuto, disbrigante, disponente. Questo risultato è di natura pratica, e la nostra percezione è quella di un essere che deve riuscire a finirla con la scoperta delle cose, per passare alla loro utilizzazione. Una distinzione fra avvenimenti «fisici» e «psichici» sarebbe qui puramente dogmatica e innanzitutto irrealizzabile.” (p. 58-59)

“Il mondo conosciuto univocamente, privo di sorprese, dell'adulto di oggi, che ammette la sua ampia misura di passività e inattenzione, è soltanto il modo di apparire di un mondo pienamente dominato, in cui si fa attenzione solo alle percezioni più importanti - nell'ambito del lavoro quotidiano - e ciò soltanto in pochi movimenti esercitati che sembrano già naturali e che nascondono un'infinità di prestazioni non ancora nate, di impressioni non ancora accennate, e di salutari momenti non ancora vissuti.” (p. 58)

Attraverso la cultura, le istituzioni e la tecnica, dunque, l’uomo, in virtù dell’esonero che essa hanno progressivamente prodotto, si è posto al riparo dall’eccesso pulsionale che caratterizza la sua natura. Ma, secondo Gehlen, se ne è posto troppo al riparo con il duplice rischio che l’assuefazione lo passivizzi, inibendo la sua apertura creativa ad un mondo che rimane per molti aspetti indeterminato, e che l’eccesso pulsionale frustrato si canalizzi in direzioni degenerative.

Il conservatorismo di Gehlen implica una critica alla società industriale che non è molto distante da quella espressa da Freud ne Il disagio della civiltà. Purtroppo la ben nota adesione di Gehlen al nazismo e la sua teoria, sicuramente conservatrice, delle istituzioni hanno indotto a squalificare quella critica. A ben vedere, però, e pur partendo da diversi presupposti, essa non è radicalmente diversa da quella di Marcuse.

4.

Se si prescinde da una critica ideologica, il pensiero di Gehlen rappresenta un contributo di grande interesse ai fini della costruzione di una panantropologia. in esso, però, vanno distinti due aspetti.

L’assunzione dell’uomo come prodotto della neotenia, come essere sprovveduto e carenziale, benché ripresa  da Herder, che lo definisce addirittura “spoglio e indifeso, timido e inerme e per colmo di sventura defraudato di tutte le guide dell’esistenza”, è un approdo definitivo dell’antropologia, confermato inconfutabilmente dalla biologia evoluzionistica più recente.

L’angoscia intrinseca a questa condizione naturale ha indotto la nostra civiltà a negare questo dato e ad identificarlo con la condizione propria del bambino, a cui si contrapporrebbe quella dell’uomo adulto, maturo e padrone di sé. Ma proprio l’orientamento adultomorfo della nostra cultura, che cattura sempre più precocemente anche gli adolescenti, attesta che quell’angoscia esiste e, per essere lenita, richiede il confronto consapevole con essa piuttosto che la fuga e la rimozione.

Non è un’impresa semplice, perché, come ha giustamente rilevato Gehlen, la cultura e la tecnica concorrono entrambe ad esonerare l’individuo da quel confronto.

Un cambiamento culturale a riguardo può avvenire solo restituendo agli esseri umani la consapevolezza della loro origine naturale, del carattere eccezionale della specie cui appartengono e delle singolari caratteristiche psichiche della stessa. Incentrandosi su di un’ottica naturalistica, tale cambiamento si contrappone radicalmente al tentativo della religione di sfruttare l’angoscia inerente la consapevolezza esistenziale a fini metafisici.

Tra le singolari caratteristiche psichiche rientra senz’altro l’apertura al mondo di cui parla Gehlen. Non vi è alcun dubbio che tale apertura apre l’uomo sul fronte dell’infinito, che implica indefinite possibilità di organizzazione della cultura e delle istituzioni, nonché l’esercizio illimitato della creatività simbolica. La consapevolezza di tale apertura, però, può (o potrebbe) comportare anche il superamento dell’etnocentrismo, l’interazione tra diverse culture nella direzione dell’integrazione tra i loro sistemi di valore, e il procedere verso un’organizzazione istituzionale della società che sia più conforme ai bisogni intrinseci della natura umana.

Perché ciò eventualmente avvenga, c’è però un nodo antropologico da affrontare e da risolvere.

L’eccesso pulsionale di cui parla Gehlen è semplicemente identificabile con l’avvento di una indefinita libertà prodotta dall’allentamento del corredo istintivo. Che l’uomo abbia avuto e abbia ancora oggi un atteggiamento ambivalente nei confronti di questa indefinita libertà, nel senso di aspirare ad essa e, allo stesso tempo, di temerla, è fuori di dubbio.

In un’ottica naturalistica, però, occorre ammettere che sia la carenza che l’apertura al mondo non sono l’espressione di un maligno tiro della natura nei confronti dell’essere umano, bensì le condizioni ontologiche che hanno favorito la socializzazione e la strutturazione sociale. rappresentano, insomma, i presupposti sulla cui base l’uomo ha riconosciuto se stesso consapevolmente come essere radicalmente bisognoso dell’Altro.

Su questa base, tali presupposti possono essere interpretati univocamente  come atti a sancire il bisogno di appartenenza come bisogno primario della natura umana.

L’apertura al mondo, però, comporta anche l’intuizione da parte di ogni individuo di molteplici possibilità di porsi nel mondo e di interagire con esso sulla base del consenso o del dissenso rispetto alle tradizioni, alla cultura e alle istituzioni. Molla motivazionale socializzante, essa, non di meno, si configura come matrice del bisogno di individuazione, che tende ad esplorare i mondi e i modi di essere possibili per l’uomo.

Non è impossibile, sulla carta, ipotizzare un mondo che dia spazio ad entrambi i bisogni, la cui soddisfazione porta l’uomo al di là dell’angoscia esistenziale.

 

Breve bibliografia delle opere gehleniane tradotte in italiano,

A. Gehlen, Von Wesen der Erfahrung (1936); tr. it.: A. Gehlen, Della natura dell'esperienza, in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell'azione, cura e presentazione di E.Mazzarella, prefazione di K.S.Rehberg, trad. it. di G.Auletta, Guida, Napoli, 1989.

A. Gehlen, Die Resultate Schopenhauers (1938); tr. it: A. G., I risultati di Schopenhauer, in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell'azione, op. cit.

A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940), Wiesbaden 197812; trad. it: A. Gehlen, L'Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, introduzione di K.S.Rehberg, trad. a cura di C.Mainoldi, Milano, Feltrinelli, 1983.

A. Gehlen, Una immagine dell'Uomo (1941), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell'azione, op. cit.

A. Gehlen, V.Pareto e la sua "scienza nuova" (1941), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell'azione, op. cit.

A. Gehlen, Per la sistematica dell'antropologia (1942), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell'azione, op. cit.

A. Gehllen, Forme e destini della ratio (1943), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell'azione, op. cit.

A. Gehlen, Su alcune categorie del comportamento liberato, in particolare di quello estetico (1950), in G.Carchia ó R.Salizzoni, Estetica e Antropologia, Torino, Rosenberg & Tellier, 1980, pp. 135-147.

A. Gehlen, Lo stato attuale della ricerca antropologica (1951), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell'azione, op. cit.

A. Gehlen, Lëimmagine dellëUomo alla luce dellëantropologia moderna (1952), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell'azione, op. cit.

A. Gehlen, Urmensch und Sp 0tkultur. Philosophische Ergebnisse und Aussagen (1956); trad. it.: A. Gehlen, Le origini dell'Uomo e la tarda cultura, prefazione di R.Màdera, trad. it. di E.Tetamo, Milano, Il Saggiatore, 1994.

A. Gehlen, Per la storia dell'antropologia (1957), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell'azione, op. cit.

A. Gehlen, Die Seele im technischen Zeitalter (1957); trad. it.: A. Gehlen, L'Uomo nell'era della tecnica, prefazione di A.Negri, trad. it. A.Burger Cori, Milano, Sugarco, 1984.

A. Gehlen, L'immagine dell'Uomo nell'antropologia moderna (1958), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell'azione, op. cit.

A. Gehlen, Sulla nascita della libertà dall'estraneazione (1960), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell'azione, op. cit.

A. Gehlen, Della cristallizzazione culturale (1961), in p. Prini, Il mondo di domani, Roma, Abete, 1964, pp. 489-494.

A. Gehlen, Un modello antropologico (1968), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell'azione, op. cit.

A. Gehlen, Antropologia filosofica e ricerca sul comportamento (1968), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell'azione, op. cit.

A. Gehlen, Progressi nella ricerca sugli istiniti nel caso dell'Uomo (1970), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell'azione, op. cit.

A. Gehlen, Antropologia filosofica (1971), trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell'azione, op. cit.

Breve bibliografia degli scritti più significativi su Gehlen pubblicati in Italia:

F.G. Di Paola, La teoria sociale di A. Gehlen, Milano, Angeli, 1984.

U. Fadini, Antropologia "negativa" e teoria delle istituzioni in A. Gehlen, in "Cultura e scuola", n.82, 1982, pp. 119-128.

U.Fadini, La misura dell'istituzione e la sua crisi. Note su A. Gehlen, in "Intersezioni", n.2, 1982.

U. Fadini, Le ragioni del sistema tra Gehlen e Luhmann, in "aut aut", 197-198, 1983.

U. Fadini, Le peripezie dell'umano: la composizione dell'io in A. Gehlen, in "Paradigmi", n.5, 1984.

U. Fadini, Il corpo imprevisto. Filosofia, Antropologia e Tecnica in A. Gehlen, Milano, Angeli, 1988.

U. Fadini, Antropologia filosofica, in La Filosofia, diretta da p. Rossi, vol.I, Le filosofie speciali, Torino. UTET, 1995.

U. Galimberti, Psiche e techne, l'Uomo nell'età della tecnica, Milano, Feltrinelli, 1999.

J. Habermas, Antropologia (1958), trad. it. in AA.VV., "Enciclopedia Feltrinelli óFischer, Milano, Feltrinelli, 1966.

W. Lepenies, Antropologia filosofica e critica sociale. Sulla controversia Gehlen-Habermas, in W.Lepenies ó H.Nolte, Critica dell'antropologia (1971), trad. it. L.Sosio, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 79-106.

W. Lepenies, Melanchonie und Gesellschaft (1969); trad. it.: W.Lepenies, Melanconia e società, Napoli, Guida, 1985.

E. Mazzarella, Presentazione, in A. Gehlen, Antropologia filosofica e teoria dell'azione, op. cit.

A. Negri, A. Gehlen: antropologia elementare e psicologia sociale, prefazione ad A. Gehlen, L'Uomo nell'era della tecnica, op. cit., trad. cit., 1984.

M.T. Pansera, L'Uomo progetto della natura. L'antropologia filosofica di A. Gehlen, prefazione di V.Cappelletti, Roma, Studium, 1990.

G. Poggi ó C. Ryan, Arnold Gehlen e i presupposti antropologici della teoria volontaristica dell'azione sociale, in "Rassegna italiana di sociologia", 3, 1967, pp. 353-382.

K.S. Rehberg, Die "elementare" Anthropologie Arnold Gehlens, introduzione a A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Wiesbaden 197812; trad. it: K.S.Rehberg, L'"Antropologia elementare" di A. Gehlen, in A. Gehlen, L'Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, op. cit.

K.S.Rehberg, Prefazione, trad. it. in A. G., Antropologia filosofica e teoria dell'azione, op. cit.

Per una bibliografia sistematica di A. Gehlen e degli scritti critici sul mio autore si vedano: F.G. Di Paola, La teoria sociale di A. Gehlen, Milano, Angeli, 1984, Riferimenti bibliografici, pp. 159-163: pp. 156-158;

U. Fadini, Il corpo imprevisto. Filosofia, Antropologia e Tecnica in A. Gehlen, Milano, Angeli, 1988, Nota bibliografica, pp. 269-270;

M.T. Pansera, L'Uomo progetto della natura. L'antropologia filosofica di A. Gehlen, Roma, Studium, 1990, note dalla 1 alla 6 dell'Introduzione, pp. 42-45.


Verso una panantropologia - Parte 2